martedì 20 novembre 2018

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Tratto da: Latini e Catalani vol. 1

Nessuno, neppur lui sapeva perché avesse questo nome. Era forse un soprannome? Un’ ingiuria? Da bambino lo chiamavano Bertuchello; e continuavano a chiamarlo così, ed egli stesso si sottoscriveva “Mastro Bertuchello” sebbene la sua mamma gli avesse detto che egli era stato battezzato dalla chiesa madre di Geraci, col nome di Giovanni e che a suo padre, Maso Mangialavacca, “borgese” di Geraci, era stato tramandato quel curioso nome da uno zio canonico del duomo di Cefalù.
Mastro Bertuchello era veramente giovane; aveva ventitré anni ed era venuto in Palermo da pochi mesi, dopo più d’un anno dalla catastrofe del conte suo signore.
La tragica fine di messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, e signore di un vastissimo stato, gran camerario del re, benvoluto dal re Federigo, e in breve volger di tempo travolto nella rovina da odii di baroni, gli aveva fatto abbandonare i luoghi, dove aveva trascorso la sua fanciullezza.
Egli era stato uno dei familiari della casa del conte. Messer Francesco lo aveva tenuto a sue spese allo studio di Bologna; e pensava forse di fargli ottenere qualche ufficio nella Curia, o di farne un notaro, dacché Bertuchello aveva dichiarato di non sentir nessuna vocazione per la chierica o pel saio. Ma la rovina del conte, la confisca dei beni, le persecuzioni, le prigionìe, i supplizi con cui furono perseguitati i congiunti, i seguaci, i familiari del nobile signore, lo balestrarono da prima a Cefalù, e da Cefalù a Palermo.
Egli era scampato per miracolo alla strage. Proprio la vigilia dell’assalto al castello, messer Francesco lo aveva spedito per la seconda volta a un altro grande feudatario, messer Matteo Sclafano conte di Adernò e di Ciminna.
Bertuchello non compì l’ambasceria. La notizia della miseranda fine del suo signore lo raggiunse per via. Gli parve miglior consiglio mettersi in salvo; e dopo essersi tenuto nascosto per qualche tempo, se ne andò a Cefalù con l’intenzione di aspettarvi qualche nave, che lo trasportasse a Messina. Dopo qualche mese ne trovò una che invece andava a Palermo.
A Palermo c’era per altro un lontano parente di sua madre, chierico di san Michele Arcangelo. Bertuchello andò a trovarlo: e per suo mezzo, nel novembre del 1338 ottenne dal Comune l’incarico di insegnar grammatica ai fanciulli, nella scuola di S. Domenico.
E così mastro Bertuchello, se non potè essere scriba nella Curia o notaro, diventò maestro di scuola; e vi era già da un anno.
Per altro quest’ufficio non gli spiacque. Stando allo studio di Bologna Bertuchello aveva preso amore agli studi letterari. Oltre agli studi di diritto e di teologia, ai quali era obbligato, ne faceva altri per suo conto, procurandosi libri, e copiandoseli in bella scrittura. Nella baraonda degli studenti, che convenivano in quell’Archiginnasio, da ogni parte d’Italia, ve n’erano che preferivano leggere Virgilio e Ovidio, e che scrivevano rime volgari per le loro belle, e satire latine contro i loro maestri. Tra le sbornie, i tumulti, le coltellate e le lezioni di diritto, Bertuchello acquistava così una cultura più larga e più umana; che diventava passione, di mano in mano che egli capitava qualche autore latino, e che se lo ricopiava. Allora non c’era la stampa; i libri erano manoscritti o su pergamena o su carta bombicina, e costavano molto per la borsa di un povero studente. Possedere una bibliotechina era indizio di ricchezza. Non potendo acquistare i bei codici miniati, Bertuchello se ne faceva le copie, la notte, al lume della lucernetta. In questo modo si era formata una piccola biblioteca, la quale, oltre alle Glosse di Accursio, al Digesto di Azzo da Bologna, alla Somma di S. Tommaso e agli Otia imperialia di Giovanni di Tilbury, conteneva la Summa dictaminis trattato di retorica di Giovanni di Bonandrea, e le Etimologie di Isidoro, alcuni scrittori latini, quelli che allora eran più divulgati. Possedeva una Eneide di Virgilio; le Metamorfosi di Ovidio, gli Officii di Cicerone, le favole esopiane, qualche opera di Seneca, le Confessioni di S. Agostino, un Boezio, un Quintiliano, la Metafisica di Aristotile. E inoltre qualche cantare romanzesco, la storia di Tristano e Isotta, una raccolta di rime volgari, e la prima parte di un poema, che aveva acquistato celebrità, ma che non correva ancora intero: la Commedia di Dante. Egli aveva potuto trascriversi l’Inferno.
Questi libri, che formavano il suo bagaglio letterario, aveva portato con sé a Geraci, e si erano salvati dal saccheggio, perché li aveva nella casa paterna, e le soldatesche del re, che cercavan danari o roba, non avevan saputo che fare di quegli scartafacci.
A Palermo, nella sua cameretta nel vicolo di S. Michele Arcangelo, Bertuchello li aveva schierati in bell’ordine in una scansia che si era costruita da sé. Aveva certe sue idee da “filosofo”, per le quali diceva che un uomo deve saper provvedere da sé alle cose che gli sono utili: e che se c’erano maestri legnaioli e maestri leutari, questa non era una ragione perché egli non potesse fabbricarsi da sé una scansia pei libri, un banco per scrivere e un liuto per suonare nei momenti di ricreazione. Anche la zimarra s’era cucita da sé, e si sarebbe tessute le calze, se avesse avuto il tempo e gli strumenti.
Donne in casa non ne aveva. Gli teneva compagnia un grosso gatto grigio, baffuto, con gli occhi verdi. Gli era venuto un giorno in camera, che era ancora micino; e vi era rimasto: egli l’aveva battezzato con nomignolo affibbiato dagli studenti a uno dei lettori di Bologna, che aveva le mani come artigli e abitudini da predone: messer Granfia.
Tra lui e il gatto s’era stretta una grande amicizia, forse perché anche messer Granfia aveva abitudini da filosofo. Quando Bertuchello sedeva al suo banco, per studiare, messer Granfia gli si accoccolava su la spalla, e pareva leggesse anche lui. Le notti d’inverno, gli scaldava le ginocchia, e gli si coricava ai piedi del letto. Bertuchello gli faceva dei discorsetti, che mastro Granfia ascoltava ammiccando con gli occhietti verdi, e rispondendo con delle capatine. A tavola, mastro Granfia stendeva la zampa sul piatto di mastro Bertuchello e, tirava tranquillamente la sua porzione di pesce o di carne, che mangiava sul desco, da buon commensale.
Una volta, Bertuchello ebbe l’idea di portarselo a spasso, e se lo pose sotto la zimarra; ma appena fuori dell’uscio, messer Granfia spiccò un salto spaventato, e se ne fuggì in camera.
- Forse avete ragione di sdegnare la gente, e di preferire la solitudine, messer Granfia, – disse Bertuchello; – voi siete più savio di me. Pure avremmo chiacchierato un poco, al sole; e avremmo riso insieme del mondo.
Ogni giorno, dopo il sonnellino meridiano, mastro Bertuchello se ne andava a passeggiare un poco. Scendeva per la strada Marmorea o Cassaro, usciva dalla porta dei Patitelli, che s’apriva presso la chiesa di S. Antonio, sulla vecchia spiaggia, già da un prezzo abbandonata dal mare; e se ne andava bighellonando sul porto della Cala, o a vedere il gran lavorìo dei muratori che costruivano il nuovo palazzo dei Chiaramonte sullo sperone del sobborgo dei Greci; il quale anticamente chiudeva il grande porto, ma disseccato questo, sorgeva ora come una piccola altura al lembo della vasta piazza Marina.
Ma lì, dinanzi a quella mole superba che già giganteggiava, come segno visibile della possanza dei Chiaramonte, mastro Bertuchello rievocava la catastrofe del suo signore. I Chiaramonte erano stati i più fieri nemici del conte di Geraci; ma forse non avevano avuto torto.


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Nessun commento:

Posta un commento