giovedì 29 luglio 2021

Luigi Natoli: Il "casotto delle vastasate" il teatro del popolo dove i facchini di piazza diventavano attori. Tratto da: Calvello il bastardo

Quella sera, sabato, si recitava al Casotto delle Vastasate una delle tre commedie popolari più fortunate e più originali: il Cortile degli Aragonesi. Bisognava sentire Marotta, il celebre comico creatore della parte di ‘Nofrio, e Giuseppe Sarci, biondo e femineo d’aspetto e di voce, nelle vesti di Lisa e il Montera nei panni di don Litterio il notaio messinese, e il Corpora sotto le spoglie di Caloriu il Ciancianese. Che risate!... La recita diurna aveva riempito la cassetta; non un posto vuoto: e di gente ne era rimasta fuori, e non si era mossa da lì, aspettando la recita notturna, per prendere i posti migliori, e rifarsi della lunga attesa. La folla batteva le mani, rideva, urlava, fischiava, si abbandonava a una ilarità tempestosa che faceva tremare la baracca. Laura stava alla finestra con un vaso intimo in mano, mentre il Barone, fradicio di un liquido che non era nanfa, minacciava con la canna in pugno, e Lisa gridava, e ‘Nofrio si sganasciava dalle risa. Il Casotto era lontano: giù a Piazza Marina, quasi un miglio di strada. Era il teatro popolare, o, come si diceva anche, nazionale, dacchè la Sicilia era una “Nazione” per sè, e il dialetto era considerato come lingua nazionale.
Poiché i Signori avevano per loro i teatri di Santa Cecilia e di Santa Lucia, alcuni popolari avevano verso il 1780 fondato un teatro per loro; ed avevano costruito una grande baracca, nella piazza Marina, nella quale recitavano commedie in dialetto, spesso improvvisate, e delle quali i personaggi principali erano i facchini di piazza.
Facchino, in dialetto, si dice vastasu, vocabolo prettamente greco; vastasate si chiamarono quelle commedie, e Casotto delle vastasate il teatro. 
Attori e commedie levarono grido. 
Fino allora a Palermo non s’era mai visto nulla di simile. C’erano state vecchie commedie, recitate da comici di mestiere, nelle quali il tipo buffo siciliano era rappresentato dal solito Travaglino, o dal vieto Nardo; due maschere oramai insipide i cui lazzi e le cui buffonerie si ripetevan sempre gli stessi. Del resto le commedie non eran molte, e per riudirle bisognava aspettare qualche compagnia di comici randagi e disperati. Figurarsi dunque la sorpresa e il piacere di vedere sul palco non piú quelle maschere, ma personaggi vivi, che si vedevan ogni giorno: gli artigiani, i provinciali, e più i facchini di piazza col loro linguaggio, coi loro gesti, con le loro bestialità, i loro pettegolezzi, le loro baruffe, i loro piccoli intrighi! Un mondo nuovo!
E non eran mica del mestiere, gli attori; tutt’altro. Gente che di mattina attendeva ad altro ufficio, spesso in aperto dissidio con Talia: Giuseppe Marotta che era il capocomico, ed era un vero creatore di tipi, era portiere del giudice della Monarchia; Giuseppe Sarcì portiere dell’Imprese del Lotto; degli altri chi era operaio, chi sarto, chi povero azzeccagarbugli; e pure quanta verità, quanto sapore di arte spontanea in quei comici improvvisati! 
Si capisce che la fortuna della Compagnia aveva acceso cupidigie ed emulazioni. Intorno al teatro del Marotta ne eran sorti degli altri; e altre compagnie si eran formate, ma invano: Marotta non ce n’era che uno, e don Biagio Perez che era il poeta comico della Compagnia, non aveva competitori.
A questo teatro popolare si recava spesso Corrado, verso sera, quando era la stagione; e di solito lo diceva alla mamma, che talvolta lo accompagnava.
Agata dunque si era avviata di buon passo verso la piazza Marina, sperando di trovarvi il bel sergente.



Luigi Natoli: Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizioni a mezzo corriere in tutta Italia) Puoi acquistare inviando una mail a ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296
Disponibile su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store on line.
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa editore (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale regina Margherita, Mondello), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15)

venerdì 23 luglio 2021

Luigi Natoli: "Allo Steri! Allo Steri!" - Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano.

A un tratto squilla alla vicina chiesa della Gancia un tocco. L’avemaria? La gente si scopre per recitare la salutazione angelica: ma a quel tocco ne seguono altri più violenti; e la chiesa della Catena, e la chiesa di san Nicolò della Kalsa, rispondono: e poi altre chiese più lontane. E sulla città passa come un rombo di tempesta lontana. Campane a stormo! Il popolo esce dalle case: gli uomini si armarono; un invito corre di bocca in bocca:
- Allo Steri! Allo Steri!
L’ombra notturna che già era calata si rompe alle finestre fumose delle torce, che illuminano a sprazzi biechi profili di gente che ha una rivincita da prendere, una vendetta da esercitare. Il tumulto si tramutava in sommossa. Giovan Luca guardò la folla che veniva armata da ogni parte e se ne compiacque. Mastro Iacopo gli disse:
- Che vi diceva io? La bestia sonnecchiava, ora si è svegliata.
E già intorno allo Steri ondeggiava ora una folla, che pareva cozzasse contro le mura incrollabili, come i marosi contro gli scogli. Alcuni preso un trave, se ne servivano come di ariete di guerra, e cozzavano contro la porta per sfondarla; e ai colpi sonori si mescolavano gli urli e la minaccia. I di Benedetto, Girolamo Fàssaro, Iacopo Girgenti aizzavano la folla: i più feroci propositi esaltavano gli animi dinanzi alla resistenza della porta. Finalmente essa cedette, e un grand’urlo di trionfo ne salutò lo spalancarsi fragoroso: un torrente furioso si rovesciò nel varco; pareva che tutti avessero fretta di entrare; ognuno cercava di oltrepassare l’altro, per arrivar primo, i portici, la scala s’empirono; tutto il palazzo pareva tremare e gridare. Dov’erano i giudici? Dov’era il luogotenente? Li volevano nelle mani Nicola Cannarella, Tommaso Paternò, Gerardo Bonanno, Priamo Cavozzi, il conte di Adernò, don Giovanni de Luna, Blasco Lanza... tutti odiati mortalmente, perché partigiani di don Ugo, perché si ernao sfogati in rappresaglie e vendette, sotto la protezione del duca di Monteleone, che li secondava. Li cercavano per tutto il palazzo. In uno stanzino appartato scovarono il duca.
- Eccone uno!... Abbiamo preso don Ettore!...
Egli non offrì nessuna resistenza; si lasciò spingere, trascinare fra le minacce, pallido e tremante. Gli gridavano intorno che era un assassino, che proprio lui aveva scritto al re per far uccidere i conti; che aveva ordinato ai giudici di essere feroci contro la povera gente, che voleva opprimere e distruggere il popolo coi balzelli. Qualcuno gli metteva i pugni sotto il viso: qualche altro gli faceva balenare dinanzi agli occhi la lama di un coltellaccio. Egli vedeva già prossima l’ultima sua ora, e recitava mentalmente le sue orazioni per raccomandar l’anima a Dio. Ma un clamore più alto e uno spettacolo più miserando fermò coloro che lo spingevano
La folla ubriacata dal sangue, corse altrove. Bisognava trovare gli altri giudici, due vittime sole non bastavano: dov’era Gerardo Bonanno? Qualcuno si accorse di un uomo che cercava di appiattarsi, lo rincorse:
- È Bonanno! – gridò.
- Bonanno! – È preso! È preso! – ripetè la folla precipitandosi. Il malcapitato s’era travestito per non essere riconosciuto, ma non gli valse: una mazzata gli ruppe il cranio, e lo abbattè. Allora un uomo gli si precipitò addosso, gli fregò le vesti, lo mutilò; e alzando quel miserabile trofeo di carne sanguinante, gridò al cadavere:
- Va’ ora a disonorare le povere figlie nostre!
Cercavano, invano, Blasco Lanza, Giovanni de Luna e Priamo Capozzo. Giovanni de Luna, all’avvicinarsi della procella, non aveva voluto lasciarsi prendere in gabbia: era fuggito dallo Steri, a cavallo, e varcata la Porta dei Greci, s’era messo in salvo. Il conte di Adernò s’era allontanato qualche giorno prima; Blasco Lanza era scappato appena saputo che i congiurati erano nella chiesa della Catena. Il popolo gli attribuiva la più parte dei mali, se non tutti, lui consigliere di don Ugo; lui difensore di lui, e accusatore dei conti; lui suggeritore del duca di Monteleone. Frugarono tutto lo Steri, senza trovarlo.
- Deve essere andato a nascondersi a san Domenico!...
Nella chiesa di san Domenico c’era la sepoltura dei Lanza: la folla vi si recò in furia: invase la chiesa e il convento; cercò nella sepoltura: non vi trovò Blasco, ma vi trovò il suo tesoro...




Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Per acquistare scrivi alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
On line su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa Editore (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale Regina Margherita, Mondello) 

Luigi Natoli: "Col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo!" - Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano.

E quella era la giornata, finalmente!... 
Intanto arrivavano altri cavalieri, e infine Giovan Luca Squarcialupo, che contò i convenuti: erano ventidue.
- Orsù, – disse: – col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo.
E la cavalcata si mosse verso la città. 
 Entrarono dalla Porta Nuova, come una comitiva di amici; la porta era aperta, i gabellieri al loro posto, tranquilli; nessun indizio di sospetti. Poiché non era ancora l’ora del vespro, Giovan Luca entrò coi compagni nella vicina chiesa di San Giacomo, che era deserta. E là concertarono ancora quale dovesse essere l’opera di ognuno e di tutti. Piombare nel Duomo, con le armi in pugno, sorprendere il duca di Monteleone, impadronirsene, uccidere chi osasse resistere, e i giudici che tanto odii avevano suscitato: insignorirsi del potere, ma non ripetere la sciocchezza commessa l’anno innanzi, quando fu cacciato don Ugo.
Ed ecco il campanone del Duomo sonare a Vespro: e ogni colpo rimbombava nel cuore di ognuno, e farlo balzare. È l’ora. Si scambiano uno sguardo; e taciti, pensosi di quel che fra un istante avverrebbe scendono verso il Duomo. La grande porta è spalancata; il sole illumina il bel prospetto e ravviva la patina dorata distesa dal tempo sulla pietra e sul marmo. Si sente il canto snodarsi lento e solenne; in quel momento, pensano, il luogotenente si è seduto nel soglio. Entrano, corrono verso l’abside maggiore, tra i fedeli stupiti di quella irruzione a mano armata; ma quale delusione! V’erano i canonici, v’era l’arcivescovo; non c’era né il luogotenente generale, né i magistrati, né il senato.
Come? Perché?
Un sagrista, che al vederli entrare armati, s’era messo a gridare: – Sono qui! Sono qui! – cercando di fuggire; raggiunto, spiegò loro che il duca aveva saputo che volevano ammazzarlo, e non era uscito dallo Steri. Questa risposta stupefece tutti: l’aveva saputo? Da chi? c’era un traditore dunque fra loro? Giovan Luca guardò con occhi lampeggianti d’ira i suoi compagni – Chi è il Giuda? – gridò.
Ma tutti protestarono vivacemente e fieramente. Il traditore non era fra loro: essi erano tutti lì pronti a ogni rischio, e Giovan Luca aveva torto ad offenderli. Ma Vincenzo Di Benedetto, fratello di Cristoforo, si diede un pugno sulla testa, e sclamò:
- Ah il gesuato! Il gesuato!... deve essere stato lui!...
E raccontò che due giorni innanzi si era confidato con un frate dell’ordine dei Gesuiti, il quale si doleva di quel che facevano i giudici e i partigiani di don Ugo, che ancor rimanevano; e lui lo aveva creduto uno dei nostri, che sarebbe stato utile per levare il popolo: ciò che il frate aveva promesso.
- Non ho tradito, ho avuto forse troppa fiducia, se credete che io sia colpevole, punitemi! Ma non mi dite traditore.
Giovan Luca si rattristò. Certo la confessione di Vincenzo Di Benedetto così spontanea e sincera, lo purgava dall’accusa di tradimento: ma la sua facilità a confidare il giorno e l’ora della rivolta, aveva mandato a monte la sorpresa e compromessa la riuscita. Ah! avere quel frate nelle mani. A ogni modo il dado era tratto: bisognava andare innanzi, alla vittoria o alla morte. Uscendo dalla chiesa, Giovan Luca, levando in alto la spada, gridò:
- A morte i traditori!... Cittadini, all’armi!
E i compagni ripeterono il grido. Ma nessuno uscì dal Duomo per seguirli, e la gente che si affacciava sulle soglie delle botteghe e delle case, o che andava per le vie, guardava meravigliata, non sapendo che fosse, Vincenzo di Benedetto agitava la spada, gridando, e gli altri con lui, invano:
- Viva il re! Muoiano i traditori!...
Scesero per la via Marmorea: soli, senza seguito, il popolo guardava e li lasciava passare, senza neppure secondare quel grido. Era una cosa inconcepibile: mastro Iacopo se ne sdegnava: apostrofava gli imbelli, che stavano a vedere, come fossero a uno spettacolo; li sferzava con male parole:
- E che? siete sordi? Che aspettate, che vi impicchino, figli di cani? Siete diventati dunque tante carogne, che non vi sentite fremere il sangue? Il re di Fiandra fa morire i Conti, quei Conti che andavano là per difendervi, e voi ve ne state con le mani alla cintola? Puh! Vili!
Ma nessuno si moveva: quei ventidue cavalieri percorrevano la via Marmorea, gridando, come anime sperdute. Avessero almeno trovato una resistenza! Ma dove erano le milizie spagnole? Dove il luogotenente generale?
In verità il duca di Monteleone aveva perduto la testa. Sapendo che i congiurati dovevano calare dalle campagne, non aveva per prima cosa ordinato la chiusura delle porte della città; non aveva chiamato le fanterie spagnole del Castello a mare: si era invece chiuso coi giudici, coi più odiati partigiani di don Ugo, nello Steri: abbandonando così la città a quei ventidue che, ironia! non trovavano seguito e potevano essere schiacciati in mezz’ora. 
I congiurati proseguivano, chiamando il popolo alle armi, quando da una viuzza videro uscire un dabben uomo, archiviario del comune, Paolo Caggio, che al grido e alla vista, spaventato si diede a fuggire. Vincenzo di Benedetto, che ardeva più degli altri di menar le mani, lo rincorse e lo uccise. Povera vittima incolpevole, e inutile, l’archiviario versò il primo sangue, solo perché Vincenzo di Benedetto aveva bisogno di mostrare che non aveva tradito! Ma quel sangue non fomentò le ire: destò compianto; e non diede seguito ai congiurati, che percorsero tutta la via Marmorea, uscendo nel quartiere della Loggia; giunsero fino alla Chiesa della Catena, senza aver altri che li seguisse che un giovinotto novizio dei Dominicani, che doveva esser più tardi il loro storico: Tommaso Fazello.



Luigi Natoli: Squarcialupo – Opera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Prezzo di copertina € 24,00 - Pagine 684
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Per acquistare scrivi alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
On line su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa Editore (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale Regina Margherita, Mondello) 

Luigi Natoli: Era la sera del 22 luglio 1517... - Tratto da: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano

...Antivigilia della festa di Santa Cristina, patrona della città che i Palermitani si affaccendavano a celebrare, come facevano ogni anno, nella maniera più sontuosa imbiancando cioè i muri delle case, e appendendovi festoni di fronde; innalzando per le strade che la processione doveva percorrere archi trionfali, anch’essi di verdi fronde; e preparando coperte e panni e, chi li aveva, arazzi, da stendere sulle finestre, e lanterne e torce resinose per far la luminaria.
Questa era la festa principale, e più solenne per la città; cominciava la vigilia, col Vespro solenne che si cantava nel Duomo, e si svolgeva il giorno della festa, cioè il 24, con la “cappella reale” e la messa cantata, di mattina, e immediatamente dopo la processione. Cappella reale significava che alla funzione religiosa interveniva il vicerè o il luogotenente, come rappresentante del sovrano, in gran pompa; sedeva sul trono e riceveva l’incenso nelle forme prescritte dal cerimoniale. Tanto nell’andare al Vespro solenne, quanto alla messa cantata, l’intervento del vicerè era per se stesso uno spettacolo che attirava la folla: perché egli vi andava con le insegne della carica, con gran seguito di cavalieri e di creati: ed era ricevuto alla porta del Duomo dall’Arcivescovo: e perché andando il vicerè in veste ufficiale, a esercitare un atto di sovranità, ci si recavano anche le alte magistrature del regno, e il Senato, anch’esso in gran pompa.
Il popolo, dunque, faceva i preparativi per addobbare le strade specialmente quelle che la processione avrebbe percorso, secondo prescriveva il bando del Senato. E quell’anno era prescelto il quartiere del Capo, o come si diceva, di Civalcari.
Qua e là, dove c’era gente che o imbiancava, o sul bianco dipingeva certi ornati rossi e turchini, che parevano ai riguardanti bellissimi, si formavano crocchi, che ciaramellavano delle cose più disparate; uno più numeroso se n’era fatto presso la chiesa di Sant’Agostino, dove addobbavano di verdi fronde d’arancio e di palme un arco trionfale; ma un uomo vestito da frate, messosi a parlare ad alta voce sui gradini della chiesa, aveva attirato a sé quel crocchio, che era man mano diventato folla, e pareva che prendesse gusto al discorso del frate.
Il quale era mastro Iacopo, camuffatosi a quel modo per poter percorrere le vie, senza intoppi. Lì s’era fermato e pareva predicasse. Una predica buffa, che faceva ridere. 
E i flagelli con cui il povero Gesù fu ridotto una piaga dalla testa ai piedi? I flagelli, amici miei, li lasciò al Vicerè di Sicilia; sapendo che voi, come tanti Cristi legati alla colonna, vi lasciate flagellare, senza parlare. Pigliateveli dunque in pace i colpi che vi portano via la pelle a pezzo a pezzo, e bene vi stia!...
La gente che dapprima ascoltava ammirata tutta quella filastrocca, alla fine inaspettata, dalla quale capiva l’arguzia ironica, mormorava, e commentava...
E mastro Iacopo se ne andò, ma per fermarsi altrove, fra altri crocchi, attaccar discorso, raccontare le sue storielle, pungere l’amor proprio del popolo, incitarlo contro il vicerè, contro il governo.



Luigi Natoli: SquarcialupoOpera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Per acquistare scrivi alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
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Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00

lunedì 19 luglio 2021

Luigi Natoli: La Sicilia, ager publicus di Roma. Tratto da: Gli Schiavi.

Nel lungo duello con Cartagine, durato circa un secolo, Roma, insignoritasi dell’isola, se n’era fatta una base per tenere a freno i popoli dell’Africa. La folla dei Romani e degli Italici vi si era accampata come un popolo dentro un popolo, del quale sentiva la superiorità nel vivere civile. Altrove Roma, dove assoggettava popoli barbari o di civiltà inferiore, colonizzava, trasformava, latinizzava; ma in Sicilia, dove trovava Siracusa, Acroganto, Catana, Centuripe, Tauromenio e altre città ricche, splendide, altamente progredite; dove, fiera e rozza com’era, aveva tutto da imparare, attese ad abbassare il livello dei cittadini. E li spogliò. I Siciliani ricchi si dettero ad imitare i nuovi padroni. Considerata come ager publicus, proprietà dello Stato, i conquistatori si diedero ad accrescere le loro terre con la frode e con i ladroneggi, in una gara di rapacità e di invidie. Ma la coltivazione richiedeva un gran numero di braccia; quelle dei Siciliani richiedeva molta spesa; quelle degli schiavi costava assai meno. E Roma inviò in Sicilia grandissimo numero di prigionieri di guerra, altre migliaia ne fornivano i pirati, che facevano continue scorrerie nelle coste dell’Asia e dell’Africa, e anche in quelle della Sardegna e della Sicilia, rapivano i giovanetti e le fanciulle e andavano a venderli a Delo, grande mercato umano. In Sicilia se ne faceva anche allevamento, facendo accoppiare gli schiavi, poiché era legge che i figli procreati dagli schiavi fossero proprietà del padrone.
Così la Sicilia era popolata da pochi ricchi, Romani i più, e da molti poveri, che erano Siciliani, e da schiavi non siciliani. Tutti questi cavalieri e impiegati romani, venendo in Sicilia e trovandosi al cospetto di monumenti bellissimi, di gente facoltosa e amante di bellezza, erano presi dalla febbre di non parere rozzi. Roma infatti non aveva ancora raggiunto lo splendore dell’età imperiale, aveva case di legno, e conservava qualche cosa dell’antica semplicità: ma i ricchi – patrizi e cavalieri – venuti in contatto con altre città della Magna Grecia e della Sicilia, avevano trovato indegno che essi, i dominatori di tante regioni, possessori della ricchezza, vivessero ancora in case disadorne e non si circondassero di lusso. Esagerando come tutti i nuovi arricchiti, profondevano il denaro per fabbricare palazzi e ville sontuose, empirle di statue e di vasi, tenervi corti di musici e di danzatrici, di funamboli, di mimi; sfoggiavano una ricchezza ingiuriosa agli occhi delle popolazioni spogliate. Tuttavia mancava loro qualche cosa: mancava la finezza; compravano statue senza intendimento d’arte; e vasi senza gusto. Doveva ancora passare qualche secolo perché superassero in raffinatezza i popoli stessi dell’Oriente.



Luigi Natoli: Gli Schiavi – Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 103 a.c. al tempo della Seconda Guerra Servile. L’opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato con la casa editrice Sonzogno nel 1936. Le note aggiuntive dell’editore sono poste allo scopo di far capire maggiormente al lettore il grande lavoro di ricostruzione del periodo storico del romanzo svolto dall’autore.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 387 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
On line su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale Regina Margherita, Mondello) 

Luigi Natoli: Caio Cecilio Pulcro, latifondista romano. Tratto da: Gli schiavi.

Caio Cecilio Pulcro, cittadino romano e latifondista, una mattina di gennaio, fresca, nitida, rallegrata da un bel sole che pareva annunziasse una primavera anticipata, era disceso dalla sua villa, in riva quasi all’Achitio, per sbrigare i suoi affari con gli edili, ed ora entrava nel Foro. Lo precedevano gli antiambulatori, schiavi che avevano l’incarico di battistrada, e il nomenclatore, che lo annunziava; e lo seguivano circa trenta altri schiavi, alcuni dei quali portavano la lettiga, con cui era venuto in città. Alla sua sinistra, ma un po’ indietro, veniva Atenione, schiavo che godeva di una mezza libertà, ed occupava nella casa di Caio Cecilio, di cui possedeva la fiducia, l’ufficio di attore, che era una specie di intendente. 
Caio Cecilio Pulcro era ricco. Discendeva da una famiglia che da circa mezzo secolo si era trapiantata in Sicilia. Un suo avolo si era arricchito, durante la prima guerra punica, con la fornitura dei viveri all’esercito romano. Accorto, intuendo quello che, cessate le guerre con Cartagine, sarebbe diventata la Sicilia, vi aveva acquistato alcuni terreni. I suoi discendenti li avevano accresciuti con ogni mezzo lecito ed illecito. Il padre di Caio Cecilio, diventato latifondista, s’era risoluto di trasferirsi in Sicilia, dove già una folla di Romani, patrizi e cavalieri, vi si era gettata come uno stormo di corvi sopra una carogna, traendosi dietro una folla di clienti e parassiti.
Cresciuto nella ricchezza, l’aveva aumentata. Non era stato indegno del suo avolo, di cui aveva in più la superbia e la crudeltà. In una delle sue infrequenti gite a Roma, aveva contratto matrimonio con una giovane sabina, Tazia Flammea, e ne aveva avuti un maschio, Manlio Cecilio, che ora toccava i vent’anni; e una femmina, Cecilia, che ne aveva sedici. 
Oltre la villa dell’Atichio, dove trascorreva si può dire tutto l’anno, possedeva una bella casa a Lilibeo, ma vi passava, e non sempre, due mesi: dicembre e gennaio. Vi giungeva trasportato in lettiga dai servi cappadociani, e seguìto da una scorta armata per la poca sicurezza delle strade, infestate da ladroni, quasi sempre impuniti. Erano infatti schiavi addetti alla pastorizia, e lasciati dai padroni ignudi, i quali ricorrevano a quel mezzo per vestirsi. Ad uno d’essi, che una volta s’era lamentato di non avere un cencio di che coprirsi, Caio Cecilio aveva risposto cinicamente:
- O che forse non passano viandanti per le strade?
I pastori approfittarono del consiglio; ma Caio Cecilio, per poter percorrere quella distanza di venticinque stadi, che intercedeva tra la villa e la città, prendeva le sue precauzioni.
La villa di Caio Cecilio Pulcro, come la sua casa, era piena di ricchezze.
Doveva ancora passare qualche secolo perché i romani superassero in raffinatezza i popoli stessi dell’Oriente. Cacio Cecilio Pulcro, sebbene nato in Sicilia, dove il padre aveva finito con lo stabilirsi definitivamente, non era diverso dagli altri Romani che vi piovevano continuamente. La grossolanità l’aveva nel sangue. Le sue case dovevano superare in lusso e in fasto non solo quelle appartenenti ai Romani, ma anche a Siciliani; e a Lilibeo ve n’erano di ricchi…



Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 103 a.c. al tempo della Seconda Guerra Servile. L’opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato con la casa editrice Sonzogno nel 1936. Le note aggiuntive dell’editore sono poste allo scopo di far capire maggiormente al lettore il grande lavoro di ricostruzione del periodo storico del romanzo svolto dall’autore.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 387 – Prezzo di copertina € 22,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
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Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296

venerdì 16 luglio 2021

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. (Latini e Catalani volume 2)


Sono trascorsi otto anni dagli avvenimenti narrati nel romanzo di Mastro Bertuchello (Latini e Catalani volume 1). 

La storia riprende: al centro, questa volta, il tesoro scomparso di Francesco Ventimiglia ed una misteriosa erede. Nel contesto storico la guerra accesa da Matteo Palizzi per mandar via i Catalani, nobili e plebei, dal Regno di Sicilia e la peste: “Quando essi tornarono a Palermo, la città aveva un aspetto di squallore che stringeva i cuori. Le strade erano piene di cadaveri che nessuno andava a seppellire; case deserte e abbandonate, incendi e uccisioni, a ogni passo tragedie e spettacoli di pietà e di orrore…Ah! Non si era mai visto un simile flagello! Ma la vita aveva ripreso il sopravvento sulla morte”. Fanno da contorno le storie di Franceschello Ventimiglia e Venezia Palizzi, legati da un amore profondo ma separati dall’odio fra le rispettive famiglie, di Guglielmo il Rosso e  Maddalena, di Vanni Macaluso... Ritornano vecchi personaggi, un po’ diversi nel loro aspetto:
Mastro Bertuchellopareva più serio e tra i neri capelli gli apparivano precoci ciuffetti bianchi, che gli davano un aspetto maturo ma gli occhi erano sempre vivi e acuti ed il sorriso caustico
Luciaera uno splendore: aveva partorito due figlioli, una femmina e un maschio, e la maternità le aveva dato il pieno rigoglio della donna senza farle perdere nulla delle grazie giovanili. I suoi occhi si erano fatti più sereni, ma più eloquenti ed il suo sorriso rivelava la giocondità dello spirito
Messer PuccioChi si era ingrassato tanto che pareva un otre dipinto era Messer Puccio: la nascita del maschietto di Lucia, al quale egli aveva preteso che fosse posto nome Puccio, finì per consolarlo. Cosicchè da allora attese ad ingrassare ed a crogiolarsi nel mezzo ozio che l’attività di Manetto e anche qualche aiuto di Mastro Bertuchello gli procuravano
Pirruccio da Tusa “In quegli otto anni di vita aspra e dura il suo volto si era fatto più maschio, più vigoroso, come intagliato da un rode scalpello in un pezzo  di granito. Una ruga profonda si apriva diritta tra le sopracciglia, come se un pensiero insistente le contraesse; e gli occhi si erano alquanto incupiti, o lampeggiavano una luce fredda come i riflessi di una lama. Ma spesso la nostalgia della patria lontana addolciva quello sguardo e spianava la ruga, e la mestizia del desiderio gli inteneriva il cuore
Matteo PalizziE ben si conveniva a Matteo Palizzi, che dopo otto anni d’esilio e una condanna di fuoribando ritornava in Sicilia, malgrado la condanna; gesto che agli amici, ai vecchi partigiani, ai Chiaramonte suoi parenti pareva audace. Tornava solo: Damiano o per travagli o per malattie che segretamente lo logoravano e gli accrescevano i dolori e la collera dell’esilio, era morto a Pisa. Quella morte privava Matteo di un consigliere esperto e astuto, di una guida sicura e prudente, e accresceva il suo odio contro il baronaggio catalano. Le accoglienze e le testimonianze di affetto e di devozione lo rinfrancavano e accendevano nei suoi occhi lampi di soddisfazione” 
La famiglia Chiaramonte, in tutta la sua potenza “Pretore, giurati, capitano di Città, giudici della Curia Pretoria ubbidivano alla volontà del Conte di Modica, Manfredi Chiaramonte. Questi, pur non avendo alcun ufficio, né esercitato alcuna violenza per impadronirsi del potere, di fatto signoreggiava su Palermo. La ricchessa, il largo parentado, stretto da interessi comuni più che dal sangue, la magnificenza e la liberalità, i servizi resi durante le guerre per l’indipendenza del regno, la lontananza del Re, l’alto ufficio di Grande Ammiraglio, ereditario nella famiglia, tutto concorreva per fare dei Chiaramonte la famiglia più potente e di Manfredi il signore di Palermo


Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 e 2 (Mastro Bertuchello e Il Tesoro dei Ventimiglia) – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli anni 1925 e 1926.
Mastro Bertuchello – Pagine 575 – Prezzo di copertina € 22,00
Il Tesoro dei Ventimiglia – Pagine 525 – Prezzo di copertina € 22,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
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giovedì 15 luglio 2021

Luigi Natoli: Quel Festino del 15 luglio 1820... Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

La sera del 15 luglio 1820, la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a Palermo una folla di isolani e stranieri. Quella sera la luminaria fiammeggiava più delle sere precedenti. Pareva che le lampadine infisse lungo i contorni e i disegni delle “piramidi” avessero una specie di allegrezza luminosa. Le “piramidi” erano assi di legno, ritagliate a foggia di colonne, con vasi, od obelischi, e dipinte a colori, che si piantavan diritte lungo i marciapiedi, per tutta la lunghezza della strada, pieni di lampadine a olio. Con esse, con le lampade colorate pensole dai festoni, distesi pel largo della strada, o attaccate alle ringhiere dei balconi, la via Toledo prendeva un aspetto fantastico: vista da una delle estremità, sembrava sommersa nel fuoco. In fondo alla via, sul limite della piazza Marina, torreggiava in un nembo di luce e d’oro il “Carro”, sul quale tra nuvole di bambagia spiccava il simulacro di Santa Rosalia. 
Quella sera la folla era maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire. Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti, canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero.
Tutta la via Toledo formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro e rosso. E allora gridavano:
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse:
-  Viva la Costituzione!
Parve il razzo aspettato per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine; migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più pura. Il giorno innanzi, 14, con la  feluca di padron Catalano era arrivata da Napoli la grande notizia della rivoluzione, e aveva prodotto un senso di lieto stupore, destando liete speranze. Rivoluzione? Proprio? Se ne domandavano i particolari, che passando di bocca in bocca s’ingrandivano, prendendo proporzioni e atteggiamenti eroici. I nomi dei due ufficiali Morelli e Silvati, che la notte di S. Tebaldo, alla testa di uno squadrone di cavalleria, avevano gridato, a Nola, la costituzione di Spagna, furono circonfusi di gloria, con quelli del colonnello De Concillis e del prete Minichini. Tutti carbonari! La loro marcia su Avellino, la sollevazione di quel presidio, la formazione di un corpo d’esercito costituzionale che si trascinava dietro il popolo: la rapidità con la quale la rivoluzione si diffondeva, sembravan miracoli. E il re? Quel traditore di re Ferdinando? Aveva cominciato dallo spedire il generale Guglielmo Pepe contro i costituzionali; senza sapere che Pepe era carbonaro anche lui! Ed ecco Pepe alla testa dei costituzionali entrare in Napoli, e il re concedere e giurare la costituzione! Una rivoluzione compiuta senza spargimento di sangue! 
Non aveva finito di parlare che dalla strada salì un grido confuso, come di un impeto di vento che s’avvicini e cresca di forza, rotto e dominato con frequenza di raffiche di applausi ed evviva. Tullio disse allora: 
- La dimostrazione! Venite!
Si affacciò al balcone, tirandosi dietro la fidanzata, la suocera, e lo stesso signor Anselmo curioso, ma pavido. Uno spettacolo magnifico si offerse ai loro occhi. Dalla strada Toledo veniva un vero esercito di sotto-ufficiali, e soldati e cittadini a braccetto, con la coccarda tricolore sul vestito. Venivano preceduti da un ufficiale, gridando:
- Viva la Sicilia! Viva la costituzione! Viva l’indipendenza!
Al loro passare le confratie, e le corporazioni artigiane che si recavano al Duomo per prendere parte alla processione di Santa Rosalia, sollevavano ed agitavano gli stendardi, i gonfaloni; e dalle finestre, dai balconi, dai marciapiedi, la folla univa il suo grido a quello dei dimostranti; le donne sventolavano i fazzoletti, gli uomini battevano le mani e agitavano i cappelli; tutti accesi dallo stesso entusiasmo. Ordinato, solenne, grandioso, fra lo scintillare delle lampade e dei lampioni, il corteo procedeva verso il palazzo reale. Pareva celebrasse il trionfo dopo una lunga guerra, e assaporasse i frutti di una vittoria tanto più grande e strepitosa, quanto improvvisa. Nessuno dubitava che la Sicilia riavesse il suo parlamento, da parecchi anni soppresso con la frode; e che le nuove libertà darebbero al regno novello splendore.
Quando la dimostrazione passò sotto il balcone del signor Anselmo, Rosalia e la mamma, trasportate dall’entusiasmo generale, si misero a sventolare anch’esse i fazzoletti, con gli occhi umidi di commozione e Tullio si diede a gridare:
- Viva l’indipendenza!
La testa del corteo aveva appena oltrepassato i Quattro Canti quando improvvisamente si arrestava; e quel movimento ripercosso nella fila di dietro produsse un ondeggiamento, un rigurgito improvviso, grida di minaccia e di spavento di cui quelli che venivano dietro, non sapevano il perché. Parve che diffondessero uno sgomento, un terrore, come se un esercito terribile fosse piombato su la folla inerme...


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820, al tempo della Rivoluzione e delle Vendite carbonare; il tutto vissuto attraverso le avventure del protagonista, Tullio Spada. L’opera è la fedele riproduzione del romanzo originale, pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930 ed è arricchito dai disegni di Niccolò Pizzorno.

Pagine 342 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online.
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi), Libreria Sellerio (Viale regina Margherita - Mondello), Nuova Ipsa (Piazza Leoni)

martedì 13 luglio 2021

Luigi Natoli: La dominazione angioina in Sicilia. Tratto da: Il Vespro siciliano

Basterebbe soltanto la strage di Agosta per giustificare la vendetta dei siculi, ma della dominazione angioina si può narrare, purtroppo, molto altro. Ecco un quadro, tracciato con vari passi del libro e storicamente accaduti, che descrive come gli angioini si comportavano a Palermo.
I soldati francesi e le lance spezzate: 
Erano in quattro messer giustiziere, e vi so dire che sono i quattro più terribili di tutta la compagnia; le quattro migliori lance spezzate. Cuori di leoni, artigli d’aquila, denti di lupo, impudenza di scimmia. Sono il terrore della città…..”
I soldati francesi erano quasi tutti giovani, prepotenti, insolenti, arditi di lingua e di mano. La potenza e l’impunità di cui godevano li faceva audaci, la viltà dei soggetti soverchiatori. Cavalcavano a gambe larghe, per le vie della città allora strettissime alla usanza degli arabi, come ancora si può vedere da quelle che ne restano, e così costringevano i cittadini o a inchinarsi o a stringersi nei vani delle porte. Spingevano i cavalli addosso ai passanti, se non erano solleciti a scansarli, lanciavano frizzi e galanterie troppo licenziose alle donne che si affacciavano allo scalpitìo dei cavalli” 
Come i cuochi francesi si procuravano il cibo per i loro signori: 
Il cuoco non andava mai al mercato dove si trovava la roba vendereccia, ma ogni mattina, accompagnato da guardie, si recava in casa di questo o di quel cittadino, prendeva senza cerimonie i migliori polli, la migliore selvaggina, i più teneri agnelli, le paste più delicate per la mensa di messer Giustiziere. Pagare? No: ai cittadini, di qualunque ceto o ricchezza fossero, doveva bastare l’onore di servire monsignor di Saint-Remy. L’eccellente cuoco entrava, portava via senza neppur salutare: talvolta si degnava di ingiuriare i “paterini”, se non si mostravano solleciti o soddisfatti. Di ribellarsi al latrocinio  non si parlava; le guardie che accompagnavano il cuoco, oltre a rubare la loro parte, avevano il compito di bastonare chi osasse ribellarsi. Quanto ai vini, li fornivano le cantine dei migliori produttori del Vallo, coi metodi medesimi” 
Quando una dama non cedeva ai corteggiamenti dei cavalieri francesi:
In verità i cavalieri francesi e provenzali non erano tali da sgomentarsi per una ripulsa; quando una dama non cedeva per amore, la prendevano per forza. E con le belle donne del popolo le cose non andavano diversamente. I signori cavalieri francesi, quando ne scoprivano una di loro gusto, perché non potevano penetrare nelle case, difese da una gelosia affatto araba, le assalivano in piena regola; facevano legare i mariti, i padri e costringevano le donne alla resa condizionata. Gli uomini che osavano opporsi o che tentavano di vendicarsi andavano a finire in qualche torre o nelle galere, seppure – come avveniva qualche volta – non erano spediti a raccontare le loro querele all’altro mondo” 
Come si procuravano una casa, un letto o un pranzo:
Non era infrequente infatti vedere in qualcuna delle terre vicine, piombare un nugolo di ufficiali e di serventi del governatore, predarvi gli armenti con un pretesto qualsiasi, o cacciar dalla casa, buttandola in mezzo la strada, tutta una famiglia, oppure avveniva che qualche soldato vi entrasse a viva forza, a prendere per sé il miglior posto nel letto o nella povera tavola. Le lacrime e le imprecazioni di quei tapini facevano ardere di sdegno Giordano
Così Carlo D’Angiò  si procurava gli averi e i soldati per le sue ambizioni
Ogni giorno, dal castello regio più vicino, da una città della corona, partiva una schiera di soldati, piombava sopra i casali, i borghi, i castelli del territorio circostante, frugava, s’impadroniva dapprima dei cavalli, poi dei giovani, legava gli uni e gli altri e via. Né pianti di parenti, né resistenza dei catturati, né proteste dei baroni che vedevano violati i loro diritti, niente arrestava la violenza dei soldati, che approfittavano della circostanza per fare man bassa e rubare quello che potevano. Giungevano così a Palermo, ogni tanto, torme di giovani con le mani legate come malfattori. Tolti agli aratri, strappati alle famiglie, tormentati dalle beffe e dalle ingiurie atroci, affamati, laceri, polverosi, affranti dal lungo cammino, attraversavano la città fra gli sguardi pietosi dei cittadini” 
Un divieto del giustiziere proibiva a tutti i siciliani, di qualunque condizione, anche se cavalieri, di portare armi, con gravi pene per i trasgressori” 
Da tutto questo, e da molto altro ancora, come dice Luigi Natoli, il 31 marzo del 1282 “segna nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda”.


Luigi Natoli: Il Vespro sicilianoRomanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo di una delle più famose rivoluzioni della Storia di Sicilia.
L’edizione, interamente restaurata a iniziare dallo stesso titolo, è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1915. Con la sua perizia di grande storiografo e narratore, l’autore ci consegna uno dei capolavori della letteratura popolare mondiale che nulla trascura di quel periodo storico come l’orrenda strage di Agosta, le trame politiche cospirative dei baroni siciliani, l’orgoglioso episodio di Gamma Zita a Catania, la valorosa resistenza della città di Messina al dominio francese degli Angiò. Il romanzo ricco di fatti e personaggi realmente accaduti o esistiti, ci regala l’indimenticabile eroe Giordano De Albellis, intollerante alle ingiustizie, innamorato della sua terra, della libertà e della sua bella Odette.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 945 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it. Contattaci inviando una mail a ibuonicugini@libero.it o un messaggio al whatsapp 3894697296
On line su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita.
In libreria a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale regina Margherita - Mondello) 


venerdì 9 luglio 2021

Luigi Natoli: Francesco Paolo di Blasi, storica figura del romanzo Calvello il bastardo

Accanto a Corrado Calvello vive la figura storica di Francesco Paolo Di Blasi, giureconsulto palermitano e, come lo definisce Natoli, insieme a La Villa, Palumbo e Tenaglia “primi martiri della libertà, iniziarono in Sicilia la lunga serie di cospirazioni e rivolte che dovevano abbattere la signoria borbonica e mostrarono come si muore per un’idea”
Di Francesco Paolo di Blasi, del suo coraggio e  delle sue ideologie liberali e rivoluzionarie, emerge un profilo chiaro da vari passi del romanzo
Il Di Blasi, sebbene fossero noti i suoi sentimenti liberali, non era ritenuto così sospetto. Forse l’amicizia che aveva per lui il Vicerè e l’avere per servizio del governo curato una raccolta di leggi e prammatiche, allontanavano da lui i sospetti, ma gli amici sapevano quali discorsi arrischiati egli facesse, nei quali c’era un sentore lontano di rivoluzione. Qualcuno poi sussurrava che forse il Di Blasi era libero muratore. La massoneria cominciava allora ad essere considerata come nemica della religione e della monarchia non solo per la sua segretezza e per qualche leggenda di giuramenti orrendi e mostruosi che le si attribuivano, ma anche perché le si ascriveva una parte preponderante nella rivoluzione francese. Don Pippo ignorava che il Di Blasi, forse, aveva messo una pulce di massoneria nell’orecchio del Meli, fornendogli anche una nota di libri che ne trattavano di proposito
“Fra le accademie protette da lui aveva dato ombra quella fondata da Don Francesco Paolo Di Blasi, le cui finalità occulte avevano a poco a poco allontanato le anime paurose di ogni novità. Un discorso del Di Blasi, recitato molti anni innanzi, sulla Ineguaglianza degli uomini, imbevuto delle dottrine del Rousseau, faceva considerare il valoroso giureconsulto come uno dei sospetti, nonostante che, in servizio della monarchia e del Vicerè, avesse compilato con dottrina la Raccolta delle prammatiche del Regno di Sicilia. Un suo trattato sulla legislazione criminale, ispirato a dottrine liberali e secondo un nuovo criterio della dignità umana, aveva riconfermato il sospetto che egli tendesse un po’ alle dottrine rivoluzionarie”
Egli aveva creato una Loggia massonica per la divulgazione delle sue idee di eguaglianza e libertà 
“Don Francesco scrisse due o tre biglietti e li spedì ai suoi conoscenti. Convocava la Loggia. Grazie ad una ingegnosa organizzazione, l’invito poteva precedere di qualche ora l’adunanza. Il Venerabile avvertiva con una parola convenzionale l’oratore, il segretario e il tesoriere; il segretario passava l’avviso a due sorveglianti; questi alla loro volta correvano ad avvisare i tre o quattro maestri che avevano i gradi più alti, i quali si incaricavano di convocare gli altri maestri a loro noti e ognuno di essi, subito, l’iniziato, compagno o apprendista che fosse, da lui introdotto. In una o due ore i fratelli erano così invitati” 
  Di cui fanno parte una buona fetta di cittadini sia palermitani che dei paesi vicini
“Il lavorìo della Loggia s’era fatto più attivo, sebbene più guardingo. Fuori di essa, ma concertata e diretta dai maggiorenti della setta segreta, si era stretta una cospirazione, nella quale entravano artigiani, capi d’arte, militare, qualche signore e molti professionisti. Si era anche estesa fuori di città in alcune terre dei dintorni, dalle quali si promettevano aiuti di uomini e d’armi al momento del bisogno. Anima di tutto quel movimento era don Francesco Paolo di Blasi”



Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1789, al tempo della Rivoluzione Francese. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
On line su Amazon, Ibs e tutti gli store.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale regina Margherita - Mondello) 


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

Bello e coraggioso, eroico nelle sue imprese
il personaggio di Corrado Calvello, creato da Luigi Natoli nella Palermo del 1794, che racchiude le grandi ideologie di libertè, egalitè e fraternitè. 
In una Palermo che, come lo stesso Natoli ci dice, “sia per il lento sviluppo della cultura, sia perché tagliata fuori dal movimento sociale di quell’epoca, non intese per nulla lo spirito della rivoluzione francese: e se qualche animo generoso della borghesia o, come si diceva, dei civili si aprì al nuovo verbo, l’enorme maggioranza della popolazione non vide nei rivoluzionari che dei banditi assetati di sangue, nemici di Dio e della religione”
Su tutto il romanzo svetta la bandiera della Rivoluzione Francese.
Corrado Calvello è presentato da Luigi Natoli nelle prime pagine del romanzo
“Fra gli spettatori fortunati era un bel giovane di ventisei anni, non molto alto, di membra delicate, strette nell’uniforme turchina dei fucilieri, a risvolte bianche. Pallido, con gli occhi neri, un’aria quasi feminea, ma con lo sguardo tagliente, che lampeggiava talvolta come una lama, il naso lievemente aquilino e la mascella forte, davano un carattere di energia a quel volto e temperavano la mollezza dell’ovale e della dolce e malinconica curva della bocca, rosea e piccola”
Cambia radicalmente ed all’improvviso la posizione di Corrado nella società, ma non mutano i suoi ideali
“Bisognava rifare la coscienza di quella folla vile e miserabile; bisognava aprire la loro mente, serrata dall’ignoranza, alla luce del sapere. L’opera di redenzione doveva cominciare da Palermo, il cervello e il cuore dell’isola. Una propaganda attiva nella borghesia, la diffusione degli studi più moderni, e specialmente delle scienze, avrebbe certo creato una forza rinnovatrice, che avrebbe esercitato una salutare azione sul popolo. Proprio quel popolo del quale egli non ignorava le virtù, lo spirito di sacrificio, il valore, la fede e che egli pensava che sarebbe potuto essere il primo popolo dell’Italia, se aperto al nuovo ideale di libertà e di uguaglianza. Istituì in una casa sua una academia dei nuovi filosofi, il cui titolo destò i sospetti della polizia, tanto più che nessun patrizio vi si iscrisse, ma borghesi, liberi professionisti e maestri”
La reazione del popolo non era quella da lui auspicata
“Erano parole nuove che stupivano quella gente avvezza a considerare il padrone, di cui non vedevano quasi mai l’aspetto, come una specie di semidio e di esse non capivano che una cosa: che avrebbero avuto frumento e legumi e che non dovevano essere poveri. Non comprendevano che quelle generosità potessero non avere un tornaconto personale, e pensarono che probabilmente celavano un’insidia. O pazzo o giacobino. Essere giacobino significava, per quelle menti rozze e imbevute di tutte le superstizioni e di tutti i pregiudizi, essere profanatore della religione, assassino dei re, violatore delle donne, incendiario, cannibale”

Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1789, al tempo della Rivoluzione Francese. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa (Piazza Leoni), Libreria Sellerio (Viale regina Margherita - Mondello) 

mercoledì 7 luglio 2021

Luigi Natoli: Giovanna Bonanno, famosa come La vecchia dell'aceto. Dall'omonimo romanzo storico siciliano.

 
Protagonista unica nel suo genere, Giovanna Bonanno – meglio conosciuta come la Vecchia dell’Aceto – che crea nella Palermo settecentesca un  “giro d’affari”, avente per oggetto la famosa “acqua” dal costo di due onze e sei tarì, “per togliere di mezzo liti e dissapori, impedire mali maggiori e dare la pace alle famiglie” come lei stessa afferma durante il suo interrogatorio del 9 ottobre 1788. 
In realtà Giovanna Bonanno, lo strano personaggio realmente esistito che Luigi Natoli  presenta con la solita diligenza, vendeva ai suoi “clienti” l’aceto per i pidocchi, un  potente veleno che, essendo insapore, poteva essere mescolato al vino ed utilizzato per eliminare qualunque individuo che era in qualche modo d’ingombro ad un altro. I sintomi erano dati da dolori atroci allo stomaco, vomito, e la morte sopravveniva nel giro di ventiquattr’ore. 
Da qui  il  prospero giro d’affari di  Giovanna Bonanno, detta zà Anna, che giustificava così: “Che cos’è la vita di una persona, di fronte alla tranquillità e alla felicità di tante altre? Una donna maritata contrae un’amicizia…siamo di carne e possiamo peccare. Bene: essa vive in peccato mortale e col pericolo che il marito ammazzi lei e l’innamorato. Due morti. Il marito è preso ed impiccato: e son tre; e la casa va in rovina, e se ci sono figlioletti, rimangono in mezzo alla strada…Bene: sacrificando il marito si salvano la moglie e il gano; i quali si sposano e si liberano del peccato, i figli restano con la madre e la pace ritorna in quella casa. Ecco, figlia mia, che io ho fatto del bene…non è vero?” 
Luigi Natoli fa conoscere la Vecchia dell’Aceto, nel suo omonimo romanzo. Dà qualche traccia della biografia, descrivendo gli oscuri affari di Giovanna Bonanno che portano a tantissimi casi di morte per avvelenamento.
“Giovanna Fileccia o la comare Giovanna, come più comunemente era intesa, era vedova due volte, la prima di un Fileccia e la seconda di un Bonanno. Siccome aveva cominciato a far la levatrice al tempo del primo marito, aveva nella professione mantenuto quel nome, che era notorio. Era abile, e si prestava facilmente a pratiche delittuose, che essa compiva con la coscienza di far bene, perché miravano a conservare l’onore e la pace delle famiglie”.
Viene rinchiusa nel carcere dell’Inquisizione per intervento di un nobile:
“Era bastata l’accusa del nobile cavaliere perché l’inquisitore monsignor Ciafaglione senz’altro la facesse arrestare. Un processo fu imbastito; dopo un anno Giovanna Fileccia, con altre due disgraziate fu condotta fra gli sbirri, famuli e confraternite, alla porta della Chiesa di S. Ippolito con una cesta appesa al collo, il bavaglio, le braccia legate dietro le reni e lì fu letta la sentenza che le condannava tutte e tre come fattucchiere al carcere del Sant’Offizio per dieci anni. Dieci anni! Chiusa in una segreta del carcere delle donne, senza luce, senz’aria, con poco nutrimento, peggiorato da digiuni e penitenze.”
Quando esce dal carcere ha un terribile aspetto
“Alcuni ragazzi che si avvoltolavano fra le immondizie, scacciando i maialetti, a vederla comparire si alzarono a guardarla curiosi e cattivi; ella era così brutta che pareva uscita dall’inferno”
E va a vivere in una stamberga in un vicolo dell’Albergheria 
Cominciò ad andare in giro con un saccone sospeso al braccio, accattando alle botteghe qualche po’ di pane, qualche rimasuglio di formaggio e nelle osterie qualche avanzo di pesce o di grassi: talvolta usciva fuori porta S. Agata e andava a raccogliere erbe mangerecce nei campi. L’avere una volta indicato a una donna dei rimedi per guarire un bimbetto lattante, suggeritole dalla sua antica professione, la fece credere una di quelle donne che conoscono i mali meglio dei medici e fabbricano medicine e filtri misteriosi. Da questo a trasformarsi nella credenza del vicinato in fattucchiera non ci volle molto; cominciarono a ricorrere a lei per domandarle incantesimi e disincantesimi, fatture e filtri magici”
Si trasferisce poi in un lurido vicolo del quartiere del Capo
“A una vecchia sua vicina di casa disse di chiamarsi Vanna; quella, un po’ sorda, intese Anna; la chiamò zà Anna  e così ne riferì il nome alle altre comari; nel vicinato la chiamavano zà Anna:essa non rettificò, trovando che la trasformazione del suo nome l’aiutava a far perdere le sue tracce. Sospettosa com’era si chiudeva in casa, e non bazzicava con nessuno e questa sua vita e quelle erbe cominciarono a eccitare intorno a lei a fantasia dei vicini; si cominciò a supporre che fosse una fattucchiera, che facesse malìe e sortilegi; la supposizione divenne certezza e questa fu la seconda trasformazione. L’esser creduta maliarda la circondò se non di rispetto di paura, e la liberò dalle beffe dei monelli. Così erano passati undici anni durante i quali Giovanna Bonanno era sempre più scesa in basso
Per caso, mentre si trovava nella bottega dell’aromatario Saverio La Monica, suo inconsapevole fornitore, scopre gli effetti  dell’aceto  per i pidocchi che incidentalmente una bambina aveva bevuto, e da qui nasce la sua idea: 
“Ella rimase stupita; il lieve rimorso di aver sacrificato quella povera bestia fu vinto, annullato dalla soddisfazione della esperienza riuscita. Ora non c’era più dubbio; il veleno era potente: non mancava che la clientela...” 
Da qui ha inizio la lunga serie di avvelenamenti, con la vendita di caraffine della sua “acqua”, dietro il corrispettivo di due onze e sei tarì...

Luigi Natoli: La vecchia dell’aceto – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell’aceto. L’opera è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 562 – Prezzo di copertina € 22,00
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