mercoledì 27 febbraio 2019

Luigi Natoli: Palazzo Ajutamicristo. Tratto da: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891

Palazzo Ajutamicristo, (P.47 D5) eretto nel 1490 dall’architetto Matteo Carnilivari di Noto, per commissione del nobile Guglielmo Aiutamicristo barone di Misilmeri. Dall’antica fabbrica rimane ancora la imponente e bruna massa merlata, qualche frammento di arabeschi e le vestigia degli archi delle finestre all’esterno; e un lato del portico dell’atrio all’interno. Peccato che l’imponente e severa eleganza sia guastata dai pesanti balconi del secolo XVII. Oggi vi si trova in parte la Procura Generale e in parte i moderni possessori: ma in questo palazzo alloggiarono nel 1500 la regina di Napoli, Giovanna, moglie del re don Ferrante, l’Imperatore Carlo V nel 1535, Muley Hasan re di Tunisi nel 1544 e don Giovanni d’Austria, il vincitore di Lepanto nel 1574. Vi ebbe sede nel 1507 l’Accademia dei Cavalieri, onde fu detto anche Palazzo della Cavalleria.
Salendo ancora per la via Garibaldi, dato uno sguardo alla lapide che ricorda la casa di Tommaso Natale, oltrepassata la Chiesa di Montesanto, si trova il sito dell’antica Porta di Termini, la quale fu distrutta nel 1852 dal governo borbonico per misure strategiche. Su questa porta c’era l’Oratorio della Pace. Il nome alla porta venne non già perchè da essa comincia la via che conduce a Termini, ma da antiche terme, delle quali si trovano avanzi nei giardini prossimi all’Oreto. Questo sito è però consacrato alla storia pel miracoloso ingresso dei Mille, condotti da Garibaldi l’alba del 27 maggio 1860; il che è ricordato nell’apposita lapide.
Presso al sito della porta di Termini, s’apre la via della Magione, così detta perché conduce alla
Chiesa della Magione...



Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Nella versione originale pubblicata in occasione dell'Esposizione Nazionale dall'editore Carlo Clausen. Corredata dalle foto delle pubblicità dell'epoca e dalla cartina della città ripiegata a fine testo. 
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it e online su Amazon Prime.
Disponibile presso Librerie Feltrinelli Palermo. 

Luigi Natoli: Piazza Croce dei Vespri. Tratto da Guida di Palermo e suoi dintorni 1891

Piazza Croce dei Vespri, (P. E5) che deve il suo nome a una leggenda. Vi è nel mezzo, una graziosa colonna sormontata da croce, e custodita da un cancello di ferro che si finge di armi antiche intrecciate. 
Vuole la tradizione che ivi fossero stati seppelliti alquanti francesi caduti nell’eccidio del 31 marzo 1282. Si volle anche che il fabbricato ove era il convento di S. Anna, e oggi è il Liceo Umberto I, sia stato il palazzo di Giovanni di Saint-Remy, giustiziere di Val di Mazara, ed una lapide vi fu posta. Ma la verità è che in quel sito esisteva un’antica chiesa della Misericordia, e che nell’area ceduta i Bonet alzarono il loro palazzo, che fu poi ceduto ai frati del terz’ordine di S. Francesco. Le vestigia antiche appartengono dunque al palazzo dei Bonet, sorto nel secolo XV, e la leggenda del combattimento è a rilegarsi fra le favole.
Dalla piazza, per un vicolo tra il Palazzo Valguarnera e il palazzo Ganci, si giunge nella piazza del Teatro di S. Cecilia, fondato nel 1692 dall’Unione dei Musici, e restaurato nel 1850. Ritornando indietro e continuando a procedere, si trova a destra la breve via Aragona che mette nella Piazza della Rivoluzione…


Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Nella versione originale pubblicata in occasione della Esposizione Nazionale del 1891 dall'editore Carlo Clausen. Arricchita dalle foto delle pubblicità dell'epoca e dalla cartina della città di Palermo nel 1891 (ripiegata a fine testo). 
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Disponibile presso Librerie Feltrinelli - Palermo

giovedì 21 febbraio 2019

Luigi Natoli: La rivolta continua... verso lo Steri - Tratto da: Squarcialupo

Scesero per la via Marmorea: soli, senza seguito, il popolo guardava e li lasciava passare, senza neppure secondare quel grido. Era una cosa inconcepibile: mastro Iacopo se ne sdegnava: apostrofava gli imbelli, che stavano a vedere, come fossero a uno spettacolo; li sferzava con male parole:
- E che? siete sordi? Che aspettate, che vi impicchino, figli di cani? Siete diventati dunque tante carogne, che non vi sentite fremere il sangue? Il re di Fiandra fa morire i Conti, quei Conti che andavano là per difendervi, e voi ve ne state con le mani alla cintola? Puh! Vili!
Ma nessuno si moveva: quei ventidue cavalieri percorrevano la via Marmorea, gridando, come anime sperdute. Avessero almeno trovato una resistenza! Ma dove erano le milizie spagnole? Dove il luogotenente generale? In verità il duca di Monteleone aveva perduto la testa. Sapendo che i congiurati dovevano calare dalle campagne, non aveva per prima cosa ordinato la chiusura delle porte della città; non aveva chiamato le fanterie spagnole del Castello a mare: si era invece chiuso coi giudici, coi più odiati partigiani di don Ugo, nello Steri: abbandonando così la città a quei ventidue che, ironia! non trovavano seguito e potevano essere schiacciati in mezz’ora. 
I congiurati proseguivano, chiamando il popolo alle armi, quando da una viuzza videro uscire un dabben uomo, archiviario del comune, Paolo Caggio, che al grido e alla vista, spaventato si diede a fuggire. Vincenzo Di Benedetto, che ardeva più degli altri di menar le mani, lo rincorse e lo uccise. Povera vittima incolpevole, e inutile, l’archiviario versò il primo sangue, solo perché Vincenzo Di Benedetto aveva bisogno di mostrare che non aveva tradito! Ma quel sangue non fomentò le ire: destò compianto; e non diede seguito ai congiurati, che percorsero tutta la via Marmorea, uscendo nel quartiere della Loggia; giunsero fino alla Chiesa della Catena, senza aver altri che li seguisse che un giovinotto novizio dei Domenicani, che doveva esser più tardi il loro storico: Tommaso Fazello.
Giovan Luca entrò nella chiesa, scoraggiato, avvampando di sdegno contro l’inerzia del popolo; si lasciò cadere sopra un banco, delle lagrime gli rigarono il volto, il suo sogno vaniva: aveva spinto quei suoi compagni alla morte, fidando nel popolo; e il popolo li lasciava soli! Che avevano fatto dunque quei popolani che eran con lui, e che passavano per capipopolo? E mastro Iacopo? Nessuno rispondeva alle querimonie di Giovan Luca si guardavano muti e squallidi e disanimati: lo stesso Piededipapera si grattava il capo, non sapendo fare altro.
Ma poco dopo, superata quella crisi di abbattimento, Giovan Luca si alzò, pareva trasfigurato:
- Signori – disse – abbiamo giurato di andare o alla vittoria o alla morte. La vittoria ci è mancata; andiamo a morire; per la Sicilia e per la libertà! Avanti!...
Uscì pel primo, e quel manipolo lo seguì, ripetendo il suo grido di morte. Lo Steri sorgeva lì a pochi passi con la sua massa bruna, le sue belle trifore, le sue decorazioni bicromatiche; e torreggiava nel cielo serotino, sopra le case basse e sparse in giro della vasta piazza. Della gente, curiosi i più, si accodò a quel manipolo, che correva verso lo Steri; la porta del quale, che non era dove è oggi, ma dalla parte che guarda lo spiazzo della Dogana, era serrata. I congiurati cominciarono a gridare:
- A morte i traditori!
Ma le grida si perdevano nello spazio: alcuni picchiavano fortemente al portone, vi tiravano dei sassi; intanto altra gente accorreva, per la voce che di quel tumulto s’andava diffondendo per la città; e ciò, alimentando le speranze dei congiurati, aumentava i loro sforzi. Allora a una finestra si affacciò il duca di Monteleone, pallido e pauroso... 


Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1500, dove protagonista è Giovan Luca Squarcialupo, il patriota che sognava e che per qualche giorno riuscì a realizzare la Repubblica siciliana.
Nella versione originale pubblicata unicamente a puntate sul Giornale di Sicilia nel 1924. Raccolto ed edito in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. Pagine 700 - prezzo di copertina € 24,00.
Disponibile su Amazon Prime e Librerie Feltrinelli. Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: L'inizio della rivolta: da Porta Nuova alla Cattedrale. Tratto da: Squarcialupo.

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E quella era la giornata, finalmente!...
Intanto arrivavano altri cavalieri, e infine Giovan Luca Squarcialupo, che contò i convenuti: erano ventidue.
- Orsù, – disse: – col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo.
E la cavalcata si mosse verso la città.
Entrarono dalla Porta Nuova, come una comitiva di amici; la porta era aperta, i gabellieri al loro posto, tranquilli; nessun indizio di sospetti. Poiché non era ancora l’ora del vespro, Giovan Luca entrò coi compagni nella vicina chiesa di San Giacomo, che era deserta. E là concertarono ancora quale dovesse essere l’opera di ognuno e di tutti. Piombare nel Duomo, con le armi in pugno, sorprendere il duca di Monteleone, impadronirsene, uccidere chi osasse resistere, e i giudici che tanto odii avevano suscitato: insignorirsi del potere, ma non ripetere la sciocchezza commessa l’anno innanzi, quando fu cacciato don Ugo.
Ed ecco il campanone del Duomo sonare a Vespro: e ogni colpo rimbombare nel cuore di ognuno, e farlo balzare. È l’ora. Si scambiano uno sguardo; e taciti, pensosi di quel che fra un istante avverrebbe scendono verso il Duomo. La grande porta è spalancata; il sole illumina il bel prospetto e ravviva la patina dorata distesa dal tempo sulla pietra e sul marmo. Si sente il canto snodarsi lento e solenne; in quel momento, pensano, il luogotenente si è seduto nel soglio. Entrano, corrono verso l’abside maggiore, tra i fedeli stupiti di quella irruzione a mano armata; ma quale delusione! V’erano i canonici, v’era l’arcivescovo; non c’era né il luogotenente generale, né i magistrati, né il senato.
Come? Perché?
Un sagrista, che al vederli entrare armati, s’era messo a gridare: – Sono qui! Sono qui! – cercando di fuggire; raggiunto, spiegò loro che il duca aveva saputo che volevano ammazzarlo, e non era uscito dallo Steri. Questa risposta stupefece tutti: l’aveva saputo? Da chi? c’era un traditore dunque fra loro? Giovan Luca guardò con occhi lampeggianti d’ira i suoi compagni – Chi è il Giuda? – gridò.
Ma tutti protestarono vivacemente e fieramente. Il traditore non era fra loro: essi erano tutti lì pronti a ogni rischio, e Giovan Luca aveva torto ad offenderli. Ma Vincenzo Di Benedetto, fratello di Cristoforo, si diede un pugno sulla testa, e sclamò:
- Ah il gesuato! Il gesuato!... deve essere stato lui!...
Giovan Luca si rattristò. Certo la confessione di Vincenzo Di Benedetto così spontanea e sincera, lo purgava dall’accusa di tradimento: ma la sua facilità a confidare il giorno e l’ora della rivolta, aveva mandato a monte la sorpresa e compromessa la riuscita. Ah! avere quel frate nelle mani. A ogni modo il dado era tratto: bisognava andare innanzi, alla vittoria o alla morte. Uscendo dalla chiesa, Giovan Luca, levando in alto la spada, gridò:
- A morte i traditori!... Cittadini, all’armi!
E i compagni ripeterono il grido. Ma nessuno uscì dal Duomo per seguirli, e la gente che si affacciava sulle soglie delle botteghe e delle case, o che andava per le vie, guardava meravigliata, non sapendo che fosse, Vincenzo Di Benedetto agitava la spada, gridando, e gli altri con lui, invano:
- Viva il re! Muoiano i traditori!...

Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1500, dove protagonista è Giovan Luca Squarcialupo, il patriota che sognava e che per qualche giorno riuscì a realizzare la Repubblica siciliana.
Nella versione originale pubblicata unicamente a puntate sul Giornale di Sicilia nel 1924. Raccolto ed edito in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 700 - prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: La festa di S. Cristina. Tratto da: Squarcialupo

Era la sera del 22 luglio 1517, antivigilia della festa di Santa Cristina, patrona della città(9) che i Palermitani si affaccendavano a celebrare, come facevano ogni anno, nella maniera più sontuosa, imbiancando cioè i muri delle case, e appendendovi festoni di fronde; innalzando per le strade che la processione doveva percorrere archi trionfali, anch’essi di verdi fronde; e preparando coperte e panni e, chi li aveva, arazzi, da stendere sulle finestre, e lanterne e torce resinose per far la luminaria.
Questa era la festa principale, e più solenne per la città; cominciava la vigilia, col Vespro solenne che si cantava nel Duomo, e si svolgeva il giorno della festa, cioè il 24, con la “cappella reale” e la messa cantata, di mattina, e immediatamente dopo la processione. Cappella reale significava che alla funzione religiosa interveniva il vicerè o il luogotenente, come rappresentante del sovrano, in gran pompa; sedeva sul trono e riceveva l’incenso nelle forme prescritte dal cerimoniale. Tanto nell’andare al Vespro solenne, quanto alla messa cantata, l’intervento del vicerè era per se stesso uno spettacolo che attirava la folla: perché egli vi andava con le insegne della carica, con gran seguito di cavalieri e di creati: ed era ricevuto alla porta del Duomo dall’Arcivescovo: e perché andando il vicerè in veste ufficiale, a esercitare un atto di sovranità, ci si recavano anche le alte magistrature del regno, e il Senato, anch’esso in gran pompa.
Il popolo, dunque, faceva i preparativi per addobbare le strade specialmente quelle che la processione avrebbe percorso, come prescriveva il bando del Senato. E quell’anno era prescelto il quartiere del Capo, o come si diceva, di Civalcari.
Qua e là, dove c’era gente che o imbiancava, o sul bianco dipingeva certi ornati rossi e turchini, che parevano ai riguardanti bellissimi, si formavano crocchi, che ciaramellavano delle cose più disparate; uno più numeroso se n’era fatto presso la chiesa di Sant’Agostino, dove addobbavano di verdi fronde d’arancio e di palme un arco trionfale; ma un uomo vestito da frate, messosi a parlare ad alta voce sui gradini della chiesa, aveva attirato a sé quel crocchio, che era man mano diventato folla, e pareva che prendesse gusto al discorso del frate.
Il quale era mastro Iacopo, camuffatosi a quel modo per poter percorrere le vie, senza intoppi. Lì s’era fermato e pareva predicasse. Una predica buffa, che faceva ridere. Ora egli continuava a dire:
- Dovete sapere, amici miei, che una volta, saranno cento e cento e cento anni, i Cristiani andavano nel paese dei Turchi per togliere loro i Luoghi Santi, dove nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso da quei cani di giudei. E combatti oggi, combatti domani, vinsero la battaglia, e liberarono il Santo Sepolcro. E che trovarono!... Tutti gli strumenti della Passione di nostro Signore!... – Dicono: – “questi per non litigare fra noi, dobbiamo portarli al Papa, e penserà lui a dividerli”. Detto fatto: portarono ogni cosa al Papa, il quale composta una bella nota di tutti i regnanti e principi fece la distribuzione e mandò ad ognuno una reliquia, come vi dirò. Voi mi domanderete: E tu come li sai quanti regnanti e principi c’erano in quel tempo? – Io non li sapevo, ma l’ho udito nominare dal padre lettore di San Francesco. Dunque, all’Imperatore mandò la Croce; al re di Francia la Corona di spine; al re di Castiglia la colonna dove Gesu fu flagellato; al re di Navarra la Catena, al re d’Inghilterra i tre chiodi; al re d’Ungheria il Martello; al re di Cipro la Scala, al re d’Aragona la lancia; al re di Scozia la spugna, al re di Boemia il velo; al re d’Apollonia la corda; al Delfino di Francia la camicia; al principe di Taranto i trenta denari; al Duca di Scozia la fanara di fuoco; al Duca di Calabria i dati; al Duca di Borgogna il guanto di ferro; al Duca di Bretagna la canna; al Duca di Milano la lanterna; al Duca d’Orleans le tanaglie; al Gran Maestro di Malta la trombetta; al Conte di Armaniaceo il secchio; al Conte di Tusca la borsa(10). E i flagelli con cui il povero Gesù fu ridotto una piaga dalla testa ai piedi? I flagelli, amici miei, li lasciò al Vicerè di Sicilia; sapendo che voi, come tanti Cristi legati alla colonna, vi lasciate flagellare, senza parlare. Pigliateveli dunque in pace i colpi che vi portano via la pelle a pezzo a pezzo, e bene vi stia!...
La gente che dapprima ascoltava ammirando tutta quella filastrocca, alla fine inaspettata, e dalla quale capiva l’arguzia ironica, mormorava, e commentava. Qualcuno diceva:
- Eh! frate mio, hai torto, perché sai bene che a don Ugo gliel’abbiam strappato il flagello…


Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500, dove protagonista è Giovan Luca Squarcialupo, patriota. 
Nella versione originale pubblicata unicamente a puntate in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1924. Raccolto ed edito in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
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venerdì 15 febbraio 2019

Così l'autore risponde alle critiche su Il Paggio della regina Bianca.


Durante la pubblicazione del romanzo c’era chi mi scriveva di farlo finire in un modo, e chi di farlo finire in un altro: chi la voleva cruda e chi la voleva cotta: v’erano i partigiani di Tarsia, di Iana, di Giovannello e di Simone; v’era chi voleva a ogni costo che la regina Bianca diventasse l’amante di Giovannello, mentre essa fu onestissima; chi voleva che Giovannello ridiventasse conte di Modica, mentre quest’ultimo rampollo dei Chiaramonte morì senza lasciar nessuna traccia di sé, come una nube che dilegua al sole… Insomma cento pareri, cento desideri, che ad appagarli, se avessi dovuto occuparmene, avrei dovuto scrivere cento Paggi paralleli.
Fortunatamente io avevo la mia idea.
L’autore, anche se scrive giorno per giorno la puntata da pubblicare, ha già nel cervello la trama e sa dove ha da arrivare. Il Paggio non poteva e non doveva avere altro scioglimento che quello che ebbe. Prosaico? Ma… Affrettato? Può essere e l’ho detto. Al pubblico non è piaciuto? Mi rincresce, ma non ho proprio che farci. Fischia? Si accomodi, non gli do torto, ma non riconosco d’averne io. Scrive male parole? Mi diverto io, dopo aver divertito lui con quattro romanzi… e mi apparecchio a divertirlo col quinto.
Luigi Natoli 
(da un articolo del Giornale di Sicilia dell'epoca)

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Pubblicità dell'epoca


Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano


Luigi Natoli: Il Paggio della Regina Bianca. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1400
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921.
Prezzo di copertina € 23,00
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Disponibile presso Librerie Feltrinelli.
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Luigi Natoli: Un agguato. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca

Spalancato l’uscio della camera, cinque o sei uomini, armati di picche e di spade, si affollavano su la soglia, tenendosi in guardia.
Stupito, non sapendo che cosa volessero, chi fossero, Giovannello ebbe appena il tempo di spingere Tarsia dietro di sé, e mettersi sulla difesa, col corpo raccolto in dentro, il braccio disteso, coperto dalla lama della spada, che aveva dei lievi guizzi, dei balenìi sinistri.
Coi capelli scomposti, il viso tagliente, le mascelle serrate, l’occhio sfolgorante; in quell’atteggiamento nervoso, che pareva dovesse da un momento all’altro scattare come una molla di acciaio, Giovannello era magnifico. Tarsia tremava, muta, con gli occhi sbarrati, guardando gli assalitori; i quali fermi su la soglia, sembrava studiassero l’attacco. Forse non s’aspettavano una resistenza, credevano di prendere Giovannello  di sorpresa, o di atterrirlo col numero; e invece lo vedevan lì, impavido, risoluto, nell’atteggiamento di chi minacci, non di chi si difenda.
Questa pausa durò un minuto, che parve lunghissimo: Giovannello ne approfittò per dire a Tarsia:
- Togli la lampada e fa lume dal letto.
Ella capì; rapidamente prese la lucerna, da un tavolino, e la sollevò in alto, con mano tremante.
Una voce disse:
- Che facciamo? Ci lasciamo tenere a bada da un ragazzo?
Gli uomini che erano dietro spinsero quelli che erano avanti: due picche dardeggiarono, stridettero, cozzarono fra loro, sviate dalla spada di Giovannello. Ripeterono il colpo; invano. Giovannello con una mossa fulminea, misurata la distanza, e vedendo già, dietro i due armati di picca, avanzarsi gli altri con le  spade in pugno, gittò un salto innanzi, stringendo le misure delle picche, e rendendole quasi inutili, e vibrano due colpi, che non andarono a vuoto.
Tutto ciò avvenne in un tempo assai minore di quello che occorre a dirlo. I due uomini caddero, come fulminati, prima ancora che gli altri, premendosi e stringendosi avessero superata la soglia: caddero l’uno su l’altro, barricando quasi il passaggio, offrendo a Giovannello una specie di difesa.
Avvenne allora una zuffa terribile, spaventevole. I quattro uomini l’un dopo l’altro, scavalcando i caduti, si gittarono nella camera, per circondare Giovannello; egli si restrinse a un angolo per aver sicure le spalle. La lucerna, illuminando i quattro assalitori, lo lasciava quasi in ombra, ciò che per lui era un vantaggio. Le quattro lame, stridendo, cozzando, cercarono invano di farsi strada: Giovannello, fermo sui garetti, in una guardia mirabile, si teneva sulla difesa, aspettando il momento di poter a uno a uno assalire i suoi nemici. Tutta la sua vita pareva trasfusa nell’occhio e nel pugno; pareva dal pugno penetrare nella lama, che guizzava con  balenìi di fuoco, rapidissimamente; correndo alle parate, scartando, minacciando. Quale puntata l’aveva appena sfiorato, lacerando la camicia, senza colpirlo.
I quattro sbalorditi di quella resistenza, scornati di esser tenuti a bada da un ragazzo, sbuffando, bestemmiando, gli si stringevano addosso, evidentemente per prenderlo a corpo a corpo.
- Corpo di Dio! – gridò uno di loro; - il lupicino ha le zanne lunghe… Su! È una vergogna per noi!
Per la camera con lo stridore dei ferri si udiva il grugnito ansimante dei quattro malandrini, l’anelar di Giovannello, le invocazioni di Tarsia, che, tremando, incoraggiava l’amante e lo raccomandava all’aiuto dei santi.
- Santa Vergine proteggetelo!... Sant’Agata gloriosa difendetelo voi!... Sta saldo, Giovannello… Abbi fiducia; il Signore ti aiuta!...
A un tratto, levando un gran grido feroce, i quattro assalitori si lanciarono per farla finita. Tarsia mandò un grido di spavento; ma quasi nel tempo stesso uno dei quattro vacillò, barcollò, cadde fra gli altri tre, impacciandoli. Giovannello approfittò di quell’attimo, per mutar tattica, si gittò sul più vicino, e gli spaccò il capo con un fendente. Gli altri due indietreggiarono. Vi erano per terra cinque caduti.
I tre superstiti si fermarono stupefatti, non osando rinnovare l’attacco. Giovannello taciturno, con le mascelle serrate, le mani frementi, ansante, si appoggiò alla spada, per riposarsi. Aveva le vesti a brani, e qua e là una piccola goccia di sangue
- Sei ferito? – gli domandò Tarsia ansiosamente.
- No, – rispose; e poi aggiunse: – Orsù, sbrighiamoci!...
Tarsia aveva mutato la paura in ammirazione. Sei uomini erano stati abbattuti da quel giovane, che pareva avesse nel petto cento anime; Giovannello agli occhi suoi diventava un gigante, un personaggio straordinario, ed ella sentiva empirsi di orgoglio, al pensare che questo personaggio straordinario era suo, tutto suo!... Ora lo spavento provato da principio erasi dileguato dal suo cuore e sostituito da una fede nella invincibilità del suo diletto: e gli sorrideva, pallida, con gli occhi lagrimosi, tremante ancora.
Giovannello si mosse pel primo ad attaccare gli altri due, che si posero in guardia; e si sarebbe sbarazzato di essi in un momento, quando dall’altra camera udì una voce aspra e impaziente, gridare:
- Ebbene? non vi siete ancora sbrigati, poltroni?...
Tre uomini, armati anch’essi, e col volto coperto, venendo su da la scala, recavano un nuovo soccorso agli aggressori; Giovannello, che credeva di sbrigarsi, si vide dinanzi cinque avversari, dei quali tre freschi di combattimento: egli era stanco; e capì che la lotta mutava. Guardò Tarsia, che era divenuta ancor più tremante e più pallida. Pensò:
- Questa è l’ultima notte…


Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921. 
Prezzo di copertina € 23,00 - Pagine 703
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Disponibile presso Librerie Feltrinelli. 
Illustrazione dal volume originale del 1921

Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte al cospetto della regina. Tratto da: Il paggio della regina Bianca

Entrò vivamente commosso nella stanza illuminata; il paggio lo precedeva svelto e grazioso con la sua zazzera nerissima.
In quella stanza non c’era nessuno. Giovannello vide che era una stanza molto semplice.
Il paggio aprì un’altra porta, sollevò una tenda e disse:
- Messer Giovannello Chiaramonte; – e si fece da parte per lasciar passare il giovane.
Giovannello entrò con passo fermo, ma il cuore gli batteva con violenza, e gli occhi erano offuscati da una specie di abbarbaglio; non vide che una mano porgersi a lui; si inginocchiò, prese quella mano e la baciò; e alzatosi stette un attimo col capo chino, vertiginoso, senza veder bene.
Ma riprese subito il dominio dei sensi; e allora vide chiaramente, dinanzi a sé, seduta sopra un seggiolone la regina, che lo guardava con un lieve sorriso di compiacimento; e dietro a lei, distante due passi il paggio, gli occhi del quale, velati da lunghe ciglia, lo saettavano, come per scrutarne le profondità dell’anima.
La regina era vestita di bianco, e aveva il capo coperto da una di quelle cuffie basse e aderenti, come usavano in Italia; ella guardava Giovannello con ammirazione, e per non turbare questa sua ammirazione stette un po’ in silenzio, un silenzio grazioso, che dava a quel ricevimento un sapore di intimità.
- Sapete voi, messere, che oltre alla coppa, la vittoria riportata nel torneo, vi conferiva un altro onore?...
Le parole della regina contenevano velatamente un rimprovero. Giovannello infatti non aveva sollecitato di entrare in corte, non era andato neppure un giorno, a rendere omaggio alla regina; ma non senza ragione, e queste ragioni gli si rinnovarono, gli annuvolarono il volto, lo resero se non aspro, certo un po’ rigido. Non trovò una parola di scusa: guardò la sala, per la quale si diffondeva una dolce luce, che lasciava vedere le cose come attraverso un velo.
E lì, di fronte a lui, sulla fascia dipinta che correva in giro per le pareti, sotto le mensole della travatura, si travedeva lo stemma dei Chiaramonte, i tre cuspidi di argento nel campo rosso.
Una visione dolorosa gli passò dinanzi agli occhi:
- Maestà, – disse rispondendo più al corso dei suoi pensieri che alle parole della regina; – su quel fregio è dipinta la mia ragione.
Istintivamente la regina e il paggio si voltarono a guardare, e videro lo stemma. La regina comprese; il suo volto si fece grave e pensoso: v’era nel suo pensiero un sentimento di compianto e di compassione. Si sentì quasi estranea in quel palazzo, che, pure in forza di legge era divenuto proprietà regale, e tutte le leggende e le storie dei Chiaramonte che aveva sentito raccontare, le sorsero intorno; alte e fiere immagini di guerrieri, nobili e superbe figure di donne, che pareva volessero riprendere il possesso di quella casa. Nelle parole di Giovannello essa sentì quasi aleggiare una minaccia; allora avvolse il giovane con uno di quegli sguardi suggestivi, dei quali, forse, non sapeva ancora la potenza, e gli domandò con una di quelle forme avviluppanti che rivelavano in lei quell’istinto diplomatico di cui doveva più tardi dar tanta prova:
- Messere, voi siete un leal cavaliere: delle voci sinistre si son fatte correre sul vostro conto, oggi il vostro nome fu mescolato in una sommossa, alla quale voi eravate e siete estraneo, lo so. Saperlo vuol dire la vostra salvezza…
Giovannello guardò il paggio. La regina continuò:
- Or bene, messer Chiaramonte, cavaliere della regina, ditemi se debbo guardarvi come amico o come nemico…
Giovannello sentì dentro di sé uno strano rivolgimento: piegò un ginocchio a terra, e stendendo una mano in atto di giuramento, disse con solennità:
- Che la maestà vostra si degni comandarmi, e la mia spada e la mia persona non mancheranno un istante di servirvi lealmente, da buon cavaliere.
- Ero sicura di voi, – disse la regina con semplicità, ma con sincera e profonda convinzione.
E queste parole, questa fiducia finirono per ubriacare Giovannello. 


Luigi Natoli: Il paggio della Regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921. 
Pagine 702 - Prezzo di copertina € 23,00
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mercoledì 13 febbraio 2019

Alla guerra! Pubblicità dell'epoca


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914
Nella versione originale pubblicata unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. Raccolto per la prima volta in un volume di 950 pagine ad opera de I Buoni Cugini editori.
Prezzo di copertina € 31,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Luigi Natoli: Attacco alla fattoria La Marchiènne. Tratto da: Alla guerra!

A un tratto apparve nel cielo un punto nero, che sollevandosi e avvicinandosi, con le grandi ali distese, s’andò ingrandendo e designando la sua forma. Era un taube. Passò rombando sopra la fattoria, volò su Auvelais, poi girò in largo, ritornò, sparve; ma poco dopo un tuono cupo e violento rimbombò e dominò il crepitìo delle fucilate. L’artiglieria tedesca apriva il fuoco per sloggiare i francesi.
Guy pallido, immobile sotto la tettoia, col trombettiere accanto, aspettava che la fanteria tedesca giungesse sotto la collina, per fulminarla di fianco. Se avesse avute due mitragliatrici, la sua posizione sarebbe stata veramente formidabile. Ma come domandarle? Ad Auvelais non ne avevan mica tante da dislocarne; le poche di cui il capitano poteva disporre, erano in posizione in punti strategici. Bisognava dunque confidare nei fucili.
Portò alla bocca un fischietto e soffiò. Un fremito percorse la terra. Un altro fischio. Uno scoppio molteplice, furibondo, tempestoso, avvolse la fattoria, sopra, sotto, intorno; Betty balzò indietro, con un grido di terrore, papà La Marchiènne impallidì e si tirò da parte; Bruno si rizzò su tutte e quattro le gambe, col muso levato, brontolando.
Guy guardava.
Giù nello stradale, i tedeschi colti alla sprovvista, si erano arrestati; molti erano caduti: alcuni erano rimasti immobili, con le braccia spalancate, altri si avvoltolavano nella polvere: erano a tre o quattrocento metri, e si vedevano distintamente.
Il fuoco dei francesi continuava, con un fracasso infernale incalzando: la terra, il fabbricato, tremavano: una specie di febbre pareva rendesse le mani più sollecite: Guy uscì dalla tettoia spingendosi innanzi, allo scoperto, per osservar meglio. Betty pallida, inchiodata fra le sue mucche, con gli occhi spalancati, si sentiva attratta da una forza maggiore dello spavento, a guardare; ma quando vide l’ufficiale avanzarsi solo, non potè trattenere un grido di terrore.
Laggiù i tedeschi, superato ben presto quel primo momento di confusione si riordinavano; altre masse sopravvenivano, a passo svelto, per sorreggere i primi; e cacciare via i francesi dalla fattoria. Ora mentre i primi, riprendevano la loro marcia, curvi, quasi strisciando per terra, fermandosi ogni tanto per sparare; una colonna mosse contro la fattoria, per distogliere il fuoco dei francesi e occupare la posizione. Cominciò un fuoco spaventevole; le palle sibilando stroncavano i rami; passavano tra gli alberi che tremavano con uno stormire pazzo di fronde; si cacciavano nel terriccio, sollevando la terra; poi tempestavano i muri della casa; strappandone i calcinacci, spezzando i vetri, schiacciandosi nei ferri, rimbalzando.
Betty tratteneva il respiro, agghiacciata dal terrore, ma ostinata a guardare. Si era cacciata un po’ più dentro, seguendo con gli occhi l’ufficiale, che pareva non s’accorgesse dell’uragano in mezzo al quale s’aggirava.
Guy seguiva con viva attenzione i movimenti del nemico, che tendeva a spiegarsi sul fianco del poggio, per avvolgerlo. Da quella parte egli aveva fatto costruire la barricata, dietro la quale erano appostati venti uomini. Bisognava rinforzarli. Ordinò a una dozzina di quelli piazzati sotto gli alberi un movimento d’appoggio verso la barricata.
- Non vi alzate! – gridò; – strisciate per terra… non vi fate vedere…
- E voi? – gli domandò un fantaccino piccolo e rosso che aveva un viso di arguto e una parlantina sciolta da parigino.
Si rizzò in piedi, per braverìa, ma quasi subito girò sopra sè stesso e cadde; non gemette che un nome:
- Mamma mia!...
Era il primo, che pagava il suo tributo di sangue, raccogliendo le sue forze sopra un nome; il primo che si balbetta, quando le labbra si sciolgono alla parola, il solo che s’invoca, nei grandi dolori, l’ultimo che erra su la bocca, quando la morte la sigilla. Guy si chinò rapidamente sopra di lui, lo scosse, lo voltò. Aveva gli occhi verdastri aperti con una espressione di sgomento, e la bocca angosciosa piena di sangue e di terra; e non respirava più.
Una grande pietà invase il cuore di Guy: alla sua mente apparve l’immagine dell’ulano da lui ucciso; anche quello era giovane, biondo, con gli occhi chiari. Si rialzò accigliato, stringendo le mascelle quasi per costringere la pietà a ricacciarsi nel profondo del petto, e raggiunse la barricata, dove le palle tedesche si abbattevano come la gragnola.
- Saldi, ragazzi! – gridò per incoraggiarli.
Ma non ce n’era bisogno. Non costretti più al silenzio, esaltati dalla febbre omicida e dall’istinto della conservazione, quei trenta fantaccini gridavano, motteggiavano, accompagnavano di ingiurie ogni colpo, come se le palle potessero, mandate al nemico inacerbirne le ferite. Un fantaccino s’era alzato in piedi, e protetto dall’aratro di ferro, buttato sopra alcune masserizie, tirava con una certa lentezza.
- Uno a ogni colpo, signor tenente! – disse ridendo.
Aveva la mira precisa, e non falliva; abbatteva un tedesco a ogni fucilata, con una freddezza, come se avesse tirato a fantocci di legno in una fiera.
- Non sciupo le munizioni! – aggiunse mirando e sparando.
Giù, ai piedi del poggio, lungo lo stradale era tutta una nube biancastra, ondeggiante. Oltre la quale si vedevano sopravvenire altre masse grigiastre, compatte, che non finivano mai. Se ne staccavano sezioni di soldati, che si buttavan per terra, si avanzavano quasi strisciando, sparavano. Molti non s’avanzavano più, non sparavano più; non importava; ne sopravvenivano altri, passavan sopra i caduti, andavan oltre: importava avanzare, superare la strada maestra, entrare ad Auvelais, per aprirsi la via sopra Charleroi. La strada era sparsa di morti e di feriti: ma da quelle masse, come da una matrice prodigiosamente feconda, balzavan fuori altri vivi. Vi era in quel rifornimento qualche cosa di automatico, di impassibile, di rigido: il cieco movimento di una macchina, che ubbidisce all’impulso della sua leva.
Il combattimento si era allargato; tutti quei borghi, disseminati lungo le rive della Sambra, o fra gli avvallamenti dei poggi; tutte le officine coi loro camini spenti; e più in là ancora, verso Moustier diritta sull’altipiano, verso Tausines, dall’altra parte, in mezzo alle linee della strada ferrata; dovunque era un ondeggiar di nubi, un guizzare di incendi, fra il rombo cupo e implacabile dei cannoni, e lo strepito alto e basso delle fucilate. Di tanto in tanto s’udiva l’eco smarrita d’uno squillo di tromba: e di lontano dal fondo dell’orizzonte, apparivano sempre nuove masse, dapprima come linee fosche, che si movevan lentamente, poi più distinte; si dividevano, si diramavano, si allargavano, e a mano a mano che si avanzavano si ingrandivano. E non finivano mai.
Verso la fattoria però i tedeschi non avevano fatto un passo.
Costretti a combattere scoperti, ammassati in uno spazio piuttosto angusto, in basso, avevan dovuto arrestarsi dinanzi al fuoco sicuro, terribilmente micidiale dei francesi. Gli ufficiali li minacciavano, li percotevano coi calci delle rivoltelle, perché andassero avanti; ma la morte abbatteva anche loro; inesorabilmente, fulmineamente sopra i soldati.
Fu sonato l’ordine di ritirarsi un po’ indietro.
I fantaccini francesi, allora, credendo che abbandonassero l’impresa, levarono alte grida di gioia:
- Aspettate, canaglie!... Abbiamo confetti anche per voi!...
- Prendete questi!...
- E tanti saluti a Guglielmo!...
Quello dietro l’aratro, non gridava; sorrideva, mirava, sparava, e contava:
- Trenta… trent’uno!... Son trent’uno, signor tenente; uno a ogni colpo!... Non sciupo le munizioni… Trenta due!...
Quel movimento di ritirata, scopriva giù ai piedi della collina, uno spettacolo di orrore: il terreno era sparso di caduti; alcuni dei quali si trascinavano spasimando, come per cercare uno scampo; altri si avvoltolavano incapaci di levarsi, e stendevan le mani, come per trovare per terra qualche cosa cui afferrarsi nello sgomento della morte vicina; qualcuno alzava in aria, con gesto folle le braccia sanguinose. Uno si alzò in piedi, mosse due o tre passi brevi rigidi, e s’abbattè di un colpo…
Guy guardò il piccolo francese morto, coi verdi occhi ancora sgomenti, la bocca angosciosa, irrigidito. Delle mosche, venute chi sa donde, gli svolazzavano sul volto. Allora si chinò sopra di lui, gli frugò nelle tasche, ne trasse un piccolo portafogli, due cartoline illustrate, un ampio fazzoletto turchino a quadri rossi. Glielo stese sul volto quel fazzoletto, e conservò nella sua borsetta i ricordi di quel povero morto.
Ritornò verso il casamento crivellato, screpolato dalle fucilate. Papà La Marchiènne era ancor lì, immobile, sotto la tettoia della stalla; accoccolato sopra uno sgabello. Bruno gli si era posto accanto, accosciato sulle zampe di dietro, con gli occhi torbidi, la faccia iraconda. In fondo, sotto la tettoia, un soldato si faceva fasciare il braccio da Betty; un altro, che aveva una spalla fracassata, gemeva con mugolii strozzati, seduto per terra, appoggiato a un pilastro; un terzo si teneva la testa con ambo le mani, dondolandola con un ritmo automatico, che aveva qualche cosa di agghiacciante. Un fantaccino, con una gamba trapassata da una palla, se la legava tranquillamente con un fazzoletto, disse:
- Poveretto! ha una scheggia dentro un occhio, e gli dole!...
Bisognava apprestare qualche medicatura a quei feriti; trasportarli ad Auvelais dove avrebbero trovata un’ambulanza. Forse quel contadino inoperoso aiutato da Betty, avrebbe potuto incaricarsi della bisogna: c’era qualche sentiero, che scansando la strada maestra dove il combattimento s’accaniva, conduceva ad Auvelais.
Guy stava per dare gli ordini opportuni quando s’udì in alto un urlìo strano, lungo, come di una sirena, e poco dopo uno scoppio, dietro il casamento; uno scoppio che fece tremare la terra, scrosciare i vetri, fremere gli alberi. Era un obice.
- La canaglia! – gridò un sergente; – hanno messo i cannoni in batteria!... Adesso sì, che balleremo!...
Un altro obice a qualche minuto di distanza, cadde e scoppiò nell’angolo estremo della fattoria, abbattendone il muro e slanciandone i rottami in aria.
Un ondeggiare di sgomento si diffuse allora tra i soldati, lo stesso Guy si sentì a quei colpi balzar il cuore; due obici caduti a giusto tiro avrebbero spazzato quel pugno d’uomini e rasa la fattoria.
- Fermi, ragazzi! – gridò – volete mostrare d’aver paura? Un francese deve saper morire al suo posto!...


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914. 
Nella versione originale pubblicata unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. Raccolto per la prima volta in un volume di 950 pagine ad opera de I Buoni Cugini editori.
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Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno. 
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Luigi Natoli: Guy e la Grande Guerra. Tratto da: Alla guerra!

Guy, avvolto nella mantellina, percorreva la linea degli avamposti, e pensava al domani.
Fino allora, salvo quel piccolo episodio con gli ulani, egli non aveva visto la guerra davvicino. Da venti giorni circa non aveva fatto che marciare avanti e indietro, per paesi ignoti, non udendo della grande guerra, che l’eco lontana. Ora si trovava sul campo di questa grande guerra, della quale le grandi manovre non erano che una rappresentazione coreografica.
Sì, nelle grandi manovre si dormiva per terra sotto le tende, si facevano lunghe marce sotto la sferza del sole ardente, si consumavano molte cartucce, si facevano delle cariche alla baionetta, con slancio… Ma era un gioco. Non scoppiavano gli obici tra le file, nessuno cadeva con un grido, con un gemito, squarciato il petto o fracassata la testa dalla mitraglia; nessuno rientrava nell’accampamento con la baionetta, con le mani intrise di sangue…
Guy pensava al domani. Domani sarebbero giunti i tedeschi; gli ulani li avevano già annunziati; nell’aria immobile si sentiva quasi il rombo pesante e fosco della loro avanzata. Pareva che un fremito percorresse la terra, sotto il passo di quei reggimenti ferrigni, che marciavano con una cecità fanatica, verso la vittoria o la morte, passando, senza fermarsi, sui loro fratelli caduti. Domani quel borgo, che dormiva tranquillo nell’ombra, tra’ fanali spenti, sarebbe diventato un inferno; la Sambra, che mormorava dolcemente fra le colline degradanti coi loro boschetti a specchio, sarebbe stata turbata e insanguinata.
Ma dormiva veramente la borgata? dentro le case buie e serrate, la gente forse non trepidava nell’aspettazione del terribile ignoto?
Guy provava una strana sensazione. Non era paura; tuttavia un lieve fremito, di tanto in tanto, ad ogni più lieve rumore, gli scorreva a fior di pelle.
Il latrar lontano di un cane gli faceva spalancar gli occhi nell’oscurità. Passando accanto alle sentinelle che passeggiavano col fucile su la spalla, dopo aver dato la parola d’ordine, raccomandava di stare attenti.
Non era paura. Era un sentimento quasi di oppressione e d’ansia, generato dall’aspettazione del prossimo nembo. I primi colpi, le prime cannonate sarebbero appunto piovute contro i suoi cento uomini, in quella posizione estrema; il primo urto della battaglia avrebbe cozzato contro quel manipolo. Probabilmente quel soldato che passeggiava su e giù vigilando per la salvezza dei compagni, sarebbe caduto pel primo; e non sapeva o non pensava che la morte gli era sospesa sul capo. E anche lui.
Perché no?...
Pensava alla sua casa, e pensava a Ginevra. Nelle prime ore della sera, in un piccolo caffè aveva scritto due lettere, una alla mamma, l’altra a Ginevra; e le aveva spedite; poi aveva in un taccuino, che era il suo piccolo diario, scritto alcuni pensieri. Sulla prima pagina, per ogni evento, aveva già scritto una nota: Chi troverà questo taccuino sul mio cadavere, abbia l’animo gentile e pio da inviarlo a M.r Vandois in Parigi, rue Jouffroy, 26. Aveva raccolto in quel libretto, giorno per giorno, pensieri, osservazioni, confessioni; vi aveva narrato la storia di quel suo amore del quale la famiglia non sapeva nulla, vi aveva confidato i suoi sogni, le sue ambizioni; tutto l’animo suo, in quel che aveva di più segreto e sentimentale.
Ora pensava a questo taccuino. Se egli cadesse, qualcuno glielo ritroverebbe addosso ed eseguirebbe religiosamente il suo desiderio… Ah! l’arrivo di quel cimelio nella sua casa a lutto!... Immaginava la scena, rivedendo tutti i personaggi; l’on. Cadenat col suo cranio lucido e la sua eloquenza di deputato che parla soltanto fuori della Camera, avrebbe fatto un bell’elogio. Guy, l’udiva: l’on. Cadenat consolava madama Vandois, dicendole:
- Non bisogna piangere! Guy è morto da eroe, per la Francia: è una gloria per voi!
Probabilmente l’on. Cadenat avrebbe ottenuto il cadavere per sotterrarlo al Montmartre. Lì, in fondo al terzo viale a destra, dov’era la sepoltura gentilizia; e vi avrebbe elevato un cippo, col suo ritratto, con una iscrizione eroica, tra due palme e fronde di lauro e di quercia…
Egli si pensava morto; ma serbava nella morte tutte le sensazioni e le percezioni del mondo esterno, e tutta la forza del suo cervello: non potendo, mentre era pur vivo e camminava, immaginare l’annichilimento completo, il nulla, questo immenso infinito vuoto, che nessuno spirito, per altro, può concepire, se non imperfettamente. 


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914. 
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lunedì 4 febbraio 2019

Luigi Natoli: Piazza Vigliena o Quattro Canti. Tratto da: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891

A fianco del palazzo Comitini, s’apre la via Bosco, nella quale si scorge qualche vestigio di antico palazzo, ed ha sede l’Istituto Ventimiliano eretto nel 1835 dalla liberalità del conte Gaetano Ventimiglia, per raccogliere e indirizzare alle arti e ai mestieri i fanciulli poveri. Tornando indietro per la via Macqueda, ripassando innanzi alla Regia Università si giunge alla
Piazza Vigliena o Quattro Cantoni, (P. E4) che forma il centro della città murata, ed è il ritrovo ordinario dei palermitani, come la Galleria a Milano, la piazza Colonna a Roma. La piazza fu cominciata l’11 dicembre 1608; ha forma ottangolare, e le quattro facciate, le cui decorazioni non furono finite prima del 1662, sono uguali. Ne fu architetto Giulio Sasso, romano. Ciascun cantone o facciata ha tre ordini di architettura, il primo dorico, il secondo ionico, il terzo composito: nel primo ordine vi è una fontana sormontata da una statua che rappresenta una delle Stagioni; nel secondo dentro una nicchia uno del re della casa d’Austria, nel terzo, parimente entro nicchia, una delle sante vergini palermitane. Nella facciata appartenente alla sezione Palazzo Reale le tre statue sono, la Primavera di Gregorio Tedeschi, Carlo V di Carlo Aprile, e Santa Cristina: nella facciata opposta – che appartiene alla sezione Castellammare, l’Autunno di Nunzio La Matina, Filippo IV dell’Aprile e S.Oliva; nel cantone a destra – rispondente alla piazza Pretoria
– Sezioni Tribunali, l’Inverno del La Matina, Filippo III dell’Aprile e S.Agata; nel cantone a sinistra – Sezione Monte di Pietà, l’Estate del Tedeschi, Filippo II dello stesso Aprile e S. Ninfa.
Delle quattro statue dei re fu creduto autore Scipione, o Giambattista Li Volsi; in vero Scipione Li Volsi fece due statue di bronzo, quella di Carlo V e quella di Filippo IV; ma il Senato palermitano, mutando pensiero, collocò la prima in piazza Bologni, dove ancora si vede; la seconda innanzi al Palazzo Reale e fu abbattuta e rifusa come si disse; e ordinò all’Aprile le quattro statue di marmo per le decorazioni della piazza Vigliena.
L’edifizio al quale appartiene il cantone di S. Cristina o del palazzo Reale è la
Chiesa di S. Giuseppe, (P.19, E 4) di colossali proporzioni e magnifica architettura e ricca decorazione...


Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Guida alla città di Palermo pubblicata in occasione dell'Esposizione Nazionale del 1891. 
Nella versione originale pubblicata dall'editori Carlo Clausen, corredata dalle foto e dalle pubblicità dell'epoca e dalla cartina pieghevole della città. Una foto alla Palermo del 1891 con le sue strade, i servizi, i monumenti alcuni dei quali purtroppo non più esistenti da dopo il secondo conflitto mondiale. Una guida ancora oggi utilissima, con le minuziose spiegazioni dell'illustre autore. 
Prezzo di copertina € 19,00
Sconto del 15% se acquistata dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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Luigi Natoli: La chiesa di Casa Professa. Tratto da: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891

Chiesa di Casa Professa, (P.5, E.3) dei padri Gesuiti. Questa chiesa veramente magnifica, per quanto barocca, fu cominciata a costruire nel 1554 e compiuta nel 1630, occupando l’area di una chiesetta dedicata a S. Filippo d’Argirò, di cui si ha notizia fin dall’884, di una chiesa fondata nel 1072 da Roberto Guiscardo in onore della Madonna della Grotta e di una Cappella ai SS. Cosmo e Damiano, che i Gesuiti aggregaronsi nel 1604. La chiesa è ricca di marmi e di pietre dure, di stucchi e di rilievi, che rivestono tutte le pareti e i pilastri in modo da sorprendere il visitatore. È a croce latina ed a tre grandi navate su pilastri. Gli affreschi della volta sono di Filippo Randazzo, quelli della cupola del cav. Senario, quelli della cupoletta dell’altare di S.Anna del Novelli; gli stucchi in parte di Giacomo Serpotta. Nella terza cappella della nave di destra vi sono due tele di Pietro Novelli: San Filippo d’Argirò che esorcizza un energumeno, di grande valore, e San Paolo Eremita. Nella quarta cappella i quadri dell’Annunziata e della circoncisione si vogliono dipinti da Rosalia Novelli, figlia del grande pittore. Nelle due cappelle del T i quattro quadri di storia sacra sono di Giacomo Lo Verde, trapanese. Nella cappella di sinistra, sono notevoli una Santa Rosalia e una Santa Agata del Lo Verde, e un San Francesco Saverio di Pietro d’Asaro. I gruppi marmorei, dentro nicchie, che fiancheggiano la Sagrestia sono del Vitaliano; del quale sono pure i leoni e i putti laterali alla porta maggiore; i due angeli sono però del Marabitti. Sotto la chiesa è una cripta, che la leggenda dice essere stata abitata da S. Calogero. Il campanile della Chiesa è posto sopra una torre di bello stile del secolo XV, addossate a un piccolo chiostro della stessa epoca, i quali sono visibili dalla prossima piazza dei SS. Quaranta Martiri.
Nella via S. Michele Arcangelo a sinistra della chiesa si trova la
Biblioteca Comunale alla quale si accede da un severo portico di stil dorico. Fu fondata nel 1760, nel palazzo municipale; e trasportata ove ora trovasi nel 1775, dopo la cacciata dei Gesuiti. La Biblioteca contiene più di 150 mila volumi, circa 3 mila manoscritti di Siciliani, tesoro unico nel suo genere, fra cui dei codici di altissimo valore, una preziosa collezione di edizioni aldine e siciliane del secolo XV; un medagliere arabo.
Accanto alla Biblioteca trovasi la Chiesa di S. Michele Arcangelo…


Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Guida alla città di Palermo pubblicata in occasione dell'Esposizione Nazionale del 1891. 
Nella versione originale pubblicata dall'editori Carlo Clausen, corredata dalle foto e dalle pubblicità dell'epoca e dalla cartina pieghevole della città. Una foto alla Palermo del 1891 con le sue strade, i servizi, i monumenti alcuni dei quali purtroppo non più esistenti da dopo il secondo conflitto mondiale. Una guida ancora oggi utilissima, con le minuziose spiegazioni dell'illustre autore. 
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