lunedì 19 dicembre 2022

Luigi Natoli: La principessa ladra. Il 35° volume della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli edita I Buoni Cugini.

Ed ecco il 35° volume della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli nonchè 100^ volume pubblicato da I Buoni Cugini editori: La principessa ladra, romanzo storico siciliano ambientato a Palermo alle soglie del 1800, nel pieno della dominazione borbonica. La duchessa di Canavilla, seduce o illude con la sua bellezza sensuale l’alta aristocrazia di Sicilia, ed è sovrana di un effimero regno nobiliare dedito a feste e divertimenti, che usa a piacimento per raggiungere i suoi obiettivi. Tutto scorre secondo i piani e i desideri della duchessa, finché irrompe nella sua vita un uomo misterioso e audace che le sconvolge la quotidianità, catapultandola in un vortice di sensazioni e avvenimenti del tutto nuovi e inaspettati.
La narrazione, costellata da fatti storici poco noti e da una moltitudine di personaggi indimenticabili, è basata sullo stridore degli opposti. Il bello e il brutto, il buono e il cattivo, l’odio e l’amore si rincorrono in ogni pagina, fondendosi in storie avvincenti e dal respiro universale. Tutto scorre fluido e costante verso l’inaspettato finale, degno di uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana.
Il volume è la ricostruzione del romanzo originale, pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 

Pagine 756 - Prezzo di copertina € 24,00
Magnifica copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). 
Su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

lunedì 12 dicembre 2022

Luigi Natoli: Così Giovanna Bonanno divenne la za’ Anna del Noviziato... Tratto da: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano

La vecchia se ne andò trascinandosi sulle gambe. Il giovane cavaliere Giovanni Ventimiglia non avrebbe riconosciuto in quella vecchia più rugosa, più livida, più gozzuta, quella comare Giovanna che undici anni prima lo aveva accompagnato al palazzo di donna Elisabetta: né Giovanna avrebbe riconosciuto il figlio di Genoveffa Larina nel giovane cavaliere che comperava delle polverine nell’aromataria di don Saverio La Monica. Questi undici anni erano trascorsi cancellando ogni traccia del passato. Dopo le fiere nerbate ricevute dai servi di don Gastone, Giovanna paventando di essere pedinata, scoperta e nuovamente arrestata aveva creduto necessario e urgente mutare quartiere e nascondersi. Aveva trovato una stamberga in un vicolo dietro la chiesa del Noviziato, nel quartiere del Capo. Era un vicolo dei più miserabili e sudici della città, che da una parte aveva la muraglia, dall’altra poche e povere case, delle quali qualcuna soltanto s’innalzava a un primo piano, con un balconcino di legno infradicito dalle piogge. V’era sempre del fango per terra, d’inverno per le piogge, in tutte le stagioni per le acque sporche rovesciatevi dalle case. La stamberga di Giovanna era a metà del vicolo; vi si scendeva per uno scalino lubrico di fanghiglia: ella vi accomodò le misere masserizie e passò il primo giorno in casa, per le ammaccature ricevute, che le pareva di avere le ossa rotte. A una vecchia sua vicina disse di chiamarsi Vanna; quella, un po’ sorda, intese Anna; la chiamò za’ Anna, e così ne riferì il nome alle altre comari; nel vicinato, la chiamarono za’ Anna: essa non rettificò, trovando che la trasformazione del suo nome la aiutava a far perdere le sue tracce. Così Giovanna Bonanno divenne la za’ Anna del Noviziato.
Ella cominciò a uscire per domandare la limosina; ma spesso andava fuori porta d’Ossuna e ne ritornava col sacchetto pieno di erbe. Sospettosa com’era si chiudeva in casa, e non bazzicava nessuno; e questa sua vita e quelle erbe cominciarono a eccitare intorno e lei la fantasia dei vicini: si cominciò a supporre che fosse una fattucchiera, che facesse malìe e sortilegi; la supposizione divenne certezza; e questa fu la seconda trasformazione. L’essere creduta maliarda la circondò se non di rispetto, di paura e la liberò dalle beffe e dai tiri dei monelli, eccitati dalla sua bruttezza; le madri, temendo che la za’ Anna per vendicarsene, chiamasse in suo soccorso le “donne di fuori” queste donne misteriose e spaventevoli, peggio dei diavoli, le quali potevano “cambiare” i figli, li ammonirono, li castigarono, li imbottirono di paure; così che la za’ Anna fu lasciata tranquilla; ma le madri non mancavano la notte di metter fuori la scopa, rimedio infallibile per tener lontana la “donna di fuori”. Superstizioni e pratiche comuni, che le donnicciuole conoscevano senza essere fattucchiere, ma che nella opinione del popolino confermavano questa fama nella za’ Anna. E ad alimentarla concorreva ancora la vita chiusa e solitaria che ella faceva, in quella stamberga nera, tetra, squallida, dove la sera attraverso la porta socchiusa, spesso si vedeva lei dinanzi al fornello su cui bolliva una pentola, che pareva misteriosa; e il suo volto, ai mobili riflessi della fiamma, ora più ora meno vivace, prendeva espressioni strane e paurose.
Così erano passati undici anni, durante i quali Anna Bonanno era sempre più scesa in basso: come una che era stata fin dalla nascita una pezzente: vivendo di quel che raccattava andando tutti i giorni per le strade o alla porta delle chiese del suo quartiere o fuori la porta, negli orti presso S. Francesco di Paola o nei campi lasciati a pascolo. I suoi capelli eran diventati più bianchi, più sparuti; ed ella li raccoglieva in un piccolo mazzocchio sul capo: il suo volto era più grinzoso, la bocca più sdentata; l’aspetto più orrido e ripugnante; soltanto gli occhi piccoli, neri, serbavano qualche cosa dell’antica vivacità, e, talvolta, si accendevano di una improvvisa fiamma, come quando da una brace coperta di cenere, per uno sterpo secco o una foglia si sprigiona una vampata, che rapidamente lingueggia e si spegne.
Due sere dopo, Giovanna Bonanno se ne stava seduta sul suo giaciglio, con le mani intrecciate sulle ginocchia, pensando. La lucerna di terracotta illuminava il suo volto di una tinta rossastra e ne aumentava l’orrore. Aveva finito di mangiare alcuni tozzi di pane immollati in un po’ d’acqua e sparsi di olio e sale: la sua cena era di quella sera, chè la limosina era stata ben misera. L’annata precedente era stata scarsa, e la carestia s’era fatta sentire in quell’inverno, e se non indurito i cuori, certo li aveva resi un po’ egoisti e pessimisti. Ma Giovanna non era pensierosa di ciò, in fondo, per lei, era sempre carestia; se la giornata non fosse stata così piovosa, e le campagne così fangose da affondarvi, sarebbe andata a raccogliere erbe e avrebbe cenato meglio. Altri erano i suoi pensieri.
Quel giorno nella bottega di don Saverio La Monica, essa aveva seguito dapprima con curiosità, poi con meraviglia e con attenzione, il racconto di quell’avvelenamento con l’acqua pei pidocchi; e tornandosene a casa ci ripensava. Quell’acqua che costava tre, quattro grani, aveva una potenza micidiale che poteva spacciare un uomo alla sua insaputa e irreparabilmente. Foschi pensieri le scomponevano e ricomponevano la fitta rete di rughe che le solcavano il viso per ogni verso; e le accendevano tristi lampi negli occhi; la bocca le si moveva, come se biascicasse parole non dette. Ricordava lontane storie di veleni potenti: l’acqua di Teofania d’Adamo; i veleni di Francesca La Sarda, quelli della za’ Chiavedda, che era stata impiccata due anni prima che Giovanna Bonanno nascesse: acque misteriose anch’esse, che facevano morire senza lasciar tracce. Come mai quelle donne si erano lasciate scoprire e prendere? Dovevano essere state imprudenti; se avessero saputo fare le cose bene, avrebbero potuto arricchire...




Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. Protagonista è Giovanna Bonanno, la fattucchiera passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, dal 6 giugno 1927 con pseudonimo di William Galt. 
Pagine 580 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Giovanna Fileccia o Bonanno, la fattucchiera che ha dato l'anima al diavolo. Tratto da: La vecchia dell'aceto.

Giovanna Fileccia, o la “comare Giovanna” come più comunemente era intesa, era vedova due volte, la prima volta di un Fileccia; la seconda di un Bonanno. Siccome aveva incominciato a far la levatrice al tempo del primo marito, aveva nella professione mantenuto quel nome, che era notorio. Era abile, e si prestava facilmente a pratiche delittuose, che essa compiva con la coscienza di far bene, perché miravano a conservare l’onore e la pace nelle famiglie. Don Gastone aveva ricorso a lei per assistere donna Elisabetta, e, un anno dopo, donna Maria di Altofonte.
Il domani riprese il suo posto di osservazione al mercato, incaponendosi nell’idea di scoprire chi fosse il padrone di Sara. Ma a un tratto due birri del Sant’Offizio la presero per le braccia, la spinsero in una portantina, e via. Ella gridò invano; si fece un po’ di folla, il caporale disse:
- È una fattucchiera che ha dato l’anima al diavolo.
E si segnò; la gente si segnò anch’essa e si scostò. La portantina quindici minuti dopo giungeva nel tenebroso palazzo dell’Inquisizione, e Giovanna era gittata in una di quelle segrete, vere tombe di viventi.
Il giorno dopo un fiscale e un notaro entrarono nella segreta e la interrogarono; essa era accusata di pratiche contro l’onestà delle donne, contro la santa religione e il buon costume, di sortilegio e di fattucchierie. Ce n’era tanto da seppellirla il quel tetro carcere. Si difese, pianse, pregò, gridò invano. La porta si chiuse. Era bastata l’accusa del nobile cavaliere Gastone del Carretto, perché l’Inquisitore monsignor Ciafaglione senz’altro la facesse arrestare. Un processo fu imbastito. Dopo un anno Giovanna Fileccia, con altre due disgraziate fu condotta fra birri, famuli e confraternite, alla porta della chiesa di S. Ippolito, con una cesta appesa al collo, il bavaglio, le braccia legate dietro le reni; e lì fu letta la sentenza che le condannava tutte e tre come fattucchiere al carcere del Sant’Offizio per dieci anni.
Dieci anni! chiusa in una segreta del carcere delle donne, senza luce, senz’aria, con poco nutrimento, peggiorato da digiuni e penitenze, Giovanna andò deperendo fisicamente e accumulando nel suo cuore odio contro gli uomini e contro il cielo. Se veramente avesse potuto fare un patto col diavolo, gli avrebbe venduta l’anima pur di uscire da quel carcere, ed esercitare le sue vendette. Ma sebbene invocato e scongiurato con ridicole e nel tempo stesso orrende bestemmie, il diavolo non le apparve. Essa finì col rinnegarlo e col non credere alla sua esistenza.
Quando, trascorsi quei dieci anni, riconciliata, assolta, comunicata, uscì dal carcere, fu presa da una vertigine; la luce del sole l’abbagliava, il rumore della vita la stordiva. Usciva invecchiata di venti anni; l’umidità le aveva fatto cadere i denti; le era cresciuto un gozzo simile a una vescica, pendente dalle grinze del collo: era orribile e nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Usciva povera e senza nessun mezzo per vivere. Il Sant’Offizio le aveva fatto la carità d’una vesticciuola e un paio di scudi; ma dove andare? che fare? Riprendere la sua professione? E chi l’avrebbe più chiamata? La condanna l’aveva diffamata, e l’ozio e i patimenti avevano anche ottuso il suo cervello e intorpidite le mani. Essa era in uno stato di ignoranza, che non sapeva più in che giorno, mese e anno si fosse. E ne domandò: il sentir dire che era il 7 settembre del 1775 le sonò come una data misteriosa, inverosimile. Trascinandosi sulle gambe, che avevano disimparato di camminare si recò verso la casa che aveva abitato, nella strada delle Pergole, vi giunse e provò una commozione, rivedendo la scaletta esterna di legno, che metteva alla porta; ma sulla scaletta sedeva ora una comare, che faceva la calza, discorrendo con una vicina che su un ginocchio piegato dava l’aire al fuso, e torceva il filo che traeva dalla conocchia. Stette un poco a guardare; riconosceva che quella gente era in legittimo possesso di quella casa: e pure provava contro di essa un rancore come se gliel’avessero usurpata. 
Dove andare?


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. Protagonista è Giovanna Bonanno, la fattucchiera passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, dal 6 giugno 1927 con pseudonimo di William Galt. 
Pagine 580 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

mercoledì 7 dicembre 2022

Luigi Natoli: Mastro Cecco di Naro. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano.


Mastro Cecco picchiò alla porta del convento; una piccola porta ogivale, ornata di una cornice intagliata a fogliami, e di quattro colonnine sottili, addossate agli stipiti. Sul vertice dell’ogiva un piccolo scudo recava in bassorilievo l’immagine del cane con la fiaccola in bocca; stemma dei padri domenicani, che avevano voluto, effigiando il sogno simbolico della madre di S. Domenico, celebrar la gloria di lui, fiaccola del mondo.
Il sogno intendeva significare la “fiaccola per illuminare, per diffondere la vera luce nel mondo”; ma più tardi fra Tommaso Torquemada e fra Pietro Arbues dovevano vedervi una fiaccola da ardere roghi…
Nel 1401 la chiesa di San Domenico, che sorgeva presso a poco dove sorge l’odierna, non era molto grande: era stata edificata da cento anni, da quando i frati abbandonarono il piccolo convento di basiliane, che si trovava sul Cassaro, dove fu poi eretta la chiesa di S. Matteo. Della chiesa antica non rimane più nulla, pei successivi rifacimenti e ingrandimenti; ma restano ancora tre lati del chiostro, coi loro piccoli archi acuti sorretti da doppie colonnine varie di forma e di capitelli, come sono i chiostri siciliani di quel tempo.
Mastro Cecco dipingeva una parete del chiostro, per incarico di quei frati. Non era un gran pittore; e nel disegno e nel colore aveva quella ingenuità infantile dei pittori primitivi, in un tempo in cui la pittura aveva avuto Giotto, e s’avviava a quello sviluppo che fece grandi i quattrocentisti.
Un devoto aveva legato una somma al convento, con l’obbligo ai frati di far dipingere in una parete del chiostro, un soggetto tra storico e sacro: il conte Ruggero che libera Palermo dai mussulmani e vi ripristina il culto cristiano.
Mastro Cecco aveva trovato nel tema un vasto campo per sfogarvi la sua fantasia; e tra i guerrieri che si accalcavano intorno al fortunato venturiero normanno aveva raffigurato i fondatori delle grandi case signorili, che la tradizione o la vanità diceva venuti col normanno.
Attraverso il palco di legno, sul quale il pittore lavorava, la sua rappresentazione pittoresca si travedeva a brani. Un lato, quello dove erano Ruggero e i personaggi del suo seguito, era dipinto: il maestro attendeva ora a dipingere i Saraceni, dai volti bruni o neri, secondo la tradizione popolare, coperti di grandi turbanti. Nel mezzo c’era il vescovo Nicodemo, tratto dalle tenebre delle catacombe, per ribenedire e riconsacrare al culto l’antica chiesa cristiana, convertita dai musulmani in moschea.
Il giovane era rimasto meravigliato dinanzi alla vivacità dei colori, profusi con fanciullesca intemperanza sulla parete, sui quali predominavano il rosso, l’azzurro, il verde e il giallo.
Ma la sua attenzione fu attratta da un guerriero, il cui scudo portava per arma tre monti d’argento in campo rosso.
- Non è quello lo stemma dei Chiaramonte, maestro? – domandò vivamente.
- Appunto. Come lo sai?


Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401, al tempo di Andrea Chiaramonte, della regina Bianca di Navarra e di messer Bernardo Cabrera. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense nel 1921.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 700 - Prezzo di copertina € 23,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Per ordini, contattare alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.

Luigi Natoli: In quel tempo la piazza Marina era assai più vasta di quel che è oggi... Tratto da: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano.

La vasta piazza Marina in Palermo era quasi deserta in quell’ora mattutina del mese di maggio del 1401; e l’ampia mole dello Steri vi proiettava un’ombra lunga e trasparente.
In quel tempo, la piazza Marina era assai più vasta di quel che è oggi, e serbava ancora le tracce di seno di mare prosciugato. Il porto, ridotto ora alla Cala, era più profondo; le acque del mare si spingevano su un tratto della odierna via Porto Salvo, lambendo quasi il muro del palazzo delle Finanze e un tratto della piazza della Fonderia.
Più di due secoli prima bagnavano la scogliera sotto la torre di Baych, o di porta di Mare, che si apriva dietro la parrocchia di S. Antonio; poi, ritraendosi, o respinte da disseccamenti artificiali, avevan lasciato asciutto un lungo tratto, sul quale già sorgevano case e correvano nuove strade. Il Cassaro, o via Marmorea – come si chiamava ufficialmente, – si arrestava però alla porta di Mare, che era rimasta, intatta fra le due torri di guardia, come erano rimaste tuttavia in piedi le mura della antichissima città, sebbene oramai inutili.
Palermo offriva in quei tempi uno spettacolo curioso e singolare.
La sua pianta si era via via allargata fin dal tempo dei Romani; una città nuova era sorta oltre il letto del fiume il Maltempo; le cui sponde superiori, per esser piantate a “cimino” fecero dare grecamente il nome di Kèmonia, alla parte alta dell’Albergheria.
Il letto di questo fiumicello, che il Senato avea deviato da qualche tempo, per evitare le frequenti inondazioni, è riconoscibile nell’attuale via Castro.
Nel 1401 esso, d’inverno, correva ancora nel suo letto, e scendendo per le odierne vie di Casa Professa e dei Calderai, piegando per la contrada dei Tornieri, si univa al fiumetto della Conceria, e scendeva nel mare.
Di là da questo fiume era dunque sorta una città più vasta dell’antica, dovuta all’opera di espansione e di adattamento dei vari dominatori.
I Romani vi fabbricarono quasi tutta quella parte che oggi forma il mandamento Palazzo Reale; i Bisantini vi aggiunsero altre contrade, più in giù, che giungevano fin presso S. Francesco d’Assisi; gli ebrei vi costruirono le loro case e la Sinagoga, tra la moderna piazza del Ponticello e la contrada dei Calderai; gli Arabi vi edificarono una vera città, chiusa da mura, dove aveva sede il governo e serbavano il tesoro, e la chiamarono Kalesa, l’Eletta, nome che ancor serba, sincopato in Kalsa, o secondo la pronuncia palermitana hausa.
Queste nuove contrade col tempo si erano confuse; nel secolo XV i loro confini si erano cancellati, e solo era visibile qualche pezzo di muro o quale torre dalla Kalesa. Esternamente erano difese da una muraglia comune, che girava da occidente a mezzogiorno e piegava a oriente, sul mare; nella quale si aprivano alcune porte, due delle quali, sopravvissute al naufragio di tante altre cose e ai rinnovamenti edilizi, rimangono ancora, coi loro nomi antichi, ruderi gloriosi del passato: porta Mazzara (el Mahassaar) e porta S. Agata: di altre, come la porta delle Terme e quella dei Greci, rimane il nome. Delle muraglie qualche frammento è ancora visibile fra le case che vi si addossano, nei pressi dell’Ospedale Civico, e dietro la Caserma dei Carabinieri.
Dalla parte opposta, dall’altro lato dell’antica città si apriva una vasta palude, detta di Buonriposo, che per esser piena di papiri diede il nome di Papireto alla contrada. Essa un tempo si estendeva, costeggiando le mura settentrionali della città antica, e occupando l’area delle odierne piazze del Monte di Pietà, di S. Onofrio e dei mercati; ma a poco a poco s’era disseccata.
Nel secolo XV la palude s’era ristretta alla parte più alta, giungendo appena a S. Cosmo: stagnante spesso e miasmatica. Un emissario, che era il fiumetto o fiume della Conceria, la metteva in comunicazione col mare, e di là da questa palude eran sorti dal tempo degli Arabi altri borghi, che formavano un’altra città transpapiretana; e forse perché vi aveva avuto sede un cadi, dal nome composto di Sera-al-cadi, Seralcadi, era venuto il nome al quartiere, di Seralcadio, poi Civilcari; la cui parte superiore il popolo chiamò Capo.
Anche oggi, il visitatore curioso può riconoscere tanto l’antico letto del Maltempo o fiume di Kemonia, quanto quello della palude Papireta, nei due avvallamenti o parti più basse da via Castro a Lattarini a destra, dal Papireto alla piazza Caracciolo a sinistra, che lasciano anche oggi in mezzo più elevata, tutta la parte centrale della città fino a S. Antonio. Questa parrocchia, come si può vedere, resta infatti più alta dell’attuale livello del corso Vittorio Emanuele e della nuova via Roma: e più alte rimangono a sinistra le vie del Celso e delle Vergini, che sovrastano a quelle dei Candelai e alla piazza Nuova; e a destra le vie Biscottai e S.Chiara, e le chiese di S. Cataldo e della Martorana, che sovrastano alla via Castro, alla rua Formaggi, alla piazza del Ponticello e alla via dei Calderai.
L’antichissima Palermo era appunto questa parte centrale più alta, sovrastante alle altre or accennate. Essa era cinta di mura e di torri, che l’allargarsi successivo della città non distrusse.
Nel 1401, come abbiamo detto, queste mura e queste torri esistevano ancora, con le antiche porte; l’ultima delle quali sparve nel 1588, quando si costruì il convento dei frati Benefratelli. Formavano dunque una città murata dentro la città.
La piazza Marina, così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta.
Le altre case intorno eran piccole dimore, frammezzate da orti e giardini, tra i quali, dalla parte opposta allo Steri, sorgeva nella sua bella architettura ogiva la chiesa di S. Francesco dei Chiovari e accanto a essa si innalzava bruna, massiccia , fiera nei suoi merli, con finestrette simili a feritoie, la torre di Maniace o volgarmente di Manau.
Fra quelle case v’era qualche taverna, sulla cui porta una fronda di alloro rinsecchita serviva d’insegna.
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Un giovinetto s’era fermato con un senso di meraviglia e una certa commozione in mezzo alla piazza, guardando il palazzo chiaramontano...


Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401, al tempo di Andrea Chiaramonte, della regina Bianca di Navarra e di messer Bernardo Cabrera. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense nel 1921.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 700 - Prezzo di copertina € 23,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Per ordini, contattare alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
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venerdì 2 dicembre 2022

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello rievocava la catastrofe del suo signore... Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)

Ogni giorno, dopo il sonnellino meridiano, mastro Bertuchello se ne andava a passeggiare un poco. Scendeva per la strada Marmorea o Cassaro, usciva dalla porta dei Patitelli, che s’apriva presso la chiesa di S. Antonio, sulla vecchia spiaggia, già da un prezzo abbandonata dal mare; e se ne andava bighellonando sul porto della Cala, o a vedere il gran lavorìo dei muratori che costruivano il nuovo palazzo dei Chiaramonte sullo sperone del sobborgo dei Greci; il quale anticamente chiudeva il grande porto, ma disseccato questo, sorgeva ora come una piccola altura al lembo della vasta piazza Marina.
Ma lì, dinanzi a quella mole superba che già giganteggiava, come segno visibile della possanza dei Chiaramonte, mastro Bertuchello rievocava la catastrofe del suo signore. I Chiaramonte erano stati i più fieri nemici del conte di Geraci; ma forse non avevano avuto torto.
- Ah le donne! Le donne! – pensava mastro Bertuchello: – Dio mi perdoni, ma non valeva la pena frodare l’uomo di una costola, per creargli la sua rovina! Una nobile, antica e potente casa eccola distrutta pei begli occhi di una donna!... Senza di che, io non sarei un povero maestro di scuola… Ma questo, in fondo, è il minor male… Saldo, Bertuchello mio! Non t’invischiare con femmine; e la sera, quando reciti il Pater, non dimenticar mai la variante: non bisogna dire: libera nos a malo, ma libera nos a foemina. È il più grande dei mali. Io non so se gli angeli abbiano sesso; ma credo che quelli che furono cacciati dal paradiso dovevano essere femine.
Poco meno di due anni prima, un tragico avvenimento, che, per la qualità del personaggio che ne fu vittima, commosse tutta l’isola, aveva disorientato mastro Bertuchello, o lo aveva obbligato ad abbandonare il suo paese e a mutare il suo mestiere.
La catastrofe che aveva ucciso il conte di Geraci, dispersa la sua famiglia, e spartiti fra’ i suoi nemici i feudi, era stata così repentina, così travolgente, che il povero maestro di scuola, dopo due anni, ne risentiva lo spavento e l’orrore, e non poteva non riparlarne. E probabilmente la sua avversione verbale per le donne, più che dà malanni procurati a lui, traeva origine dalla parte che le donne rappresentarono in quella catastrofe.
Messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, vantava sangue regio. Una tradizione di famiglia, che però non è avvalorata da alcun documento, gli attribuiva discendenza dai principi della Casa d’Altavilla: certo le armi dei Ventimiglia erano quelle stesse dei re normanni di Sicilia: lo scudo d’azzurro traversato da una fascia a scacchi alternati bianchi e rossi.
Messer Francesco era uno dei più potenti signori del reame; il suo vasto dominio si stendeva dal mare fino sopra le Madonie.
Al tempo della catastrofe comprendeva una ventina di feudi, Sperlinga, Pollina, Castelbuono, Golisano, Gratteri, Sant’ Angelo, Malvicino, Tusa, Castelluccio, le due Petralie, Gangi, S. Marco, Belici e altre terre minori e casali, lo riconoscevano signore: alla sua casa,per diritto ereditario concesso dai re, spettava l’ufficio di Gran Camerario, una delle sei o sette dignità supreme del regno.
L’amicizia e la protezione di chi gli era largo al re Federigo, che lo aveva incaricato di ambasceria pel papa, e lo aveva dato compagno al principe Pietro nella escursione in Toscana, lo avevano fatto conte di Geraci: i servigi sedi da lui al re e al regno travagliato dalle continue pretensione della corte angioina, la ricchezza, l’ampiezza della stato ne avevano fatto il personaggio più rispettato, più temuto, più invidiato. Non poteva dire di essere amato o di godere salde amicizia. Non se le accattivava. facile agli impeti, violento, instabile nelle relazione, vago di piaceri e di novità, superbo della sua nobiltà, spregiatore degli altri, generoso fino alla prodigalità e nel tempo stesso geloso dei suoi diritti, prode, irriflessivo, era un impasto di buone e di cattive qualità.
Ora molti anni innanzi, una mattina, ascoltando messa nella chiesa di S. Maria Maddalena, alla Galca, messer Francesco vide entrare una giovinetta assai bella, e con certi occhi che trapassavan come dardi il cuore di chi la mirava. Era accompagnata da una vecchia, la nutrice forse o la nonna, ché poteva essere l’una o l’altra. Mastro Bertuchello che era un ragionatore conseguenziario, assicurava che quell’incontro fu la causa prima della quale, per filo di logica, dipesero tutti gli avvenimenti successivi. Che bisogno aveva il conte, allora giovane e avido di piaceri, innamorarsi sul serio di quella giovane? Bella, sì, lo era: ma anche le altre donne di cui egli si era incapricciato eran belle, e tuttavia messer Francesco non si era perduto dietro a loro. Prendeva e lasciava. Quella volta, no. Madonna Margherita Consolo non fu così facile a cedere: era una fanciulla modesta e riserbata; arrossiva quando vedeva il conte, e il suo volto si illuminava d’un sorriso di gioia: ma non osava neppure parlargli dalla finestra.
- Il pudore non è sempre una virtù angelica; – diceva mastro Bertuchello, quando ricordava i casi del conte; – qualche volta, anzi il più delle volte è un suggerimento del diavolo, per perdere gli uomini: perché l’uomo è la bestia più singolarmente caparbia in amore; e più si vede negato di cogliere il frutto, più si ostina a volerlo cogliere, a costo di commettere le più grosse corbellerie. Il conte perdette il giudizio. Diede qualche colpo di spada per sbarazzarsi di qualche competitore: e una notte entrò violentemente dalla finestra nella camera della fanciulla, e non ne uscì che all’alba. Voi crederete che soddisfatta la voglia e il puntiglio di messer Francesco fosse votato alla ricerca di qualche altro fiore? Nossignori! Quella fanciulla che pareva timida e vergognosa, doveva possedere qualche incantesimo; e avvenne la cosa più illogica per le abitudini del conte, quella cioè di rimaner fedele a madonna Margherita, fino al punto di toglierla con sé, in una sua casa, e convivere con lei, come fossero stati marito e moglie. Questo avvenne intorno al 1312. Io non ero ancora nato; e questi fatti mi vennero raccontati dai più vecchi. Nacque un primo figlio, al quale madonna Margherita volle che fosse posto il nome del padre, vezzeggiandolo in Franceschello...


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1) Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo medievale, al tempo della dinastia aragonese e di messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci.
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno - Pagine 576
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1). Romanzo storico siciliano.

L’ometto era piccolo, magro, coi capelli neri, che gli scappavano a lunghe ciocche sul collo da sotto la cuffia. Il suo volto lungo con un muso di faina, raso, aveva un’età indefinibile. Gli si potevano dare venti o quarant’anni. Dal naso al mento, pei solchi che si affondavano sulle guance, per la piega amara e beffarda delle labbra aveva quarant’anni; ma gli occhi grandi, vivaci, che ridevano anche quando la bocca pareva più amara, eran quelli di un giovane a venti anni.
La sua cuffia di velluto nero, qua e là spelato, teneva buona compagnia alla zimarra, che aveva ai gomiti e sul petto una lucidità, indizio di una età venerabile e di un lungo servizio; e alle sfilacciature e a qualche strappo mal rammendato rivelava le condizioni economiche dell’ometto, non molto prospere, in vero. Ma eran cose alle quali egli non badava: pareva anzi che quella povertà fosse indispensabile a quell’aria di sdegnosa fierezza che gli splendeva sulla fronte ampia e impavida. Si chiamava Mastro Bertuchello. Nessuno, neppur lui sapeva perché avesse questo nome. Era forse un soprannome? Un’ ingiuria? Da bambino lo chiamavano Bertuchello; e continuavano a chiamarlo così, ed egli stesso si sottoscriveva “Mastro Bertuchello” sebbene la sua mamma gli avesse detto che egli era stato battezzato dalla chiesa madre di Geraci, col nome di Giovanni e che a suo padre, Maso Mangialavacca, “borgese” di Geraci, era stato tramandato quel curioso nome da uno zio canonico del duomo di Cefalù.
Mastro Bertuchello era veramente giovane; aveva ventitré anni ed era venuto in Palermo da pochi mesi, dopo più d’un anno dalla catastrofe del conte suo signore. Egli era stato uno dei familiari della casa del conte. Messer Francesco lo aveva tenuto a sue spese allo studio di Bologna; e pensava forse di fargli ottenere qualche ufficio nella Curia, o di farne un notaro, dacché Bertuchello aveva dichiarato di non sentir nessuna vocazione per la chierica o pel saio. Ma la rovina del conte, la confisca dei beni, le persecuzioni, le prigionìe, i supplizi con cui furono perseguitati i congiunti, i seguaci, i familiari del nobile signore, lo balestrarono da prima a Cefalù, e da Cefalù a Palermo. A Palermo c’era per altro un lontano parente di sua madre, chierico di san Michele Arcangelo. Bertuchello andò a trovarlo: e per suo mezzo, nel novembre del 1338 ottenne dal Comune l’incarico di insegnar grammatica ai fanciulli, nella scuola di S. Domenico.
E così mastro Bertuchello, se non potè essere scriba nella Curia o notaro, diventò maestro di scuola; e vi era già da un anno.
Per altro quest’ufficio non gli spiacque. Stando allo studio di Bologna Bertuchello aveva preso amore agli studi letterari. Oltre agli studi di diritto e di teologia, ai quali era obbligato, ne faceva altri per suo conto, procurandosi libri, e copiandoseli in bella scrittura. Nella baraonda degli studenti, che convenivano in quell’Archiginnasio, da ogni parte d’Italia, ve n’erano che preferivano leggere Virgilio e Ovidio, e che scrivevano rime volgari per le loro belle, e satire latine contro i loro maestri. Tra le sbornie, i tumulti, le coltellate e le lezioni di diritto, Bertuchello acquistava così una cultura più larga e più umana; che diventava passione, di mano in mano che egli capitava qualche autore latino, e che se lo ricopiava. Allora non c’era la stampa; i libri erano manoscritti o su pergamena o su carta bombicina, e costavano molto per la borsa di un povero studente. Possedere una bibliotechina era indizio di ricchezza. Non potendo acquistare i bei codici miniati, Bertuchello se ne faceva le copie, la notte, al lume della lucernetta. In questo modo si era formata una piccola biblioteca, la quale, oltre alle Glosse di Accursio, al Digesto di Azzo da Bologna, alla Somma di S. Tommaso e agli Otia imperialia di Giovanni di Tilbury, conteneva la Summa dictaminis trattato di retorica di Giovanni di Bonandrea, e le Etimologie di Isidoro, alcuni scrittori latini, quelli che allora eran più divulgati. Possedeva una Eneide di Virgilio; le Metamorfosi di Ovidio, gli Officii di Cicerone, le favole esopiane, qualche opera di Seneca, le Confessioni di S. Agostino, un Boezio, un Quintiliano, la Metafisica di Aristotile. E inoltre qualche cantare romanzesco, la storia di Tristano e Isotta, una raccolta di rime volgari, e la prima parte di un poema, che aveva acquistato celebrità, ma che non correva ancora intero: la Commedia di Dante. Egli aveva potuto trascriversi l’Inferno.
Questi libri, che formavano il suo bagaglio letterario, aveva portato con sé a Geraci, e si erano salvati dal saccheggio, perché li aveva nella casa paterna, e le soldatesche del re, che cercavan danari o roba, non avevan saputo che fare di quegli scartafacci.
A Palermo, nella sua cameretta nel vicolo di S. Michele Arcangelo, Bertuchello li aveva schierati in bell’ordine in una scansia che si era costruita da sé. Aveva certe sue idee da “filosofo”, per le quali diceva che un uomo deve saper provvedere da sé alle cose che gli sono utili: e che se c’erano maestri legnaioli e maestri leutari, questa non era una ragione perché egli non potesse fabbricarsi da sé una scansia pei libri, un banco per scrivere e un leuto per suonare nei momenti di ricreazione. Anche la zimarra s’era cucita da sé, e si sarebbe tessute le calze, se avesse avuto il tempo e gli strumenti.
Donne in casa non ne aveva. Gli teneva compagnia un grosso gatto grigio, baffuto, con gli occhi verdi. Gli era venuto un giorno in camera, che era ancora micino; e vi era rimasto: egli l’aveva battezzato con nomignolo affibbiato dagli studenti a uno dei lettori di Bologna, che aveva le mani come artigli e abitudini da predone: messer Granfia. Tra lui e il gatto s’era stretta una grande amicizia, forse perché anche messer Granfia aveva abitudini da filosofo...


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1). Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo medievale, al tempo della dinastia aragonese e di messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno - Pagine 576
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

giovedì 1 dicembre 2022

Luigi Natoli: Maddalena e il mistero del cofano. Tratto da: Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2)

Quando Maddalena restò sola, nella casa che ancora sapeva di morte, si sentì scorrere il freddo per le ossa. Accese un’altra lucerna, come se la maggior luce le infondesse coraggio, guardò tutti gli angoli sospettosa; e gli occhi le caddero sul cofano, che era in un canto, dentro un vano scavato nella parete. Si fermò a guardare, ricordando le parole di Pirruccio. Senza dubbio v’era del denaro in quel cofano; e poteva esserle tolto da parenti del morto, che sarebbero venuti fuori all’improvviso. Pirruccio doveva sapere che ce n’erano: perché era evidente che aveva conosciuto Lorenzo, sebbene affermasse il contrario. I suoi pensieri, a questo punto, presero un altro corso. Perché Pirruccio aveva negato di conoscere Lorenzo, se questi lo aveva riconosciuto? E perché Lorenzo aveva provato tanto terrore nel riconoscerlo? Quale segreto le nascondeva Pirruccio?
Si era intanto avvicinata al cofano, e lo guardava; ma senza alcuna idea, perché il suo cervello tentava di penetrare quel segreto, che doveva certamente essere grave, se Pirruccio aveva troncato con un diniego ogni interrogazione. Posò una mano sul cofano; e allora le venne l’idea di sollevarlo, per sentire se pesava. Eh! Non era certo leggero. Doveva esserci una grossa somma. Donde aveva potuto riceverla? Lorenzo non aveva posseduto terre, né altri beni, non aveva esercitato nessun mestiere: e pure lì c’era del denaro. Molto. E con tutto quel denaro non l’aveva fatta scialare. Tutt’altro. Ella era uscita, dalla clausura del monastero, per entrare nella clausura della casa maritale. 
Ora rivedeva quel giorno in cui Lorenzo era andato a prenderla al monastero. Aveva parlato con l’abadessa; ma che cosa avessero detto non lo seppe mai; l’abadessa l’aveva fatta chiamare, e le aveva detto:
- Quest’uomo è il tuo solo parente, ed a lui i tuoi genitori ti hanno affidato. Egli è venuto a prenderti, per condurti a casa sua.
Ella non aveva mai veduto questi genitori, non sapeva chi fossero, né chi l’aveva messa nel monastero. Non sapeva o non ricordava più. Quell’annunzio che aveva una casa sua, che ci sarebbe andata, che avrebbe conosciuta sua madre; la sua madre di sangue, non quella fredda e severa del monastero, l’aveva empita di gioia, e le aveva fatto guardare con simpatia e riconoscenza quell’uomo, che, in verità non aveva un aspetto che ispirava fiducia.
Così era uscita dal monastero; ma nella casa dove Lorenzo l’aveva condotta, ella non aveva trovato i suoi genitori. Nè aveva domandato; ma Lorenzo le aveva detto: “Sono morti; tu non hai che me, me solo, che sarò per te la mamma, il padre, il fratello, lo sposo”. Questa parola “sposo” l’aveva fatta arrossire di vergogna, e nel tempo stesso rabbrividire di paura. Per un anno Lorenzo l’aveva curata con affetto paterno, poi una notte... Ah quale orrore!... E così era divenuta moglie; ma egli non l’aveva toccata quasi mai più: né essa aveva mai provato gli impulsi dell’amore. Ma per la connivenza, e non avendo nessun parente, e non avendo conosciuto altr’uomo, e non conoscendo neppur ora l’amore, si era affezionata a lui, più per istinto di avere una protezione, che per sentimento.
Riandando così nel passato, si domandava per qual ragione egli l’aveva voluta, senza passione, e l’aveva poi trascurata. Non già che ella ne avesse provato e ne provasse rammarico e rimpianto, ma perché quella violazione brutale le appariva come una inutile profanazione della sua fanciullezza. Egli l’aveva sposata, poi, ma essa era stata nella casa più una figlia che una moglie.


Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2). Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del medioevo, con specifica attenzione ai fatti storici e alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie siciliane dei Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo detenuto dalla corona aragonese oramai debole e pronta a spegnersi.
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1926.
Pagine 526 - Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.

Luigi Natoli: Il sogno di dominio di Matteo Palizzi. Tratto da: Il tesoro dei Ventimiglia. Romanzo storico siciliano.

Il palazzo degli Schiavi era stato restaurato ma, come possedimento di un reo di fellonia, era passato nelle mani del Fisco che l’aveva venduto. Bisognava riscattarlo, e s’intende, con denari del Fisco stesso: ma intanto bisognava provvedere, perché da un giorno all’altro sarebbe arrivata la famiglia. Non gli davan pensiero le quattro figlie, che sarebbero andate in monastero fino al giorno, che avrebbero trovato marito; quanto i maschi; alcuno dei quali era ancora fanciullo. La moglie era morta da più anni. Questi figli lo impensierivano: bisognava dar loro uno stato; ed egli bandito, spogliato del suo, senza ufficii lucrosi, non vedeva dinanzi a sé che una povertà umiliante e odiosa. Guai a coloro che l’avevan ridotto in quello stato! Ora bisognava rifar da capo la sua ricchezza. E con ogni mezzo. Era ancor vivo, sano, vigoroso, col cuore gonfio di ambizioni e d’odio; con una volontà tenace, senza scrupoli, temprata nelle angustie e nei rancori dell’esilio. La disgrazia gli aveva insegnato a coprire le audacie con l’arte di dissimulare di Damiano. Si sentiva capace di tutto, sicuro di sé, fiducioso nella fortuna. Sarebbe diventato il padrone, l’arbitro del regno. Il re, quel Ludovico, che non aveva ancora dodici anni, malaticcio, cucito alle gonne della madre e della governante, sulle quali egli aveva un ascendente che pareva dominio; quel re, che a Blasco Alagona, tutore ufficiale, dava autorità e governo, doveva cadere nelle sue mani, e non essere che un nome, un’insegna, una figura di sigillo.
Sprofondato nella visione interiore del suo sogno di dominio, Matteo spingeva lo sguardo oltre e fuori del regno. Immedesimava le sue ambizioni con le necessità politiche del tempo; stringeva alleanze; tirava dalla sua il papa e la repubblica di Genova; creava imbarazzi al re Pietro IV di Aragona, il cui occhio cupido si volgeva alla lontana Sicilia, ora che aveva messo piede in Sardegna; e al quale come a naturale protettore miravano i Catalani dell’Isola. Con lunga, acuta intuizione, vedeva nel re di Aragona la minaccia dell’asservimento della Sicilia a quel reame al quale eran legati i Catalani di qui, per comunanza di origine, per parentele, per interessi.
Identificava così la causa dell’indipendenza del regno di Sicilia con la sua propria: egli era il salvatore; il potere nelle sue mani significava la sicurezza della indipendenza. Le vendette che egli escogitava erano la liberazione del regno da ogni pericolo. Bisognava abbattere, disperdere, annientare i Catalani e quanti parteggiavano per essi: trascinarsi dietro il baronaggio siciliano più possente: i Chiaramonte, i Montaperti, i Lancia, i Tagliavia; costringere i Rosso, gli Sclafani a sottomettersi e passare alla sua parte o a perire. Poi... Guardando quella sala, rivedendo la massa imponente dello Steri, rievocando gli innumerevoli feudi dei Chiaramonte, si domandava se questi suoi possenti congiunti si sarebbero poi acconciati a subire il suo dominio. E dopo i Chiaramonte apparivano gli altri signori: nobiltà ricca di feudi e di memorie: divenuta in quei trambusti indipendente; disavvezza da ogni idea di sommissione a una autorità, anche a quella regia. Ah! Quel baronaggio così ribelle, così difficile, così mutabile! Ecco l’ostacolo: forse maggiore di quello che egli riconosceva nella nobiltà catalana. Bisognava piegare, abbattere quel baronaggio, passare sopra quelle teste, spezzare le spade, dopo essersene servito. Una spada sola, la sua.


Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2). Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del medioevo, con specifica attenzione ai fatti storici e alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie siciliane dei Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo detenuto dalla corona aragonese oramai debole e pronta a spegnersi.
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1926.
Pagine 526 - Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.