mercoledì 30 gennaio 2019

Luigi Natoli: Il sogno infranto di Corrado Calvello. Tratto da: Calvello il bastardo

Quanto il Teriaca, preso da paura, aveva denunziato, era vero. Sicuro del soccorso delle bande, e specialmente di quella del duca di Falconara, don Francesco Paolo Di Blasi aveva fissato di insorgere il venerdì santo, 3 aprile, nell’ora della processione della Compagnia della Soledad, la più famosa di quelle che avevan luogo a Palermo durante la settimana santa. La processione usciva dalla chiesa dei padri Trinitari, recando l’urna a vetri col Cristo deposto, e la “bara” con l’Addolorata ammantata di nero. Vi prendevan parte tutti i conventi e le confraternite, e gruppi di fanciulli, vestiti da apostoli, da angeli e da Maddalene, rappresentanti i misteri della passione. L’Urna era attorniata da uomini chiusi in pesanti armature medioevali, con la celata in testa, l’alabarda in pugno, terribili: questo spettacolo, l’intervento della truppa, in uniforme di gala, il concorso della nobiltà, l’intervento ufficiale del Vicerè e del luogotenente, con la deputazione del Regno, coi tribunali, e con tutte le magistrature, del senato con tutti gli ufficiali della città, rendeva questa processione la più spettacolosa e la più magnifica.
Approfittar dell’assenza della truppa dalle caserme e della loro dispersione lungo la strada; piombar sul luogotenente generale e impadronirsene con l’aiuto dei soldati ribelli; impadronirsi delle caserme, dell’armeria, delle carceri, del banco pubblico; sollevare il popolo, e gridar la repubblica, intanto che la flotta francese, raccolta allora nelle acque della Sardegna, accorresse a dar mano forte, era un disegno audace, che se fosse riuscito, avrebbe avuto conseguenze assai gravi per la dinastia borbonica.
Si era convenuto che appena iniziata la sommossa, avrebbero suonato a stormo le campane del Duomo, e sul cuspide della torre avrebbero issato lo stendardo di Sicilia bianco con l’aquila nera nel mezzo, ma attraversato da una larga fascia rossa e turchina, i colori della repubblica francese. Dall’alto della torre dei Diavoli si vedevano bene le quattro torri della cattedrale e il grande campanile costruito di recente; e poichè la distanza era di un mezzo miglio, lo stendardo si sarebbe veduto chiaramente.
La notte passò tranquilla. Corrado ricordava che due anni innanzi, proscritto, ricercato, aveva chiesto l’ospitalità a quella vecchia torre abbandonata. Ora, alla viva fiamma che ardeva in mezzo alla vasta sala scoperchiata, vedeva quegli uomini addormentati, col capo appoggiato alle selle, le armi fra le gambe; sui quali il riverbero delle fiamme disegnava luci strane e fantastiche, e pensava a quanta gloria erano serbati. Non tutti avrebbero goduto la gloria del trionfo; ma a tutti la patria risorta avrebbe decretato l’alloro. Fra due giorni essi non sarebbero stati più oscuri.
Immaginava il loro ingresso in Palermo: qualcosa di magnifico e di terribile! Quei quaranta centauri, appena veduto lo stendardo bianco e udito il rombo lontano delle campane, si sarebbero lanciati giù pel piccolo ponte della Guadagna sullo stradale; stretti, compatti, formidabili, come gli antichi catafratti; di galoppo, per la porta Montalto fino al piano del palazzo reale, per impadronirsi dei baluardi, occupar la sede del governo, tagliar la strada alla cavalleria dei Borgognoni (48).
Pensava e sognava. E guardando i muri screpolati e derelitti dell’antica dimora di una delle più illustri famiglie della Sicilia, estintasi combattendo per l’indipendenza della patria, diceva fra sé:
- Quali destini si covano questa notte dentro queste rovine del passato!
Nelle prime ore del mattino fu destato da Angelo che lo seguiva; balzò in piedi, domandando che cosa fosse accaduto, ma un vivo stupore gli si dipinse sul volto, vedendo Pietro.
- Cos’è? ci son novità?...
- Tutto è perduto!... – disse il giovane con voce quasi convulsa; – tutto è perduto; bisogna allontanarsi, e presto.
Un fulmine scoppiato ai suoi piedi non avrebbe impietrito Corrado come quella notizia inaspettata. Rimase con gli occhi spalancati, la bocca aperta, una espressione di profondo dolore, senza voce. Perduto? La parola gli riempiva il cervello, ma come qualcosa di inconcepibile, o di incomprensibile, come un grande pensiero oscuro che sopraffaceva e aboliva ogni altra facoltà della mente. Finalmente si riebbe; con voce tremante, domandò:
- Come? perduto?... Perchè?
- Traditi!... traditi! – gridò Pietro con una bestemmia; – c’era dei traditori!... L’arcivescovo ha saputo ogni cosa...
- E don Francesco?
- Arrestato.
- Arrestato?
- Questa notte medesima. Fu arrestato dal Capitano della gran Corte, don Giovanni Di Gregorio... perchè il Capitan giustiziere si rifiutò... Non lo trovarono in casa sua... Era in casa dell’amante... a Santa Oliva...
- I fratelli Tenaglia, Palumbo, Carollo, La Villa, D’Anna... Patricola, il Porcaro... tutti... son circa quaranta... Sorpresi nelle loro case, improvvisamente, da granatieri, esteri, birri... La città è a soqquadro; uno spavento, un terrore dappertutto!... Oh, non c’è più nulla a fare!... Si sa delle squadre... Si sa tutto!... Bisogna andar via subito... Non c’è più nulla a fare!...
Corrado passava per tutti i gradi dallo stupore doloroso all’abbattimento più profondo. L’arresto dei suoi amici spezzava le ali al suo disegno; la sua audacia cadeva prostrata dinanzi a quegli avvenimenti impreveduti e terribili, dei quali si sapevan già quali sarebbero state le conseguenze. La sorte dei suoi amici era già inesorabilmente segnata...
- E il popolo? – domandò con amarezza.
Pietro alzò le spalle con un gesto di scoramento...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
Pagine 856 - Prezzo di copertina € 25,00
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Luigi Natoli: Giuseppe Teriaca tradisce Francesco Paolo Di Blasi - Tratto da: Calvello il bastardo

Verso l’Avemaria del 31 marzo, non appena monsignor Lopez era rientrato dalla consueta passeggiata vespertina, un prete vecchio, giallo, dalla cera spaurita si presentò nell’anticamera, chiedendo con insistente premura di parlare con sua eminenza.
- Cose gravi! cose gravi!... – disse al segretario che si era affacciato per sapere che cosa volesse: – Lei mi conosce, sono il parroco di San Giacomo la Marina... ho delle cose gravissime da rivelare a sua eminenza... gravissime!...
Allungava il volto e spalancava gli occhi con una tale espressione di terrore, che il segretario gli disse di aspettare un istante.
Da quando il governo di Napoli aveva elevato parroci, cappellani e confessori alla dignità di spie, era un frequente accorrere di preti, che venivano a riferire; e che, naturalmente, erano accolti con facilità. Ma l’aspetto e le parole del parroco di S. Giacomo facevan sospettare che si trattasse di ben altro delle consuete notizie.
- Ecco... Io, come vostra eminenza sa, reggo indegnamente la parrocchia di San Giacomo la Marina...
- Lo so, avanti...
- Ho fra i miei penitenti un giovane, che lavora a bottega d’un argentiere; si chiama Giuseppe Teriaca...
- Giuseppe Teriaca; ebbene?...
- Ecco... Egli è venuto a confessarsi, per prepararsi al santo precetto, e mi ha confessato che fa parte di una cospirazione di scellerati, che vogliono rivoltar la città...
- Eh!...
- È come le dico, eminenza! La ribellione scoppierà venerdì mentre vostra eminenza seguirà l’urna della sacrosanta immagine di Gesù morto... Il piano è scellerato, è sacrilego. Vogliono impadronirsi della sacra persona di vostra eminenza...
- Eh!...
- È così come le dico. Aprire le carceri, abbattere il governo di Sua Maestà, e naturalmente impadronirsi del tesoro pubblico, incendiare i palazzi, commettere ogni sorta di nefandezze. Tutto è pronto: vi son anche, a quanto si dice, delle bande armate pronte a entrare in città, appena le campane suoneranno a stormo...
- Ma è poi vero tutto questo? – domandò monsignor Lopez stupefatto...
Uscì e dopo qualche minuto rientrò con un giovane sbarbato, confuso, smarrito, come chi è combattuto fra due rimorsi opposti e in urto.
Alle esortazioni del parroco, alle interrogazioni dell’arcivescovo, egli confermò quanto aveva confessato.
- E tu fai parte della congiura?
- Eminenza, sì... ma son pentito...
- Chi ti ha messo a parte della congiura?...
- L’orefice don Benedetto La Villa...
- E chi ha ordito ogni cosa?...
- Non lo so; tengono il segreto, ma il capo è don Francesco Paolo Di Blasi...
- Don Francesco Paolo Di Blasi? – gridò l’arcivescovo, balzando in piedi, e dando un pugno sul tavolo.
- Eminenza, sì... Dice che è in carteggio coi giacobini per far la repubblica...
- E gli altri? gli altri? – domandò l’arcivescovo.
- Non li conosco tutti; ma so che c’è il capomaestro don Francesco Patricola, don Gioacchino Mercurio, don Saverio Ganci, Peppe Palazzo, Vincenzo la Rosa, Agostino Cavarretta... Ma questi non sono i capi... Ce ne n’è anche altri...
Glieli diceva intanto che l’arcivescovo li segnava rapidamente in un foglio. Alcuni gli erano noti; erano indiziati di frammassoneria e di giacobinismo, ma non si era avuto fin allora alcun elemento per procedere contro di loro e Stefano Pascale era morto! Raccomandò al giovine traditore di usar prudenza, appurar altre notizie e comunicarle tosto al suo confessore, che gli aveva illuminato la mente; e assicuratolo della sua protezione e della sua benevolenza lo congedò.
- Quanto a lei, signor parroco, segnalerò il suo nome al governo del nostro real padrone.
Il prete si inchinò umilmente, ringraziando; e i due spioni scesero dal palazzo arcivescovile, protetti dall’ombra della notte calante. Credevano che così l’ombra dell’oblìo avrebbe ravvolto i loro nomi: ma la storia, come segna i nomi dei generosi alla pubblica estimazione, così registra anche quelli dei Giuda, a loro perpetua infamia. Il prete don Giovanni Lorenzo Pizzi, di questo figliuol di ciabattino, diventato parroco per intrighi, e di Giuseppe Teriaca, vigliacco venditore del sangue dei suoi fratelli, si aggiungono agli altri nella obbrobriosa pagina dell’infamia umana.
Quasi nel momento che quei due spioni uscivano, entravano precipitosamente nel palazzo il generale Persichelli, comandante generale delle armi in Sicilia, e il brigadiere Jauck, colonello del reggimento estero. Anch’essi avevano una grave comunicazione da fare a sua eminenza il luogotenente. Quella sera sembrava gravida di tremende rivelazioni. Un caporale del reggimento estero, Carlo Schelmes aveva denunziato segretamente al colonnello Jauck, che alcuni caporali del reggimento Calabria e del reggimento estero e alcuni sergenti del regno facevano parte di una vasta cospirazione; e che dovevano insorgere durante la processione del venerdì santo. C’erano i fratelli Giulio e Giovanni Tenaglia, Bernardo Palumbo e Gaetano Carollo caporali, c’erano altri militari. Allo scoppio della rivolta, il duca di Falconara, antico sergente dei fucilieri, sarebbe piombato in Palermo con una banda di villani dei suoi feudi. Era dunque un vulcano spalancato, che minacciava di travolgere e seppellire tra le sue lave infocate ogni cosa. Monsignor Lopez ne fu atterrito; senza por tempo in mezzo, mandò a chiamare il presidente della Gran Corte criminale Paternò Asmundo, l’avvocato fiscale Felice Damiani e il duca di Caccamo capitano giustiziere…


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
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Luigi Natoli: l'esecuzione del traditore alla Loggia. Tratto da: Calvello il bastardo

Stridendo sui cardini, una porticina, dapprima invisibile, s’era improvvisamente spalancata in una parete. Le sette lampade allora si spensero: il tempio cadde nell’oscurità più fitta, l’orrore della quale era aumentato da un lumicino lontano che si intravedeva nel vano della porticina, simile a un faro in un cielo nero e spaventevole.
- Espiate il delitto! – disse cupamente la voce del Venerabile.
A uno a uno i fratelli, simili a ombre fantastiche, si dileguarono nell’oscurità del cammino misterioso, che si sprofondava come una gola nera e senza fine. Stefano Pascale li seguiva con l’occhio esterrefatto, l’anima sospesa a un’angoscia mortale, tendendo l’orecchio a ogni rumore, attaccandosi al filo debolissimo di una lieve speranza. Udiva dall’altra parte un picchiar imperioso, e tremava, e affrettava col desiderio il sopravvento della sbirraglia da lui avvertita per impadronirsi in un colpo di tutti i fratelli. Ma a ogni ombra che si dileguava nel cammino segreto, il cuore si stringeva. La salvazione non giungeva. Un sudore gelato gli bagnava la fronte... A un tratto si sentì sollevare, trasportare, sprofondare nelle viscere della terra, e udì il cigolio della porticina che si richiudeva sopra di lui...
Un istante dopo la porta del tempio veniva atterrata dai calci dei fucili; una folla di soldati, con la baionetta in canna, si precipitò nella sala, sulla quale le lanterne dei gavarretti gittavano un’onda di luce rossastra.
Inutile e ridicolo furore.
La sala era vuota: l’ara, i seggi, i simboli, le insegne, tutto sparito; rimanevan le pareti nere, insignificanti.
- Nessuno? non c’è nessuno?...
Ufficiali, algozini, birri, soldati, si aggiravano guardandosi stupiti, delusi, scornati; non riuscendo a comprendere come e donde fossero fuggiti i frammassoni, e come fosse sparito anche Stefano Pascale, che doveva consegnarli nelle loro mani.
Ma intanto che essi sfogavano la loro delusione, scalfendo con le baionette le pareti e spezzando i mattoni col calcio dei fucili, due uomini attraversavano sotto la pioggia il piano della Cattedrale, e deponevano sui gradini della statua di S. Rosalia un sacco, dal quale un sottil filo di sangue scendeva e si confondeva con l’acqua…


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
Prezzo di copertina € 25,00 - pagine 856
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Luigi Natoli: il tradimento di Stefano Pascale. Tratto da: Calvello il bastardo

Appena uscito Pietro, don Francesco scrisse due o tre biglietti e li spedì a suoi conoscenti. Convocava la loggia. La sera piovosa e fosca favoriva la riunione clandestina. Da qualche tempo, per eludere l’esercito di spie, sguinzagliato dall’arcivescovo per ogni parte, i fratelli non si adunavano più regolarmente il venerdì; ma quando il Venerabile li invitava.
Mercè una ingegnosa organizzazione l’invito poteva precedere di qualche ora l’adunanza. Il Venerabile avvertiva con una parola convenzionale l’oratore, il segretario e il tesoriere; il segretario passava l’avviso ai due sorveglianti; questi alla loro volta correvano ad avvisare i tre o quattro maestri che avevano i gradi più alti, i quali si incaricavano di convocare gli altri maestri, a loro noti; e ognun di essi, subito, l’iniziato, compagno o apprendista che fosse, da lui introdotto. In una o due ore tutti i fratelli erano così invitati. La parola convenzionale data dal Venerabile, si mutava a ogni convocazione.
La notizia gravissima appurata rendeva urgente e necessaria un’adunanza. La Loggia era minacciata. Sebbene i gradi più alti quando si trattava di adunanze plenarie intervenissero con la maschera sul volto, e gli iniziati non li conoscessero, tuttavia il pericolo di qualche sorpresa per le loro persone non era minore. Bisognava provvedere. Stefano Pascale era stato introdotto nella Loggia da Corrado, che lo aveva creduto davvero un emissario dei repubblicani.
Prima di aprire la porta del tempio, mentre i fratelli s’adunavano a poco a poco nella sala dei passi perduti, don Francesco Paolo Di Blasi si era chiuso con le alte cariche della loggia nella sala di riflessione, in una rapida e grave conferenza. Qualche cosa era trapelata; non si sapeva propriamente di che si doveva trattare, ma si bisbigliava che v’eran gravi cose da discutere, e che un grande pericolo sovrastava alla loggia; onde nei volti, nei passi, nel sommesso interrogarsi quella preoccupazione di un ignoto, del quale ciascuno voleva penetrare il mistero.
Finalmente a tre ore di notte la porta del tempio s’aprì. La sala, tutta nera, era appena illuminata da sette lampade; gli uomini, su quel fondo nero, parevan larve fantastiche. Tutti erano mascherati; un solo non aveva maschera, e si guardava intorno meravigliato di essere il solo col viso scoperto. Era Stefano Pascale. 
Tre colpi di martello diffusero per la sala un silenzio grave e profondo. Il Venerabile, con voce solenne e lugubre nel contempo, disse:
- Fratelli carissimi, la santità del tempio è stata profanata. Giuda ha visitata la casa di Salomone, e ha venduto i suoi fratelli. Il nostro segreto è violato; le nostre vite sono alla mercè della tirannide; la nostra causa, la causa dell’umanità, è stata tradita; il traditore è fra noi. Egli si è insinuato nell’anima pura di un nostro fratello; si è fatto credere pieno di entusiasmo per la buona causa; ha chiesto a voi di aprir gli occhi alla luce; ha giurato qui, sotto gli occhi vostri, l’inviolabilità del segreto... E per opera sua quel nostro fratello è proscritto, spogliato, posto a taglione; per la sua delazione il Luogotenente generale è informato dei nostri lavori, e forse in quest’ora stessa sono sguinzagliati contro di noi sgherri e caporali... E pure egli osa venire fra noi; il suo piede sacrilego oltrepassa la soglia sacra; e il suo volto simula, sotto la maschera della fraternità, il tradimento e la perfidia!...
Un mormorio sommesso, ma grave di minaccia percorse le bocche; gli sguardi scintillavano e si incrociavano sotto le maschere nere. Stefano Pascale, pallido, muto, sentiva un freddo sudore bagnargli la fronte, e le gambe tremargli; pure cercava di dominarsi, affettando un sorriso impudente di semplicità e di stupore.
Il Venerabile, dopo un istante di silenzio, riprese:
- Stefano Pascale, avvicinatevi all’ara.
Il falso emissario rabbrividì, le sue gambe si rifiutarono di muoversi; fu necessario un nuovo e più imperioso ordine, perchè egli facesse qualche passo innanzi. Senza aspettare di essere interrogato, con voce strozzata protestò:
- È falso! giuro che è falso!...
Il Venerabile si fece più cupo e più lugubre:
- Voi dichiarate falso ciò che ancora io non vi ho detto. Stefano Pascale, la vostra premura di discolparvi equivale a una confessione. Stefano Pascale, voi siete una spia dell’arcivescovo!...
- È falso!... è falso! – urlò allibito l’emissario dei librai francesi.
- Stefano Pascale, – continuò il Venerabile; – non mentite. Voi avete portato dei libri francesi al carissimo fratello nostro Corrado Calvello, duca di Falconara, esibendovi come emissario della Repubblica; e quei libri uscivano invece dall’Arcivescovato; voi avete, dopo, accusato il nostro fratello, e avete guidato i magistrati al sequestro dei libri; voi vi siete introdotto fra noi, non per essere iniziato nella via della verità, ma per venderci; voi, tre ore fa, appena ricevuto l’invito, siete andato all’Arcivescovato ad avvertire monsignor Luogotenente. Stefano Pascale, tu sei un traditore.
Un silenzio sepolcrale seguì alle parole del Venerabile. L’accusato non aveva osato ribattere; s’era visto perduto. In quel momento tre colpi furono battuti alla porta. Una voce dall’esterno gridò:
- I profani invadono il tempio!...
I due sorveglianti e il “fratello terribile” si avvicinarono alla porta e aprirono.
- La polizia! la polizia!!...
- Impadronitevi del traditore – sclamò il Venerabile, – e coprite il fuoco!...
Un tumulto di voci, un agitarsi di mani, un confondersi di persone seguirono immediatamente a quelle parole: tutti si strinsero attorno a Stefano Pascale; dei pugnali balenarono:
- Traditore! traditore!...


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domenica 27 gennaio 2019

Luigi Natoli: Fabrizio al palazzo Belmonte conosce la principessa Carlotta - Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba

Poco dopo, riparato a qualche disordine del vestito, Fabrizio uscì per andare al palazzo Belmonte, da recente ricostruito con severa eleganza dall’architetto Marvuglia. Esso sorgeva nel Toledo, dirimpetto la piazza Bologni; passato poi ai principi di Pandolfina, fu da questi venduto al barone Riso, ed oggi è inteso con questo nome. Il Marvuglia ne cancellò le vecchie forme, che si possono vedere in una stampa del 1736, e gli diede quelle neo-classiche che conserva tuttavia.
Quando Fabrizio vi giunse non era l’ora consueta delle conversazioni. Esse cominciavano molto tardi e si protraevano fino alle prime ore mattutine. Ma Fabrizio andava semplicemente a partecipare al principe l’esito del duello, come aveva promesso, e poteva ben presentarsi a quell’ora indebita. Il principe lo accolse con un viso lieto, e le mani stese, dicendo:
- Non ho bisogno di domandarvi come è andata, dal momento che vi vedo sano e salvo. Vi ringrazio della vostra premura, che mi ha tolto da una grande preoccupazione. Roccasparta gode reputazione di buon schermitore. 
Carlotta di Belmonte era figlia di un Ventimille di Francia, morto cavaliere d’onore della contessa d’Artois. Il principe di Belmonte nei suoi viaggi per l’Europa la conobbe a Parigi, nei primi anni della rivoluzione, e la sposò. Fu un matrimonio d’amore. Ma avvenuta la catastrofe della monarchia, e cominciate le stragi del 1792, gli sposi, con la contessa di Verac, sorella di Carlotta, scampati per miracolo alla ghigliottina, attraversata la Francia fra mille pericoli, se ne vennero in Italia. Uno scrittore contemporaneo che la conobbe, e dal quale attingiamo questi particolari e molti aneddoti storici che si troveranno nel corso di questo romanzo, dice di non aver mai conosciuto una donna più amabile, un cuore migliore, uno spirito animatore più del suo. Amica intima di Maria Carolina era il rovescio di lady Hamilton. “Questa consigliava il male e i massacri, e, quel che è peggio, vi spingeva un personaggio di tanto merito, come lord Nelson;... la principessa pure sposando come suoi gl’interessi della regina, le consigliava il bene e l’indulgenza”. Ella conquistava i cuori con la bontà ed il suo tatto squisito: e Fabrizio sentì subito per lei un sentimento di devota amicizia, sentì nell’oscuro sub-cosciente che in lei avrebbe trovato una protettrice, una sorella benevolente, una guida. Nella sua frase madrigalesca v’era la voce dell’istinto che intuiva questa futura relazione spirituale.
La principessa Carlotta volle sapere, se non era la sua una indiscrezione, il perché del duello, e come era proceduto: e Fabrizio raccontò la verità, un po’ festevolmente, pieno della gioia di narrare una sua prodezza a una bella dama che pareva se ne interessasse. E nel racconto dei colpi dati e scansati v’era una spensieratezza un po’ spavalda e così perfettamente giovanile che la principessa ne sorrideva.
Fabrizio lasciò il palazzo Belmonte incantato dall’accoglienza ricevuta e della conoscenza di quella dama; e tra sé pensava in che modo avrebbe potuto frequentare il suo circolo, se a due ore di notte doveva trovarsi a casa. Ahimè, egli aveva accolto con entusiasmo l’invito, senza pensare a suo padre: l’ingresso nel tempio della dea gli era sbarrato da un mostro irremovibile e spaventevole, che aveva il volto arcigno e duro del conte di Torralba! E pure, dopo aver avuto un duello, egli meritava una maggiore considerazione; doveva essere ritenuto come un uomo; emancipato dall’aio, padrone di sé, libero di andare dove voleva. Così pensava. E un’altra cosa pensava: che probabilmente, anzi certamente in casa della principessa, avrebbe incontrato la sua bella incognita, l’immagine della quale gli stava fitta nel cuore. Ah quale tirannia non esercitava suo padre sovra i suoi cadetti, e come appariva odiosa a Fabrizio, e quali spiriti di ribellione gli agitava nell’animo!


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine 700
Un inedito, pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1926 e raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile presso Librerie Feltrinelli

Luigi Natoli: Il Castello a Mare, prigione dei nobili. Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba

E dieci minuti dopo entrava nel Castello a mare.
I castelli regi erano i quel tempo le prigioni dei nobili; ma in quelli delle isole o negli altri di cui Fabrizio aveva paura, non ci si richiudevano che i rei di stato; i delitti dei quali erano riputati più gravi di quelli dei ladroni di strade maestre, e anche dei sacrileghi e dei parricidi; per cui si riservavano a loro i sotterranei più umidi, senza luce, e una reclusione rigorosa. E di queste orride celle ve ne erano anche nel Castello a mare di Palermo. Ma per gli altri delitti commessi da nobili, anche omicidi, non v’erano celle né rigori: essi avevano nei castelli buone camere, che potevano a loro agio rendere più comode facendovi trasportare la loro roba. Nell’ambito del Castello avevano la facoltà di andare e venire; potevano giocare e banchettare, e qualche volta in compagnia del Castellano. Qualche volta, impegnando la parola, ne uscivano di sera, per qualche scappatella amorosa, e vi ritornavano all’alba, specialmente se erano in prigione per debiti. Insomma era un albergo più che un carcere. E non suscitava scandali, né proteste. Erano nobili, e naturalmente si dovevano loro dei riguardi. Soltanto nel caso di speciali ordini, essi potevano subire trattamenti più rigorosi, come la segregazione e celle più disagiate.
Fabrizio dunque entrò nel Castello senza nessuna preoccupazione per quanto riguardava le comodità del soggiorno: l’unica stizza che sentiva, era per la privazione della libertà, che gl’impediva di andare a visitare i suoi amici. Rosalia, e specialmente donna Laura, che egli sperava di rivedere a dispetto del vecchio marchese.
Bisognava intanto avvertire la famiglia, la principessa Carlotta, Rosalia, di questa avventura che chiudeva una giornata così ricca di avvenimenti. Il comandante del Castello era buon compagnone, che volentieri si offerse per mandare un soldato con quelle lettere che Fabrizio volesse indirizzare. Ma egli non ne scrisse alcuna; invece mandò il soldato a casa di Ribera, per pregarlo di favorire al Castello.
Il castello ospitava altri gentiluomini e qualche uomo di toga; v’era un barone di Scorciavacche, fatto arrestare dai creditori; un duca Landolina che aveva bastonato la ronda; un cavaliere delle Mortelle che aveva commesso l’orrendo delitto di avere sposata una giovane di un ceto inferiore, macchiando così la purezza del sangue; un abate Carella che aveva scritto una pasquinata contro il pretore... Tutti giovani, allegri, spenderecci, che passavano il tempo giocando, bevendo, improvvisando burle, e perfino tenendo accademie letterarie, che avrebbero ammazzato Apollo, le Muse, Aristotele, Longino, Quintiliano!... Fabrizio constatò che la compagnia non poteva esser più scelta né meglio armonizzata: essa volle festeggiare il ricevimento del nuovo ospite, con una cena, alla quale fu invitato il comandante stesso. E fu una cena quale forse le sale del Castello non avevano veduta l’uguale. Durò tre ore: e non si contarono le bottiglie.
E certo fu quella una carcerazione che poteva rassomigliarsi a una villeggiatura. La fantasia suggeriva mille modi piacevoli di passare il tempo: ma intanto passavano le settimane, passavano i mesi. Fabrizio non era chiamato dai giudici, non si imbastiva nemmeno l’ombra di un processo; dai suoi amici non venivano che vaghe notizie, che lasciavano poco a sperare: se avesse bastonato dieci signori sarebbe stato meno colpevole: ma due padri da messa, nella loro casa!... Era incorso non solamente sotto le pene civili ma anche in quelle canoniche, e l’arcivescovo, che aveva ereditato i poteri dell’abolito Sant’Offizio, teneva duro, per dare un esempio.
Così trascorse il 1805; entrò l’anno nuovo; per la seconda volta, il 25 gennaro del 1806 il re Ferdinando IV, fuggendo le armi francesi condotte da Giuseppe Bonaparte e dal generale Massena veniva a cercare un ricovero e una difesa in Sicilia; veniva nel mese seguente la regina Maria Carolina coi principi, con la principessa, con la nuora Isabella seconda moglie del principe ereditario Francesco: e con loro e dietro a loro circa due migliaia di emigrati napoletani, e molti francesi, che per la seconda volta venivano a pesare sulle esauste spalle della Sicilia; e soprattutto venivano gl’Inglesi, non da ospiti questa volta, ma da padroni.
Fabrizio aprì l’animo alla speranza….


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine 700. 
Un inedito, pubblicato unicamente a puntate in appendice del Giornale di Sicilia nel 1926 e raccolto per la prima volta in un volume di 426 pagine ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile presso Librerie Feltrinelli 

Luigi Natoli: Duelli e non solo... - tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba

I duelli furono due, fissati per le ore mattutine: il primo col duca di Campolongo, a dodici ore, dietro S. Francesco di Paola; Fabrizio ebbe un colpo al fianco, che se fosse stato un pollice più in qua, l’avrebbe trapassato da una parte all’altra: fortunatamente sfiorò l’osso dell’anca. Il duca invece ebbe una stoccata al braccio, così profonda, che non potè più reggere la spada. L’altro duello ebbe luogo a tredici ore, nello stesso campo. L’avversario di Fabrizio era il conte di Rosmarina, sorteggiato fra i cinque cavalieri, che erano intervenuti in corpo per assistere allo scontro; la presenza dei quali fece impallidire Ribera, che aveva accompagnato l’amico. Il conte di Rosmarina era un buon tiratore; e lo scontro fu vivace e lungo; senza che i due avversari giungessero a scalfirsi. A un certo punto uno dei quattro signori che assistevano si interpose: bastava: non c’erano offese così gravi da doversi lavare col sangue; i due avversari avevano dato prove più che sufficienti di coraggio e di maestria nelle armi; di esser capaci di sostenere le proprie idee; pregava che posassero le spade; non potendo permettersi che due gentiluomini così valorosi si uccidessero per una parola vivace che forse il cavaliere Torralba da vero cavaliere in cuor suo riprovava.
Allora Fabrizio disse:
- Per quanto mi riguarda, dichiaro che io non ho nessun sentimento di odio per prolungare questo duello; ma sono a disposizione del conte; e tocca a lui troncarlo o no.
- Ebbene, signore, – disse il conte, – io sono soddisfatto.
- Ed allora, signori miei, vi prego di accogliere le mie scuse per una parola alla quale non era nelle mie intenzioni di attribuirle un significato lesivo dell’onore delle signorie vostre.
Finì, naturalmente, con una pacificazione generale: erano giovani, senz’odio, pel cui animo il puntiglio, una volta soddisfatto non lasciava tracce. Ritornarono tutti insieme, lieti che la contesa fosse finita senza sangue e con onore di tutti; ma più lieto era Ribera che, deposta ora la paura, aveva assunto la sua aria spavalda e ripresa la parlantina. Fabrizio ritornò a casa, dove nessuno sapeva dei suoi duelli; e avendo fame si fece servire una tazza di cioccolato aspettando l’ora di andare dal Capitano di Giustizia, per domandargli con le buone o con le cattive la liberazione del servitore.
La saletta dove egli sorbiva il cioccolato, aveva una piccola finestra un po’ alta che dava in un cortile appartenente ai padri delle Scuole pie, e dove in certe ore i ragazzi che frequentavano la scuola del pianterreno, facevano la ricreazione. Proprio quella era una di queste ore; e Fabrizio, in mezzo al chiasso, sentì a un tratto levarsi alte grida di dolore.
- Che diavol fanno quei ragazzi? Si ammazzano?...
Le grida continuavano laceranti; egli non ne potè più; ubbidendo al suo istinto di accorrere dovunque udiva piangere e gridare, trascinò la tavola sotto la finestra, vi montò sopra, e sporse il capo. Vide in mezzo alla corte un frate grande e fatticcio, che menava colpi furiosi con una ferula sul dorso di un ragazzetto che, tenuto a cavalcioni da un altro giovane, urlava a ogni sferzata e implorava pietà.
Lo spettacolo era ripugnante: Fabrizio si ricordò della Quinta Casa; per mettervi fine, gridò:
- Padre, mi faccia la grazia di perdonare quel povero ragazzo.
Il frate alzò gli occhi, cercò, vide quella testa che sbucava fuori da quella finestra che pareva un buco, e non rispose; anzi alzò la ferula per continuare il supplizio.
- Padre, – replicò Fabrizio; – le rinnovo la mia preghiera... perdoni quel ragazzo...
Allora il frate, volgendosi a un altro frate, obeso e tabaccoso, disse:
- Che ve ne pare, padre Stanislao? C’è da rispondere a quel pulcinella?
Fabrizio si sentì montare la senape al naso.
- Questo pulcinella ha delle buone braccia, e potrà farvele provare.
Ma il frate non lo lasciò finire; raccattato un ciottolo lo lanciò e per poco non colse Fabrizio; il quale non trovando a portata di mano sopra un vecchio armadio accanto alla finestra che un pentolino pieno di terra lo tirò sulla testa del frate: ma ecco una pioggia di proiettili battere sugli stipiti delle finestre dell’architrave, sul muro, e qualcuno anche sulla sua testa. Erano i ragazzi, che esprimevano la loro gratitudine verso chi prendeva la loro difesa, lapidandolo. Forse perché egli aveva interrotto lo spettacolo di quelle sferzate, che eccitava i loro istinti primitivi. Non avendo altri proiettili, Fabrizio scese in fretta, impugnò il bastone, e giù per le scale, infila il portone della scuola, piomba nel cortile, a le spalle del frate e dei ragazzi, che armati di ciottoli, stavano col naso in su, aspettando che egli riapparisse dalla finestra. Egli non mise tempo in mezzo, balzò con tre quattro colpi furiosi sulle spalle del frate, che voltosi come un serpente, gli lanciò il ciottolo. Fabrizio si vide piovere intorno una nuova pioggia; il frate impugnò una sedia: altri frati uscirono con bastoni, e tutti addosso a lui... 


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba - Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '700. 
Un inedito, pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1926 e raccolto per la prima volta in unico volume di 460 pagine ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile presso Librerie Feltrinelli

venerdì 25 gennaio 2019

Luigi Natoli: Il maestro Vincenzo Gagini. Tratto da: La dama tragica

Mastro Vincenzo Gagini si presentò dopo due giorni. Era un vecchio, barbuto, vigoroso ancora, di maniere franche e spicce, con una certa nobiltà nel volto; che pareva il segno della stirpe gloriosa già di tre generazioni di artisti valorosi, tra cui primeggiavano ancora i nomi di Domenico e di Antonio, il più grande di tutti.
Maestro Vincenzo era uno dei figli di Antonio: e s’era acquistata fama lavorando col padre nella sontuosa e maravigliosa decorazione marmorea del Duomo. Alcune delle statue, disperse poi nella devastazione del capolavoro di Gagini, qua e là in nicchie, o sui merli dell’edificio e molte di quelle storie a tutto rilievo che sono sparse nelle pareti o incastrate in altari, sono opera di Vincenzo. L’ultimo suo lavoro era stato il balcone o loggia marmorea all’angolo del palazzo arcivescovile. L’aria di nobiltà gli veniva dalla fama conquistata nell’arte.
Maestro Vincenzo non conosceva donna Eufrosina. Ma quando, entrato nella sala dove ella riceveva, la vide, chiusa nell’abito vedovile, così ben fatta, non potè frenare la sua ammirazione.
- Oh signora! Se voi foste vissuta ai tempi di Fidia, vi avrebbe fatto porre in sembianza di Venere.
Per parecchi giorni maestro Vincenzo si recò nel palazzo dei Corbera, per condurre a termine il suo modellino di cera. Ritraeva soltanto la testa, a un terzo dal vero; ma aveva voluto anche ritrattarla a mezzo busto di grandezza naturale, sopra un foglio di carta, per tenerselo come ricordo.
Lo scultore lavorava e chiacchierava. Sapeva tante storielle che facevan ridere donna Eufrosina: il che impediva alle stecche dell’artista di proseguire nel lavoro. Egli doveva aspettare che donna Eufrosina riprendesse la immobilità necessaria; ma poco dopo una nuova storiella, un motto spiritoso, interrompevano il lavoro.
Quelli furono per donna Eufrosina giorni di vera felicità. Si fece promettere dallo scultore, che le avrebbe fatto vedere la sirena, prima che venisse collocata sulla fontana; giacchè tutti gli scrupoli si erano dileguati, ed ella non aveva provato che appena un lieve rossore, quando il maestro le disse che la sirena avrebbe versato acqua dalle poppe. Ora aspettava la statua.
Una mattina il valletto le annunciò la visita di don Ottavio. Da quando aveva reso gli onori a Galcerano, egli non si era fatto più vedere, contentandosi di mandare a informarsi della sua salute e a domandarle se avesse bisogno di qualche cosa. Ed eran passati dei mesi. Si risolveva dunque a venire? Riprendeva le sue visite? C’era qualche cosa di nuovo? Tutte domande che donna Eufrosina si rivolse in un momento.


Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo al tempo di Marco Antonio Colonna. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Prezzo di copertina € 24,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile presso Librerie Feltrinelli

Luigi Natoli: La fontana di Marco Antonio Colonna. Tratto da: La dama tragica

La strada sul mare era già bella e compiuta. Correva da un bastione all’altro. Dal punto cioè dove fu poi aperta la Porta Felice, fin poco più in là della porta dei Greci, dove cominciava l’altro baluardo. Non era così larga, come fu qualche secolo dopo; ma sufficiente perché vi potessero passeggiare carrozze e lettighe e portantine, cavalieri e pedoni. E quella estate la gente vi accorse a godere il fresco nei pomeriggi sereni, pregni degli odori marini.
Marcantonio però pensava che un passeggio senza ornamenti non dissomigliava da una strada qualunque; ci volevan sedili per coloro che non volessero passeggiare, statue, fontane. Bisognava cominciare anzi con una bella fontana. Acqua a Palermo non ne mancava: marmi e scultori non ne facevan difetto. L’idea era venuta, perchè non metterla in atto?
Mandò a chiamare l’architetto don Antonio Mottone, che godeva fama d’essere dei migliori, e gli commise l’incarico:
- Voglio che sia una bella fontana; e non guardate alla spesa: la città può ben pagarne le spese. Ma prima di tutto portatemene il disegno. E presto.
Il disegno fu portato tre giorni dopo: semplice ed elegante. Due belle conche, una abbastanza grande, sorretta da un piedistallo, poggiato sopra gradini; l’altra più piccola, sovrapposta alla prima, sorretta da mostri marini, dalle cui bocche scaturiva l’acqua nella vasca grande. Dal centro della piccola conca si sollevava una sirena che premevasi le poppe donde scaturiva l’acqua.
- Bene, – approvò Marcantonio, – mi piace; scegliete lo scultore per la sirena: voglio che sia bella.
- Se Vostra Eccellenza non trova difficoltà io le proporrei di affidarla al maestro Vincenzo Gagini.
Quella stessa notte Marcantonio disse alla baronessa:
- Donna Eufrosina, io voglio perpetuare la vostra bellezza, perchè nei secoli si ricordi e raccolga intorno a voi quella ammirazione che ha fatto di me il vostro schiavo.
Ella sorrise di quella adulazione, e disse:
- Ahimè, signor mio; la bellezza è caduca; e nessun rimedio potrà impedire che essa avvizzisca...
- Può avvizzare la carne mortale donna Eufrosina; ma credete voi che avvizzirà mai la bella Fornarina effigiata da Raffaello nelle sue tele, o la maschia bellezza del David di Michelangelo? Io eternerò il vostro volto sul marmo...
Donna Eufrosina arrossì di piacere.
- Come? voi vorreste...
- Voglio dare il vostro volto a una sirena marmorea, che porrò in una fonte... Qual altro volto potrei darle? Non siete voi la sirena incantatrice? poi, la sirena è la mia impresa; e voi la signoreggiate... Ho mandato a chiamare lo scultore, maestro Vincenzo Gagini... Ve lo manderò qui per fare il vostro ritratto...
Una nuova fiamma di piacere salì sul volto di donna Eufrosina; ma non senza timidezza.
- Maestro Vincenzo verrà quì a fare un ritrattino di cera, che penserà poi a ingrandire nel marmo nella sua bottega.
Donna Eufrosina tentò ancora qualche obbiezione ma invano. Marcantonio fu irremovibile; ed ella che in fondo aveva fatto quelle osservazioni per mettersi in pace con la sua coscienza, e aveva gran piacere di essere ritratta sotto le sembianze della sirena, non disse più nulla…

Nota dell'autore: Questa graziosa fontana fu posta nella passeggiata a mare, quasi di contro a Porta dei Greci. Allargatasi la passeggiata e tolte via le tre fontane che l’adornavano, questa della Sirena, che ritraeva la baronessa del Misilindino, fu trasportata nel piano di S. Teresa, oggi detta Piazza dell’Indipendenza. Ma tra il 1862 e il 1864 – non ricordo bene – fu tolta anche di lì. Le vasche furono fatte a pezzi per brecciame: dei mostri e della Sirena non si seppe mai, né si cercò di indagare che ne fosse divenuto!... Oh la sapienza amministrativa e la cultura storica degli amministratori di Palermo in quegli anni… e anche dopo!... Quanti vandalismi furono compiuti! 


Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo al tempo di Marco Antonio Colonna. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Prezzo di copertina € 24,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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martedì 15 gennaio 2019

Luigi Natoli: La morte di donna Aldonza Santapau, baronessa di Militello. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

Fra i giardini si allungava il sentiero bianchiccio, in fondo al quale si alzava la chiesa di Sant’Antonio, col suo campanile acuminato, che sorgeva dolcemente fra gli alberi sonnecchianti.
Era la chiesa dove egli, Antonio Barresi, era andato a sposare donna Aldonza; ed era là che ogni mattina andavano a sentir messa. Placida e chiara chiesuola, dove le labbra delicate di donna Aldonza avevano per la prima volta strette quelle del marito desideroso. Oh, qual folla di ricordi e di sentimenti non si riversò nell’animo di lui, in quel momento, contemplando la lontana chiesuola, silenziosa e tranquilla nella pace di quella notte luminosa!... Strinse la testa fra le mani, mentre ruggivagli la passione nel cuore. Ah, quelle notti d’amore, al chiaro della luna che penetrava nella camera del castello, come un fascio d’argento! Ella, tutta bianca, sotto il mite splendore della luna, coi capelli spioventi sulle spalle, sorridente, affascinatrice dritta in mezzo alla camera, attendeva il marito... Il signor Antonio la rivedeva così; e mentre la memoria gli dipingeva il passato vivamente, egli stringevasi le mani disperatamente; ed ululava il dolore cupamente dentro l’anima sua, come lupo affamato nelle notti invernali.
Abbandonò la finestra, preso da un subitaneo impeto di odio per quel paesaggio così tranquillo, mentre egli dibattevasi nella tempesta della gelosia; con passi concitati, sospinto da una bramosia di sangue che lo accecava, uscito dalla stanza, attraversò un corridoio e aperse un uscio che vi era in fondo; ma si fermò sulla soglia. Dalla finestra penetrava un quadrato di luce tenera sul pavimento verdognolo: e in mezzo a quella luce, dritta e bianca donna Aldonza, con le mani abbandonate sul grembo, stava contemplando il paesaggio; stava così, come l’aveva veduta egli nei giorni della felicità.
Ella era così assorta, che non sentì l’entrar del marito, e il signor Antonio non si muoveva, assorbito com’era da quella visione che lo riconduceva ai suoi giorni di gioia e d’amore. Un nodo di pianto gli saliva alla gola e lo soffocava; tremò di commuoversi; volle vincere sé stesso, volle dimenticare quel passato per non vedere che la miseria presente; ma nello sforzo un singhiozzo ruppe dal suo petto.
Donna Aldonza trasalì spaventata, voltossi, e visto il marito così sconvolto, rimase pallida e senza moto, né seppe profferire parola.
Stettero entrambi in silenzio nella camera illuminata dai riflessi, che s’irradiavano dal quadrato di luce descritto dalla luna sul pavimento: nella quasi oscurità il letto appariva di una bianchezza dubia e velata; qua e là gli smalti delle maioliche e le dorature di un mobile mandavano dei tenui lampi di luce; e in mezzo alla camera immobili, silenziosi, donna Aldonza e il signor Antonio si guardavano: ella tutta inondata di luce, egli immerso nell’ombra, ma gli sfolgoreggiavano di ira, di amore, di gelosia gli occhi e l’acciaio delle armi.
Finalmente ella disse:
- Che è dunque tutto questo che accade, signore?


Luigi Natoli: I Santapau. 
Raccolta di storie e leggende nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Per dare un quadro completo sugli studi dell’autore riguardo il tragico caso della Baronessa di Carini, sono stati aggiunti: La signora di Carini, leggenda inedita pubblicata sul Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910 con pseudonimo di Maurus; Un poemetto siciliano del XVI secolo, da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910"; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it con lo sconto del 15%
Disponibile on line e presso La Feltrinelli Libri e Musica Palermo
Nella foto la Chiesa di S. Antonio descritta dall'autore. 
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Luigi Natoli: Il ballo della morte (I Santapau) Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue

Certo fu spaventevole l’ingresso del barone Antonio Barresi nel suo castello. Il Bellopede era legato sul dorso di una mula, livido e pesto, dietro venivano i familiari del barone con la fronte bassa, tremanti, muti, atterriti dalla collera del padrone. Donna Aldonza, che aveva veduto venire la comitiva, ed era venuta a pie’ della scala a ricevere il suo signore e marito, visto il Bellopede in quello stato, levò un grido di spavento.
Antonio Barresi sorrise ferocemente.
- Ve lo riconduco, donna Aldonza, non certo come speravate voi!
Ella guardò il marito, senza intendere nulla, e lo seguì nelle stanze, mentre due schiavi, due mori alti e robusti, toglievano Bellopede dalla mula e lo trasportavano nella soffitta della gran torre.
Calava già il sole dietro i monti, e spandeva una luce sanguigna per tutta la campagna. Le mura del castello rosseggiavano tristamente; ed intorno ad esse pesava un silenzio fosco e pieno di paure. Sulla terrazza della gran torre, Antonio Barresi aveva fatto trascinare il povero segreto.
- Ebbene, Bellopede, non sei tu commosso del grido di dolore della tua padrona?
Bellopede non rispose; soffriva orribilmente per le staffilate ricevute la notte innanzi e per le torture inflittegli dal padrone lungo il viaggio.
- Non rispondi, Bellopede?... Vuoi tu che chiami donna Aldonza?... E dimmi dunque... non sei stato tu felice?
Bellopede guardò il padrone fisso negli occhi; misurò lo stato in cui si trovava; comprese che la morte lo attendeva, e allora, il desiderio di vendicarsi gli accese sinistramente gli occhi; volle, morendo, vibrare un colpo di pugnale nell’anima del padrone, e sorreggendosi sui pugni, levata in alto la faccia rispose:
- Io non ho commesso tal peccato, o signore, e non m’è venuto in mente di commetterlo; ma se l’avessi fatto, giuro a Dio, che ritornerei volentieri a farlo!...
Antonio Barresi non udì, non vide più nulla, soffocato dall’ira e dalla gelosia, si precipitò sul segreto, gli pestò il volto, poi presolo pei piedi lo precipitò giù dalla torre; e si affacciò tra’ merli per vederlo sfracellarsi sulle rocce.
Il corpo di Bellopede girò più volte nell’aria, e tonfò cupamente sul terreno, schizzando sangue da ogni parte.
Allora il barone scese, seguito dagli schiavi; staccò un cavallo dalla scuderia, e uscì sulla ispianata. Bellopede non era ancor morto; di tratto in tratto le sue membra davano un guizzo che agitava il lago di sangue dov’erano immerse. Antonio Barresi contemplò quel corpo informe con feroce compiacenza, poi lo fece legare a una tavola, e la tavola fece attaccare alla coda del cavallo; e siccome scendeva la notte e l’aria si faceva nera, ordinò ai suoi schiavi che togliessero le torce.
Sferzato il cavallo, lo strano e spaventevole corteo scese dalla spianata del castello, verso il borgo, levando alti e terribili urli. I vassalli si affacciavano curiosi, ma a vedere l’orrida scena si ritraevano nelle case, coprendosi gli occhi. E intanto il cavallo scalpitava sulla selce, trascinando il miserabile cadavere, e i servi resi ebbri dallo spettacolo, ululavano squassando le faci: guizzava la luce sanguinosa sul cadavere, sulle case, sul cavallo, e illuminava tristamente la fosca figura di Antonio Barresi, che seguendo il corteo sputava sul volto del supposto rivale...



Luigi Natoli: I Santapau. 
Raccolta di storie e leggende nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892.
Per dare un quadro completo sugli studi dell’autore riguardo il tragico caso della Baronessa di Carini, sono stati aggiunti: La signora di Carini, leggenda inedita pubblicata sul Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910 con pseudonimo di Maurus; Un poemetto siciliano del XVI secolo, da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910"; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
Prezzo di copertina € 21,00
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Luigi Natoli: la leggenda del Crocefisso della Cattedrale. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue

Un giorno, era nel 1219, dalle moltitudini del Monte Carmelo giungeva ad Alessandria un vecchio eremita: pallido, affranto dal lungo viaggio, egli non chiese un ospizio per posare le membra, né un’osteria per rifocillare le forze; i suoi occhi sfavillavano di una luce strana: egli chiese dove fosse il palazzo del patriarca, di Atanasio palermitano, della nobile famiglia dei Chiaramonte.
E quando egli fu al conspetto del patriarca:
- Padre, benedicimi! – disse – io sono Angelo eremita; vengo da Monte Carmelo; recomi per divin volere a Palermo... Ho avuto una visione, ho visto il Signor nostro, che mi ha detto: “Sorgi, o figlio, e portati ad Alessandria: ivi il vescovo ti darà la mia immagine scolpita da Nicodemo, le reliquie di Giovanni Battista, di Geremia profeta, di Giorgio, e l’immagine della Madre mia, dipinta da Luca; affinchè trasportati in Italia, si sottraggano al furore degli empi”. Ed eccomi a te, o padre; benedicimi, e compi il volere di Dio!
Atanasio abbracciò il frate, si inginocchiò e sclamò:
- Te beato, o figliolo, cui la pietosa opera fu affidata!
E così Angelo ebbe il prezioso carico ed entrò in mare; e dopo avere alquanti dì navigato, giunse in Palermo, e cercò il fratello di Atanasio, il magnifico Federico Chiaramonte, signore di Caccamo, cavaliere di Papa Onorio III, e difensore della Fede.
Quando si seppe di questa venuta, in folla trasse il popolo al porto, parendo a ognuno uno speciale favore del cielo. E il Crocifisso in solenne processione attraversata la città vecchia, per la porta di Bosuemi passò nella Brigaria e di lì nella Kalsa, fino alla chiesa di S. Nicolò dove era la cappella dei Chiaramonte. Ed ivi fu deposto il bel Crocifisso di Nicodemo nell’anno 1220.
Passano cento anni: altra gente è a Palermo, altri usi. Francesco Antiocheno è arcivescovo, e Manfredi Chiaramonte il più potente barone dell’isola.
Un bel giorno Manfredi, che sognava sempre nuovi favori da concedere ai suoi concittadini, fa levare il Crocifisso di Nicodemo, e l’offre in regalo alla Cattedrale.
- Non è giusto che opera sì illustre, anzi divina, abiti una cappella privata: appena gli è degna stanza la vasta cattedrale gotica.
E una processione più grande, più ricca della prima, più solenne, trasporta il simulacro. I canonici in paramenti lo ricevono sulla porta d’ingresso, e fra il salmodiar grave e il fumo degli incensi, la sacra effigie è condotta per le navate della chiesa.
Ma alla folla non basta l’aver accompagnato l’effigie; i più vicini hanno avuto la ventura di baciare i piedi crocifissi, ma i lontani? Tutti vogliono godere lo stesso favore; gli ultimi sospingono quelli che sono avanti; né gli arcieri di Manfredi Chiaramonte bastano a sostenere l’urto de la folla; nessuno vuole andare a casa senza aver baciato i piedi del Redentore; onde Francesco Antiocheno, ordina che la folla stia da una delle navate, e a uno per volta vengano a baciare i piedi del Crocifisso, che vien deposto sopra gli scalini di un altare.
Nessuna distinzione di grado, riguardo alla ricchezza e alla signoria; plebe e baronia, miseria e dovizia, si affollano, si pigiano, si addossano, spinti dalla bramosia di giungere presto.
E vi è chi spingendosi a furia di gomiti passa innanzi, e chi serpeggiando destramente fra le gambe, giunge alle prime file; nella calca, nella pressura che sempre più si stringe, vi ha chi vien meno; altri rimane come strozzato; altri colto dalla paura di morire, chiede ad alta voce un po’ di spazio. Ma la folla va, cresce, incalza; fuori della chiesa, nella piazza, altra gente attende che quelli che son dentro escano, e per l’impazienza freme.
Una popolana, povera e sudicia, si accosta al Crocifisso…



Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Raccolta di storie e leggende nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Per dare un quadro completo sugli studi dell’autore riguardo il tragico caso della Baronessa di Carini, sono stati aggiunti: La signora di Carini, leggenda inedita pubblicata sul  Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910 con pseudonimo di Maurus; Un poemetto siciliano del XVI secolo, da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910"; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
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Nella foto il Crocefisso della Cattedrale, ubicato nella navata sinistra all'altare.

lunedì 7 gennaio 2019

Luigi Natoli: Il cimitero dei giustiziati. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

Le soldatesche si raccolsero, si ordinarono, tornaron via; i preti si avvicinarono ai cadaveri, li benedissero, e si allontanarono anch’essi pallidi e convulsi; sul luogo infame rimasero, tra le panche rovesciate, quei nove corpi, che versavan sangue dalle orrende ferite; e pochi gendarmi e birri incaricati di fare eseguire l’ultimo ufficio.
Allora i confrati si avvicinarono; qualcuno si chinò per toglier le bende a quegli occhi che non vedevan più. Tullio, con le mani tremanti, volle sbendare il suo Giuseppe. Ahimè, quale scempio le palle austriache avevan fatto del mite e poetico giovane! Il colpo di grazia gli aveva sfracellato l’occipite, una palla gli aveva attraversato la gola, un’altra il cuore: pure gli occhi eran rimasti aperti e sereni, e pareva che cercassero ancora nel cielo i sogni fuggiti con l’anima.
Tullio lo baciò singhiozzando, e mormorando parole incomprensibili.
- Deve esser un parente; – mormorò uno dei confrati.
Poiché egli s’indugiava, e bisognava invece affrettarsi a caricare quegli avanzi sanguinosi per andare a seppellirli nel cimitero dei giustiziati, un birro si avvicinò a Tullio, e urtandolo in malo modo, gli disse:
- Ohè, amico, non vorrete certamente che facciamo i vostri comodi!... avrete agio di piangere a casa, vostra. Se c’è da piangere...
Tullio si alzò: fremeva d’ira e di dolore, ma un gesto, una parola imprudente potevano comprometterlo.
Si ritrasse e lasciò che i becchini gittassero quei corpi ancor tiepidi, l’uno su l’altro, sui carri, e li coprissero della ruvida tela. Quando questa lugubre e inumana cerimonia fu compiuta, e i carri si mossero, accompagnati da quattro birri, Tullio li seguì.
Lungo il tragitto, il sangue che scorreva dalle fessure del carro segnava il cammino.
Il cimitero dei giustiziati era dalla parte opposta della città, sul fiume Oreto, a pochi passi dal famoso ponte Ammiraglio, dove, trentotto anni dopo, Garibaldi avrebbe in una bell’alba di maggio vendicate quelle vittime. Non potendo per ragioni facili ad intendersi attraversare la città, i due carri percorsero la strada intorno alle mura, il che triplicava il cammino. Quella strada era allora affatto campestre; appena qualche casetta qua e là; poi orti e mura, e si poteva andar più spediti, e senza sospetto di incontri. 
Per far più presto, i birri montarono sui carri sedendo accanto ai cadaveri, senza provare il menomo ribrezzo; e allora, sferzati i cavalli, i carri si affrettarono. Tullio andò per le strade interne più brevi.
Quando giunse al cimitero, i carri avevano scaricato la sanguinosa soma nella fossa carnaia scavata fin dalla mattina, e se n’erano andati coi birri; nel piccolo cimitero che precedeva la chiesetta non v’erano che gli interratori, che ricoprivan la fossa, e il cappellano, che dritto sulla soglia della chiesa assisteva all’ultima cerimonia.
Ancora oggi quel piccolo cimitero, chiuso da alto muro, coi pochi cipressi vegghianti sulle nude fosse ora dimenticate, desta nell’animo un sentimento di pietà e di raccoglimento, e talvolta anche un brivido di superstizioso terrore. A un angolo, impegnata al muro vi è oggi una piccola piramide, di muratura; allora vi era invece una piramide macabra di teschi umani; teschi di giustiziati, separati empiamente dai corpi, ed esposti a pubblico ammonimento.
Per un cancello si entra nel recinto; dove allora né lapidi, né ricordi eran consentiti; i corpi dei disgraziati che cadevan sotto il rigore estremo della giustizia, vi eran sepolti senza onore di pianto e di cerimonia. Ma la pietà e la superstiziosa divozione del popolo non dimenticava quegli infelici, e largiva elemosine che non facevan mai mancare suffragio di preghiere e di messe. Credeva  e crede ancora il popolino che le anime dei giustiziati abbiano la virtù di rispondere alle preghiere dei devoti, che vanno a visitar le loro tombe, recitando alcune preghiere speciali e offrendo il loro obolo; e questa superstizione ha impedito che sul piccolo cimitero pesasse con l’onta anche  l’abbandono.
Ivi si eran seppelliti i ladri e gli assassini morti sulle forche o di mannaia; con quei nove per la prima volta vi si seppellivano i rei di cospirazione politica. I re di Borbone accomunavano i patriotti con la feccia degli uomini; li accomunavano negli ergastoli e nei cimiteri. Rubare e ammazzare il prossimo, e desiderare la libertà politica e vagheggiare un’idea di bellezza civile e morale, eran per quei re delitti uguali; forse anzi questi erano peggiori di quelli.
Tullio non potè avere l’ultima consolazione di veder seppelliti meno barbaramente i suoi compagni; ma entrò nella chiesetta, piccola e bianca, e stanco e abbattuto dal dolore, si lasciò cadere in ginocchio dinanzi a una sedia. Non c’era nessuno; dalle finestre scendeva una luce smorta, che illuminava foscamente un quadro, nel quale sopra un ampio piatto si vedeva la testa recisa e sanguinante del Battista.
Il Cappellano rientrò con passo lieve nella sacristia, senza guardare il solitario confrate, che pareva immerso nella preghiera. Ma Tullio non pregava: si domandava ora che cosa gli rimaneva a fare. Sperare in una ripresa più gagliarda e più fattiva della cospirazione, era una follia. Quel massacro di nove cittadini, senz’altra colpa che d’essere Carbonari, aveva diffuso nella città un senso di terrore e costretto alla fuga o alla circospezione anche i  più arditi. Per riprendere il lavoro segreto e preparare una nuova sollevazione, occorreva lasciar trascorrere qualche tempo, e illudere il Governo con una apparente quiete… Ma intanto?
Che cosa avrebbe egli fatto? Poteva aspettare questo tempo migliore nelle spelonche di S. Ciro, dormendo per terra, esposto alle intemperie, e con la minaccia sospesa sul capo? L’esilio? Sì: ecco quel che gli rimaneva. 

Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820. Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
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