Don Saverio La Monica, aromatario,
aveva la sua bottega nella strada della Gioiamia. Aromatario significava, in
quel tempo, farmacista. Era un uomo più che maturo, che passava la vita dietro
al banco, a pestare, impastare, mescolare, far pillole, cartine di polveri,
elettuarî, sciroppi ed emulsioni. Con gli occhiali sul naso, le maniche
rimboccate, eseguiva le ricette, barattando una parola con questo, una con
quell’altro avventore. E di avventori non ne mancavano, perché in tutto il
quartiere del Capo, nessun aromatario godeva tanta buona riputazione, quanto
lui, perché aveva la bottega fornita di tutte le medicine prescritte
dall’ordinanza del Pretore che rivestiva la carica di proto-medico della città;
ma anche perché inventava certe misture efficacissime; e sapeva dare consigli
medici.
La bottega si riconosceva la lontano,
per il gran mortaio di marmo, posto sopra la soglia su uno sgabello un po’
sporgente in fuori; insegna questa comune a tutte le farmacie del tempo. Ai
lati lungo gli stipiti c’erano due tabelle non grandi, rettangolari, in una
delle quali un pittore da insegne aveva dipinto il bastone di Esculapio coi due
serpenti attorcigliati, e una leggenda latina: Altissimus creavit de terra
medicamenta et vir prudens non abhorret ab illis; nell’altra tabella era
dipinto Sant’Andrea protettore degli speziali, con la leggenda: Cedite vos, qui
consulitis mortabilus artes; vis vestra ex nostraque statque, caditque manu. La
stanza, che serviva da bottega, non era molto grande: e aveva uno scaffale in
fondo, che occupava tutta la larghezza della parete; in mezzo alla quale in
basso era una porticina, donde si passava nel laboratorio.
Altri due scaffali si partivano da
quello di fondo, della stessa altezza, ma si arrestavano a metà della stanza.
Nello spazio vuoto, da un lato c’era il torchio, indispensabile a ogni
aromatario per fabbricare olio di mandorla o di ricino; dalla parte opposta
v’erano addossati alla parete alcune sedie molto sudicie e con l’impagliata
rotta in qualche punto. Sulla cornice dello scaffale in fondo v’era un quadro
che rappresentava la Vergine, dinanzi alla quale ardeva una lampada. Sotto, nel
fregio, era dipinto a grandi lettere: Salus Infirmorum, che poteva ben
riferirsi alla Vergine come ai medicinali. I quali facevano bella mostra, non
di sè, ma dei recipienti in cui erano conservati. Erano vasi smaltati, della
stessa grandezza, a vivaci colori, tutti di una forma allungata, che si
restringeva dolcemente a metà dell’altezza, per riallargarsi gradatamente alla
base; con uno scudo bianco incorniciato di giallo, in mezzo al quale era il
nome del medicinale. In dialetto si chiamavano burnii. Nello scaffale laterale,
di destra, queste burnie avevano forma di bocce panciute, con un collo breve,
ed erano smaltate in bianco e azzurro, col nome del medicinale in nero.
Nell’altro scaffale laterale, a sinsitra, erano bocce, bottiglie, boccette di
vetro e vasetti bianchi, cilindrici. La ricchezza ed il lusso di una farmacia
d’allora erano nei vasi smaltati, ai quali gli antiquari han dato una caccia
spoliatrice, approfittando dell’ignoranza dello snobismo dei farmacisti.
Spesso il medicinale non c’era; ma la
burnia non mancava. Chi andava per comperare due grani di conserva di rose
rosse, poteva leggere sulle bocce e sulle bornie i nomi della Polvere di
Guttetta, per guarire la eclampsia dei bambini, del Sebeston, dello sciroppo di
vibello, di cicoria, di reobarbaro e di spinapontico; della conserva di fior di
persico, del diascordio, dell’elettuario di Giustiniano Imperatore,
dell’alckool (sic), fluore, dell’acqua teriacale, della Quarteccia rossa, delle
pillole di Lancellotto, e di quelle di tartaro di Bonzo, e delle universali di
Becherio; dell’estratto di scilla acoso, della tintura anglicana, del grasso di
vipera; dello specifico cefalico Michaele, del sale sedativo di Homberg,
dell’impiastro di Simone de Pacello e di quello de Ranis, del trocisco di
Aradonis Abbatis, del vitriolo di Marte, e via via dicendo: medicinali nostrani
e stranieri; e poi gli olii di mandorla, di lino, di ruta, di scorpione;
polveri di assa fetida, agarico: i sief, ossia collirii; e finalmente i veleni,
arsenico, laudo liquido, cantaride, ecc.
Insomma la spezieria di don Saverio La Monica non mancava di nulla. Essa
era fornita di quanto occorreva pei ricchi e pei poveri, secondo l’ordinanza.
Sul banco v’erano le bilancette e i pesi, e la carta tagliata a quadretti per
avvolgere le polveri e turare le boccette.
Nella retrobottega, poi, v’erano storte,
lambicchi, tubi, matraci, un grande fornello, fornellini portatili, boccioni
grandi, recipienti di varia misura di porcellana, di vetro, di rame. Ma
dappertutto v’erano le vestigia delle mosche, v’era dell’unto di olii e di
pomate; e un odore nauseabondo composto di tanti odori diversi. Non se ne
doleva nessuno, perché vi si era avvezzi; e poi, perché don Saverio sapeva con
le sue storielle divertire i clienti che erano costretti ad aspettare la
manipolazione delle medicine.
Di tanto in tanto qualche medico di
passaggio faceva fermare la portantina dinanzi la bottega, e veniva a far
quattro chiacchiere con don Saverio, e, chi sa? ad acchiappar qualche cliente:
Don Saverio, per questo, si prestava volentieri a procurarne: e i medici gli si
mostravano grati mandando i clienti a spedire le ricette da don Saverio alla
Gioiamia, che era un aromatario valentissimo. Aveva fatto pratica nella
spezieria dell’ospedale, e sostenuto l’esame di abilitazione dinanzi al Nobile
e Salutifero Collegio degli Aromatari, magistrato supremo dell’aromataria; e
chi volesse vedere il diploma munito di bollo e la licenza di tenere bottega,
egli li aveva in due quadretti, appesi di qua e di là sulle pareti.
Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno l'avvelenatrice, passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
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