Il Vespro siciliano

C’era per tutta la pianura una mischia spaventosa e crudele. Diciassette anni di servaggio, di crudeltà subite, di violenze, d’infamia sofferte, diciassette anni di vergogne e di torture pareva avessero adunato tutte le loro collere in ogni braccio: la vendetta imprigionata da diciassette anni in ogni cuore pareva balestrare nei muscoli, dilagare nel sangue, diventare volontà nelle mani, tramutarsi in lama, in legno in urlo!” Leggere Il Vespro Siciliano ci fa sentire orgogliosi di essere siciliani: la rivolta che parte da Palermo quel 31 marzo 1282, improvvisa e violenta, la rinascita di un popolo che dopo diciassette anni di tirannide e soprusi da parte degli angioini, lotta con armi improvvisate, riuscendo a coinvolgere tutta la Sicilia mandando via il tiranno dall’Isola, è un fatto che, come dice Luigi Natoli “segna nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda”.

I PERSONAGGI

Al centro del romanzo, ovviamente, il Vespro siciliano e quando accadde prima e dopo. Natoli fa muovere personaggi realmente esistiti, che hanno fatto la storia di questo grande avvenimento. Madonna Macalda, figura femminile che occupa quasi tutta la scena della narrazione: “Allora la collera le gonfiò il cuore, l’odio divampò nel suo sguardo, e cupa, fremente, abbandonò l’ospizio e riprese il cammino”, Messer Palmerio Abate, Messer Ruggero di Mastrangelo, Messer Alaimo da Lentini. Ad essi si fondono i protagonisti di invenzione, come Giordano e Odette.
Così Natoli presenta i protagonisti de Il Vespro siciliano, in ordine di apparizione:
Il Sire de Flambeau, capo delle milizie del Regno e padre di Odette “Il personaggio chiamato sire de Flambeau, che raccontava le gesta delle sue quattro lance spezzate, era un uomo sulla cinquantina, alto e possente, con i capelli grigi tagliati sulla fronte cadenti a zazzera tonda sulle tempie e sul collo, gli occhi di gatto e il naso in su.” 

Giovanni de Saint Remy, Giustiziere del Regno
Il visconte era un uomo sui quaranta; volto tra il lupo e la volpe, maniere da capo di banditi.

Le lance spezzate: Gastone de Brandt, Bertrand e Taxeville, Ugo de Saint-Victor, Drouet de Genlis; età dai venticinque ai trentadue anni. Gastone de Brandt discende in linea diretta dai Galli: alto, rossiccio, arguto, mobile; Bertrand de taxeville sembra balzato dalle gesta di Rolando; squadrato, massiccio, fiero; Ugo de Saint Victor è schietto provenzale; bruno, molle, immaginoso; Drouet de Genlis deve aver avuto per avolo un canonico di Strasburgo ingrassato di pasticci di fegato d’oca. Sono uguali per valore; amano le belle donne, il buon vino le belle canzoni; bastonano questi paterini di Palermo; rubano gli ebrei e sono prepotenti più di quanto si possa immaginare

Giordano de Albellis, protagonista maschile del romanzo di fantasia dell’autore “Era un giovane di forse venticinque anni giusto di statura e di membra, con una bella e nobile testa. Bruno di volto e di capelli, gli occhi grandi, neri e profondi, la linea del naso, la bocca un po’ grande, il mento squadrato, avevano qualche cosa di forte, forse anche di violento, ma la fronte e lo sguardo avevano il segno della nobiltà della stirpe.

Raone de Albellis, difensore di Agosta e padre di Giordano “Messer Raone era piuttosto taciturno, sobrio di gesto, forse anche duro, ma di un coraggio che rasentava l’audacia e di una freddezza dinanzi ai pericoli che spesso lo salvava dagli impicci. Tra gli Agostani e i cavalieri ghibellini aveva fama di valoroso e poco a poco era divenuto un condottiero.

Odette de Flambeau, protagonista femminile del romanzo “Il giovane era rimasto stupito dalla bellezza di quella novizia; una bellezza nella quale la soavità si avvicendava e talvolta si fondeva con una certa vivacità birichina. I grandi occhi ceruli avevano nell’aria di stupore e di vergogna un tenue riso di malizia; e il naso piccolo, un po’ all’insù, aveva un non so che di impertinente, che rendeva ancora più dolce la curva malinconica delle labbra.

Filippo di Taccono, difensore di Agosta “Era un uomo che aveva superato la quarantina; alto, di spalle larghe, con un volto severo, sul quale l’angoscia aveva impresso un solco profondo. All’apparire del sole, egli s’era levato in piedi e di sullo scoglio aveva rivolto uno sguardo alla città: due lacrime silenziose gli scesero giù per le guance immobili”… “L’immagine del vecchio ferito gli si era a un tratto affacciata nella memoria. L’onda di sangue che gli copriva il volto, e più la confusione tumultuosa di quel momento gli avevano impedito di riconoscere il vecchio Filippo che lo aveva tirato nella barca, l’aveva curato, l’aveva accompagnato a Catania da Madonna Macalda



Madonna Macalda
, personaggio storico: “A ventiquattro anni madonna Macalda era giovane, ricca ed era bella, di aspetto gentile, piena di cortesia, di gran cuore, valente, generosa nel donare, avida di piaceri. Confidando nella sua bellezza andò a Napoli per riavere da re Manfredi i beni del marito, dei quali il fisco si era impadronito... Era bianca con i capelli bruni, gli occhi nerissimi, eloquenti, voluttuosi, le membra tondeggianti ma senza aver perduto la grazia e la sveltezza; la voce molle, pastosa; una di quelle voci che scendono fino alle midolla; il sorriso affascinante. Ella pareva fatta per accendere nei cuori tutti i desideri e tutte le follie




Gamma Zita
, la giovane catanese, famosa per aver preferito la morte alla violenza del francese suo persecutore: “Gamma Zita aveva quattordici anni ed era esile come un giglio; la femmina non osava ancora impadronirsi del suo corpo sul quale i seni e i fianchi tondeggiavano timidamente. Ella pareva davvero una creatura angelica dalle lunghe vesti ondeggianti, che i pittori effigiavano intorno alla Vergine… Tesseva al telaio impiantato in un angolo della prima stanza e viveva sottomessa e rispettosa verso i nonni, dei quali era la consolazione e la gioia… Gamma era veramente la più bella fanciulla di Catania. Come mai il sire di Saint Victor non l’aveva veduta prima? Se l’avesse conosciuta un mese prima egli si sarebbe fatto amare ed avrebbe ottenuto per amore quello che ora le avrebbe tolto per forza… Un grido ferì l’aria e nel tempo stesso la massa bianca della fanciulla sparì nella bocca del pozzo!... I capelli neri disciolti le scendevano ancora umidi e rappresi sopra le spalle e sul petto, incorniciandole il volto cereo, soffuso di quell’indefinibile dolore della morte..”

Selvaggetta, figlia di Tomaso di PurificatoSelvaggetta era la minore; il nome si conveniva alla persona…e poi Selvaggetta gli ricordava Gamma Zita e aveva forse gli stessi anni, e se nei  momenti d’ira il suo volto e i suoi occhi prendevano una espressione veramente selvaggia, ora nella calma aveva lo stesso sguardo dolce e tremante e lo stesso pallore di perle della povera fanciulla di Catania. Ella riaprì gli occhi e lo guardò raccogliendo in quello sguardo tutta la passione che l’aveva trascinata a quel suicidio; non disse una parola, ma tutto il suo volto, che si era imporporato, e le sue labbra frementi, che dischiuse andavano, esprimevano un supremo desiderio. Egli lo capì: tremò, ebbe pietà, si chinò, pose la sua bocca su quella bocca avida, e vi stette.”

Messer Palmerio Abate personaggio storico A quei tempi era signore del Castello di Carini messer Palmerio Abate, di nobile famiglia; uno dei pochi sul quale non era calata la mano dei dominatori…Messer Palmerio del resto usava la più grande prudenza e non faceva nessun rumore intorno al suo nome. Era umano e generoso. Non giungeva viandante, povero o ricco, uomo di plebe o di cavaliere, che nel castello non trovasse larga ospitalità, e se povero non partisse con qualche dono. Messer Palmerio aveva varcato la quarantina, ed aveva i capelli precocemente bianchi che davano al suo volto un’espressione di maestà. Giordano parve preso da una certa soggezione al vederne l’aspetto signorile e dignitoso.

Messer Ruggero di Mastrangelo personaggio storico “Messer Ruggero, cittadino e primario dovizioso, era stato baiulo, cioè giudice del regno di Sicilia in Palermo nel 1272, e appaltatore della Zecca del regno a Messina, nel 1280Messer Ruggero, uscendo in quell’istante dalla Chiesa, con uno sguardo capì il gran momento, e raccolte le armi di un cavaliere caduto, alzando la spada gridò – Popolo! Alla riscossa! Muoiano tutti i francesi!...E intorno a loro si strinsero popolani e borghesi, armati o no, ripetendo quel grido, cosicchè messer Ruggero, noto per gli uffici tenuti, per la ricchezza, per l’autorità, diventò senza volerlo il capo, il condottiero di tutta quella moltitudine che, buttata la pelle di agnello rassegnato, appariva formidabile come belva sitibonda di sangue.”

Messer Alaimo da Lentini
, personaggio storico nella città di Messina e marito di Madonna Macalda: “All’entrare dei due giovani, e vedendo uno dei due in saio di frate, messer Alaimo fece cenno che gli si avvicinassero e guardatili benignamente domandò loro chi fossero e in cosa potesse giovarli”..”Ai racconti di Giordano,  Alaimo  corrugava la fronte e si faceva scuro. Qualche volta stringeva i pugni….” Era Messer Alaimo da Lentini, che tornava a Messina. Egli salutava la folla con gesto benevolo. Ben visto, onorato, noto cavaliere prestante e valoroso e cittadino saggio e prudente, messer Alaimo pareva venuto per disegno della provvidenza alla difesa di Messina”  

Re Pietro d’Aragona, nuovo Re di Sicilia,
personaggio storico “Era il 4 settembre del 1292, e la capitale dell’Isola, l’antica sede dei Normanni e degli Svevi era in festa. Da più giorni si era preparata ad accogliere il nuovo Re, Pietro di Aragona e lo aveva aspettato… essa aveva, spiegandosi alla meglio, magnificato il valore del re, che era il principe più animoso e prode della cristianità, e che veniva pieno di fiducia nella sua causa, di liberare il regno di Manfredi, di cui si riteneva legittimo erede, dall’usurpatore angioino. Si raccontavano di lui magnifiche gesta, che riempivano di ammirazione il popolo. Il re cavalcava, lieto in volto, fra i suoi maggiori baroni, coi quali discorreva familiarmente. Gli cavalcava accanto messer Palmerio Abate, che dopo averlo ricevuto a Trapani sotto un baldacchino di tela d’oro sorretto dai principali signori, e salutatolo - re mandato dal cielo per liberare l’isola dall’atroce nemico – aveva voluto accompagnarlo a Palermo…Così fu celebrato il primo atto del nuovo regno; fu legalizzata la intromissione della Casa d’Aragona nella contesa fra la Sicilia e la Corte d’Angiò; fu ancora una volta riconfermato nel regno il diritto, già altre volte usato, della libera elezione del re per volontà nazionale

 LA STRAGE DI AGOSTA 

Per capire appieno il senso del Vespro siciliano, come fedelmente alla storia li descrive Luigi Natoli, occorre avere un quadro chiaro del contesto storico. Siamo nel XIII secolo: Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e di una Lancia, era vicario del Regno di Sicilia su nomina di Corrado, Imperatore di Germania. Alla morte di questi la Sicilia si ribellò a Manfredi e si mise sotto la protezione della Chiesa. Manfredi però riuscì a sottomettere l’Isola e a farsi eleggere Re del Regno di Sicilia il 11 agosto 1258.
Il Papato istigò Carlo d’Angiò, cugino del Re di Francia Luigi IX, a conquistare il Regno di Sicilia e toglierlo a Manfredi. E fu così che Carlo d’Angiò con trentamila uomini raccolti tra i banditi di Provenza scese in Italia, dove trovò liberi i passi e giunto a Roma fu nominato Senatore. Grazie ai tradimenti da parte dei Baroni napoletani e pugliesi al Re, riuscì a sconfiggere e uccidere Manfredi, il 26 febbraio 1266. Il vincitore fu accolto con fasto in tutto il Regno tranne che in Sicilia, dove la ribellione ai nuovi conquistatori si prolungò per due anni. Corradino, figlio di Corrado di Svevia, scese dalla Germania per difendere la Sicilia, pur avendo solo sedici anni. Ma nel 1269 fu sconfitto e fatto prigioniero perché tradito, fu decapitato a Napoli per volere di Carlo d’Angiò.
Ma la Sicilia non si arrese e Carlo d’Angiò, furente, inviò Guglielmo d’Estendard con il suo esercito. Questi con distruzioni, incendi, stragi e barbarie di ogni genere riuscì a sottomettere l’Isola. Resisteva solo Agosta. “Agosta, sebbene vantasse antiche origini, era città recentemente rifabbricata sopra un promontorio da Federico Imperatore, che vi trasportò i cittadini di Certorbi. Un forte castello la difendeva da parte di terra; dal mare torri e mura sul vasto e profondo porto naturale. Quattro grandi strade da oriente a occidente, e altrettante da mezzodì a tramontana, tagliavano la nuova città, che ricavava dalle vicine campagne e dalle saline le sue ricchezze.
Ma ecco cosa accadde e come fu conquistata la città, dopo mesi di assedio Gli agostani avevano resistito fieramente ma il traditore, Messer Giorgio di Bissano, al quale era stato promesso il comando della città, fece entrare i francesi durante la notte la una delle porte “Un solo soldato potè correre alle campane e suonare a stormo. Le grida, il suono, destavano di soprassalto: nessuno sapeva quello che fosse accaduto; sgomenti, stupiti, correvano alle finestre: qualcuno prendeva semivestito le armi, ma prima che potessero ordinarsi in difesa, la città era in mano dei francesi, ebbri di quella vittoria che non costava loro né un uomo né uno sforzo. Cominciò un’opera orrenda. Allo squassare delle torce, delle quali il vento torceva e soffocava le fiamme, quelle torme avide di sangue e di stragi, armate di spade, scuri, picche, si lanciavano all’assalto delle case, al grido di guerra: Monjoie! Abbattevano le porte, salivano nelle stanze, ferivano, uccidevano ciecamente e pazzamente. Sorpresi, seminudi, sparsi per le case, gli Agostani non rendendosi ancora conto di come il nemico fosse entrato; presi da terrore, non combattevano, non fuggivano; il ferro nemico li coglieva nello stupore, inermi e smarriti. Scampo non v’era. L’ordine di Re Carlo era preciso: nessun agostano doveva sopravvivere, ma tutti dovevano essere passati a fil di spada. Con acute e pazze grida di terrore donne e uomini di ogni età ed ogni condizione cercavano di sottrarsi alla fuga con la morte; scansavano un branco di belve umane e cadevano in un altro; e presi fra due bande erano trucidati, fatti a pezzi, per voluttà rabbiosa di sangue, non per necessità di guerra. Soltanto le giovani donne e belle stornavano per un momento la ferocia delle armi, ma per un maggiore scempio. Tre o quattro soldati si gettavano sopra una fanciulla, la trascinavano sugli altari, la violavano, ne facevano strazio; l’ultimo, satollata la libidine, la scannava lì, sull’altare profanato. Strappavano i fanciulli alle madri e li sgozzavano, e recidevano le innocenti teste e se le palleggiavano orrendamente! Questa gente che il papa aveva benedetto e assolto da ogni peccato; e che serviva la Chiesa e Dio!
L’alba illuminò uno spettacolo di orrore. Nella piazza dinanzi al porto poco più di un centinaio di prigionieri che il sire d’Estendard aveva riservato per un suo giocondo spettacolo, miravano con occhio istupidito la strage d’intorno e pareva che il dolore avesse spento in loro ogni senso di pietà e forse di conoscenza. Quando il sole fu alto, messer Guglielmo d’Estendard si fece portare una sedia, e postala sopra una specie di trono fatto elevare di proposito, vi sedette. E cominciò uno spettacolo di ferocia inimmaginabile sul quale gli scrittori del continente, che impallidiscono d’orrore per la vendetta siciliana del Vespro, sorvolano o tacciono. Il Messere chiamò il boia e ad un suo cenno i soldati strappavano i prigionieri e lo gettavano legato dinanzi al carnefice. Egli sollevava il suo spadone e con un colpo recideva il capo, fra i lazzi e le risa della soldatesca. Al tramonto, sulla spiaggia del mare, il sole illuminava un monte di cadaveri decapitati e accanto a essi un monte di teste spaventose: ma su quei corpi e su quelle teste troneggiavano quelli di messer Giorgio di Bissano, il traditore della città, e dei suoi complici. Messer d’Estendard aveva voluto che essi assistessero fino all’ultimo agli effetti del loro tradimento e diede loro il premio che la infamia commessa meritava.
Così cadde Agosta; e non vi rimase un cittadino. Re Carlo ne fu soddisfatto e il papa assolse i prodi francesi da ogni peccato”
Queste ultime parole a conclusione del capitolo sono agghiaccianti ma, come dicea Natoli, questa è storia. Forse bisognerebbe rendere un po’ più noti i fatti accaduti. 

LA DOMINAZIONE FRANCESE 

Basterebbe soltanto la strage di Agosta per giustificare la vendetta dei siciliani, ma della dominazione francese si può narrare, purtroppo, molto altro. Ecco un quadro, tracciato con vari passi del libro e storicamente accaduti, che descrive come gli angioini si comportavano a Palermo.

Erano in quattro messer giustiziere, e vi so dire che sono i quattro più terribili di tutta la compagnia; le quattro migliori lance spezzate. Cuori di leoni, artigli d’aquila, denti di lupo, impudenza di scimmia. Sono il terrore della città…”
Il cuoco non andava mai al mercato dove si trovava la roba vendereccia, ma ogni mattina, accompagnato da guardie, si recava in casa di questo o di quel cittadino, prendeva senza cerimonie i migliori polli, la migliore selvaggina, i più teneri agnelli, le paste più delicate per la mensa di messer Giustiziere. Pagare? No: ai cittadini, di qualunque ceto o ricchezza fossero, doveva bastare l’onore di servire monsignor di Saint-Remy. L’eccellente cuoco entrava, portava via senza neppur salutare: talvolta si degnava di ingiuriare i “paterini”, se non si mostravano solleciti o soddisfatti. Di ribellarsi al latrocinio non si parlava; le guardie che accompagnavano il cuoco, oltre a rubare la loro parte, avevano il compito di bastonare chi osasse ribellarsi. Quanto ai vini, li fornivano le cantine dei migliori produttori del Vallo, coi metodi medesimi.
Un divieto del giustiziere proibiva a tutti i siciliani, di qualunque condizione, anche se cavalieri, di portare armi, con gravi pene per i trasgressori.

In verità i cavalieri francesi e provenzali non erano tali da sgomentarsi per una ripulsa; quando una dama non cedeva per amore, la prendevano per forza. E con le belle donne del popolo le cose non andavano diversamente. I signori cavalieri francesi, quando ne scoprivano una di loro gusto, perché non potevano penetrare nelle case, difese da una gelosia affatto araba, le assalivano in piena regola; facevano legare i mariti, i padri e costringevano le donne alla resa condizionata. Gli uomini che osavano opporsi o che tentavano di vendicarsi andavano a finire in qualche torre o nelle galere, seppure – come avveniva qualche volta – non erano spediti a raccontare le loro querele all’altro mondo.” 

 Il Conte de Brandt si era annidato nel castello di Calatafimi e di là spiccava il volo per compiere le sue imprese guerresche. Egli infatti, allargando un po’ i diritti della sua investitura, aggregava ai suoi boschi le terre vicine poco alla volta, trasportando i confini. Non c’è bisogno di dire che queste usurpazioni venivano compiute a danno dei regnicoli, fossero o no signori feudali; e che erano comuni a tutti i feudatari francesi. Naturalmente avvenivano contestazioni e litigi; ma il sire de Brandt aveva una maniera spiccia di troncarle: faceva dai suoi ribaldi prendere il reclamante, e se era di più umile stato lo faceva impiccare a un albero. L’impiccato gli serviva talvolta per le sue esercitazioni cavalleresche di tiro al bersaglio. Quando le liti insorgevano con un feudatario siciliano, il sire non ricorreva all’impiccagione, che poteva procurargli qualche fastidio; ma non se ne impensieriva, perché la magistratura servile e paurosa non osava dare torto ai nobili gentiluomini francesi.” 

Il nome ribaldo non aveva allora il triste significato che ha oggi: serviva a indicare una milizia speciale, una certa qualità d’uomini armati in servizio di qualcuno. Le azioni che i ribaldi francesi commettevano erano tali che il loro nome, come quello dei masnadieri, diventò prima sinonimo, passò poi a significare uomo capace di ogni malvagia azione.” 

Non era infrequente infatti vedere in qualcuna delle terre vicine, piombare un nugolo di ufficiali e di serventi del governatore, predarvi gli armenti con un pretesto qualsiasi, o cacciar dalla casa, buttandola in mezzo la strada, tutta una famiglia, oppure avveniva che qualche soldato vi entrasse a viva forza, a prendere per sé il miglior posto nel letto o nella povera tavola. Le lacrime e le imprecazioni di quei tapini facevano ardere di sdegno Giordano.” 

Nei primi del 1282 la città di Palermo era piena di armati; ve n’erano nel castello regio alto, cioè nell’antica reggia, nel castello a mare e nel quartiere del Mahassar, sulla palude papiretana; e ve ne erano anche per le case. Re Carlo d’Angiò si apparecchiava all’impresa contro l’Imperatore di Costantinopoli.” 

Così Carlo D’Angiò si procurava gli averi e i soldati per le sue ambizioni

Ogni giorno, dal castello regio più vicino, da una città della corona, partiva una schiera di soldati, piombava sopra i casali, i borghi, i castelli del territorio circostante, frugava, s’impadroniva dapprima dei cavalli, poi dei giovani, legava gli uni e gli altri e via. Né pianti di parenti, né resistenza dei catturati, né proteste dei baroni che vedevano violati i loro diritti, niente arrestava la violenza dei soldati, che approfittavano della circostanza per fare man bassa e rubare quello che potevano. Giungevano così a Palermo, ogni tanto, torme di giovani con le mani legate come malfattori. Tolti agli aratri, strappati alle famiglie, tormentati dalle beffe e dalle ingiurie atroci, affamati, laceri, polverosi, affranti dal lungo cammino, attraversavano la città fra gli sguardi pietosi dei cittadini.

I soldati francesi erano quasi tutti giovani, prepotenti, insolenti, arditi di lingua e di mano. La potenza e l’impunità di cui godevano li faceva audaci, la viltà dei soggetti soverchiatori. Cavalcavano a gambe larghe, per le vie della città allora strettissime alla usanza degli arabi, come ancora si può vedere da quelle che ne restano, e così costringevano i cittadini o a inchinarsi o a stringersi nei vani delle porte. Spingevano i cavalli addosso ai passanti, se non erano solleciti a scansarli, lanciavano frizzi e galanterie troppo licenziose alle donne che si affacciavano allo scalpitìo dei cavalli.” 

Nel Regno di Sicilia Carlo aveva affidato l’incarico di inquisire ai domenicani di nazione francese o provenzale; ed essi avevano compiuto e compivano il loro ufficio con zelo grandissimo, nel quale però l’avarizia e la rapacità sopraffacevano il sentimento religioso. Forse anzi la religione c’entrava poco. C’entrava più il desiderio o meglio la volontà del re; che approfittava dei processi detti di eresia per gettare le ladre mani sugli averi dei sudditi siciliani. Marsala, ricca ed opulenta anche allora, fu quasi desolata dai frati inquisitori: ma le altre città e terre non erano state meno tormentate e terrorizzate da quella pietà o empietà religiosa e crudele. Le condanne erano gravi e terribili, quali i tempi suggerivano.” 

Ma più esoso ancora era stato in quei giorni il fiscalismo nella riscossione delle gabelle e degli altri balzelli straordinari imposti dal re per le spese della prossima guerra. Nessuna opera di spoliazione fu mai così brigantesca. Intere famiglie erano buttate in mezzo alla via mentre i ministri del tribunale vendevano la loro roba anche per qualche misero carlino; ed essere erano costrette ad assistere allo sperpero delle cose a loro più care, con le quali erano vissute tutta una vita. Né le lacrime né le loro preghiere disarmavano l’immane rapacità di quei ribelli ufficiali”.

È uno scenario abbastanza ampio della condizione di vita dei siciliani durante la dominazione angioina.

 IL VESPRO SICILIANO 

Sulla esatta data del Vespro Siciliano “Bartolomeo da Neocastro, siciliano di Messina, contemporaneo di quell’avvenimento, fissa la data per il giorno 30 marzo. Il fiorentino Giovanni Villani, nato nell’ultimo venticinquennio del secolo XIII e morto nel 1348, nella Nuova Cronica pone anch’esso la rivolta del Vespro il giorno 30 marzo. Leggiamo infatti:

Nelli anni di Cristo 1282, il lunedì di Pasqua di Risorrexio che fu al dì 30 di marzo…” Il grande storico Michele Amari, ne La guerra del Vespro siciliano, forse per suggestione dei cronisti e storici precedenti, afferma che i fatti si svolsero giorno 31. Precisa, infatti, l’Amari, descrivendo la chiesa di S. Spirito ed i luoghi che furono teatro di quel cruento episodio: “per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traevano: ed eran frequenti le brigate; andavano, alzavano le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze” . Da quanto abbiamo esposto si evince che esiste una grande incertezza sulla precisa data del Vespro siciliano, sebbene essa sia ormai ufficialmente codificata il 31 marzo del 1282. È  evidente, però, che l’esatta individuazione della data del Vespro nulla toglie all’importanza di quell’avvenimento di risonanza mondiale. (Rosario La Duca, VII Centenario Sicilia Vespro 1282 –1982—Vittorietti Editore).
Così Luigi Natoli descrive ciò che avvenne in quella giornata storica.

Il Giustiziere aveva sguinzagliato a Santo Spirito duecento di quelli più ribaldi che soldati, il fior fiore dei prepotenti, per tenere a freno quella moltitudine e sorvegliare se mai qualcuno avesse armi contro il divieto. Essi andavano superbamente, coi pugni sul fianco, le spade battenti sui polpacci, vestiti di maglia d’acciaio o di corazza con gli elmi luccicanti al sole. Si fermavano, dove loro piaceva meglio, toglievano dalle mense apparecchiate sull’erba quello che loro talentava, o bevevano, senza pagare; somministravano qualche calcio, minacciando di segare la gola a chi non si lasciava strappare dalle mani quello che stava mangiando
E con rapidità fulminea, presogli dal fianco il pugnale, glielo cacciò nella gola due volte, lo levò in alto insanguinato e gridò: - Muoiano! Muoiano questi francesi, perdio!
Un urlo simile allo scatenarsi di un uragano gli rispose; si videro lampeggiare venti, trenta lame, si udì l’urlo formidabile e tremendo della vendetta. In quel momento le campane della torre della chiesa di Santo Spirito suonavano a Vespro. Suonavano a Vespro le campane, per invitare i fedeli alla preghiera, e l’ignoto fraticello, salito sulla torre indorata dal sole cadente, Suonavano a Vespro le campane, per invitare i fedeli alla preghiera, e l’ignoto fraticello, salito sulla torre indorata dal sole cadente, non sapeva che quello squillo di campana avrebbe segnato nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda…Aveva suonato, come sempre, l’ora della dolce e raccolta preghiera. Ma giù nel piano, quel rintocco che feriva l’aria sul colpo di pugnale che atterrava il sire Droetto, suonò come uno squillo di tromba; come un segno aspettato, come una voce di comando ed esortazione. Crescendo il rumore, chinato lo sguardo, gli occhi gli si spalancarono di stupore, un fremito gli passò per il sangue e il suo braccio, quasi mosso da una forza ignota, continuò a suonare, a suonare con nuovo vibore: squilli serrati, violenti, di guerra e di strage sopra il tumulto e il balneare dei ferri e il rosseggiare del sangue.”
Quella improvvisa zuffa, quelle grida, il cozzo delle armi, si propagarono in un baleno per la pianura. A un tratto tende e baracche furono rovesciate, tutta quella folla di uomini, come sospinta da un segno d’intesa, da un ordine, si levò in piedi. Molte donne traevano dal seno i coltelli e li porgevano agli uomini: chi non aveva il coltello impugnava un bastone, toglieva le aste dalle tende, fracassava i banchi delle baracche, raccattava sassi. Tra le grida di qua di spavento, là di coraggio e di incitamento, la folla accorreva. E su tutte le bocche risuonava il grido ferocissimo  - Muoiano! Muoiano!”  

Cadevano i sergenti, l’uno sull’altro; cadevano popolani e la morte confondeva i caduti e mesceva due rivi di sangue in uno, che scendeva alla morte, dove hanno tregua gli odi e le vendette. Non uno riuscì a fuggire: quei duecento un’ora innanzi superbi e prepotenti nelle loro belle vesti, nelle loro armature, fidenti nella loro potenza, sicuri della sottomissione di un popolo inerme, fiduciosi nella tollerante viltà che per diciassette anni aveva piegato il collo, giacevano ora per la pianura a gruppi, ammonticchiati, sparsi, immersi nel loro sangue, con gli occhi sbarrati o chiusi, il volto spaventato o ancora iracondo. Giacevano pesti, disarmati, tra le tende sbrindellate e insanguinate, le baracche distrutte, le mense scompigliate.” 

Dove si sapeva che fosse una casa di francesi, quella tempesta piombava, folgorava, uccideva; non età, non sesso, non condizione; pagavano i fanciulli innocenti dei dominatori per i fanciulli sgozzati di Agosta; pagavano i vecchi e le donne per i vecchi e per le donne uccisi dappertutto dalla feroce voluttà di malfare. Pareva che dal fondo oscuro della memoria sorgessero le immagini delle vittime immolate per diciassette anni, senza ragioni, per libidine di ricchezze, di dominio, di sensi, e s’adunassero in ogni cuore, e insegnassero le strade e guidassero le braccia.” 

Pure tra le efferatezze della vendetta il popolo serbò un vivo sentimento di giustizia e rese onore alla virtù. Messer Guglielmo Porcelet, signore di Calatafimi, la cui fama e bontà era diffusa, fu accompagnato fino al mare e finchè non salpò il popolo vittorioso gli dimostrò con atti e con parole dignitose la sua riconoscenza

Due giorni dopo Palermo, Corleone, forte città di gente originariamente lombarda, insorgeva anch’essa: abbatteva le insegne angioine, inalberava il proprio gonfalone, proclamava libero il comune e inviava i suoi deputati a Palermo, per stringere il patto di fratellanza e di difesa.” 

Fu la scintilla. I popolani tumultuarono ed ecco Bartolomeo Maniscalco, col vessillo di Messina alla testa di uno stuolo di popolani, accorrere gridando – Morte ai francesi! – Suonarono le campane a stormo: il popolo, preso la sùbito furore, prende le armi, comincia la caccia e la strage degli stranieri.

I LUOGHI DEL ROMANZO

La città di Palermo era nel secolo XIII distinta ancora in tra parti principali, divise da avvallamenti, in fondo ai quali a destra scorreva il fiumicello Cannizzaro, che scendendo per la odierna via Castro e pei Calderai e girando per gli Schioppettieri, sboccava in mare sotto la parrocchia di Sant’Antonio, dove press’a poco giungeva allora la insenatura della Cala.
A sinistra della palude del Papireto scendeva un fluviolo, detto poi della Conceria, che percorreva l’attuale via dei Candelai, la piazza nuova e si gettava anch’esso in mare dall’altro lato della chiesa di Sant’Antonio. La parte della città che rimaneva fra questi due corsi d’acqua, e che era la più antica, portava appunto il nome di Cassaro, era circondata da mura e di torri, che la segregavano dalle altre vie ed era percorsa da tre strade principali: la via Marmorea in mezzo, ora Vittorio Emanuele; a destra una serie di strade che si continuavano, con vario nome,  di cui avanzano le tracce e si riconoscono nelle vie dei Biscottari, di Santa Chiara, Giuseppe d’Alessi, dietro San Cataldo e la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio; a sinistra la Sucac el Kes, che, con altro nome, cominciava dalla ruga coperta e percorreva quella che oggi si chiama via del Celso, continuava con altri nomi arabi per la salita delle Vergini, e girava dietro la parrocchia di S. Antonio” 

Il Palazzo del Giustiziere  "Sorgeva press’a poco di fronte al monastero del Gran Cancelliere, accanto a quel medesimo che la tradizione indicava come palazzo del famoso Maione, ministro di Guglielmo il Malo. Rimangono ancora visibili, dalla parte di via dei Candelai, alcune finestre bifore, il capitello delle quali reca uno scudo col fiordaliso angioino”  

Il Palazzo Reale, non più florido come ai tempi di Federico II…”l’antica dimora dei re non ospirava più la corte e la reggia era decaduta dal suo splendore; l’edificio, abbandonato a se stesso, in parte deperiva, onde il giustiziere gli aveva lasciato l’ufficio di fortezza, e vi aveva allogato i tribunali e le carceri…”

La Caserma di San Giacomoantico quartiere militare degli arabi, dove le lance spezzate avevano la loro caserma e che è rimasto per tradizione, fino ai giorni nostri, quartiere militare. Allora compresa dentro le mura del Cassaro, di cui sono visibili gli avanzi nel Corso Alberto Amedeo, e munita di torri, dominava la palude del Papireto e difendeva il Palazzo regio

Il Monastero del Cancelliereil piano del Cancelliere allora era assai più vasto di oggi. I continui rifacimenti e il successivo ingrandirsi del monastero con nuove fabbriche vi distrussero tutto l’antico, per cui nessuna traccia rimane della chiesetta ogivale eretta da Matteo de Ajello e del grazioso chiostro del duecento; e il giardino, che allora aveva il muro di cinta sulla strada del Kes e sul piano, è rimasto sepolto fra le fabbriche posteriori” 

Il Castello di Carini, abitazione di Messer Palmerio Abate “Il Castello sorgeva allora dove ancora sorge, con la sua torre massiccia, le sue cortine merlate, più piccolo di quello che è oggi, e quale i La Grua, diventati baroni della terra, lo accrebbero. Il borgo era allora piccolo, si stendeva un po’ più lontano dal castello, intorno a quella che ne era la piazza principale, dove ancora si vedevano le vestigia di qualche edificio romano e dei pavimenti a mosaico mezzo coperti di erba. Il castello era pertanto del tutto isolato e quasi inaccessibile, tranne che da un punto solo donde le rupi si accostavano e rendevano possibile che un ponte levatoio abbassandosi si poggiasse sopra e rendesse agevole l’entrata…Una grande sala dalle travi e dalle pareti dipinte, illuminata da due finestre che davano sulla corte, arredata di un armadio, di alcune casse con la spalliera intagliata, di una grande tavola intagliata con gusto che risentiva ancora degli arabi” 

Piazza Marina “E stese la mano indicando verso lo sterrato della Piazza Marina, irto di sassi e qua e là coperto di erbe. Allora esso era assai più vasto, vi si cominciava a fabbricare casette rade e di povero aspetto, alcune delle quali si addossavano alle vecchie mura della Kalesa” 

Quartiere Ballarò ..”Damiano abitava presso la Ruga nova di Ballarò. Dove ora si trovano la piazza e la chiesa di Casa Professa e la Biblioteca Comunale, era allora un groviglio di stradette, delle quali appena avanzano le vestigia di qualcuna; e vi erano un gruppo di chiesette, quella dei Santissimi Quaranta Martiri che ancora rimane, ed altre che furono abbattute per dar luogo alla chiesa di Casa Professa. Tra la chiesa di San Michele Arcangelo e quella dei Quaranta Martiri si stendevano delle grotte o catacombe, con stanze e corridoi scavati nel tufo, che si sprofondavano nelle tenebre…” 

Il Piano di Santo Spirito, detto così per un monastero di cisterciensi, del quale non avanza tutt’oggi che soltanto la Chiesa,.. “Dalla porta di Sant’Agata dell’Albergheria vi si andava per un sentiero che attraversava orti e vigne. Oltre il prato si apriva, e ancora si apre, un largo burrone in fondo al quale scorre l’Oreto. Da circa un secolo e mezzo quel prato fu convertito in un cimitero e gli alti e neri cipressi ombreggiano croci e lapidi, là dove vi erano erbe verdi e fiorite, e pascolavano le caprette. Lì si recavano i palermitani il giorno dopo la Pasqua e ivi sull’erba, per commemorare la pasqua biblica, si mangiavano uova sode, lattughe e agnello arrostito; ma di solito, a queste che erano le pietanze di rito, altre se ne aggiungevano, anche dolciumi di origine araba come la cassata o la cubaita e manicaretti, largamente innaffiati di vino. S’intrecciavano sui prati balli e canti, al suono dei tamburi e delle guideme o dei liuti, e per due o tre ora il popolo obliava e pareva felice” 


Le Chiese di S. Maria dell’Ammiraglio e di S. Cataldo ..” La piccola piazza della Curia, l’atrio dei giudici si riempirono di una folla che s’andava sempre più addossando e pigiando tra le case e le Chiese di Santa Maria dell’Ammiraglio e di San Cataldo, e il bel campanile, slanciato all’aria, colonna su colonna, che lumeggiato in basso, dalla rossa luce delle torce, pareva smarrire la cupola nel cielo notturno…..E tra la commozione e le grida, i giuramenti, fra gli abbracci di gioia, ai piedi del bel campanile, il popolo elesse i suoi capitani e il consiglio civico: Ruggero di Mastrangelo, Arrigo Baverio, Niccoloso d’Ortoleva cavalieri e Nicola d’Ebdemonia popolano, capitani: Pierotto da Caltagirone, Riccardo Fimetta, Bartolotto de Milite, Giovanni di Lampo e il Notaio Luca di Guidaifo consiglieri. La rivolta si tramutava in rivoluzione”

 


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Grande romanzo storico. 
L’edizione, interamente restaurata a iniziare dallo stesso titolo, è la trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1915. 
Pagine 945 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Contattaci al cell. 3457416697, al whatsapp 3894697296 o alla mail ibuonicugini@libero.it
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