Protagonista unica nel suo
genere, Giovanna Bonanno – meglio conosciuta come la Vecchia dell’Aceto – che crea
nella Palermo settecentesca un “giro
d’affari”, avente per oggetto la famosa “acqua” dal costo di due onze e sei
tarì, “per togliere di mezzo liti e
dissapori, impedire mali maggiori e dare la pace alle famiglie” come lei
stessa afferma durante il suo interrogatorio del 9 ottobre 1788. In realtà Giovanna Bonanno,
questo strano personaggio realmente esistito che Luigi Natoli presenta con la solita diligenza, vendeva ai
suoi “clienti” l’aceto per i pidocchi, un
potente veleno che, essendo insapore, poteva essere mescolato al vino ed
utilizzato per eliminare qualunque individuo che era in qualche modo d’ingombro
ad un altro. I sintomi erano dati da dolori atroci allo stomaco, vomito, e la
morte sopravveniva nel giro di ventiquattr’ore.
Da qui il
prospero giro d’affari di
Giovanna Bonanno, detta zà Anna, che lei giustificava così: “Che cos’è la vita di una persona, di fronte
alla tranquillità e alla felicità di tante altre? Una donna maritata contrae
un’amicizia…siamo di carne e possiamo peccare. Bene: essa vive in peccato
mortale e col pericolo che il marito ammazzi lei e l’innamorato. Due morti. Il
marito è preso ed impiccato: e son tre; e la casa va in rovina, e se ci sono
figlioletti, rimangono in mezzo alla strada…Bene: sacrificando il marito si
salvano la moglie e il gano; i quali si sposano e si liberano del peccato, i
figli restano con la madre e la pace ritorna in quella casa. Ecco, figlia mia,
che io ho fatto del bene…non è vero?”
Luigi Natoli ci fa conoscere la
Vecchia dell’Aceto, nel suo omonimo romanzo. Dà qualche traccia della
biografia, descrivendo gli oscuri affari che portano a tantissimi
casi di morte per avvelenamento.
“Giovanna Fileccia o la comare Giovanna, come più comunemente era
intesa, era vedova due volte, la prima di un Fileccia e la seconda di un
Bonanno. Siccome aveva cominciato a far la levatrice al tempo del primo marito,
aveva nella professione mantenuto quel nome, che era notorio. Era abile, e si
prestava facilmente a pratiche delittuose, che essa compiva con la coscienza di
far bene, perché miravano a conservare l’onore e la pace delle famiglie”
È rinchiusa nel carcere
dell’Inquisizione su accusa di un nobile
“Era bastata l’accusa del nobile cavaliere perché l’inquisitore
monsignor Ciafaglione senz’altro la facesse arrestare. Un processo fu
imbastito; dopo un anno Giovanna Fileccia, con altre due disgraziate fu
condotta fra gli sbirri, famuli e confraternite, alla porta della Chiesa di S.
Ippolito con una cesta appesa al collo, il bavaglio, le braccia legate dietro
le reni e lì fu letta la sentenza che le condannava tutte e tre come
fattucchiere al carcere del Sant’Offizio per dieci anni. Dieci anni! Chiusa in
una segreta del carcere delle donne, senza luce, senz’aria, con poco
nutrimento, peggiorato da digiuni e penitenze.”
Quando esce dal carcere ha un
terribile aspetto
“Alcuni ragazzi che si avvoltolavano fra le immondizie, scacciando i
maialetti, a vederla comparire si alzarono a guardarla curiosi e cattivi; ella
era così brutta che pareva uscita dall’inferno”
E va a vivere in una stamberga in
un vicolo dell’Albergheria
“Cominciò ad andare in giro con un saccone sospeso al braccio,
accattando alle botteghe qualche po’ di pane, qualche rimasuglio di formaggio e
nelle osterie qualche avanzo di pesce o di grassi: talvolta usciva fuori porta
S. Agata e andava a raccogliere erbe mangerecce nei campi. L’avere una volta
indicato a una donna dei rimedi per guarire un bimbetto lattante, suggeritole
dalla sua antica professione, la fece credere una di quelle donne che conoscono
i mali meglio dei medici e fabbricano medicine e filtri misteriosi. Da questo a
trasformarsi nella credenza del vicinato in fattucchiera non ci volle molto;
cominciarono a ricorrere a lei per domandarle incantesimi e disincantesimi,
fatture e filtri magici”
Si trasferisce poi in un lurido
vicolo del quartiere del Capo“A una vecchia sua vicina di casa disse di chiamarsi Vanna; quella, un
po’ sorda, intese Anna; la chiamò zà Anna
e così ne riferì il nome alle altre comari; nel vicinato la chiamavano
zà Anna:essa non rettificò, trovando che la trasformazione del suo nome
l’aiutava a far perdere le sue tracce. Sospettosa com’era si chiudeva in casa,
e non bazzicava con nessuno e questa sua vita e quelle erbe cominciarono a
eccitare intorno a lei a fantasia dei vicini; si cominciò a supporre che fosse
una fattucchiera, che facesse malìe e sortilegi; la supposizione divenne
certezza e questa fu la seconda trasformazione. L’esser creduta maliarda la
circondò se non di rispetto di paura, e la liberò dalle beffe dei monelli. Così
erano passati undici anni durante i quali Giovanna Bonanno era sempre più scesa
in basso”
Per caso, mentre si trovava nella
bottega dell’aromatario Saverio La Monica, suo inconsapevole fornitore, scopre
gli effetti dell’aceto per i pidocchi che incidentalmente una bambina aveva
bevuto, e da qui nasce la sua idea
“Ella rimase stupita; il lieve rimorso di aver sacrificato quella
povera bestia fu vinto, annullato dalla soddisfazione della esperienza
riuscita. Ora non c’era più dubbio; il veleno era potente: non mancava che la
clientela”
Da qui ha inizio la lunga serie
di avvelenamenti, con la vendita di caraffine della sua “acqua”, dietro il
corrispettivo di due onze e sei tarì
“Angela La Fata non ha voluto darmi un grano di regalo: eppure suo
marito morì dopo un giorno, senza bisogno di fargli bere la seconda boccetta
che essa comperò…”
In tale orribile “rete di
vendita”, Giovanna Bonanno aveva i suoi procacciatori, e fra questi famose
rimasero due donne che le procuravano la clientela: Rosa Billotta e Maria
Pitarra.
Suo ignaro fornitore del veleno era l’aromatario Saverio La Monica.
Ecco chi erano Rosa Billotta
“Per le anime sante del Purgatorio! Ecco un mestiere facile, che poteva
arricchirla senza pericolo: bastava avere un po’ di naso, scoprire dove ci
fossero discordie fra marito e moglie o inimicizie profonde o questioni di
interessi e gli odi fossero tenaci, e i desideri di vendetta acuti e
tormentosi; insinuarsi allora, far cadere una parolina come una goccia;
seminare un pensiero, suscitare una speranza. Il resto sarebbe venuto da sé”
E Maria Pitarra
“Maria Pitarra la Pantelleresca se ne andò. Come aveva detto Giovanna
Bonanno, era essa una delle mediatrici ed aveva sulla sua coscienza parecchi
avvelenamenti, compiuti con quella freddezza che non cinismo era veramente, ma
totale assenza di sentimento morale, insensibilità assoluta, spaventosa
incoscienza della enormità del delitto”
Ed ecco quali erano gli effetti
del veleno, descritti da Luigi Natoli secondo il particolare storico del dottor
Moleti, l’allora primario dell’ospedale
“Ho avuto per le mani un altro caso : un certo Francesco Costanzo, di basso ceto. Gli stessi
fenomeni: vomito, schiuma, bruciori spasmodici allo stomaco e all’esofago. Lo
aveva in cura il dottor Ciofalo, che non ci capiva nulla e volle consultarmi.
Io sono rimasto assai impressionato: questo è il terzo che mi passa per le mani
e più che mai sono convinto che si tratti di un veleno misterioso. E’ una ben
triste serie. Quanti sono i morti di veleno? Io ne conosco tre: ma gli altri
medici? E’ spaventoso. Occorre avere nelle mani il mostro per fermare la
strage!”
Finalmente una donna, che di
cognome faceva Costanzo, trova il coraggio di denunziarla...
I personaggi
Nel romanzo, Giovanna Bonanno e
le sue complici sono circondate dai personaggi frutto della inventiva dello
scrittore e inserite in una storia intrecciata dove i protagonisti, Giovanni e
Rosalia, sono entrambi figli illegittimi di due nobili famiglie palermitane. Entrambi, vengono alla luce con l’aiuto della levatrice Giovanna Bonanno. Da qui, le vite dei protagonisti
e delle loro famiglie si intessono fino al tragico finale.
I protagonisti, presentati da
Luigi Natoli nel suo romanzo in ordine di apparizione:
Maria d’Altofonte “la
marchesa di Altofonte, sebbene non avesse oltrepassato i cinquant’anni, da
qualche tempo era andata deperendo di giorno in giorno in una tristezza
profonda, che aveva destato grandi apprensioni nella figlia, donna Amalia”
Don Filippo d’Altofonte “era
un bel giovane di trentacinque anni quando sposò donna Maria, che ne aveva
diciotto. Il matrimonio era stato concluso dai pareti, per unire due ricchezze:
gli Altofonte, inoltre, speravano di far mettere giudizio al giovane.”
Don Gastone del Carretto “nobile
palermitano, nel 1762 si trovava in Ispagna al servizio del re Carlo III, in
guerra col Portogallo” Donna Elisabetta del Carretto “Donna
Elisabetta fece un lieve inchino. Era veramente bella, di una bellezza matura,
ma non ancora tramontata, e il volto ancora liscio, incorniciato di capelli
prematuramente incanutiti, aveva una nobiltà di lineamenti e una espressione di
pacato dolore, che ispiravano simpatia e fiducia”
Donna Amalia, figlia di donna Maria d’Altofonte “Donna Amalia non era bella, ma avvenente e
aggraziata; e serbava ancora, dopo quattro anni di matrimonio un non so che di
virgineo che era il suo fascino. Ella era un cuore amante, disposto alla
tenerezza. Nel 1787 ella aveva ventinove anni, ed era sul primo fulgore della
sua bellezza”
Don Ottavio, marito di donna Amalia “don Ottavio era bello; di una bellezza virile, come quella dei giovani
atleti raffigurati dalla statuaria greca. Cavaliere nel senso più squisito
della parola, sapeva ugualmente figurare in un salone e sul campo; recitare un
madrigale e tenere la spada; essere galante e fiero. Amava sua moglie; e
sebbene la sua bellezza e i suoi modi destassero brame, aveva saputo serbarsi
fedele, non perché fosse insensibile, ma per un sentimento di lealtà”
Don Arduino Ventimiglia “Il
cavaliere servente era un cadetto di casa Ventimiglia, del ramo dei marchesi di
Regiovanni, non più giovane; serio, di animo gentile, che nutriva per donna
Elisabetta un’affezione profonda e devota, senza turbamenti, senza secondi
fini” .. “Il cavaliere Ventimiglia andò dal suo notaro e riconobbe il
trovatello Giovanni, nato il 23 giugno 1763, come suo figlio naturale, e gli
dava il suo nome”Giovanni Ventimiglia “Intanto
il giovinetto, sia che l’accesso fosse cessato, o che il rimedio avesse avuto
efficacia, rinvenne; aprì gli occhi lentamente alla donna che lo sorreggeva e
infine si levò in piedi” .. “Diede
questo indirizzo senza pensarci, per quell’istinto che nelle sventure e nei
dolori fa invocare il nome della mamma e fa cercare le braccia materne come un
rifugio e una consolazione”
Don Saverio La Monica “Aromatario significava in quel tempo
farmacista. Era un uomo più che maturo, che trascorreva la vita dietro al banco
a pestare, impastare, far pillole, cartine di polveri, elettuari, sciroppi ed
emulsioni. Con gli occhiali sul naso, le maniche rimboccate, eseguiva le
ricette barattando una parola con questo, una parola con quell’altro avventore”
Don Agostino Caracciolo “Era
un uomo sui trent’anni, bruno di carnagione, i capelli neri, gli occhi
impiccioliti dall’abitudine di tenerli socchiusi, come per raccogliervi
l’acutezza dello sguardo. Un’espressione di disprezzo per gli altri e di
coscienza del proprio valore; l’aria dell’uomo che sa il fatto suo, che non
indietreggia dinanzi ad un coltello e sa impugnarne uno con tutte le regole
d’arte”
Rosalia Caracciolo “La comare
Rosalia! Era la moglie di don Agostino; una giovane di forse ventidue o
ventitré anni; non perfettamente bella, ma avvenente e negli occhi neri e
sensuali, nella bocca tumida, rivelante una natura sensuali, avida di piaceri e
di piacere. Nell’aspetto aveva qualche cosa di più gentile e di superiore al
suo ceto; le mani erano fine e lunghe, i
piedi piccoli. Aveva un gusto naturale nell’acconciarsi, una certa eleganza nel
camminare”
Giuliana d’Avalos “Poteva
avere sedici anni: era alta e fine, coi capelli biondi, che le cadevano in
lunghi anelli sulle gote e sul collo; gli occhi neri, la bocca piccolina e
corallina. Senza essere perfettamente bella, aveva un insieme grazioso e negli
sguardi un tenue sorriso, un candore incantevole”
Lo Zu Andrea “era il più
cristiano dei cristiani; rispettato e temuto. Né il Papa era infallibile, né il
Re più ubbidito; quando lo zu Andrea aveva parlato, era Vangelo”
Usi e costumi
Dal romanzo si conoscono antichi
usi, costumi e tradizioni del popolo palermitano.
I prefissi per indicare la classe sociale (molti dei quali ancora in
uso oggi)
“C’era tutta una scala di prefissi per indicare la classe o la
sottoclasse a cui apparteneva la tale o tal altra persona. I facchini di
piazza, gli spazzaturai e simili non ne avevano alcuno; e si dava loro del tu,
senz’altro; i fruttaioli, i pizzicagnoli, e in genere tutti i bottegai o
venditori ambulanti di frutta o ortaggi, i carbonai, i friggitori e simili avevano
il preffisso Zù, che significava zio, i cocchieri, specialmente se padronali,
premettevano al nome, ordinariamente, Gnuri o Su, signore o sior; gli artigiani
volevano e ci tenevano ad essere chiamati con tanto di Mastru; ma i sarti, i
cappellai, i muratori, i piccoli scritturali, i commessi degli uffici, gli
algozini, tutta la gente che stava tra i mestieri e le professioni liberali,
gli impiegati subalterni, regi, del Senato, della Tavola o pubblico banco,
volevano il Don come i galantuomini. Questi ultimi erano il ceto medio”
Descrizione e definizione del “cristiano”, antefatto di quello che si
dice oggi “uomo d’onore”
“Non commettevano sopercherie sopra i più deboli; se una questione
insorgeva tra loro e non c’era altro mezzo per risolverla, ricorrevano al
duello; arma, il coltello, ma di una stessa dimensione: il che si diceva
paranza. Si battevano dinanzi a testimoni: ma qualche volta, se c’erano di
mezzo motivi d’onore, facevano a meno di questa formalità e il duello non
cessava che con la morte. Se non si trattava di ciò, spesso si ricorreva ad un
arbitro, che di solito era un cristiano più autorevole, al quale
volontariamente i contendenti si rimettevano; ne accettavano il giudizio, che
era sempre retto, e ne seguiva la pace, sigillata con un banchetto. L’arbitro
qualche volta invitava altri cristiani autorevoli e allora l’adunanza
acquistava un carattere di solennità; e quella gente, la quale non riconosceva
l’autorità della giustizia e aveva poco rispetto per le persone della chiesa,
si inchinava dinanzi a quel sinedrio con una reverenza quasi religiosa”
Natale
“Dicembre era inoltrato, s’avvicinava la festa di Natale e le edicole
di Santi che erano disseminate in tutte le vie erano ornate di festoni di
ramoscelli d’arancio, ricchi dell’oro delle melarance mature e la sera
illuminate da candele e lampade. I ciaramellari vi si fermavano a sonare la
pastorale per conto dei devoti che abitavano vicino, dai quali erano
scritturati per la novena; i fanciulli accorrevano e l’aria si riempiva di una
doppia giocondità. Nelle case si vegliava al giuoco. Due o tre famiglie si
radunavano intorno a una tavola, e giocavano alla bassetta o a qualche altro
gioco simile. Nelle famiglie borghesi le vincite si versavano in un fondo
comune per la cena di Natale, che si teneva nella stessa casa dove si era tenuto
il gioco” .. “Era la mistica notte di
Natale, tanto desiderata e aspettata; la poetica notte nella quale pare che
veramente la pace aleggi sugli uomini con le sue bianche ali e si rinnovi il
miracolo millenario. Le edicole sacre folgoreggiavano di lampade e di candele,
che spandevano la loro rosea luce sui festoni che le ornavano, sui muri, sulla
neve delle strade, il cui biancore dubbio si colorava di rosa e d’oro e pareva
punteggiato di gemme brillanti. A un tratto squillavano suoni di campane, che pareva
trasvolassero, si ripetessero più lontano, e dalle case uscivano frotte di
gente imbacuccate, vociando allegramente, per andare alla messa di mezzanotte”
La calata della Tela
“Donna Michela era andata ad assistere alla funzione del sabato santo
nella chiesa di S. Giuseppe, dove la “calata della tela” era più bella che
nelle altre. I padri teatini avevano un gusto teatrale che attirava la folla. Il
gran tendone bigio sul quale era dipinta la croce copriva il cappellone e tutta
la chiesa era immersa nelle tenebre per via delle tende calate sulle finestre.
Ma al Gloria in Excelsis, sciolti i lacci, il gran tendone scendeva giù in
terra, lentamente, e per via di cordoni congegnati fra loro venivano tirate da
parte le tendine delle finestre. La chiesa si riempiva di luce, l’altare
maggiore appariva illuminato da cento candele, in mezzo alle quali troneggiava
un Gesù trionfante con la bandiera in mano; l’orchestra intonava un pezzo di
occasione; per la chiesa correva un fremito di esultanza e su per la volta
volava uno stormo di colombi”
Il Festino di S. Rosalia
“Quell’anno 1763 il Festino si annunciava con un programma attraente.
Il libretto, che si stampava in quelle occasioni, prometteva due giorni di
corse di berberi e ginnetti, due volte gli spari dei fuochi artificiali, dei
quali si dicevano mirabilia, due volte la processione del gran carro trionfale,
la cui macchina sbalordiva quelli che avevano avuto agio di vederla durante i
lavori, e inoltre l’illuminazione sfarzosa delle due strade principali, e la
solenne processione dell’urna argentea contenente le reliquie della vergine
romita, con l’intervento di tutti i cilii e di tutti i conventi con le loro
bare; giuoco di stendardo, e lo spaventoso e meraviglioso vortice della bara
dei santi Cosma e Damiano. La processione quell’anno avrebbe percorso il
quartiere della Kalsa”
I luoghi del romanzo
Il Palazzo del Comune “Allora
il palazzo aveva quattro porte, una per lato; di esse, due in tempi vicini furono
murate. Anticamente il prospetto principale era dalla parte dell’odierna piazza
Bellini, e qui era naturalmente la porta principale, fino a tutto il secolo
XVII, quando, allargato dalla parte della fontana e fatto un nuovo prospetto,
vi si aprì il nuovo portone e si mutò l’aspetto del palazzo. La Correria o
Posta dunque era di fronte all’antica facciata principale, in alcune case
addossate alla chiesetta normanna di San Cataldo, che vi rimaneva sepolta, e
serviva da magazzino, e tale rimase finchè trasportati altrove gli uffici, il
prezioso monumento non rivide la luce. Allora agli uffici si accedeva per due
scalette esterne; la seconda delle quali metteva in un portico, sotto cui erano
le finestre per la distribuzione. Giù nel piano lungo il muro di questa seconda
scala, erano schierati i tavolini dei pubblici scrivani. Quello di don Gaetano
guardava le due statue che si trovavano all’angolo del palazzo municipale, di
fronte alla Martorana. Quelle due statue dell’epoca romana rappresentavano un
magistrato e sua moglie e stavano prima dinanzi la chiesa di S. Francesco;
donde nel 1563 erano state portate in quel posto, e ivi stettero fino al 1823,
quando furono tolte e poste nell’atrio del palazzo”

La Guadagna, dove si trovava la taverna di Zù Saverio il Tripposo “Il sito era pittoresco, anche per questo
sfondo verde. Oltrepassato il ponticello si dilungava in una viottola fra i
campi aperti, a poca distanza della quale sorgeva una chiesetta dedicata alla
Madonna della Grazia, volgarmente chiamata della Guadagna. Più in là, a monte,
sorgeva un antico palazzetto trecentesco di stile ogivale, mezzo rovinato,
antica villa dei Chiaramonte, che le paurose leggende popolari avevano fatta
denominare la Torre dei Diavoli. Un ampio e vasto scenario si godeva dallo
spiazzo davanti alla taverna. Il fiume Oreto, in quelle vicinanze, si incassa
fra le due rive alte, di tufo giallastro, nelle quali si aprono grotte scavate
in tempi immemorabili, alcune delle quali gli antichi ridussero probabilmente
in locali da bagno e si vedono, in alcuni di essi, di forma semicircolare, dei
sedili lungo le pareti”

Il Palazzo del Principe di Paternò “Era nella strada di porta di Termini, quello fabbricato da Guglielmo di Aiutamicristo sul cadere del secolo XV la cui massa col bel portico ancora esiste, ma il cui prospetto fu orribilmente deturpato, rompendo visi le belle finestre trifore, dai ventagli traforati, simili a quelle del coevo palazzo Abatellis, per sostituirvi pesanti e foschi balconi; e sforacchiato il muto per aprirvi quelle indecenti botteghe che ancora vi si vedono. Quando fu fabbricato, era questo il palazzo più grande di Palermo, sicchè era passato in proverbio, come termine di vastità: e nel 1535 vi aveva ospitato Carlo V, e quasi quarant’anni dopo don Giovanni d’Austria, il vincitore di Lepanto. Estintasi la famiglia del fondatore, il palazzo era pervenuto a quella di Moncada. Nel grande salone fra gli avanzi e le tappezzerie splendevano di bellezza di ritratti dei Moncada dipinti da Van Dick, quei ritratti che più tardi ignoranti nipoti lasceranno vendere dai facchini della Fiera Vecchia per poche lire, come vecchie e inutili tele”

Palazzo Reale - “In quel
cadere dell’anno 1789, dunque, il principe di Caramanico era in faccende per
preparare la gran festa. Aveva fatto dipingere il grane salone di stile greco
con la volta affrescata dal Borremans e sette cartelli elogiativi dettati dal
barone Noto; e quel capo d’anno voleva farne l’inaugurazione. Questa
decorazione non piacque a Ferdinando IV, il quale la fece cancellare; e fece
decorare il Salone dal Velasquez che vi dipinse le fatiche d’Ercole, mediocri
pitture”

Vicaria - “La Vicaria era in quel tempo nell’edificio prospiciente la piazza Marina, trasformato poi, a metà dell’Ottocento, in Palazzo delle Finanze. Era una mole massiccia e tetra con due fonti di pietra grigia ai lati della porta e le finestre munite di grosse inferriate, dietro le quali i carcerati si accalcavano o per parlar liberamente coi congiunti o con gli amici, o per ingiuriare con un frasario osceno quelli che passavano, specialmente i signori. Dove ci sono ora gli uffici della Navigazione, vi era allora il corpo di guardia, per cui si diceva la Guardiola; ma i soldati non si curavano di impedire le conversazioni, né le ingiurie e i carcerieri, dentro, avevano altro da pensare. Non vi era fra i reclusi alcuna distinzione: ladri, omicidi, falsari, debitori, rei di contravvenzioni stavano tutti ammucchiati alla rinfusa in locali schifosi e malsani. Unica distinzione era fra le celle; v’erano i cosiddetti “dammusi” cioè le segrete, dove si chiudevano quelli che o per il delitto commesso o per punizione interna meritavano un più aspro trattamento. Nessuno si curava di loro: uno scarso nutrimento di pane era tutto ciò che dava il governo; al resto pensava come poteva una deputazione di nobili, che soccorreva quei disgraziati, li sovveniva. Per corrispondere con quelli di fuori e non far capire le confidenze o gli avvisi che si davano, avevano inventato un linguaggio da essi soli e dai loro compari inteso e a nessuno comunicato”
San Lorenzo ai Colli – “La
villa dei Santapace sorgeva nella vasta pianura, sulla quale si trovano i
villaggi di S. Lorenzo e Tommaso Natale da un lato, Pallavicino e Partanna
dall’altro e dove si trovavano a pochi minuti l’una dall’altra eleganti
palazzine con boschetti ombrosi e viali olezzanti di fiori e praterie. La
pianura correva fino alle falde del Pellegrino, dove si copriva di boscaglie e
fra queste e le anfrattuosità della roccia, abbondava la caccia”

I Quattro Canti “Il 30 aprile 1789 la Corte Capitale
condannava Giovanna Bonanno alla forca da erigersi in Piazza Vigliena. Il 27
luglio la Gran Corte Criminale rigettava l’appello e confermava la sentenza
della Corte Capitanale, fissandone l’esecuzione per il 30 seguente. Dappertutto
se ne parlava e gli sfaccendati si aggiravano ora nei pressi della Vicaria, ora
ai Quattro Canti – dove secondo la sentenza doveva aver luogo l’esecuzione –
per vedere apparecchiare la forca: ora dinanzi a due botteghe, dove due
pittori, ciascuno per conto suo, avevano esposto un ritratto della Vecchia
dell’aceto con le sue caraffine”

Le mura delle cattive – “Andò
alla Marina, salì sulle Mura delle Cattive, cercò un sedile, vi si lasciò
cadere, assorta nelle idee che le fermentavano il cervello, estranea alla
musica che saliva dal palchetto settecentesco; allo spettacolo della
passeggiata piena di lumi, di carrozze, di gente; alla vista del mare vasto e
turchino, sul quale la luna immergeva i suoi riflessi tremolanti. Era usanza
della nobiltà di quel tempo di recarsi alla Marina dopo terminato il concerto
musicale, quando spenti i fanali e vuotata dal popolo e dalla borghesia, la
bella passeggiata restava suo libero campo. Allora le dame venivano nelle loro
berline; i volanti spegnevano le torce a Porta Felice e aspettavano lì; i
signori lasciavano la Conversazione Grande e venivano nelle “Casinette” che
ancora esistono sotto la terrazza pubblica, detta Mura delle Cattive e vi
tenevano circolo e gioco. La via Toledo rimaneva quasi deserta e silenziosa; ed
era l’ora nella quale si vedevano errare ombre di donne, che la miseria
spingeva all’abiezione. Erano per disprezzo chiamate Cassariote”.
Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano.
L'opera è la trascrizione dell'unico romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 580 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.
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