martedì 20 novembre 2018

Luigi Natoli: L'ingresso di re Pietro d'Aragona a Palermo. Tratto da: Mastro Bertuchello

Quanta gente per le strade! E s’avviavan tutti verso porta di Termini donde il re sarebbe entrato. Eran cavalieri a cavallo, riccamente vestiti, che si recavano al luogo del convegno, per andare in corpo incontro al re; dame a cavallo o in lettiga, accompagnate da paggi e da valletti che andavano incontro alle due regine; frotte di borghesi, di mercanti, di artigiani. Intanto alle finestre della via che avrebbe dovuto percorrere il re, si stendevano tappeti e panni dai colori vivaci; le strade si rivestivano a festa anch’esse; e la gaiezza dei colori e la ricchezza dei drappi contrastavano con la miseria del popolo minuto, che si affollava in quelle stesse strade, dando una mostra diversa, ma più eloquente, delle condizioni del regno.
A veder tutta quella gente pacifica, tutta quella festa di colori, nessuno avrebbe immaginato che il giorno innanzi la città era stata sconvolta da un improvviso uragano; e che una gran parte di quelli che si affollavano ora con aspetto giulivo per vedere e applaudire il re, erano stati gli autori del tumulto e del saccheggio.
La casa di messer Ioffo, un mercante anche lui, sorgeva presso l’antica chiesa di S. Maria della Misericordia, abbattuta e rifatta poi nello stesso sito della odierna chiesa della compagnia di S. Maria di Gesù in piazza S. Anna. Era una bella casa da poco costruita, che aveva un loggiato coperto, sostenuto da due arcate a sesto acuto sorrette da colonnine. Venendo da Porta di Termini, il corteo reale, attraversata la piazza della Fiera Vecchia – che anche allora aveva questo nome, – doveva percorrere la larga contrada di Lattarini, la strada della curia pretoriana, detta appunto per questo dei Giudici, passar dinanzi al palazzo della città, e di là pel Cassaro, giungere alla reggia; non senza prima entrar nel duomo a ringraziare Dio, e a ricevere la benedizione da qualcuno dei prelati fedeli alla monarchia, se l’arcivescovo aveva scrupoli. In quel tempo pesava sulla Sicilia un nuovo interdetto. Il papa, che era Benedetto XII, parteggiava, come i suoi predecessori, per Angiò; e aveva spedito lettere ai Palermitani, ai Messinesi, e agli Agrigentini per tirarli nuovamente al dominio francese, promettendo felice e lieto governo come ai tempi di Guglielmo il Buono. Eran corse poi trattative con re Pietro, al quale aveva spedito come suoi legati il vescovo di Besanzone e il patriarca di Costantinopoli: ma questi avevano avuto l’imprudenza di inalberare sulle galere, che li portavano a Messina, le insegne angioine; alla vista delle quali, narra un cronista contemporaneo “li Messinesi factu tumultu et congregatu lu populu a la Marina cum li balestri et altri speci d’armi expulsiru li dicti galei”. Donde gran corruccio dei legati, che in nome del papa fulminarono l’interdetto e nuove scomuniche. Ciò era accaduto nell’aprile di quell’anno 1339.
Il clero di Sicilia, fino ai tempi di Filippo V, non fu mai papista; aveva una certa autonomia, dipendendo in gran parte e in virtù della legazia apostolica, di cui erano investiti i re per la bolla di Urbano II, dalla monarchia. Era un clero nazionale: per quanto cattolico e scrupoloso in materia di dommi e di dottrina morale, in politica era geloso difensore della libertà, della indipendenza e dei diritti del regno. Dal Vespro in poi le scomuniche papali e gli interdetti eran fioccati con un crescendo furioso; ma nè avevano sgomentato il popolo, nè avevano fatto deviare il clero. Le chiese rimanevano aperte, i preti officiavano e amministravano i sagramenti, infischiandosene delle scomuniche dettate da ragioni politiche; tuttavia o per timidezza, o per prudenza, o per qualche scrupolo, i prelati più in vista si astenevano talvolta da manifestazioni troppo ufficiali. Non si sapeva perciò se l’arcivescovo di Palermo sarebbe venuto nel duomo, in tutta la sua pompa per benedire il re: ma in questi casi v’era sempre qualche prelato che ne faceva le veci.
Un rullar di tamburi e uno squillare di pifferi annunciò la venuta della “Città” ossia del magistrato comunale. I tamburini e i pifferi precedevano a cavallo, vestiti con le cioppe, specie di sopravveste, coi colori della città, giallo e rosso, in mezzo a cui l’aquila palermitana allargava le ali. Ogni tamburino portava davanti, pendenti di qua e di là dall’arcione, due tamburi, di forma allungata, che batteva con ritmo alternato o simultaneo. Dietro di essi venivano i portieri, i famigli, lo stendardo del comune, poi i sei giurati, il pretore, il capitano, i giudici della Curia, i razionali e i notari; i giurati e il pretore con le toghe rosse a risvolti gialli, gli altri con le toghe nere; tutti a cavallo: cavalli bardati, guidati a mano da valletti. Seguiva un lungo corteo di cavalieri riccamente vestiti. Era uno spettacolo che da parecchi anni non si vedeva, e che suscitava ammirazione e compiacimento.
Messer Puccio conosceva tutti; e se ne ripeteva i nomi, via via che passavano. Altri cavalieri venivano, con codazzo di paggi. Ecco messer Manfredi Chiaramonte, ecco messer Matteo Sclafano, e messer Andrea Tagliavia, che era vice ammiraglio, messer Goffredo Calvello, che aveva il diritto nelle coronazioni di portar la corona regia sopra un cuscino, messer Corrado Lancia,... e c’era anche messer Roberto Brandi, che aveva ripreso animo, e ora veniva con l’aria di farsi merito del pericolo passato.
Il re giunse poco dopo, con la regina Elisabetta e poco seguito. V’erano Damiano e Matteo Palizzi, il confessore della regina fra Giovanni dei Predicatori, il grande scudiero, il capitano delle guardie, alcuni cavalieri. Tutti a cavallo. Il re era serio, e questa serietà aggiungeva qualche cosa di più triste al pallore malaticcio del volto. Alle parole di benvenuto rivoltegli dal pretore messer Alighiero, rispose breve e secco; prese posto con la regina sotto il grande pallio o baldacchino, di cui ressero le aste i sei giurati, ed entrò in città, preceduto dai cavalieri, dai nobili, dai tamburi della città, fra il pretore e il capitano, senza dire una parola. Agli applausi dei mercanti rispose con un breve cenno del capo; ma corrugò le sopracciglia passando tra la massa del popolo, dalla quale partì qualche sparuto e timido evviva. Il popolo guardava più con curiosità delusa, che con entusiasmo. Sebbene quello scarso seguito, potendo sembrare una condiscendenza alla volontà popolare, dovesse soddisfare gli scalmanati di ieri, tuttavia il popolo s’aspettava di vedere il re con tutto il suo seguito, in tutta la sua volontà imperiosa di sovrano e signore; e quella arrendevolezza, quel cedere al tumulto giudicata una prova di debolezza, che lo spogliava di ogni regalità, scemava con la maestà del re anche l’entusiasmo del popolo…


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
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