venerdì 29 marzo 2024

Luigi Natoli: Il pupo con l'uovo e la Pasquetta al tempo di Federico II. Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

Quel martedì era l’ultima volta che Rinaldo e Vanna si trovavano insieme; perché egli doveva partire entro la settimana e forse non avrebbe potuto rivederla. Appunto per questo prete Matteo volle concedere uno svago maggiore ai due giovani, come per festeggiare e bene augurare alla partenza di Rinaldo. Aveva perciò portato da merendare sul prato della chiesa e del monastero.
V’erano già nel prato delle tende e delle baracche dove si erano improvvisate botteghe di leccornie e di grascia o macelli di agnellini, e taverne: qua e là da fornelli primitivi si levavano globi di fumo e di vapore grasso, e tanfo di bruciato: degli ortolani si cacciavan dinanzi il somaro con quelle corbe, che in siciliano si chiamano zimmili, piene di lattughe e l’agnello, le uova sode. Le lattughe erano e sono ancora di rito nelle feste pasquali; e prete Matteo non le aveva dimenticate. Cristodula vi aveva aggiunto dei fantoccini di pasta addolcita con un uovo sodo nel grembo. Dove le comitive erano numerose non mancavano suonatori; un flauto e una rota, che era una piccola arpa, o una ciaramella e un tamburello o cimbalo che dir si voglia, formavano l’orchestra, più che sufficiente per far ballare. Ma non mancavano i cantori girovaghi, i giullari di piazza, che trovavano subito il loro pubblico; i quali cantavano storie patetiche o canti alquanto grossacci o sguaiati.
E non era tutto il popolo: c’erano anche comitive di mercanti e di nobili, che si riconoscevano alle vesti e alle maniere, alla qualità delle vivande e al modo di divertirsi. Per mantenere l’ordine giravano i mastri di sciurta con gli arcieri e i berrovieri; pronti ad accorrere dove scoppiava qualche rissa: ma in verità la gente in quel giorno, che era come una rivincita sulla quaresima, aveva più voglia di divertirsi che di litigare: e la giocondità si sentiva nel frastuono di migliaia di voci e di risa, negli odori confusi, negli aspetti, nei gesti, nella terra e nell’aria stessa.
Vanna che non si era trovata mai in simili feste popolari, e non aveva mai veduta tanta gente e così varia e allegra, guardava con maraviglia, sorridendo; e provava un gran piacere e una voglia di partecipare a quel tumulto giocondo e spensierato. Ella rivolgeva mille domande, alle quali or l’uno or l’altro rispondevano, ridendo qualche volta della ingenuità della fanciulla. Ma ciò che più la colpiva era il lusso delle donne dei mercanti e dei nobili, che le sembravano tante regine da fate, e le destavano delle ambizioni un po’ vane. Certo quando Rinaldo avrebbe il suo castello, anche lei vestirebbe come quelle donne; e avrebbe il frontale d’oro con una grossa gemma nel mezzo, e collane e cinture e anelli, e bei fermagli per trattenere il manto.
Dolce fantasticare di un avvenire, del quale l’anima sua non ancora solcata da grandi dolori, non dubitava.
Dopo aver girato un poco per la pianura, essi si fermarono presso una comitiva di giovani dame e di cavalieri, che tali apparivano subito alla gentilezza dei volti e alla ricercatezza delle vesti, più che agli schiavi e ai familiari da cui erano serviti.
S’erano seduti su tappeti stesi sopra l’erba, intorno a una tovaglia bianchissima, sulla quale c’erano pasticci e cosce di caprioli e altre vivande e manicaretti; e guastade di vino e coppe di cristallo e d’argento. Uno dei cavalieri aveva un liuto, dal quale di tanto in tanto strappava degli accordi, che parevano sommessi mormori d’acque contrastanti con sassi e sterpi tra il vivace chiacchierio. Pareva stuzzicassero una giovane dama, la quale pur sorridendo, si lasciava attristare da un’ombra di dolore.


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

Luigi Natoli: Le strade di Palermo offrivano allora uno spettacolo variopinto... Tratto da: Viva l'imperatore! Romanzo storico siciliano.

Il pomeriggio del martedì dopo Pasqua, seguendo la vecchia tradizione palermitana prete Matteo condusse Vanna a Santo Spirito fuori le mura; e furono della comitiva prete Demetrio e Cristodula. Tutte le feste il prete andava a rilevare al monastero la fanciulla, e la conduceva a spasso, ora nel piano di Tutti i Santi, come si chiamava la piazza del Duomo, ora per la ruga Marmorea ad ammirare le galanterie esposte nelle botteghe, ora lungo il mare, che ad essi ricordava quello dove per lunghi anni erano vissuti. Qualche volta Cristodula si accompagnava con la fanciulla, e i due preti dietro a discorrere.
Le strade di Palermo offrivano allora uno spettacolo variopinto. La strada, che il popolo chiamava il Cassaro, e che ufficialmente era detta Ruga Marmorea, perchè lastricata di marmi massicci, era di qua e di là fiancheggiata di palazzi turriti e di portici, sotto i quali erano botteghe di stoffe, e qualche taverna, non lurida, tana affumicata, ma ornata di marmi e di pitture. Per la strada e sotto i portici si aggirava una folla varia e cosmopolita. La gente di razza greca si riconosceva al vestito oltre che al volto: gli uomini barbuti, con in capo una specie di casco con lunghe vesti, e sopravvesti, larghe cinture, con stole ricamate, le donne con manti fermati al cinto da larghe stole; con velo cadente su le spalle, fermato sul capo da un diadema d’argento o di metallo dorato: là ebrei, con in capo un piccolo turbante, una tunicella sopra una lunga veste, un mantelletto; più in là un saraceno, bruno, col mantello bianco: più in qua un cavaliere teutonico con la sopravveste scura, la croce rossa sul petto, a sinistra e sul mantello bianco: cavalieri italiani col vestito a gheroni: e le calze lunghe aderenti, o in cotta di maglia d’acciaio; popolani con la tunica corta, i ginocchi nudi, il coltellaccio alla cintola gli uomini, le donne ravvolte nel manto chiuso sotto il naso, e col volto mezzo celato dal fazzoletto: schiavi, mori e olivastri, visi bianchi e biondi di settentrionali, bruni di indigeni; gente a cavallo, qualche lettiga portata da muli bardati a colori vivaci; carri tirati da buoi; e dappertutto una festa di colori, un luccichio di seta, uno sfolgorio di metalli che si componevano, si scomponevano continuamente come in un grande e fantastico caleidoscopio.
Questo spettacolo riempiva di maraviglia prete Matteo e Vanna, che altro spettacolo non avevano mirato fuor delle povere case di Scopello, e a cui la chiesetta pareva un gran monumento. Oh quella chiesa, come diventava piccola e povera al cospetto del Duomo con le sue torricelle svelte e ricche di colonne e di finestre, con le sue grandi arcate, con le sue absidi ed archi intersecantisi di tufo e di lava; al cospetto di quelle chiese con le cupole dorate alla maniera musulmana, o rosse che parevano ardenti, e i muri rivestiti di marmi e di musaico d’oro. Questo era un paradiso che inebbriava gli occhi. E quali profumi esalavano quelle vigne, quei giardini che si alternavano con le case, coi palmizi alti e molli, e i pini odorosi aperti come ampii ombrelli!...
Lo spettacolo mutava solo che mutassero cammino; le corporazioni delle arti e dei mestieri avevano ciascuna la propria contrada: questa via era fiancheggiata di botteghe di cambiatori, coi banchi e le bilance: quell’altra non aveva che fucine di fabbri ferrai: l’altra era di merciai, o di profumieri o di oliandoli; un’altra da spadai e balestrieri: qui erano materassai, lì maccheronai, più giù fabbricanti di piatti, più in su figuliai. Poi, uscendo dalle mura del Sera al Kes, nell’avvallamento del Papireto, la scena mutava aspetto: la palude con le ripe folte di papiri, e di canne: tra le quali svolazzavano uccelli di palude, cui dei cacciatori con falchi e sparvieri addestrati e con fionde davan la caccia: dei mulini da franger canne zuccherifere o grano sorgevano lungo il fiumicello che scaricava le acque della palude al mare. Le acque arrossivano di sangue pel prossimo macello: si colorava di vivi colori, per qualche tintoria. Il rumore delle ruote si fondeva con quello dei telai. Sulla via opposta altri quartieri, quello di Siralcadi più alto, quello della Conceria più giù: case alte e basse, torri di palazzi e campanili di chiese, e palmizi e pini, e orti, come fosse un’altra città: e ancora più in giù un quartiere pieno di traffico, di logge di mercanti, di marinai; indi il porto col castello alla bocca per difenderlo. Tutte cose che apparivano grandi, belle, magnifiche non soltanto a prete Matteo e Vanna; ma anche a prete Demetrio e a Cristodula, che vi erano avvezzi; anche a Rinaldo, che pur aveva visitato altre città, ma che confessava essere Palermo la più bella città del regno, e, forse di tutta l’Europa...


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

Luigi Natoli: La cassata siciliana al tempo di Federico II. Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

Con questi pensieri al capo, giunse alla casa del prete greco. Vanna era nella stanza del pianterreno, e lo aspettava; era certa che Rinaldo sarebbe ritornato. Prete Matteo le riferì l’esito delle loro pratiche. Era soddisfatto il buon uomo, perché si era tolto un gran peso dallo stomaco; se ora il Signore lo chiamasse a sè, morrebbe senza preoccupazione per l’avvenire di quella fanciulla, che amava come una sua figlia. Dopo questa relazione, egli parlò sottovoce con la donna del prete greco e con costui, coi quali parve si accordasse sopra qualche cosa: poi voltosi a Rinaldo, che guardava Vanna, gli disse:
- Voi resterete a prendere un boccone con noi, messere. Oggi è festa, e possiamo mangiare di grasso, sebbene siamo in quaresima. Madonna Cristodula ha tirato il collo a un cappone e ha preparato dei maccheroni con la ricotta, che innaffieremo con un buon vino del casale di Mensilemir che il prete qui si fa venire di proposito.
Rinaldo non domandava di meglio: vide il viso di Vanna illuminarsi di un sorriso di gioia, e ne gioì egli stesso. Ecco una giornata felice! Volle anche da parte sua contribuire a quel desinare, e domandata la licenza andò nella città antica, che aveva preso il nome di Cassaro, dove erano botteghe di leccornie; l’arte culinaria raggiunse nella Sicilia l’eccellenza, tanto che da qui i Romani dell’impero traevano i migliori cuochi: c’era dunque una tradizione, che probabilmente insegnò agli arabi a manipolare alcuni manicaretti, pervenuti fino a noi con nome arabo. L’abbondanza poi dello zucchero, per la vasta coltivazione che si faceva delle canne zuccherifere, rendeva comuni e popolari le golosità; e però v’erano, come oggi, molte botteghe dove si spacciavano. La cassata, la cobaita, la nostra mostarda – ch’è tutt’altra di quella senapata – hanno una venerabile antichità, e con esse altri dolciumi, che hanno nome di origine latina. Rinaldo andò a comprare il dolce caratteristico siciliano che è la cassata, allora più semplice, ma di cui erano principali elementi, come oggi, la ricotta, e la pasta dolce a forma di tegame. Questa goloseria suscitò l’entusiasmo di Cristodula e fece venire l’acquolina in bocca ai due bravi preti.
Vanna aiutò la sua ospite, che s’affacendava dinanzi ai fornelli e andava e veniva, con una fretta che pareva una palla che si rotolasse. La fanciulla attendeva a rosolare il cappone; il calore della fiamma le colorava le guance, ma la gioia che chiudeva in cuore, illuminava quel roseo più della fiamma stessa.


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

giovedì 28 marzo 2024

Luigi Natoli: Pasqua e l'insegnamento di Gesù. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie

Che allegro scampanìo per l’aria primaverile!
Grandi e sonore campane nelle città; piccole e timide campanelle nelle chiesette dei villaggi; ma tutte suonano a gloria: è Pasqua.
Quasi sempre la festa cade in aprile, più raramente negli ultimi di marzo, ma sempre in primavera: essa è la festa della Risurrezione.
Risorge dalla morte Gesù vittorioso: risorge la natura dallo squallore dell’inverno; risorgiamo anche noi con maggior lena alle nostre opere.
La festa di Pasqua era propria degli Ebrei, e commemorava la loro liberazione dalla schiavitù del Faraone.
Ora Gesù fu arrestato, martoriato e crocifisso, e risuscitò nel tempo, che in Gerusalemme si celebrava la Pasqua: perciò i cristiani conservarono il nome di Pasqua alla festa che ricorda la risurrezione di Gesù: con la quale hanno termine le funzioni della Settimana Santa.
Pasqua è la festa più gioconda dell’anno. Le campane, che per tre giorni sono state mute, squillano ora lietamente, e sembra che ci invitino a dimenticare i dolori, e a godere del bel tempo; ma altre cose ci dicono più belle e più sante.
Ci dicono che Pasqua è la festa del perdono: Gesù morì sulla croce perdonando i suoi nemici, e insegnandoci ad amarli. Se tu hai un nemico, va’ a trovarlo; portagli l’ulivo della pace; abbraccialo e bacialo, e dimentica il male che ti ha fatto. Se il male l’hai fatto tu a qualcuno, va a domandargli perdono. E farai bene.
“La pace sia con voi” era il saluto di Gesù e ce lo ha lasciato per insegnamento.

L’insegnamento di Gesù

Nella sua predicazione, Gesù ridusse tutto il suo insegnamento a due doveri:
Ama Dio sopra ogni cosa.
Ama il prossimo tuo come te stesso.
E che vuol dire amare il prossimo come noi stessi?
Gesù lo spiegò con due precetti molto semplici:
Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Fa agli altri quello che vorresti fatto a te.
Ti piacerebbe dunque che altri ti molestasse, ti offendesse? No: e dunque non molestare, non offendere gli altri. Ti piacerebbe essere aiutato quando hai bisogno? Sì: e allora aiuta gli altri che han bisogno di te.


Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
L'opera è la fedele trascrizione del volume pubblicato dalle Industrie Riunite editoriali siciliane (Palermo) nel 1925 ed è corredato dalle foto originali del libro. 
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour) e presso il punto vendita del Centro Commerciale Conca d'Oro, La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15) Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

mercoledì 27 marzo 2024

Luigi Natoli: Popolo, tu hai compiuto un gran fatto... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico


Scendeva il popolo vittorioso nuovamente pel Cassaro, bramoso di nuovo sangue. Messer Ruggero andava innanzi a tutti, con la spada in pugno, gridando:
- Alla Curia! Alla Curia!... Andiamo a prendere il gonfalone della città!...
E la folla acclamava. Il gonfalone dava una significazione alla rivolta, raccoglieva il popolo sotto un segno glorioso, rievocava memorie non ancora spente.
Qualcuno, dominando il tumulto, gridò:
- Messer Ruggero! Guidateci voi!... Guidateci! Siate il nostro capo!...
E la folla a urlare:
- Viva Ruggero di Mastrangelo!... Viva il capitano del popolo!...
Per le rughe strette e tortuose, che si rischiaravano improvvisamente alla luce di quelle faci fumiganti, e mostravano i volti commossi e spaventati delle donne e dei vecchi affacciati alle finestre, il popolo si avviò verso la Curia, le lame delle spade, le punte delle lance, balenavano di vividi e sanguigni guizzi al riflesso delle torce, e rendevano più sinistra quella marcia di popolo urlante.
La piccola piazza della Curia, l’atrio dei giudici si empirono di una folla che s’andava sempre più addossando e pigiandosi, tra le case e le chiese di S. Maria dell’Ammiraglio e di S. Cataldo, e il bel campanile, slanciato all’aria, colonna su colonna, che lumeggiato in basso dalla rossa luce delle torce, pareva smarrire la cupola nel cielo notturno. Su le mura delle chiese, dell’atrio, delle case, ombre strane e fantastiche si agitavano; si contorcevano l’agitarsi delle fiaccole e l’ondeggiare delle fiamme.
Un vocìo confuso, indistinto, alto come un brontolìo di mare tra scogliere, errava sopra tutte quelle teste, che pareva aspettassero qualcosa, che nessuno sapeva ma che sentiva nello spirito anelante. Ed ecco sopra alcuni gradini o sopra qualche sasso levarsi un uomo. Era messer Ruggero di Mastrangelo, alzata la spada ancor fumante di sangue, fe’ cenno di voler parlare; e subito corse un ordine, un invito, una esortazione; e un profondo silenzio chiuse le bocche, trasfuse negli occhi e nelle orecchie tutte quelle anime.
L’antico bajuolo con voce sonora gridò:
- Popolo, tu hai compiuto un gran fatto: hai vendicato diciassette anni di tirannide; hai cancellato la vergogna che ci rendeva ludibrio delle genti; hai insegnato al mondo come si abbattono le tirannie, e mostrato che collera di popolo è collera di Dio. Siano rese grazie a Dio che armò il tuo braccio! Ora è altra bisogna, popolo. Vuoi tu ritornare sotto il giogo di Faraone?...
Un urlo formidabile fece tremar la piazza e le case, ed esaltò i cuori.
- No! no!... meglio seppellirci sotto le rovine della città!...
Niccoloso Ortoleva e Arrigo Baverio, due cavalieri che avevano compiuto prodigi, affrontando pei primi i francesi, gridarono sopra tutte le voci:
- Né Faraone né altri re. Troppo sperimentammo la nequizia dei re!...
- Vogliamo esser padroni di noi stessi, non servi d’alcuno – gridò un popolano grasso noto in tutta la città, Nicola d’Ebdemonia.
E tutto il popolo con una sola volontà, urlò:
- Sì, sì: libertà!... libertà!...
Allora Ruggero di Mastrangelo sollevò in alto il gonfalone della città: l’aquila d’oro in campo di porpora, e agitandolo tra il rosseggiar delle faci, a voce alta e squillante gridò:
- E sia! Buono stato e libertà!... Buono stato e libertà!...
E migliaia di voci ripeterono con entusiasmo:
- Buono stato e libertà!...
Squillarono allora le campane della torre di S. Maria dell’Ammiraglio; squillarono sopra la moltitudine, che levava in alto le mani, come giuramento; e alle campane risposero gli squilli delle trombe e il rullìo dei tamburi moreschi del comune e suoni e grida si fondevano insieme, tra lo squassar delle torce e le salve delle mani e delle armi agitate in alto, come se un vento le scotesse furiosamente: e lo sventolìo di quel gonfalone, che librava l’aquila d’oro sopra quell’oceano di teste commosse.
E tra la commozione, le grida, i giuramenti, fra gli abbracci di gioia, lì, ai piedi del bel campanile, il popolo elesse i suoi capitani e il consiglio civico: Ruggero di Mastrangelo, Arrigo Baverio, Niccoloso d’Ortoleva cavalieri e Nicola d’Ebdemonia popolano, capitani: Pierotto da Caltagirone, Riccardo Fimetta, Bartolotto de Milite, Giovanni di Lampo e il notaio Luca di Guidaifo consiglieri.
La rivolta si tramutava in rivoluzione.
Non erano ancora scorse quattro ore dal primo squillo della campana del Vespro, dal primo colpo di pugnale, dal primo sangue sparso; e Palermo aveva abbattuto un governo, distrutto un nemico potente e temuto, proclamato il Comune libero!...
Al suono delle trombe e dei taballi, tra lo squillare delle campane a distesa, la moltitudine si rovesciò nuovamente per le strade, corse per tutti i quartieri della città con un motto feroce, nel quale si accumulava l’odio profondo e tenace:
- Non un francese! Né la semente d’un francese!... Che si perda anche la memoria dell’odiata tirannia straniera.
E intanto che il nuovo governo sedeva nella Curia, e cominciava a provvedere, la caccia e la strage ricominciava per ogni dove, implacabile e senza tregua.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), 

Luigi Natoli: In quel momento le campane della chiesa di Santo Spirito sonavano a Vespro. Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico

S’appressava attraverso il prato, fra un codazzo di curiosi, un piccolo corteo nuziale. Era Benvenuta di messer Ruggero di Mastrangelo con Guglielmo di Santafiora. Venivan verso la chiesa, inconsapevoli di quell’incontro con Droetto de Genlis. Le grida dei soldati, che s’eran messi a frugare qualche popolano, aveva messo un po’ in sospetto Benvenuta, che si stringeva accanto allo sposo, e messer Ruggero di Mastrangelo che s’era posto all’altro lato della figliola, affrettandola verso la chiesa.
Intanto, più in là sergenti e soldati continuavano a gridare:
- Frughiamo questi paterini! debbono avere armi!...
- Sì, frughiamo! – gridò da canto suo Droetto de Genlis; e avvicinatosi a madonna Benvenuta, con un gesto la fermò, aggiungendo: – Voi nascondete armi!...
Messer Ruggero diventò rosso dalla collera.
- Voi scherzate, messere! forse ignorate chi son io!...
Ma Droetto grugnì, e voltosi alle lance spezzate che lo spalleggiavano, gridò:
- Frugate cotesti poltroni; io mi incarico della donna.
E aggiungendo l’atto alle parole, cacciò le mani oltraggiose dentro le vesti di Benvenuta, che mandò un grido e svenne fra le braccia di messer Guglielmo.
- Ah questo è troppo! – urlò esasperato messer Ruggero, cercando divincolarsi dalle lance spezzate che lo tenevano, per gittarsi addosso a Droetto, che tentava forse un nuovo oltraggio, col volto imbestialito dalla vendetta e dalla lascivia; ma nel tempo stesso si vide il giullare, farsi largo, giungere a Droetto, trarlo indietro per la nuca, gridando:
- Tu non ci torni!...
E con rapidità fulminea, trattogli dal fianco il pugnale, glielo cacciò nella gola due volte, lo levò in alto sanguinoso, gridò:
- Muoiano!... muoiano questi francesi, perdio!...
Un urlo, simile allo scatenarsi di un uragano gli rispose; si videro lampeggiar venti, trenta lame, si udì l’urto formidabile e tremendo della vendetta.
In quel momento le campane dalla torre della chiesa di Santo Spirito sonavano a Vespro.

Sonavano a Vespro le campane, per invitare i fedeli alla preghiera, e chiamare i frati nel coro; e l’ignoto fraticello, salito su la torre indorata dal sole cadente, non sapeva che quello squillo di campana avrebbe segnato nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda.
Dalla torre aveva mirato la pianura festante sotto il sole che declinava dietro le vette di Monte Cuccio, aveva veduto il formicolìo della gente, udito il vocìo confuso e disordinato di migliaia di voci senza capire; e aveva sonato, come sempre, l’ora della dolce e raccolta preghiera. Ma giù nel piano, quel che feriva l’aria sul colpo di pugnale che atterrava il sire Droetto, sonò come uno squillo di tromba; come un segno aspettato, come una voce di comando e di esortazione.
Il fraticello continuava a sonare, con gli occhi erranti ora pel cielo, dove vagavano nuvolette, isole d’oro in un mare di porpora.
Ma poi, crescendo il rumore, richinati gli occhi, gli occhi gli si spalancarono di stupore, un fremito gli passò pel sangue; e il suo braccio, quasi mosso da una forza ignota, continuò a sonare, a sonare, a sonare, con nuovo vigore, squilli serrati, violenti di guerra e di strage sopra il tumulto e il balenar dei ferri e il rosseggiare del sangue.
Quella improvvisa zuffa, quelle grida, il cozzo delle armi, si propagarono in un baleno per la pianura. A un tratto tende e barracche furono rovesciate, tutta quella folla di uomini, come sospinta da un segno d’intesa, da un ordine, si levò in piedi. Molte donne traevansi dal seno i coltelli e li porgevano agli uomini; chi non aveva coltello impugnava un bastone, toglieva le aste delle tende, fracassava i banchi delle barracche, raccattava sassi. Tra le grida qua di spavento, là di coraggio e di incitamento, la folla accorreva. E su tutte le bocche suonava il grido ferocissimo:
- Muoiano! muoiano!...
A quell’improvviso e inaspettato insorgere di tutto un popolo, i sergenti, le lance spezzate, i soldati di Francia parvero sgomenti; ma fu un lampo. L’onta, la vergogna, l’ira, la superbia rissosa, il vantaggio delle armi, li spronarono a un contrattacco. Esperti nelle armi, poichè erano inferiori di numero, cercarono di raggrupparsi, di formare un forte nucleo, per gittarsi sopra la folla, che la presenza e lo spavento delle donne e dei fanciulli imbarazzava un poco.
Ma non erano più in tempo. Sparsi qua e là, in piccoli gruppi, stretti da ogni parte, invece di attaccare si trovaron costretti a difendersi disperatamente. Maggiore era l’accanimento dinanzi alla chiesa dove messer Ruggero di Mastrangelo aveva fatto trasportar subito la figlia e dove correvano a rifugiarsi le donne spaventate nel momento che Damiano e gli «Albergarioti» investivano le lance spezzate.
Le quali a quell’attacco, costrette a mutar fronte, per difendersi, dovettero lasciar Giordano, che scaraventò sul viso di un soldato che gli era vicino il liuto, approfittò di un istante, per chinarsi rapidamente sopra Droetto, togliergli la spada e l’elmetto; e così armato gittarsi nel combattimento, come un leone famelico in una mandra di polledri. La pugna si rinfocolò; altri francesi, colpiti da coltelli, da sassate, da mazzate, cadevano; ogni caduto, era una spada, una picca, un pugnale che passava nelle mani degli insorti.
Messer Ruggero, uscendo in quel punto dalla chiesa, con uno sguardo capì il gran momento; e raccolte le armi di un cavaliere francese caduto, alzando la spada gridò:
- Popolo! alla riscossa! muoiano tutti i francesi!...
Guglielmo Santafiora e altri cavalieri palermitani, seguendo il suo esempio, s’armarono allo stesso modo, e tutti insieme fecero impeto dietro di lui. E intorno a loro si strinsero popolani e borghesi armati o no, ripetendo quel grido, cosicchè messer Ruggero, noto per gli uffici tenuti, per la ricchezza, per l’autorità diventò, senza volerlo, il capo, il condottiero di tutta quella moltitudine, che, buttata la pelle di agnello rassegnato, appariva formidabile come belva sitibonda di sangue.
Era per tutta la pianura una mischia spaventevole e crudele. Diciassette anni di servaggio, di crudeltà subite, di violenze, d’infamia sofferte, diciassette anni di vergogne e di torture pareva avessero adunato tutte le loro collere in ogni braccio; la vendetta imprigionata da diciassette anni in ogni cuore, pareva balestrare nei muscoli, dilagare nel sangue, diventar volontà nelle mani; tramutarsi in lama, in legno, in sasso, in denti, in urlo!...
- Muoiano! muoiano!...
E morivano. Viluppi e aggrovigliamenti mostruosi di corpi che si piegavano, si rizzavano, si contorcevano, di braccia che si cercavano, si afferravano, contendevano, vibravano; balenìo di armi, sulle quali il sole cadente folgorava fiamme; cozzo di acciai; un volar di sassi, un agitar di bastoni, una confusione, un urlìo; ira, dolore, gemiti, bestemmie, trionfi!... Un uomo cadeva trafitto da dieci, venti colpi; un’onda vivente e violenta gli passava oltre, atterrava un altr’uomo; e passava ancora, terribile, inarrestabile, come un fiume in piena; travolgendo, trascinando.
E la campana sonava ancora, incessante, implacabile. Sonava, sonava; il braccio del fraticello pervaso dall’impeto di quella tempesta di sangue, era diventato il braccio del popolo furente; la sua volontà era diventata suono; il suono gridava sopra il tumulto, sopra il cozzar dei ferri, sopra gli urli; gridava: - Muoia! Muoia!...
Giordano, costretto a mettersi sulla difensiva, all’attacco veemente e irresistibile dei due cavalieri francesi, s’impegnava contro di essi in un combattimento maraviglioso e terribilmente epico, nel quale pareva che le tre anime fossero cresciute; anime di giganti armati di cento braccia. Ed ecco l’onda trionfante del popolo rovesciarsi nuovamente sopra di loro; e Damiano con un largo coltello da beccaio in pugno, sangue la lama, sangue le mani, sangue le vesti, feroce, trasfigurato, alla testa di tutti; e accanto e dietro gli «albergarioti» simili a un’onda di tigri, armati di tutte le collere; e fra loro anche donne, che la vista del sangue, l’urlìo, il contagio della battaglia, cancellata ogni timidezza, trasfigurava in lionesse, tramutava in vendicatrici di tutte le donne violate, uccise, dilaniate da diciassette anni. Anch’esse, coi capelli al vento, le vesti lacere, le braccia irrigidite dalla tensione nervosa, gli occhi fiammeggianti accorrevano alla vendetta e alla strage; avventavansi con le unghia sui nemici; affondavano le dita nelle gole dei fuggiaschi...
Giordano ebbe da questo irrompere di popolo un nuovo aiuto; con una rapida mossa, evitati i ferri dei due cavalieri, aveva potuto balzare al fianco del sire de Saint-Victor, e cacciargli la spada fra le costole fino all’elsa:
- E questa per Gamma Zita! – gridò.
Intorno la pianura era sparsa di morti; paesani e stranieri; il sole scendeva dietro i monti tra nubi color di sangue. La luce crepuscolare arrossava gli alberi, i muri della chiesa, la pianura; e tutto pareva tingersi di sangue. La campana sonava, sonava ancora!...
Per la pianura correvan frotte di popolani, di qua e di là, inseguendo qualche francese che cercava scampo nella fuga: e lo raggiungevano, e quello cadeva. Non uno giunse a fuggire; quei duecento un’ora innanzi superbi e prepotenti nelle loro belle vesti, nelle loro armature, fidenti nella loro potenza, sicuri della sommissione di un popolo inerme, fiduciosi della tollerante viltà che per diciassette anni aveva piegato il collo, giacevano ora per la pianura, a gruppi, ammonticchiati, sparsi, immersi nel loro sangue, con gli occhi sbarrati o chiusi, il volto spaventato o ancor iracondo. Giacevano pesti, disarmati, fra le tende sbrandellate e sanguinose, le barracche distrutte, le mense scompigliate, i vasi rotti, le otri del vino aperte. Qua e là pezzi di legno caduti sulle braci ancora accese, bruciando levavan lingue di fiamme e nubi di fumo.
Ansanti, frementi, anelanti ancora, quelle torme si adunavano, si raggruppavano, senza un disegno, ma agitate da un pensiero confuso; quando messer Ruggero di Mastrangelo gridò con voce tonante:
- A Palermo! a Palermo!...
E allora da mille duemila bocche si levò formidabile, come scoppio di mille tuoni, tra l’agitarsi di mani convulse, il grido:
- A Palermo! a Palermo!... Morte ai Francesi!...


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli: Il piano di Santo Spirito s'andava empiendo di popolo... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico

Il piano di Santo Spirito s’andava empiendo di popolo. Qua e là si piantavan tende per difendersi dai raggi del sole e sotto le tende, nell’erba fresca e molle, si sedevano intere famiglie. Traevano da ceste e da bisacce le provviste; accendevano fuochi in focolari improvvisati con sassi, e vi ponevano a cuocere le vivande. Dalle fiamme si levavano sottili spirali di fumo, che s’allargavano in alto e si disperdevano, portando dovunque l’odor dell’arrosto, e qualche volta un misto di bruciaticcio. Qua e là si improvvisavano barracche dove si vendevano dolciumi; piccole paste in forma d’agnello o d’altro, nelle quali era, come incastonato, un uovo sodo; o biscotti di farina e miele. Altre barracche odoravano di vino. Dalle anfore di terracotta smaltata, dalle bocce di vetro che avevano nome garaffe, il vino usciva nelle tazze, nelle coppe, nei boccali di terracotta, gorgogliando, spumeggiando, sfolgorando riflessi di fiamma, promettendo l’oblìo e l’ebbrezza.
Si aggiravano venditori ambulanti traendosi dietro l’asinello con lo «zimmile» carico di lattughe, e con grandi orciuoli pieni d’acqua, gridando con voci cadenzate. Dei giullari vestiti stranamente, con un liuto o una guidema pendente sul petto, saltarellando con strani e ridicoli lazzi, si fermavano or dinanzi una or dinanzi altra comitiva, sotto questa o quella tenda, e cantavano qualcuna delle canzoni che più piacevano al popolo. Canti spesso un po’ sboccati e comici, o appassionati; più raramente tristi.
E intanto giungeva sempre altra gente. Dei popolani armati di bastoni si spingevano innanzi le donne, come un pastore fa delle pecore, sceglievano il posto, le mettevano a sedere; andavano e venivano dalle barracche al posto scelto. Si potevan distinguere i vari quartieri della città; chè in quel tempo vi erano fra un quartiere e l’altro quasi dei confini, e per poco gli abitanti dell’uno non consideravano come stranieri quelli dell’altro, fino al punto da non consentir matrimonii fra persone di quartiere diverso. Così nel vasto piano si raggruppavano per parentele e quartieri; e ogni quartiere si riconosceva da una foggia particolare di vestire e di scelta di colori. Là erano quelli della Kalsa, più in qua quelli di Siralcadio; oltre, quelli del Cassaro, i più ricchi e cittadineschi; da questa parte, presso la chiesa, quelli dell’Albergaria, i più clamorosi e litigiosi: a un altro lato erano i pisani, e più giù gli amalfitani, e accanto i genovesi, e i greci del sobborgo marittimo, le colonie italiche cioè o gli avanzi dell’antica popolazione.
Sorgeva in mezzo, dominatrice, la chiesa con le sue ogive bicrome, intrecciate fra loro, lungo i fianchi e sulle absidi, tra le quali si aprivano le finestrelle archiacute; e lanciava la torre del campanile, quadrata, ornata di qualche colonnina impegnata agli spigoli; sotto la quale si apriva il piccolo portico, sorretto da pilastri.
Dalla porta spalancata veniva fuori l’odor dell’incenso, e si travedeva l’altare illuminato da ceri. Dei frati apparivano sulla porta, ristavano sul portico, vestiti nelle loro bianche tonache, e guardavano quello spettacolo annuale, sempre nuovo e bello, che con la varietà dei colori e delle luci, col movimento delle scene, la vivace esuberanza della vita animava per un giorno la solitudine e il silenzio del loro eremitaggio.
Intorno si stendeva la corona dei monti, quali percorsi dal sole, quali velati dall’ombra, un’ombra azzurrina e vaporosa; monte Cuccio innalzava il suo vertice velato dai raggi, e più in giù a tramontana, erto sul mare, torreggiava il Pellegrino.
In mezzo alla vasta conca, tra il verde dei giardini si vedevan bene le mura e le torri della città, e la mole grigia e severa del palazzo reale, con le sue alte e formidabili torri; e le chiome dei palmizi, che talvolta sorpassavano l’altezza delle mura.
Damiano s’era recato anche lui alla festa, con tre o quattro amici; avevano una guidema e una zampogna di canna, e parevano non d’altro solleciti che di divertirsi; e andavan trascorrendo fra quelli dell’Albergaria e del Cassaro senza fermarsi a lungo, guardando, sonando, sgambettando, ed evitando destramente di incontrarsi coi sergenti e i soldati francesi e provenzali, che andavano arrogantemente su e giù per il prato, fra le comitive, le tende, le barracche.
Il Giustiziere aveva sguinzagliato a Santo Spirito un duecento di quei, più ribaldi che soldati, il fior fiore dei più prepotenti, per tenere a freno quella moltitudine e sorvegliare se mai qualcuno avesse armi contro il divieto. Essi andavano fieramente, coi pugni sul fianco, le spade battenti sui polpacci, vestiti di maglia d’acciaio, o di corazza, con gli elmi luccicanti al sole. Si fermavano, dove loro piaceva meglio, toglievano dalle mensa apparecchiate sull’erba quel che loro talentava o bevevano, senza pagare; somministravano qualche calcio, minacciavano di segar la gola a chi non si lasciava strappar dalle mani quel che stava mangiando.
Damiano seguiva con l’occhio or questo or quel gruppo di soldati. Talvolta si levava un battibecco più o meno rumoroso, i sergenti e i soldati, seguendo il loro costume spingevano la loro audacia sulle donne. Qualcuno gridava tra supplice e minaccioso:
- Lasciateci stare!... lasciateci godere la bella giornata!... Andatevene; non vi disturbiamo, noi...
Ma queste parole suscitavano l’indignazione di quei prepotenti, che credevan forse di far troppe concessioni d’onore, allungando le mani lascive sulle donne, e rivolgendo loro frasi e inviti licenziosi.
L’arrivo rumoroso di un gruppo di soldati, dominò per un momento il confuso vocìo della moltitudine, e le brighe provocate dai perturbatori.
Parve che un uragano si abbattesse sopra il prato, e che fosse arrivato improvvisamente un esercito nemico all’assalto di quella moltitudine tranquilla e inerme. Erano alcune lance spezzate, guidate dai quattro amici: Droetto di Genlis alla testa, Bertrand de Taxeville, Ugo de Saint-Victor e Gastone de Brandt, e altri sei o sette cavalieri della stessa risma.
Giunsero come un nembo, schiamazzando, gittandosi addosso alle comitive che li precedevano, sulle tende e sulle barracche; abbattendo, sconvolgendo, mettendo lo sgomento da per tutto. Si avvicinavano verso la chiesa, fermandosi dinanzi al portico, disturbando coi loro lazzi le donne, e sollevando malumori e proteste...


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli: Quel martedì 31 marzo la giornata era bella e serena... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico.


La pasqua di quell’anno veniva triste e sconsolata: un nuovo bando del giustiziere aveva minacciato più fiere punizioni per coloro che portassero armi e promesso premi a coloro che ne scoprissero celate nelle vesti o nelle case dei cittadini.
Ciò era stato fomite di nuove e più violente vessazioni.
Si incontravano qua e là grossi drappelli di soldati e di guardie, che entravano nelle case dei cittadini, buttando all’aria masserizie e arredi; bastonando o trascinando in carcere chi osasse alzare la parola; compiendo nefandezze, tra osceni sghignazzamenti. Per cansare la nuova tempesta, andavano i cittadini a capo basso e frettolosi e vedendo venire incontro qualche figura di straniero, si traevano di lato, e trascorrevano oltre quasi fuggendo, per evitare ogni anche lieve incidente. E tuttavia ciò non li salvava: bastava che uno scherano qualunque gridasse:
- Un paterino fugge!
Perché tutti gli corressero addosso, lo buttassero per terra, coprendolo di percosse e di sputi, e spogliandolo, se v’era cosa da portargli via...
Ma più esoso ancora era stato in quei giorni il fiscalismo, nella riscossione delle gabelle e degli altri balzelli straordinari imposti dal re per le spese della prossima guerra.
Nessuna opera di spoliazione fu mai così brigantesca. Intere famiglie eran buttate in mezzo alla strada, seminude, intanto che i ministri del tribunale vendevano la loro roba anche per qualche carlino; ed esse eran costrette ad assistere allo sperpero delle cose a loro più care, con le quali erano vissute tutta una vita, alle quali eran legati da dolci e tristi ricordi. Nè le loro lagrime, nè le loro preghiere disarmavano l’immane rapacità di quei ribelli ufficiali, che rispondevano ferocemente.
- Pagate, paterini, pagate!
Tra questi dolori, le solennità della settimana Santa erano trascorse; e il popolo aveva nelle chiese e nei riti cercato un conforto e un oblìo.
Allora, o importazione di costumanze di altri paesi, o invenzione di anime timorate, le cerimonie della settimana santa si sposavano a rappresentazioni popolari. Il popolo non era soltanto spettatore commosso dei riti, ma vi partecipava, come elemento attivo, nelle processioni e nella rappresentazione di personaggi evangelici o biblici.
Ciò era valso a dargli un diversivo ai suoi dolori.
Le feste di Pasqua duravano qualche giorno dopo la domenica; in quei giorni il popolo se ne andava nelle prossime campagne, dove fossero santuari; ed ivi sull’erba, per commemorare la pasqua biblica, si mangiavano ova sode, lattughe e agnello arrostito: ma di solito a queste che erano le pietanze di rito, altre se ne aggiungevano, e dolciumi di origine araba, come la cassata e la cubaita e manicaretti, largamente inaffiati dal vino. Nel tripudio, che l’ebbrezza del vino metteva nei cuori, si intrecciavan sui prati balli e canti, al suono dei tamburi e delle guideme o dei liuti: e per due, tre ore, il popolo obbliava e pareva felice.
Il martedì dopo Pasqua i cittadini solevano recarsi nel prato di S. Spirito, così detto per un monastero di cisterciensi, del quale non avanza ora che soltanto la chiesa.
Dalla porta di S. Agata dell’Albergaria il monastero non era più lontano di mezzo miglio; vi si andava per un sentiero che attraversava orti e vigne. Oltre il prato si apriva, e ancor s’apre, un largo burrone, in fondo al quale scorre l’Oreto. Da circa un secolo e mezzo quel prato fu convertito in cimitero, e gli alti e neri cipressi ombreggiano croci e lapidi, là dov’eran erbe verdi e fiorite, e pascolavan le caprette sotto l’occhio vigilante di un pastorello semi-selvaggio.
Approfittavano di quell’occasione gli sposi, che dovevan celebrar le nozze, per unire la loro gioia all’allegria generale, parendo loro un buon augurio, e come un bel saluto, la giocondità del popolo; e uno sfondo vivace e pieno di allegria, quel quadro vario di colori e di forme, risonante di canzoni e di musiche.
Messer Ruggero di Mastrangelo non avendo potuto celebrare con pompa la seconda funzione di matrimonio, aveva voluto che almeno in quella occasione Benvenuta e messer Guglielmo Santafiora si recassero nel pomeriggio del martedì alla chiesa di S. Spirito, per partecipare alla festa comune.
Non aveva creduto di far larghi inviti, per evitare inconvenienti; pochi amici intimi e i servi avrebbero accompagnati gli sposi, così non avrebbero dato negli occhi, e avrebbero potuto tranquillamente divertirsi.
Quel martedì, 31 marzo, la giornata era così bella e serena, e splendeva un sole così tepido e l’aria era così olezzante di mille profumi, che pareva invitasse anche i più poveri, i più tristi, i più angustiati a lasciar l’ombra e la tetraggine della città, per correre ai campi; per sentire almeno la libertà del sole e dell’aria, bere la giocondità della natura festante di fiori e di trilli.
E dalle tre porte meridionali della città: la porta Mazzara, la porta di S. Agata e la porta delle Terme (diventata poi di Termini) poco dopo il mezzodì uscivano tre fiumane di popolo, a gruppi, a comitive, di ogni ceto e condizione. Le donne vestite a festa, con gonne dai colori vivaci, quali tutte d’una tinta, quali variate; le popolane della Kalsa e del quartiere di Denisin, ancora attaccate al vecchio costume musulmano avevano il capo avvolto in un velo bianco, che lasciava scoperti gli occhi e il naso, e dava ai volti una espressione di misteriosa bellezza, agli occhi un fulgore umido e voluttuoso. Le altre, specialmente della borghesia o della nobiltà, portavano il viso scoperto, e la glimpa su le spalle, più o meno ricca di nappe e fiocchi di seta e d’oro.
Le dame e i cavalieri, venivano a cavallo; e i cavalli, guidati a mano da scudieri o da schiavi, si pavoneggiavano nelle gualdrappe e scotevano i ricchi pennacchi svolazzanti sulle loro teste. Sotto i passi dei cavalli e dei pedoni si levava una leggera nuvola di polvere, che avvolgeva i più lontani; ma dentro la nube balenavano al sole i riflessi della seta e degli ori e le tinte vivaci si attenuavano in sfumature delicate e un poco grigiastre.
Di quando in quando la folla si sbandava di qua e di là, sotto le siepi o i muriccioli dei poderi, per lasciar passare i sergenti del giustiziere, o qualche signore francese. Essi prendevan per sè quasi tutta la larghezza del sentiero, ributtando prepotentemente con ingiurie, spintoni, colpi del fodero della spada o di bastone, i popolani e i signori, per aver libero il passo; gittando qualche parola audace alle donne che apparivano loro più belle e desiderabili.
Gli uomini stringevano i denti, seguivano con sguardo lampeggiante d’odio quei prepotenti e tacevano. La giornata era bella, e volevan godersela.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli: Le lance spezzate del sire de Flambeau. Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico.

- Ma raccontate, raccontate, sire de Flambeau; sapete che queste storielle mi divertono.
- Erano in quattro, messer giustiziere; e vi so dire che sono i quattro più terribili di tutta la compagnia; le quattro migliori lance spezzate. Cuori di leone, artigli d’aquila, denti di lupo, impudenza di scimmia. Sono il terrore della città...
- I nomi, i nomi prima di tutto.
- Eccoli: Gastone de Brant, Bertrand de Taxeville, Ugo de Saint-Victor, Dronet de Genlis; età dai venticinque ai trentacinque anni. Gastone de Brant discende in linea retta dai Galli: alto, rossiccio, arguto, mobile; Bertrand de Taxeville sembra balzato dalla gesta di Rolando: squadrato, massiccio, fiero; Ugo de Saint-Victor è schietto provenzale: bruno, molle, immaginoso; Dronet de Genlis deve aver avuto per avolo un canonico di Strasburgo ingrassato di pasticci di fegato d’oca. Sebbene siano così diversi di aspetto, sono uguali di valore: amano le belle donne, il buon vino, le belle canzoni; bastonano questi paterini di Palermo; rubano agli ebrei; e sono prepotenti più di quanto si possa immaginare.
- Sacro nome di Dio! son dunque quattro demoni?
- Forse sì; o per lo meno furono tenuti a battesimo da Belzebù in persona...
- Me li farete conoscere, sire de Flambeau...
- Quando vorrete, sire de Saint-Remy.
- Ma sentiamo...
I signori che così parlavano erano cinque, seduti intorno a una ricca tavola, in una bella e vasta sala.
Il personaggio chiamato sire de Flambeau, che raccontava la gesta delle sue quattro lance spezzate, era un uomo sulla cinquantina, alto e possente, coi capelli grigi, tagliati sulla fronte e cadenti a zazzera tonda sulle tempia e sul collo, gli occhi di gatto e il naso in su. Sedeva in capo alla tavola dinanzi al padron di casa, che stava all’altro capo.
Era questi il visconte Giovanni di Saint-Remy, giustiziere del Val di Mazara, per parte del magnifico e potentissimo signore Carlo d’Angiò, conte di Provenza, re di Sicilia e di Gerusalemme, duca di Napoli e delle Puglie, signore della contea di Folcaquier, ecc. ecc. Il visconte era un uomo sui quaranta; volto fra il lupo e la volpe; maniere da capo di banditi. Il terzo commensale era il sire di Ravel, bell’uomo di mezza età, dall’aspetto grave e solenne, che parlava lento, misurando il gesto e volgendo gli occhi intorno, come per raccogliere l’approvazione degli ascoltatori. Il quarto era messer Guglielmo Porcelet, signore di Calatafimi, piccolo, tozzo, brutto, ma con una grande aria di bontà sul volto e nella voce, di gentili maniere e di oneste parole, che facevan dimenticare i difetti della persona. L’ultimo era un uomo di chiesa; era il maestro cantore della Cappella Palatina, o, come diceva il popolo, corrompendo il vocabolo francese, ciantro; ventre enorme, che gli si adagiava sulle cosce, e gli traballava a ogni piccola scossa; volto rosso, liscio, giocondo, con piccoli occhi neri.
Monsignor giustiziere convitava spesso questi quattro suoi amici, sebbene messer Guglielmo Porcelet non fosse assiduo come gli altri, per la sua abituale dimora nel castello di Calatafimi.
La sala da pranzo del palazzo del Giustiziere dava sopra le mura della città. Era una vasta sala, illuminata da due grandi finestre archiacute, divise per mezzo da svelte colonnine, e chiuse da imposte coperte di tela dipinta. Le pareti eran coperte di arazzi tolti da altre case di signori e di mercatanti, e ornate di trofei d’arme; il soffitto di legno dipinto a fiorami e a disegni geometrici di gusto arabo; sulla tavola di quercia scintillavano coppe, anfore e vasi d’argento, probabilmente avanzo di bottini o di spoliazioni.
Il desinare era stato copioso e squisito, perché il visconte di Saint-Remy aveva preso ai suoi servizi un buon cuoco, il quale aveva una maniera spiccia e molto pratica di fornire la propria tavola. Il cuoco infatti non andava mai al mercato dove non si trovava che roba vendereccia; ma ogni mattina, accompagnato da guardie, si recava a casa di questo o di quel cittadino, e prendeva, senza cerimonie, i migliori polli, la miglior selvaggina, i più teneri agnelli, le paste più delicate per la mensa di messere il Giustiziere.
Pagare? No: ai cittadini, di qualunque ceto o ricchezza fossero, doveva bastar l’onore di servire monsignor di Saint-Remy.
L’eccellente cuoco entrava, rovistava, portava via, senza neppur salutare; talvolta si degnava di ingiuriare i «paterini», se non si mostravano solleciti o soddisfatti. Di ribellarsi al ladrocinio non si parlava; le guardie che accompagnavano il cuoco, oltre a rubare la loro parte, avevano il compito di bastonare chi osasse lagnarsi.
Oh no, messer Giovanni di Saint-Remy non spendeva molto per la sua tavola!...
Quanto ai vini glieli fornivano le cantine dei migliori produttori del Vallo, coi metodi medesimi. Di tanto in tanto una mano di arcieri a cavallo faceva una escursione per le città più note per l’industria del vino: e ritornavano con una «retina» di cavalli o di muli carichi di otri e di barili. Ma qualche vino più fine e squisito il magnifico signor giustiziere si procurava facendo dar la caccia a legni greci o spagnoli.
I commensali dunque avevano, quel giorno, mangiato e bevuto con pieno godimento, ed eran già pervenuti a quel punto di loquacità e di espansività che anima le belle mense e dispone alle confidenze e ai discordi grassocci.
Ciascuno aveva raccontato una sua storiella, fra le risate della compagnia: e lo stesso messer ciantro, tacendo, si capisce, i nomi per scrupolo religioso, aveva rivelato un allegro peccato di una sua penitente.
Ma il sire di Flambeau, dato un pugno sulla tavola, che aveva fatto tremare e tintinnire le coppe d’argento, aveva detto:
- Zitti là! La storiella che vi racconterò io vale tutte le vostre. Ne sono protagonisti alcune mie lance spezzate. Non l’ho saputa da loro, ma da chi ne fu vittima, che venne a piatire da me per averne vendetta. Vi dirò poi come l’ebbe.
Allora i commensali lo sollecitarono:
- Raccontate, raccontate.
Il sire di Saint-Remy allungò il muso volpino; il maestro dei cantori si sdraiò meglio sul seggiolone, protendendo il suo ampio ventre; soltanto messer Guglielmo Porcelet non mostrò avidità di udire: pareva anzi che sul suo volto errasse una espressione di mestizia e di compianto.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), 

Luigi Natoli: La città di Palermo era nel secolo XIII distinta ancora in tre parti principali... Tratto da Il Vespro siciliano. Romanzo storico


Giovanni di Saint-Remy abitava nella Sucac el Kes. Era questa una delle tre arterie principali della città vecchia, o Cassaro. La città di Palermo era nel secolo XIII distinta ancora in tre parti principali, divise da avvallamenti, in fondo ai quali a destra scorreva il fiumicello Cannizzaro, che scendendo per la odierna via Castro e pei Calderai e girando per gli Schioppettieri, metteva in mare sotto la parrocchia di S. Antonio, dove presso a poco giungeva allora la insenatura della Cala. A sinistra, dalla palude del Papireto, scendeva un fluviolo, detto poi della Conceria, che percorreva l’attuale via dei Candelai, la piazza Nuova, e si gittava anch’esso nel mare, dall’altro lato della chiesa di S. Antonio. La parte della città che rimaneva fra questi due corsi d’acqua, e che era la più antica, portava appunto il nome di Cassaro, era circondata di mura e di torri, che la segregavano dalle altre; ed era percorsa da tre strade principali: la via Marmorea in mezzo, ora Vittorio Emanuele; a destra una serie di strade che si continuavano, con vario nome, di cui avanzano le tracce, e si riconoscono nelle vie dei Biscottari, di S. Chiara, Giuseppe d’Alessi, dietro S. Cataldo e la chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio; a sinistra la Sucac el Kes, che, con altro nome, cominciava dalla ruga Coperta, e percorreva quella che oggi si chiama via del Celso, continuava con altri nomi arabi per la salita delle Vergini, e girava dietro la parrocchia di S. Antonio. La denominazione moderna, Celso, nacque dalla corruzione e trasformazione della parola araba Kes di cui si perdette il significato. 
Il palazzo del giustiziere sorgeva presso a poco di fronte al monastero del Gran Cancelliere, accanto a quel medesimo che la tradizione indicava come palazzo del famoso Maione, ministro di Guglielmo il Malo. Aveva l’aspetto di un castello, con la sua torre merlata e dalla parte posteriore dominava le mura settentrionali della città vecchia sulle bassure della palude Papiretana e del fluviolo, ora occupate dalla via dei Candelai. Rimangono ancora visibili, da questa parte, alcune finestre bifore, il capitello delle quali reca uno scudo col fiordaliso angioino. 
Il visconte di Saint-Remy aveva preferito questo palazzo alla reggia, all’antica dimora dei re, per parecchie ragioni. L’una che non ospitando più la corte, la reggia era decaduta dal suo splendore; l’edificio, abbandonato a se stesso, in parte deperiva; onde il giustiziere gli aveva lasciato l’ufficio di fortezza, e vi aveva allogato i tribunali e le carceri; l’altra ragione era strategica. Infatti il palazzo scelto per propria dimora dai giustizieri angioini si trovava in mezzo alle due fortezze principali della città, il Castello a mare da una parte, il Palazzo e Castello regio dall’altro; e in prossimità di due porte, quella di S. Agata alla Guidda, sulle secche del Papireto, e l’Oscura (ossia la Bab as Safa – porta della Salute – degli Arabi) che dava sul fluviolo della Conceria (oggi Piazza Nuova) ed è in parte ancora visibile dentro una bottega. 
In capo alla strada del Kes presso la porta S. Agata, sorgeva  un altro palazzo, che forse fu in origine dimora del cadì degli Schiavi, dal quale prese nome il quartiere degli Schiavoni, dall’altra parte del Papireto (Seralcadi) oggi detto del Capo. Del palazzo non è più alcun vestigio, ma rimane il nome di Schiavi a un cortiletto. Nel 1282 vi abitava il sire di Flambeau, capitano della compagnia delle lance spezzate, la quale aveva la sua caserma nell’antico quartiere militare degli arabi, rimasto per tradizione fino ai dì nostri quartiere militare. È la vasta Caserma di S. Giacomo, che allora, compresa dentro le mura del Cassaro, di cui son visibili gli avanzi nel corso Alberto Amedeo, e munita di torri, dominava la palude del Papireto e difendeva il palazzo regio. 
Il palazzo degli Schiavi, o del sire di Flambeau formava dunque una specie di sentinella avanzata tra il castello regio e la dimora del Giustiziere. 
Queste indicazioni topografiche sono necessarie per meglio intendere gli avvenimenti che vi si svolgeranno. 
La sala da pranzo del palazzo del Giustiziere dava sopra le mura della città. Era una vasta sala, illuminata da due grandi finestre archiacute, divise per mezzo da svelte colonnine, e chiuse da imposte coperte di tela dipinta. Le pareti eran coperte di arazzi tolti da altre case di signori e di mercatanti, e ornate di trofei d’arme; il soffitto di legno dipinto a fiorami e a disegni geometrici di gusto arabo; sulla tavola di quercia scintillavano coppe, anfore e vasi d’argento, probabilmente avanzo di bottini o di spoliazioni. 


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), 

lunedì 25 marzo 2024

Luigi Natoli: 25 marzo 1941 - 25 marzo 2024. Ricordiamo oggi l'83° anniversario della tua morte.

 

Caro professore,

quello di oggi è solo un anniversario: tu continui a vivere, e vivrai per sempre nella possente opera letteraria e storiografica che hai lasciato al tuo pubblico.

Ventisei i romanzi storici pubblicati in dispense con la casa editrice La Gutemberg oppure a puntate in appendice al Giornale di Sicilia, nove le opere teatrali (cinque in italiano e quattro in dialetto siciliano), oltre le poesie, gli scritti di critica letteraria, storica e storiografica.
Innumerevoli gli articoli pubblicati sui quotidiani e sulle più importanti riviste siciliane con lo pseudonimo di Maurus, articoli di critica letteraria, artistica o di carattere storico.
Tantissime le leggende pubblicate con lo pseudonimo di William Galt.
Quarantadue i testi scolastici pubblicati per tutta l'Italia e per tutti i tipi di scuole solo fino al 1905.
La tua Opera è maestosa, tu la definiresti "fiera". Sei stato romanziere di notevoli romanzi storici, storiografo, drammaturgo, commediografo, poeta, critico letterario, conferenziere, professore...
Noi I Buoni Cugini editori, con ogni sforzo e con orgoglio portiamo avanti la pubblicazione della tua opera omnia con la Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli.
Quando finiremo? Chi sa. Stiamo per pubblicare l'ultimo romanzo storico dei ventisei che hai scritto, ma tanto altro ci attende...
Scopo di tutto questo è renderti immortale nel panorama letterario italiano e fare in modo che tu abbia la posizione che meriti. E in questo siamo sicuri che ce l'abbiamo fatta in parte, e ce la faremo.
Grazie, caro professore per i tuoi insegnamenti, per l'immenso patrimonio di cultura che ci hai lasciato e per il grande significato che hai impresso alla nostra opera di editori.
 
I Buoni Cugini editori 
Anna Squatrito e Ivo Tiberio Ginevra 
www.ibuonicuginieditori.it 

giovedì 21 marzo 2024

Luigi Natoli: Damone e Pizia, esempio di vera amicizia. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie.

Dionisio, nobile siracusano, si era impadronito del potere e si era fatto tiranno, ossia signore, di Siracusa. Egli era crudele e sospettoso; imprigionava e faceva morire i cittadini che gli davano ombra, o che egli voleva spogliare dei loro averi: insomma regnava col terrore. E di lui si narrano molte storielle.
Una di esse, che è pura fantasia del popolo, dice che in quella latomia Dionisio faceva chiudere i prigionieri; ed egli, stando di sopra, udiva tutti i loro discorsi, per quanto piano quelli parlassero; e scopriva così i loro secreti. Ma questa fantasia nacque nel popolo, perché la cava aveva la forma dell’interno di un orecchio, per cui si chiamò l’Orecchio di Dionisio.
Ma ecco un fatto vero, narrato dagli storici: si parla di due giovani, additati come esempio di vera amicizia!
Essi si chiamavano Damone e Pizia.
Erano due giovani, che si volevano un gran bene: quel che piaceva all’uno, piaceva all’altro; i dolori dell’uno erano i dolori dell’altro; non c’era fra loro né tuo né mio: proprio, come si suol dire, si dividevano il sonno.
Una volta Dionisio credette di essere stato offeso da Damone. Fattolo arrestare e gittare in prigione, lo condannò a morte. Immaginate il dolore di Pizia, che avrebbe dato la sua vita per salvare l’amico! Ma Damone aveva un altro dolore, non meno acerbo. Gli doleva morire senza abbracciare i genitori, che abitavano fuori Siracusa; e pregava il tiranno di concedergli almeno questa consolazione, promettendogli di ritornare.
Dionisio, per paura che gli sfuggisse, si rifiutò; ma Pizia allora si offerse a far fede per l’amico. Disse al tiranno:
- Lascia che Damone vada a baciare i suoi parenti: io resterò in prigione in sua vece. Se egli non tornerà nel termine prefisso, farai uccidere me.
La proposta piacque a Dionisio. Damone abbracciò commosso Pizia, e partì. I suoi vecchietti abitavan lontano. Egli corse, li baciò, e fece per tornarsene. Quelli, piangendo, lo supplicavano di rimanere; ma egli disse:
- Come posso io restare anche un’ora, se ci va di mezzo la vita di Pizia?
Ma frattanto il tempo passava, e Dionisio pregustava la gioia di far morire Pizia, certo che Damone non sarebbe ritornato; e difatto, appena scoccata l’ora convenuta, diede l’ordine che Pizia fosse condotto a morire.
E il carnefice si apparecchiava a compiere quella scelleratezza, quando ecco giungere trafelato Damone, fendere la folla, presentarsi a Dioniso, dirgli:
- Eccomi, o signore: libera il mio amico e prendi la mia vita, che ora morirò contento.
Ma Pizia non si rallegrò; piangendo disse:
- O Damone, perché sei tornato? Che gioia avrò di vivere, se tu muori? Torna ai tuoi cari, e lascia morire me.
A questa gara, il popolo si commosse; lo stesso tiranno non seppe nascondere la sua ammirazione pei due giovani, e non osò incrudelire, ma ordinò che fossero lasciati liberi tutti e due, e diede loro ricchi doni, domandando in compenso la loro amicizia.




Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
L'opera è la fedele trascrizione del volume pubblicato dalle Industrie Riunite editoriali siciliane (Palermo) nel 1925 ed è corredato dalle foto originali del libro. 
La copertina di Niccolò Pizzorno riproduce esattamente quella originale del libro. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e presso il punto vendita del Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)