giovedì 28 novembre 2019

Luigi Natoli: Il Cassaro nel 1500. Tratto da: La dama tragica. Romanzo storico siciliano


Dall’angolo della piazza Pretoria fino al piano dei Cavalieri, come si chiamava allora la piazza del Duomo, era tutta una massa compatta e mobile, come una macchia di arbusti agitata dal vento; che s’andava sempre più addensando, pel sopravvenire di altra gente, e rumoreggiava come un fiume in piena. Il Cassaro, antichissima arteria principale, com’era forse alle origini di Palermo, correva anche allora diritto, verso il mare, dividendo in due la città. Ancora non era stata aperta la nuova strada Maqueda, che tagliando in croce il Cassaro diede una pianta simmetrica e singolare alla città. Il Cassaro o strada Toledo giungeva fino alla chiesa di Porto Salvo, e non aveva l’aspetto vario d’oggi. Le case v’eran tutte d’una stessa altezza, e su per giù avevano la stessa architettura; molte serbavan le finestre ogivali; molte le avevan rimodernate; e qualche pesante loggia rompeva l’euritmia delle finestre quattrocentesche. Giù nei pianterreni le botteghe, per difendersi dalla pioggia e dal sole, avevan tettoie sorrette da pilastri, che formavan da una parte e dall’altra come due lunghi porticati.


Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500, al tempo del viceregno di Marco Antonio Colonna.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Pagine 598 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile presso La Feltrinelli Libri e Musica Palermo
Disponibile su IBS.it
Disponibile su Amazon e in tutti i siti vendita online
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Luigi Natoli: La famiglia Corbera, baroni del Misilindino. Tratto da: La dama tragica.


Il signor Galcerano infilò la strada di S. Onofrio, e piegò per un vicolo buio e angusto dove non era possibile scorgerlo. Egli abitava nella strada della Bandiera, nel vecchio palazzo della sua famiglia; un palazzo non molto vasto che conservava la sua architettura quattrocentesca solida ed elegante, coi merli in cima, le finestre rettangolari geminate da una sottile colonnina, simile allo stelo d’un fiore, e il portone ornato d’una cornice intagliata, forma d’un grande angolo col vertice in alto, dentro il quale si apriva la porta.
I Corbera eran venuti di Spagna fin dal Trecento; ed avevano acquistato in Palermo reputazione e dignità, e nell’isola, vasti possedimenti. In breve si erano naturalizzati; erano stati inscritti nell’ordine senatorio e avevano occupato uffici eminenti. Un Galcerano nel 1449, era stato presidente del regno, cioè aveva tenuto luogo del vicerè assente; un Giuliano, che aveva combattuto valorosamente contro il maresciallo de Lautree era stato Pretore della Città, e vuol dire presso a poco quel che oggi chiamiamo sindaco, ma con maggior dignità, un Pietro, suo figlio aveva militato sotto Carlo V, e n’aveva avuto fama di prode. Non vi mancarono uomini di lettere; fra i quali un Bartolomeno di cui rimane qualche poesia. Facevano per armi cinque corvi neri in campo bianco.
Capo della casa era adesso don Antonio nelle cui mani era passato il vasto feudo del Misilindino.
Munifico e di grandi idee, Antonio fondava in quei tempi intorno al vecchio castello un paese, quello stesso che poi si chiamò Santa Margherita; il che lo aveva costretto a contrarre molti e gravi debiti, che lo tenevano in liti continue, e ingoiavano gran parte delle entrate. 
Il giovane Galcerano, al quale quella notte era toccata la strana avventura, era l’erede del vasto patrimonio, e delle virtù guerresche dei suoi maggiori. Troppo giovane  quando don Giovanni d’Austria s’era mosso con l’armata contro il Turco, – aveva appena quindici anni, – non aveva potuto imbarcarsi sulle galere col fiore della gioventù palermitana andata volontaria all’impresa: ma i racconti delle prodezze compiute da Cola d’Odio, che impadronitosi da solo d’una galera turca, vi morì da archibugiata in fronte; di Cola dei Bologna, che ne riportò il soprannome di Valente; dal capitan Giorgio Montisoro, dal suo amico don Geronimo di Giovanni, da cento altri nobili, accorsi come lance spezzate o venturieri sulle galere della città di Palermo, gli accendevano una gran voglia di prender parte a qualche spedizione. Ma in quegli anni il Turco, per la disfatta avuta a Lepanto, stancato dalle due spedizioni di Navarino e di Tunisi, che lo costringevano alla difesa, non osava; guerre in Italia non ce n’erano; anche nelle Fiandre v’era un po’ di tregua; e eran guerricciole e insignificanti. Il signor Galcerano perciò non poteva mostrare il suo valore che nella sua bella sala d’armi o nell’Accademia dei Cavalieri (specie di accademia militare) o nelle giostre; nelle quali, sebbene molto giovane, faceva begli incontri e sfoggiava ricche armature, spade di gran pregio, bardature e gualdrappe di finissimo lavoro.

Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1500, al tempo del viceregno di Marco Antonio Colonna. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Pagine 598 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile presso La Feltrinelli Libri e Musica
Disponibile su Ibs
Disponibile su Amazon e in tutti i siti vendita online
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martedì 26 novembre 2019

Luigi Natoli: La taverna dello zu' Rosario. Tratto da: La vecchia dell'aceto.


La taverna dello zù Rosario si trovava quasi all’angolo della strada della Panneria; e godeva una grande reputazione pel vino che vi si beveva, bianco e rosso della Sala di Partinico, e per un certo baccalà con cipolle e zibibbo passito, una ghiottoneria per cui appunto nella culinaria casalinga aveva meritato il battesimo di baccalà alla ghiotta. Ma più che per la sua cucina, la taverna era tenuta in gran conto, perché aveva una clientela di gente che portava il don.

Zu’ Rosario faceva sulla parete, che era il suo libro giornale, dei segni col carbone, che egli solo sapeva leggere: vi erano molti di questi segni, divisi in colonne, sopra ciascuna delle quali vi era una specie di geroglifico, che rappresentava la persona cui si riferiva il conto sottostante. E non c’era caso che ei si sbagliasse. Questa parete contabile era posta dietro il banco, pieno di boccali di terra smaltata, caraffe e caraffine, bicchieri e alcune misure di stagno. Le altre pareti erano state una volta bianche, ora la fuliggine dei fornelli, l’unto delle spalle e delle mani che vi si appoggiavano, un po’ d’umidità le avevano ingiallite, striate, macchiate e in qualche punto annerite. I fornelli erano in un canto, sotto una finestra, accosto alla porta; e sulla parete vicina pendevano casseruole di rame, padelle, graticole, caldaie; e poi una scansia piena di stoviglie. Dietro il banco s’apriva una porticina, attraverso la quale si scorgevano alcune botti, su cavalletti. Sopra l’architrave della porticina, una mensoletta verdastra faceva da altarino a un quadro della Madonna col Bambino, fra San Giuseppe e Santa Rosalia, dipinti sul vetro con quella ingenuità di stile che è propria dei pittori popolari.

Quella che pareva una stanza, dov’erano le botti, non era in realtà che una specie di andito buio, dal quale, si passava in un’altra stanza: era la sala riservata a quelli che rappresentavano il ceto eletto, la clientela aristocratica; i “galantuomini o quasi”; una specie di arca, dove i profani non potevano penetrare; e dove i clienti entravano da una porta che dava in un vicolo. E quella sera non era vuota. Chi avesse dall’andito guardato la porta, avrebbe veduto, attraverso le fessure filtrare lume; e, origliando, avrebbe udito un bisbigliar sommesso. Questa clientela non ubbidiva ai bandi sulla chiusura delle bettole: né la ronda penetrava nel vicolo. A due ore e mezza di notte essa passava dalla strada della Panneria; il caporonda non mancava di bussare alla porta della taverna; entrava; il portalanterna faceva lume in giro: naturalmente non trovava nessuno, perché sapeva di non dover spingere le ricerche più oltre, in virtù di un certo bicchiere di vino, che, in realtà, era quello che più propriamente andava a cercare.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. Narra di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
Nella versione originale pubblicata a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile su Ibs, Amazon e in tutti i siti vendita online. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

venerdì 22 novembre 2019

Luigi Natoli: L'acqua delle sette parrocchie femmine e l'acqua "maritata". Tratto da: La vecchia dell'aceto


L'acqua delle sette parrocchie femmine
Quest’acqua, alla quale si attribuivano virtù meravigliose, non era che l’acqua benedetta raccolta in sette parrocchie dedicate a sante e poste in quartieri di nome femminile. Bisognava dunque in una bottiglia andare a prenderla nelle parrocchie di Santa Lucia, Santa Margherita, Cattedrale, Kalsa, Albergheria, Santa Croce e Olivuzza.

L’acqua maritata
Più d’una volta qualche donna abbandonata dal marito o dall’amante era corsa a lei a domandarle consiglio e opera per far ritornare il traviato al suo nido: essa aveva suggerito quei rimedi ai quali le superstizioni popolari attribuivano virtù prodigiose. Per esempio dar da bene all’uomo nel vino o nel brodo l’acqua maritata: l’acqua maritata era quella attinta alle pile di tre chiese parrocchiali dedicate a tre santi, due maschi e una femina, o due femine e un maschio: Sant’Ippolito, Sant’Antonio e Santa Lucia, o Santa Margherita, Santa Lucia e San Giovanni dei Tartari. O altro rimedio meno ridevole, accompagnato da filastrocche e invocazioni diaboliche da recitarsi o in chiesa durante la messa o in campagna di notte, sotto la luna. Superstizioni e pratiche comuni, che le donnicciuole conoscevano senza essere fattucchiere, ma che nella opinione del popolino confermavano questa fama nella za’ Anna. E ad alimentarla concorreva ancora la vita chiusa e solitaria che ella faceva, in quella stamberga nera, tetra, squallida, dove la sera attraverso la porta socchiusa, spesso si vedeva lei dinanzi al fornello su cui bolliva una pentola, che pareva misteriosa; e il suo volto, ai mobili riflessi della fiamma, ora più ora meno vivace, prendeva espressioni strane e paurose.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno l'avvelenatrice, passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile su Ibs (sconto 15%)
Disponibile su Amazon Prime
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Nella foto: Acquasantiera del Gagini, Cattedrale di Palermo

Luigi Natoli: La farmacia di don Saverio La Monica. Tratto da: La vecchia dell'aceto.


Don Saverio La Monica, aromatario, aveva la sua bottega nella strada della Gioiamia. Aromatario significava, in quel tempo, farmacista. Era un uomo più che maturo, che passava la vita dietro al banco, a pestare, impastare, mescolare, far pillole, cartine di polveri, elettuarî, sciroppi ed emulsioni. Con gli occhiali sul naso, le maniche rimboccate, eseguiva le ricette, barattando una parola con questo, una con quell’altro avventore. E di avventori non ne mancavano, perché in tutto il quartiere del Capo, nessun aromatario godeva tanta buona riputazione, quanto lui, perché aveva la bottega fornita di tutte le medicine prescritte dall’ordinanza del Pretore che rivestiva la carica di proto-medico della città; ma anche perché inventava certe misture efficacissime; e sapeva dare consigli medici.

La bottega si riconosceva la lontano, per il gran mortaio di marmo, posto sopra la soglia su uno sgabello un po’ sporgente in fuori; insegna questa comune a tutte le farmacie del tempo. Ai lati lungo gli stipiti c’erano due tabelle non grandi, rettangolari, in una delle quali un pittore da insegne aveva dipinto il bastone di Esculapio coi due serpenti attorcigliati, e una leggenda latina: Altissimus creavit de terra medicamenta et vir prudens non abhorret ab illis; nell’altra tabella era dipinto Sant’Andrea protettore degli speziali, con la leggenda: Cedite vos, qui consulitis mortabilus artes; vis vestra ex nostraque statque, caditque manu. La stanza, che serviva da bottega, non era molto grande: e aveva uno scaffale in fondo, che occupava tutta la larghezza della parete; in mezzo alla quale in basso era una porticina, donde si passava nel laboratorio.

Altri due scaffali si partivano da quello di fondo, della stessa altezza, ma si arrestavano a metà della stanza. Nello spazio vuoto, da un lato c’era il torchio, indispensabile a ogni aromatario per fabbricare olio di mandorla o di ricino; dalla parte opposta v’erano addossati alla parete alcune sedie molto sudicie e con l’impagliata rotta in qualche punto. Sulla cornice dello scaffale in fondo v’era un quadro che rappresentava la Vergine, dinanzi alla quale ardeva una lampada. Sotto, nel fregio, era dipinto a grandi lettere: Salus Infirmorum, che poteva ben riferirsi alla Vergine come ai medicinali. I quali facevano bella mostra, non di sè, ma dei recipienti in cui erano conservati. Erano vasi smaltati, della stessa grandezza, a vivaci colori, tutti di una forma allungata, che si restringeva dolcemente a metà dell’altezza, per riallargarsi gradatamente alla base; con uno scudo bianco incorniciato di giallo, in mezzo al quale era il nome del medicinale. In dialetto si chiamavano burnii. Nello scaffale laterale, di destra, queste burnie avevano forma di bocce panciute, con un collo breve, ed erano smaltate in bianco e azzurro, col nome del medicinale in nero. Nell’altro scaffale laterale, a sinsitra, erano bocce, bottiglie, boccette di vetro e vasetti bianchi, cilindrici. La ricchezza ed il lusso di una farmacia d’allora erano nei vasi smaltati, ai quali gli antiquari han dato una caccia spoliatrice, approfittando dell’ignoranza dello snobismo dei farmacisti.

Spesso il medicinale non c’era; ma la burnia non mancava. Chi andava per comperare due grani di conserva di rose rosse, poteva leggere sulle bocce e sulle bornie i nomi della Polvere di Guttetta, per guarire la eclampsia dei bambini, del Sebeston, dello sciroppo di vibello, di cicoria, di reobarbaro e di spinapontico; della conserva di fior di persico, del diascordio, dell’elettuario di Giustiniano Imperatore, dell’alckool (sic), fluore, dell’acqua teriacale, della Quarteccia rossa, delle pillole di Lancellotto, e di quelle di tartaro di Bonzo, e delle universali di Becherio; dell’estratto di scilla acoso, della tintura anglicana, del grasso di vipera; dello specifico cefalico Michaele, del sale sedativo di Homberg, dell’impiastro di Simone de Pacello e di quello de Ranis, del trocisco di Aradonis Abbatis, del vitriolo di Marte, e via via dicendo: medicinali nostrani e stranieri; e poi gli olii di mandorla, di lino, di ruta, di scorpione; polveri di assa fetida, agarico: i sief, ossia collirii; e finalmente i veleni, arsenico, laudo liquido, cantaride, ecc.  Insomma la spezieria di don Saverio La Monica non mancava di nulla. Essa era fornita di quanto occorreva pei ricchi e pei poveri, secondo l’ordinanza. Sul banco v’erano le bilancette e i pesi, e la carta tagliata a quadretti per avvolgere le polveri e turare le boccette.

Nella retrobottega, poi, v’erano storte, lambicchi, tubi, matraci, un grande fornello, fornellini portatili, boccioni grandi, recipienti di varia misura di porcellana, di vetro, di rame. Ma dappertutto v’erano le vestigia delle mosche, v’era dell’unto di olii e di pomate; e un odore nauseabondo composto di tanti odori diversi. Non se ne doleva nessuno, perché vi si era avvezzi; e poi, perché don Saverio sapeva con le sue storielle divertire i clienti che erano costretti ad aspettare la manipolazione delle medicine.

Di tanto in tanto qualche medico di passaggio faceva fermare la portantina dinanzi la bottega, e veniva a far quattro chiacchiere con don Saverio, e, chi sa? ad acchiappar qualche cliente: Don Saverio, per questo, si prestava volentieri a procurarne: e i medici gli si mostravano grati mandando i clienti a spedire le ricette da don Saverio alla Gioiamia, che era un aromatario valentissimo. Aveva fatto pratica nella spezieria dell’ospedale, e sostenuto l’esame di abilitazione dinanzi al Nobile e Salutifero Collegio degli Aromatari, magistrato supremo dell’aromataria; e chi volesse vedere il diploma munito di bollo e la licenza di tenere bottega, egli li aveva in due quadretti, appesi di qua e di là sulle pareti.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno l'avvelenatrice, passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
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Luigi Natoli: Come Giovanna Bonanno diviene una "fattucchiera". Tratto da: La vecchia dell'aceto


Se ne andò cercando di quartiere in quartiere, cercando uno di quei pianterreni miserabili che si chiamano “catodi”, ma la notte sopravvenne senza aver trovato nulla; dovette acconciarsi a dormire sotto uno di quei banchi sporgenti dalle botteghe di via Toledo, stringendo le mani sul petto, dove aveva conservato i due scudi avvolti in un cencio. Il domani fu più fortunata: trovò una stamberga in un vicolo dell’Albergheria. Nessuno la conosceva in quella contrada; ella disse di chiamarsi Giovanna Bonanno, che era vedova, sola e povera. Col resto dei due scudi poté da un rivendugliolo comprare un pagliariccio, e una schiavina usata e una tavola. Aveva così una tana dove dormire; ma non una casa per ispirare fiducia e poter riprendere la sua professione. E chi si sarebbe mai affidata a lei così brutta, così ripugnante, così miserabile? E tuttavia bisognava vivere!... Cominciò ad andare in giro, con un sacchetto sospeso al braccio, accattando alle botteghe qualche po’ di pane, qualche rimasuglio di formaggio e nelle osterie qualche avanzo di pesce o di grassi; talvolta usciva fuori porta Sant’Agata, e andava a raccogliere erbe mangerecce nei campi. L’avere una volta indicato a una donna dei rimedi per guarire un bimbetto lattante, suggeritili dalla sua antica professione, la fece credere una di quelle donne che conoscono i mali meglio dei medici e fabbricano medicine e filtri misteriosi. Da questo a trasformarsi nella credenza del vicinato in fattucchiera non ci volle molto: cominciarono allora a ricorrere a lei per domandarle incantesimi e disincantesimi, fatture, filtri, magie; ma Giovanna, scottata dalla prigionia sofferta innocente, non voleva subirne un’altra da rea, e respingeva le richieste, non senza ira; pretendendo che essa non era una strega, che non conosceva “l’arte”, che conosceva appena qualche rimedio per curare i lattanti e le donne sopra parto o puerpere: nient’altro. La lasciassero in pace; era buona cristiana e non aveva nulla in comune coi mali spiriti. Eran parole. Le persone così respinte non la credevano; e se ne andavano più convinte che mai che ella fosse una fattucchiera, che però non voleva aiutare la povera gente.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno l'avvelenatrice, passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
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mercoledì 13 novembre 2019

Luigi Natoli: Giovanna Bonanno al carcere del sant'Offizio. Tratto da: La vecchia dell'aceto.


Giovanna Fileccia, o la “comare Giovanna” come più comunemente era intesa, era vedova due volte, la prima volta di un Fileccia; la seconda di un Bonanno. Siccome aveva incominciato a far la levatrice al tempo del primo marito, aveva nella professione mantenuto quel nome, che era notorio. Era abile, e si prestava facilmente a pratiche delittuose, che essa compiva con la coscienza di far bene, perché miravano a conservare l’onore e la pace nelle famiglie. Don Gastone aveva ricorso a lei per assistere donna Elisabetta, e, un anno dopo, donna Maria di Altofonte.
Il domani riprese il suo posto di osservazione al mercato, incaponendosi nell’idea di scoprire chi fosse il padrone di Sara. Ma a un tratto due birri del Sant’Offizio la presero per le braccia, la spinsero in una portantina, e via. Ella gridò invano; si fece un po’ di folla, il caporale disse:
- È una fattucchiera che ha dato l’anima al diavolo.
E si segnò; la gente si segnò anch’essa e si scostò. La portantina quindici minuti dopo giungeva nel tenebroso palazzo dell’Inquisizione, e Giovanna era gittata in una di quelle segrete, vere tombe di viventi.
Il giorno dopo un fiscale e un notaro entrarono nella segreta e la interrogarono; essa era accusata di pratiche contro l’onestà delle donne, contro la santa religione e il buon costume, di sortilegio e di fattucchierie. Ce n’era tanto da seppellirla il quel tetro carcere. Si difese, pianse, pregò, gridò invano. La porta si chiuse. Era bastata l’accusa del nobile cavaliere Gastone del Carretto, perché l’Inquisitore monsignor Ciafaglione senz’altro la facesse arrestare. Un processo fu imbastito. Dopo un anno Giovanna Fileccia, con altre due disgraziate fu condotta fra birri, famuli e confraternite, alla porta della chiesa di S. Ippolito, con una cesta appesa al collo, il bavaglio, le braccia legate dietro le reni; e lì fu letta la sentenza che le condannava tutte e tre come fattucchiere al carcere del Sant’Offizio per dieci anni.
Dieci anni! chiusa in una segreta del carcere delle donne, senza luce, senz’aria, con poco nutrimento, peggiorato da digiuni e penitenze, Giovanna andò deperendo fisicamente e accumulando nel suo cuore odio contro gli uomini e contro il cielo. Se veramente avesse potuto fare un patto col diavolo, gli avrebbe venduta l’anima pur di uscire da quel carcere, ed esercitare le sue vendette. Ma sebbene invocato e scongiurato con ridicole e nel tempo stesso orrende bestemmie, il diavolo non le apparve. Essa finì col rinnegarlo e col non credere alla sua esistenza.
Quando, trascorsi quei dieci anni, riconciliata, assolta, comunicata, uscì dal carcere, fu presa da una vertigine; la luce del sole l’abbagliava, il rumore della vita la stordiva. Usciva invecchiata di venti anni; l’umidità le aveva fatto cadere i denti; le era cresciuto un gozzo simile a una vescica, pendente dalle grinze del collo: era orribile e nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Usciva povera e senza nessun mezzo per vivere. Il Sant’Offizio le aveva fatto la carità d’una vesticciuola e un paio di scudi; ma dove andare? che fare? Riprendere la sua professione? E chi l’avrebbe più chiamata? La condanna l’aveva diffamata, e l’ozio e i patimenti avevano anche ottuso il suo cervello e intorpidite le mani. Essa era in uno stato di ignoranza, che non sapeva più in che giorno, mese e anno si fosse. E ne domandò: il sentir dire che era il 7 settembre del 1775 le sonò come una data misteriosa, inverosimile. Trascinandosi sulle gambe, che avevano disimparato di camminare si recò verso la casa che aveva abitato, nella strada delle Pergole, vi giunse e provò una commozione, rivedendo la scaletta esterna di legno, che metteva alla porta; ma sulla scaletta sedeva ora una comare, che faceva la calza, discorrendo con una vicina che su un ginocchio piegato dava l’aire al fuso, e torceva il filo che traeva dalla conocchia. Stette un poco a guardare; riconosceva che quella gente era in legittimo possesso di quella casa: e pure provava contro di essa un rancore come se gliel’avessero usurpata.
Dove andare?

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, famosa avvelenatrice passata alla storia come "La vecchia dell'aceto".
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile su Amazon 
Disponibile su Ibs
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it con lo sconto del 20% (spedizione € 2,90)

giovedì 7 novembre 2019

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. ll 25° volume della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli edita I Buoni Cugini editori.

Un intreccio diabolico a danno di due neonati. 
La nobiltà delle famiglie palermitane dei Santapau, del Carretto, Ventimiglia, d’Altofonte contrapposte al degrado materiale e morale dei popolani del “Cortigliazzo.” L’inquisizione spagnola e il Vicerè Caracciolo. 
I primi “cristiani” precursori dei mafiosi con la loro distorta concezione dell’onore e poi lei, Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice, la vecchia dell’aceto che domina su tutto il romanzo corale, magistralmente intrecciato dal grande Luigi Natoli in una Palermo del 1789 affogata nelle contraddizioni, nei pregiudizi e nell’eterna lotta fra il bene e il male.
Questa ristampa de La vecchia dell’aceto è la fedele riproduzione di quella apparsa a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927. Come editori e studiosi del grande scrittore palermitano, siamo convinti che quest’opera, così diversa da tutte le successive pubblicazioni, sia quella originale e ciò per una serie di motivi che esponiamo brevemente. Innanzitutto perché essendo andato distrutto l’originale manoscritto, questa è la trascrizione dell’unica versione stampata quando lo scrittore era in vita, tutte le altre edizioni sono infatti postume. È soprattutto priva di errori storici che Natoli, da grande studioso delle cose palermitane, non avrebbe mai commesso, come ad esempio cambiare il nome della nobile famiglia dei Santapau in Santapace. Inoltre, è stravolta la punteggiatura, la coniugazione dei verbi e sono alterate le tempistiche; figurano frasi aggiunte e frasi tolte, stessa sorte è riservata a interi paragrafi e a delle parole che cambiano il senso a tutta la frase. Sono sostituite diverse imprecazioni tipiche del periodo e italianizzati molti termini tipicamente siciliani che li svuotano di significato (ad esempio il modo di dire “asciugarselo” inteso come “ucciderlo”, è sostituito con “asciugarlo” nel senso di asciugare dal bagnato che non ha alcuna logica). E poi, ancora, la trascrizione di questo romanzo è più in linea con lo stile narrativo di Natoli riscontrato nelle precedenti opere originali da noi profondamente studiate. 
Per ultimo, questa La Vecchia dell’aceto è priva d’immagini retoriche e frasi che non trovano assoluta corrispondenza col modo di scrivere del narratore siciliano, basti solo confrontare la fine di questo romanzo con quella di precedenti edizioni. Sono differenze notevoli: per tale motivo sosteniamo che quest’opera oggi da noi editata sia l’unica originale, e con orgoglio la riproponiamo.
Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. Protagonista è Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come "la vecchia dell'aceto".
Pagine 572 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina: disegno di Niccolò Pizzorno. Elaborazione grafica di Maria Squatrito
Disponibile su Ibs, Amazon Prime e in tutti i siti di vendita online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 5 novembre 2019

Luigi Natoli: Una commedia al palazzo del capitano di città. Tratto da: La dama tragica.

La domenica innanzi, quattro giorni prima di questo avvenimento, il signor Vincenzo Bongiorno capitano della città (cioè capo della giustizia di tutto il territorio del Comune, e perciò la principale autorità cittadina, dopo il pretore) per festeggiare meglio il carnevale e offrire uno svago a Sua Eccellenza il vicerè e alla nobiltà, aveva dato in casa sua uno spettacolo veramente signorile. Aveva fatto trasformare il grande salone del suo palazzo in un teatro, e aveva scritturato una compagnia di comici. La commedia si diceva assai divertente.
Sebbene la giornata fosse stata freddina e piovosa tuttavia all’invito del signor Capitano non mancò nessuno. La città non aveva teatri pubblici; le rappresentazioni sacre, fra cui celebre l’«Atto» composto da Teofilo Folengo, il celebre Merlin Cocai, si davano nelle chiese; ma per le commedie non v’era luogo, e i comici si adattavano in magazzini. Due anni dopo, nella vecchia Chiesa dello Spasimo, già convertita in magazzini, si costruì, o si adattò un teatro stabile, il primo che sorgesse nella città. Ma allora alla mancanza di pubblici teatri suppliva la magnificenza dei Signori, alcuni dei quali avevano una vera passione per gli spettacoli scenici. Si capisce perciò con quanto vivo piacere si cogliessero le occasioni non frequenti di andare alla Commedia.
Per tre quarti d’ora, per la strada dei Ferrari, per la piazzetta di S. Francesco, per la piazza della Fiera Vecchia non si videro che processioni di lettighe carrozze e portantine, circondate di staffieri, e schiavi in magnifiche livree. Era una sfilata di velluti e di sete, dai colori vivacissimi, luccicanti di ori e di argenti; sola parte dello spettacolo di cui il popolo poteva godere gratuitamente. Sulle soglie delle botteghe o degli usci, infatti, i curiosi si divertivano a contare e a riconoscere dalle livree e dagli stemmi quali signori passassero: e le donne, più curiose, si spingevano a guardare attraverso le tendine dentro le lettighe e le carrozze, per vedere come fossero vestite le dame.
Dinanzi la casa del signor Capitano la fila dei veicoli non finiva mai. La strada era stretta, le carrozze non v’entravano che una alla volta, e non potendo rigirare, per tornare indietro, appena i signori smontavano essi tiravan via per l’altro capo dalla strada giù verso la piazza della Marina. 
Lo spettacolo non poteva cominciare se prima non fosse arrivato il Vicerè; e il Vicerè naturalmente non sarebbe venuto che ultimo, quando la sala sarebbe stata piena. Aspettandolo, parlavan tutti, a mezza voce, ma empievan l’aria di un vocìo alto e indistinto, che cessò a un tratto, quando il maestro di cerimonie annunciò a voce forte e sonora l’arrivo di Sua Eccellenza.
Il signor Marcantonio entrò dando il braccio alla viceregina, preceduto dal Capitano, che si affaticava a sgombrare il passaggio, e ringraziava con grandi frasi studiate la bontà di tanto principe, che non sdegnava onorargli la casa. E fra gli inchini lo pregava di scusarlo se non aveva saputo far di più, come si conveniva: ma sperava che Sua Eccellenza avrebbe accettato il buon volere.
Quando il signor Marcantonio Colonna e donna Felice Orsini ebbero preso posto in prima fila nei seggioloni di velluto, preparati per loro coi cuscini ai piedi, tra l’illustrissimo Don Ottavio Del Bosco, pretore della città, e il Capitano; gl’invitati che al suo passaggio s’erano schierati per fargli ala, sedettero anch’essi secondo il grado e le ragioni di preminenza, che la vanità e la rigida etichetta volevan rispettati. Immediatamente dietro al Vicerè si eran seduti i suoi congiunti, il signor Pompeo Colonna e il signor Lelio Massimo; e tre o quattro sedie più in là, ma sulla stessa fila di essi, era seduta donna Eufrosina Corbera, sotto un grande specchio, che pareva le facesse da cornice.
Marcantonio Colonna fermò un istante il suo sguardo sopra di lei, come cercando nella sua memoria di ricordare chi fosse, e dove l’avesse veduta altra volta. Non gli pareva un volto del tutto nuovo. Una rimembranza imperfetta e confusa era balenata nel suo cervello; ma per quanto frugasse nei più profondi recessi della memoria, non vi scorgeva dove, come e quando avesse conosciuto quella dama. Pensò che forse s’ingannava. Ma o nuova, o veduta, il signor Marcantonio diceva a se stesso che quella donna era veramente bellissima.
Donna Eufrosina se ne stava immobile, con le piccole mani affilate inerti sul grembo, e in quell’atteggiamento, entro la cornice dello specchio, pareva un meraviglioso dipinto. Le grazie del corpo risaltavan maggiormente sotto il vestito, scelto e adattato con un fine senso di civetteria. Indossava una veste di broccato turchino, con ricami d’argento e bottoni di perle; e in testa aveva un berrettino di velluto dello stesso colore, sormontato d’un ciuffetto di piccole piume bianche, che le cadevan leggiadramente sui capelli annodati con un filo di perle.
Tra una parola e l’altra, il Vicerè domandò, così per curiosità, al Pretore, chi fosse quella dama, lì sotto lo specchio…

Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '500, al tempo del viceregno di Marco Antonio Colonna. 
Pagine 598 - Prezzo di copertina € 24,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
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Luigi Natoli: Un incontro notturno. Tratto da: La dama tragica.

V’era per le strade un segno, e nell’aria un’eco della baldoria carnevalesca, che aveva quel giovedì 4 febbraio 1580 travolto in un vento di follia la città di Palermo. Nel pomeriggio si era corso un pallio singolare ordinato da Sua Eccellenza, con bei premi, e con grande sollazzo del popolo; e dopo il pallio erano usciti alcuni carri mascherati, in uno dei quali c’era Sua Eccellenza stessa.
Sua Eccellenza era il vicerè, cioè il magnifico e illustrissimo signor Marcantonio Colonna, il valoroso capitano delle galere del Papa a Lepanto. Da quando per grazia di sua Maestà cattolica D. Filippo II era stato nominato vicerè e capitan generale del regno di Sicilia, ed erano circa tre anni, vi aveva portato parecchie cose: una corte di signori e clienti romani, un gran rigore che talvolta giungeva alla crudeltà; una familiarità di modi in contrasto col sussiego spagnolo; un complesso di idee di rinnovamento edilizio, e finalmente una gran voglia di divertirsi.
Quello era il terzo carnevale che cadeva sotto il suo viceregno; ed egli aveva voluto che sorpassasse per novità e magnificenza di feste e di spettacoli, i carnevali trascorsi. Giostre, carri, pallii, commedie, balli: ce n’era per tutti; e bisognava divertirsi. Del resto quella ventata di follia era necessaria per sollevare lo spirito della città, che ancora non si era rinfrancata dagli orrori della pestilenza, da cui era stata devastata per due anni. Bisognava dimenticare i guai, mascherarsi e far pazzie: Sua Eccellenza ne dava l’esempio.
Quel giovedì, dunque, era stata la volta del pallio e dei carri mascherati, che avevan percorso su e giù la strada Toledo, (oggi Vittorio Emanuele), gittando confetture, gessetti, carta tagliuzzata, gusci d’uova ripieni d’acque odorose e di polvere d’amido, melarance e lomie. Se li eran tirati fra loro, ne avevan lanciati nelle finestre e nelle logge alle dame; ne avevan gittati alla folla, che, assiepando la strada, quant’era lunga, gridava, schiamazzava, picchiava, aggrovigliandosi in lotte furibonde e ridicole, per contendersi una confettura.
Lo spettacolo era durato fino a un’ora di notte, fra lo splendore delle torce a vento; e, salvo le ammaccature, il popolo ci si era divertito forse più dei signori. Quando i carri si furono ritirati, comitive di maschere si sparsero per la città, invasero le osterie portando ovunque la loro giocondità clamorosa, fino a che la campana di S. Antonio suonò i suoi quaranta rintocchi, per ammonire che era l’ora di andare a casa e di chiudere le botteghe.
L’ora era già suonata da un pezzo; ma ancora s’incontravano qua e là gruppi di maschere o di buontemponi che, facendosi lume con una lanterna e con una torcia resinosa, prolungavan per le strade il divertimento, contrastando spesso coi cani randagi, che insospettiti di quelle strane fogge di vestire, alle quali non eran usi, ringhiavano e abbaiavano. E ogni tanto da una casa venivan suoni e grida e scoppi di risa e dietro le finestre illuminate si vedevan passare ombre gesticolanti.
Due uomini, avvolti nei mantelli e coi cappucci tirati sulla fronte, attraversano la strada di S. Agostino, chiacchierando sommessamente. Dalla sveltezza dell’andatura si vedeva che eran giovani; la spada che sollevava il lembo del mantello, perché non impacciasse le gambe, lasciava supporre che fossero o soldati o gentiluomini. Oltrepassata la chiesa trecentesca, piegavano verso l’edificio della Panneria, quando da un vicolo giunse ai loro orecchi uno scalpiccìo confuso e disordinato misto a lievi gridi mozzi e anelanti, e a uno stridore di lame. Gente che s’azzuffava, certo. A un tratto si udì un grido di donna invocante al soccorso, e altre voci maschili minacciose e brutali…

Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine '500, al tempo del viceregno di Marco Antonio Colonna. 
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