venerdì 23 dicembre 2016

Luigi Natoli: Un presepe alla vigilia della rivoluzione. Tratto da: Chi l'uccise?


Padre don Nunzio stava aggiustando gli apparati per trasformare una delle cappelle della parrocchia di san Nicola in grotta per accogliervi il Bambino Gesù, la notte di Natale. Mancavano ancora dieci giorni, ma il sedici dicembre cominciava la “novena”, e si doveva celebrare innanzi alla cappella trasformata. Il brav’uomo, in sottana nera succinta, aiutava lo scaccino e il seggiolaio a mettere a posto i vari pezzi di sughero dipinto e incollato su armature di legno, che congiunti con apposito disegno, venivano a costruire al sommo dell’altare la grotta, cornice di Dio fatto uomo.
Ma i collaboratori non lasciavano soddisfatto padre don Nunzio, che dimenticava di trovarsi in chiesa, si lasciava scappare certe esclamazioni, che avrebbero fatto arrossire perfino le seggiole.
Aveva immaginato una cosa spettacolosa: far nascere il Bambino fra un nembo di tricolori; tre colori nella paglia, tre colori nei raggi, tre colori nella coda della stella fatale. Come sarebbe andata non ci pensava: avrebbe però voluto vedere se i poliziotti si sarebbero rischiati di portare le mani sulle cose sante dell’altare....
 
 
 
Luigi Natoli: Chi l'uccise?
Prezzo di copertina € 13,50 - Pagine 146

Luigi Natoli: Il presepe di zio don Popò - Tratto da: I morti tornano...


Entrando nella stanza quasi buia dove era il presepe, gli occhi di tutti furono colpiti da un quadrato di luce abbagliante, e non si vedeva da che fosse prodotta. Il presepe, debitamente e accuratamente illuminato, era costruito nel vano di una porta che metteva in uno stanzino, in modo che la porta stessa facesse da bocca alla scena. Era profondo da cinque a sei palmi quadrati, ma pareva infinitamente più grande. Rappresentava come nei grandi presepi, un insieme di colli, divisi da valli, con delle diramazioni avanzate che s’aprivano in grotta, fatti di sughero e di creta. Un fiume percorreva il mezzo della scena, fatto di vetri, e sormontato da un ponte. In fondo era dipinta una scena, in modo da chiudere il presepe; vi era effigiata Betlemme, in un orizzonte luminoso, specchiantesi in un lago. La grotta principale era occupata dalla Natività. Stava dentro la mangiatoia il Bambino Gesù, di cera, con le manine benedicenti, circondato da raggi, che eran di vetro: l’asino e il bue dietro, la Madonna in ginocchio orante, san Giuseppe appoggiato a un sasso, col bastone fiorito in mano, pareva indifferente. Dinanzi vi erano i pastori, inginocchiati, quali offrenti caci e ricotte, quali agnelli, in un canto il “ciaramellaro” in atto di togliersi il berretto, dall’altro il “pifferaio” e il sonatore di sistro prostrati. E poi altri pastori, che si affrettavano verso la grotta, in cima alla quale degli angeli volavano tenuti da fil di ferro, con la scritta: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. E v’era sopra una rupe lo “spaventato” dal prodigio, sopra un’altra il “dormente”; di qua il “legnaiolo” col suo fascio di legna, di là il “torraro” diritto sulla torre; e poi il “boaro” che lanciava sassi ai buoi, l’ortolano che guidava l’asino carico di cavolfiori, la “lavandaia” col fagotto sul capo, la portatrice di colombi in un canestro e perfino il “cacciatore” che armato anacronisticamente di uno schioppo, tirava fucilate a un uccello, che il cane inseguiva.
Nell’altra grotta posta più in alto, dei pastori dimenavano con un mattarello il latte in una caldaia, sul fuoco, o fabbricavano caci e ricotte, un altro scendeva per la china portando due fiscelle, sotto un pagliaio, in basso, un altro sorvegliava le greggi. E pecore e capre e mucche erano sparsi di qua e di là; e case e torri su pei colli; e fichi d’India e alberi in ogni fenditura di sugheri; e case e fichi d’India e pastori lontano, sul ponte, alle sponde del fiume, popolavano la scena, con un supremo disprezzo per la cronologia, l’archeologia, i costumi, i luoghi. I pastori erano vestiti come quelli dell’ultimo seicento: una giubba aderente alla vita e cadente a mezza coscia, brache, e borzacchini;  in capo un berretto, e spesso, su le spalle un mantello di quei che in Sicilia si chiamano “scapulare”; le donne avevano la mantellina chiara; il cacciatore un cappello di paglia. Ma che importava? Lo spettacolo non era meno bello: e don Popò ne era così pieno, che manifestò la sua allegria intonando una canzonetta d’occasione, e accompagnandola col verso della ciaramella. I ragazzi per far chiasso l’imitarono; ed anche, eccitati, Nenè e Leopoldo e le donne.
Carlotta e Giovanni no. S’erano trovati accanto, come due spiriti dolenti in quella festa dell’intimità familiare, e sospinti dallo stesso pensiero, dallo stesso sentimento, si guardavano con un sorriso doloroso, estranei all’allegria che li circondava....
 
 
 
Luigi Natoli: I morti tornano...
Pagine 584 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%
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martedì 20 dicembre 2016

Luigi Natoli: Ode a Willlelmo I. Pubblicata nel volume Gli ultimi saraceni seguito al romanzo.


Willelmo I

Siciliae Regi 

Tratto da “Il Tempo”- Palermo, 26 Aprile 1881.

 
Oh, dite: quando voi, morbido sire
da li occhi azzurri e da i capelli d'oro,
 vedea Majon fuggire
da l'Aula Verde (2) e da 'l regal lavoro:
o, quando, Ugo arcivescovo ingannando,
o bel soldano fulvo d'occidente,
i telai simulando, (3)
vi si vedea cercare pe la corte,
di lascivia fremente,
le ancelle infide a la regal consorte;
dite, dite, messere, oggi che morto
siete, se aveste torto?

Dolce de ‘l cielo l’indaco sereno
ridente dietro i monti s’incurvava;
molle su ‘l doppio seno, (4)
cinta di sol, Palermo si cullava;
s’ergean, sfidando l’aere, trecento
cupole d’oro; da i giardin saliva
su l’ali fresche a ‘l vento
un profumo di zagara, e de i Fiori
su l’olezzante Riva (5)
accorrevan donzelle e trovatori,
e cantavan l’amore e queto ‘l mare
ascoltava ‘l cantare....

Note: 
1) Il dì 26 aprile 1881, per cura di Monsignor Papardo, arcivescovo di Monreale, furono tumulate in quel duomo le ceneri di Margherita, moglie di Guglielmo I, e dei figli Enrico e Roggero.
2) L’aula Verde o Sala Verde, mentovata dal Falcando, era il luogo dove si adunava il Parlamento.
3) Da quanto scrive l’arabo Tbd-Giobair si rileva, che i telai della reggia non erano che il pretesto per tenere un harem bello e buono a dispetto delle leggi cristiane.
4) Palermo antica si stendea divisa in tre città sopra un doppio porto; dove da una parte si scaricava il Cannizzaro, dall’altra la palude del Papireto. Palermo era la terza città del mondo per la sua magnificenza, e come tale ce la dipingono il Falcando, Tbd-Giobair, etc.
Aveva trecento cupole, strade lastricate – quando altrove si usavano appena mattoni di terra cotta – fabbriche di seta uniche. Nel suo seno si fondevano tre società ricche di tutto; la bizantina, l’araba e la francese.
5) La Ripa dei Fiori, sul golfo sinistro quasi dirimpetto la torre di Baych, era delizioso passeggio.


Solo una parte è pubblicata nel post: l'ode è lunga circa sette pagine.

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni - Pagine 719.
Pubblicato per la prima volta in libro da I Buoni Cugini editori e tratto dalle pubblicazioni in appendice al Giornale di Sicilia dal 5 agosto 1911.
Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%
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mercoledì 14 dicembre 2016

Luigi Natoli: Atenione. Uno schiavo da cui Spartaco avrebbe dovuto imparare... (Gli schiavi)


Salvio moriva di morte naturale. La fine miseranda di Chira, sebbene egli non l’avesse amata veramente e fortemente, lo aveva colpito; la sconfitta patita, i centomila caduti gli pesavano sullo spirito; il male che lo minava ebbe il sopravvento, e lo spense fra le braccia di Atenione.
Si trattava o di sbandarsi, chiedere perdono, umiliarsi, e ritornare ai padroni, o eleggere un nuovo re. I partigiani di Atenione insinuarono che lui fosse il re, che lo era stato, che avrebbe dovuto esserlo. E l’ottennero: il Cilicio fu eletto re. Egli dette subito nell’occhio alla gran maggioranza dei sudditi, perché si vestì all’orientale e adottò costumi consoni, che erano del resto i suoi. Ebbe veste lunga, manto di porpora, bacolo d’argento e corona: la qual cosa gli cattivò l’amore entusiastico dei suoi.
E Roma lo seppe. Visto che Lucullo dormiva, di nascosto elesse a capitanare l’impresa Caio Servilio e lo mandò in Sicilia. Lucullo ne fu edotto appena Servilio ebbe passato il Faro. Montò in furia.
E subito cominciò col congedare i soldati, che non si fecero ripetere l’ordine; poi distrusse il campo e bruciò fino alle cose più insignificanti. Quando Servilio giunse si trovò senza campo e senza milizie. Racimolò alla meglio quel che poteva, ma si ridusse, fra gl’insuccessi e le sconfitte, a non avere soldati. Atenione invece ristorò i suoi schiavi col gran bottino raccolto nelle città assediate e prese, senza che Servilio potesse opporsi. Fu per un momento il re di Sicilia; la percorreva in lungo e in largo, spingendosi fino al territorio dei Mamertini, che abitavano Messana, e prendendo la città di Macella che fortificò.
Roma richiamò Servilio e nel 101 a.C. affidò al console Mario Aquilio l’incarico di sbarazzare l’isola da quel barbaro.
Aquilio, compagno nel consolato di Mario, l’emulo di Silla, venne in Sicilia con le milizie di che Roma poteva disporre. Trovò l’isola sconquassata, ma non impoverita, in grazia delle schiave cilicie che durante la guerra avevano coltivata la terra. A marce forzate, attraversando quei territori dove poi sorse Salaparuta, si mosse contro Triocala. Atenione sperava di avere un nuovo trionfo; non aspettò il console, e uscì alla battaglia, fidandosi del numero degli schiavi. La mischia fu orrenda. Atenione fece strage, ma il console Aquilio cercava di lui. Si incontrarono...
 
Luigi Natoli: Gli schiavi.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Copertina di Niccolò Pizzorno

Luigi Natoli: La baronessa di Mongellino (Il caso di Sciacca).


Giorgio Comito si fece innanzi, gittandosi come una belva addosso al barone; le due spade scintillarono, guizzarono, sibilarono; Giorgio Comito con una mossa abilissima disarmò il barone; questi mandò un grido di rabbia, quegli un grido di gioia, ed allungò una stoccata.
Molte lame nel punto stesso balenarono contro il petto del barone di Mongellino; ma nel vibrare non i muscoli forti dell’uomo incontrarono, ma il seno molle e cedevole della signora baronessa.
Ratta come il pensiero, visto il pericolo del marito, ella si era gittata fra lui e le spade; e, squarciato il petto da cento ferite, cadde ai piedi di don Gerolamo, e le bianche vesti rosseggiarono di sangue.  
E quando la folla abbandonò la torre non più difesa, tra i cadaveri orrendamente mutilati, giaceva bianca e bella la baronessa di Mongellino; e anche nella morte ella pareva volesse difendere con le braccia sanguinose il cadavere del marito....
 
 
 
 Luigi Natoli: Il caso di Sciacca.
Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.
Prezzo di copertina € 21,00 - Sconto 15%

Luigi Natoli: Il caso di Sciacca. Quadro storico


Caso orrendo che lasciò, come il Vespro, memoria durevole nella tradizione popolare, avvenne per la inimicizia di due famiglie potenti, i Luna e i Perollo, del quale fu teatro Sciacca. Nata nei primi del XV secolo per rivalità di ambite nozze, un primo urto avvenne in Sciacca durante i funerali di Martino e l’odio dei padri si trasmise nei figli, Pietro Perollo e Antonio de Luna, e vi diede nuova fiamma una lite pel possesso di una baronia di S. Bartolomeo vinta dal Luna. Per evitar spargimento di sangue si tentò una pace: ma correndo la Settimana Santa del 1459, durante la processione, il Luna fu assalito e percorso da gente armata; ne nacque una zuffa, e si dice che il Perollo, abbattuto il nemico, andasse a devastarne le case e a saccheggiarle. Il Luna si ritirò a Caltabellotta preparando la vendetta, ma il governo intervenne con minacce ed esilio.
Nel secolo XVI erano a capo delle due famiglie Sigismondo de Luna, conte di Caltabellotta, imparentato coi Salviati e coi Medici, e Giacomo Perollo barone di Pandolfina e portulano di Sciacca, il quale abitava nel castello normanno, ed era in buoni rapporti col vicerè Pignatelli.
Or avvenne che a proposito della liberazione dalla schiavitù del barone di Solanto, tenendosi Sigismondo beffato, l’inimicizia fra i due scoppiò.
Avvenne qualche scontro fra i partigiani dell’uno e dell’altro; e spingendo Sigismondo armamenti, ne fu avvertito il Vicerè, che mandò a Sciacca Girolamo Statella qual capitano d’arme, per fare un’inchiesta e provvedere. Ma Sigismondo racconto gran numero di cavalieri e di armati, assoldata una banda di Albanesi, mosse sopra Sciacca la notte del 18 luglio 1519. Aggredita la casa dello Statella, lo uccisero, e uccisero la moglie; corsero poi ad assalire il castello che cadde il 22 dopo tre giorni di assalti, con grande spargimento di sangue. Giacomo Perollo riparatosi in un granaio, scoperto fu ucciso; il cadavere legato alla coda di un cavallo, trascinato per le vie, tra gli schiamazzi osceni dei vincitori e il pianto delle povere donne di Sciacca. Il castello e le case dei partigiani del Perollo vennero saccheggiate; la città parve un deserto.
Allora il governo si mosse, mandando fanti e cavalleggeri e magistrati, ma la gente di Sigismondo resistette con le armi. Cominciarono i processi, e Sigismondo, proclamato reo di delitto capitale, si imbarcò nascostamente con la moglie e coi figli, e partì per Roma, dove implorò perdono dal papa Clemente VII, e intercessione presso l’imperatore Carlo V, che negò, per cui egli disperato s’annegò nel Tevere. 
 
 

Luigi Natoli: Il caso di Sciacca - Quadro storico.
Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.
Il quadro storico è tratto da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed è inserito al termine della leggenda per migliore comprensione del lettore.

mercoledì 7 dicembre 2016

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico: Bernardo Cabrera e la regina Bianca di Navarra

Bernardo Cabrera, accampando che per essere egli Grande Giustiziere, toccava a lui nell’interregno reggere il governo, radunava un esercito col concorso di molti baroni, con l’intento di impadronirsi della regina Bianca e farla sua moglie.
La rivolta delle città appartenenti alla Camera reginale, (appannaggio delle regine di Sicilia, che comprendeva Siracusa e parecchie città contermini) e che Bianca era costretta a sottomettere, aiutava il Cabrera, col quale essa venne in lotta aperta; e uno scontro fra i suoi e quelli del Cabrera avvenne ad Agrigento con la peggio di questo. Ma Bianca non tenendosi sicura, ricoverò in Siracusa che le apparteneva; Bernardo Cabrera corse ad assediarvela, e l’avrebbe presa senza l’opposizione di Giovanni Moncada.
La giovinezza, la beltà, la bontà cattivavano intanto simpatia a Bianca, nelle città si manifestava un movimento per mantenerla nel Vicariato, e si formava una lega: il Grande Ammiraglio levava un esercito per difenderla, e la Regina veniva a Palermo. Il Cabrera si afforzava ad Alcamo; e da lì notte tempo, piombato improvvisamente in Palermo, assaliva lo Steri, dove alloggiava la Regina, che semivestita fece in tempo a fuggire da una porticina, e, saltata in una galera, rifugiava nel castello di Solunto. La paura dei baroni della Sicilia Occidentale indusse il vecchio conte ad accettare la mediazione dei legati di Papa Giovanni XXIII, venuti a Messina per riscuotere il censo dovuto alla Santa Sede. Questi decisero il governo toccasse al conte di Modica come Grande Giustiziere, fino alla elezione del Re, e la Regina si ritirasse a Catania. Bianca accettò: ma i baroni siciliani non si piegarono e ripresero le armi.
Il conte di Modica si fortificò in Palermo, dove il conte di Adernò con la sua gente andò a intimargli di sgombrare e di andare a umiliarsi dinanzi alla regina. Il conte uscì con le sue schiere in ordine di battaglia, ma cadde in una imboscata tesagli dal Grande Ammiraglio di Lihori, e, preso prigioniero, fu mandato nel castello della Motta...
Avvenivano in questo tempo grandi agitazioni per la elezione di un successore a Martino il Vecchio; finalmente due vescovi, due monaci, quattro giureconsulti e un cavaliere, uniti in concilio a Caspe, eleggevano il 28 luglio 1412 l'infante Ferdinando di Castiglia, nipote di Martino, per suggerimento di frate Vincenzo Ferreri, poi santificato. Questa elezione in vero non riguardava la Sicilia, dove essa spettava al Parlamento. Ma a Barcellona si riteneva oramai la Sicilia come un possesso, e si fece a meno di provocare il voto del Parlamento; invece si domandò e si ottenne isolatamente dai baroni, dai capitani, dai magistrati, dagli ecclesiastici, il giuramento di fedeltà.
Tardi si avvidero i siciliani di non avere più un re nazionale...
 
 
 Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli e pubblicato al termine del romanzo per maggiore chiarezza del lettore. Nella foto: pubblicità delle prossime pubblicazioni in appendice al Giornale di Sicilia nel 1910
Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15%

martedì 6 dicembre 2016

Il paggio della regina Bianca di Luigi Natoli

 
Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Nell'animoso quadro storico Giovannello Chiaramonte, figlio di Andrea, sopravvissuto alla tragedia chiaramontana, vuole a tutti i costi riprendere possesso dei beni paterni usurpati dal baronaggio catalano. Vi riuscirà?
 
 
Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Pagine 702 - Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15%.

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico:Bianca di Navarra Vicaria del Regno.


La Sardegna, qualche anno dopo si ribellò contro il dominio aragonese, per cui fu necessario usar le armi. Martino I, raccolto un esercito, dopo aver nominato Vicaria del regno Bianca, partì per la Sardegna, nel 1408. Il 1 giugno del 1409 sconfisse per mare l’armata genovese alleata dei Sardi, e poco dopo ruppe in memoranda battaglia a Sanluri  l’esercito sardo, guidato da Brancaleone Doria. Ma ammalatosi di febbre, e trasportato a Cagliari, vi moriva a trentatré anni, nel luglio. La leggenda s’impadronì della sua morte, e si disse che una bellissima giovane di Sanluri, per vendicare la patria, avesse con le ardenti carezze ucciso il Re vittorioso.
Non lasciò figli, che anche quello natogli da Bianca era morto appena nato. Il duca di Montblanc, già re d’Aragona, ereditava il regno di Sicilia, e si nomava Martino II, riconfermando Bianca nel Vicariato. Morta Maria, che legittimava la presenza del I Martino, non lasciando eredi, in vero questi aveva perduto il diritto a regnare. A più ragione questo diritto non aveva Martino II; ma la Sicilia era in potere dei Catalani, e i baroni siciliani si erano avviliti. Così la Sicilia divenne un’appendice della corona aragonese, e perdette per sempre la sua piena indipendenza. Tristissimi furono gli effetti della dominazione aragonese.
Il regno di Martino II durò appena un anno. Prevedendone, per la vecchiezza e le infermità la non lontana fine, i Siciliani avevano fatto vive premure, perché egli designasse a succedergli al trono di Sicilia Federigo conte di Luna, bastardo di Martino I, che il vecchio re aveva fatto legittimare dall’antipapa Benedetto. Il Re acconsentì, ma la Corte, cui interessava il possesso dell’Isola, fece in modo che il Re morisse, senza manifestare la sua volontà.
Cominciò un nuovo periodo fortunoso per la rivalità fra le maggiori città dell’Isola, per la malferma condizione della Vicaria, per la discordia del baronaggio, per le pretese del nuovo baronaggio catalano venuto coi Martini, che s’era sovrapposto all’antica nobiltà e aveva in mano le cariche supreme. In questo frangente, forse spinta da ambizione, Messina prendeva l’iniziativa di convocare un Parlamento a Taormina, per provvedere al Regno. E fu tenuto nel giugno del 1410, ma non v’intervennero i sindaci di alcune città, né Bernardo Cabrera, nuovo conte di Modica. Se il Parlamento avesse senz’altro eletto Federigo de Luna, ogni quistione sarebbe stata risolta, e le discordie composte; invece si deferì a una giunta la scelta del re. Palermo proponeva una soluzione: dar la corona a Nicolò Peralta, del regio sangue, perché nipote di Eleonora d’Aragona, e con la corona la mano di Bianca.

 
 
Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. - Pagine 702
Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
 
Il quadro storico è tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli ed è pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini editori per maggiore chiarezza del lettore. Nella foto: la puntata numero tredici pubblicata in appendice al Giornale di Sicilia nel 1910
 

venerdì 2 dicembre 2016

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico: re Martino I e Bianca di Navarra.


Martino I, giovane, cavalleresco, vago di avventure, radunò il Parlamento nel febbraio del 1397, nel quale attese alla riforma del regno, avendo cura di raffermare i diritti e l’autorità del re, chiamando in vigore i capitoli di re Giacomo e di re Federigo II; specificando e limitando le attribuzioni dei vari ufficiali e apportando altre notevoli modificazioni nel Parlamento del 1398; nel quale fra l’altro fu posto nuovo freno alle prepotenze dei baroni, e si provvide all’ordinamento dell’esercito e delle magistrature. Ordinò indi una commissione mista di dodici membri, per esaminare la condizione giuridica delle città, demaniali o no.

Tutto pareva promettere pace e prosperità, e la nascita di un principe rallegrava la corte, ma per breve tempo: non molto dopo il principe morì, e dopo lui, la madre Maria, e Martino passò a nuove nozze con Bianca di Navarra, che si celebrarono in Palermo il 30 novembre 1402; in quell’occasione Martino fu coronato.
 
 
 
Bianca di Navarra aveva diciotto anni ed era bellissima; il re ne fu quasi abbagliato; le baciò la mano, e non fu solo per galanteria cavalleresca. V’era in quel bacio qualche cosa che fece trepidare e arrossire Bianca.
 
 
 
Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
 
 
 
 
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli, ed. Ciuni anno 1935 e pubblicato a seguito del romanzo nella edizione I Buoni Cugini Editori.
 

 

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico: Andrea Chiaramonte tradito e condannato a morte.


Raccolto l’esercito composto di milizie proprie e bande feudali, di nobili, di mercenari, di hildaghi spiantati, di masnadieri, di ladroni assolti da pene, e postolo sotto gli ordini del valoroso Bernardo Cabrera, avendo già distribuite ai principali cavalieri le alte cariche del Regno, uffici e privilegi, il duca di Montblanc, col figlio e con la nuora salpò da Port Fangos nei primi di marzo: il 22 marzo 1391 approdò a Favignana, ed ivi ricevette l’omaggio di Guglielmo Peralta, Antonio Ventimiglia, del conte di Cammarata e di Enrico Rosso: a Trapani gli fecero onore molti dei baroni convenuti a Castronovo, dei quali congiunse le milizie feudali alle sue.
Solo non vi si recò Andrea Chiaramonte, che rimase a Palermo, dove l’umore non era favorevole ai due Martini.
La domenica delle palme l’esercito catalano si schierò sotto le mura della città, che, chiuse le porte, rifiutò d’arrendersi, onde il duca pose l’assedio dalla parte di mezzogiorno. Tra il reciproco bombardarsi, il duca dava il guasto alle campagne e avvenivano conflitti con danno dell’una e dell’altra parte. Nella generale defezione, quella resistenza pareva l’ultima difesa dell’indipendenza del Regno. Gli altri Vicari s’erano dati allo straniero: Andrea Chiaramonte rimaneva solo. Dopo un mese di assedio, crescendo la fame, l’arcivescovo di Palermo e uno dei Giudici andarono a pattuire la resa: Andrea fu assolto e tenuto buono e fedele vassallo: gli altri ebbero l’indulto. Così stabilito, Andrea il 17 di maggio presentavasi ai Reali, e ne era bene accolto. Ma il domani, ripresentatosi con l’arcivescovo per spiegare la sua condotta, il Duca perfidamente lo fece arrestare. Si imbastirono accuse che erano calunnie, e intanto si prese possesso della città, dove i Reali entrarono il 21, tra la freddezza del popolo. Il Duca nominò Bernardo Cabrera Grande Ammiraglio, e Guglielmo Raimondo Moncada, in premio d’aver venduta la patria, Grande Giustiziere.
Andrea fu sottoposto a giudizio, condannato a morte, e decapitato il 1 giugno nella piazza Marina, dinanzi al suo palazzo, donde il duca di Montblanc assisteva. La famiglia fu dispersa: i beni confiscati. I Chiaramonte scomparvero dalla storia.
 
Re Martino sorrise a fior di labbra. Dinanzi agli occhi suoi si rinnovava la visione della tragedia chiaramontana.
Egli stava col padre a una finestra dello Steri; la piazza Marina era gremita di popolo che gli arcieri e i picchieri catalani a stento frenavano, perché non invadesse il palco sul quale il boia, appoggiato alla scure larga e luccicante aspettava le vittime.
Poi dalle prigioni del palazzo uscì il corteo. I confrati col cappuccio, le guardie, il carro; e nel carro, diritti, fieri, Andrea Chiaramonte e Antonio delle Favare suo segretario.
Il carro giunse ai piedi del palco. Andrea Chiaramonte, sebbene avesse le braccia legate dietro le reni, balzò svelto dal carro, senza bisogno d’aiuto, e montò la scala del palco, senza dar segno di commozione.
Guardò il suo palazzo: i suoi occhi si fissarono sulla finestra e cercaron gli occhi del duca e del re.
Martino sentiva ancora il lampo di quegli occhi, che esprimevano una minaccia lontana; e ne provava un turbamento indefinibile...
 
 
Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
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giovedì 1 dicembre 2016

Luigi Natoli: il paggio della regina Bianca. Quadro storico:il duca di Montblanc


Il papa, vantando i diritti della Chiesa, mandava il divieto a Pietro IV; lodava lo zelo dei vicari che gli si protestavano fedeli; ed affermava che il baronaggio non era disposto a subire dominio straniero. E allora Pietro IV trasmise i suoi diritti al figlio secondogenito Martino, duca di Exerica, come Vicario, purchè costui alla sua volta ne investisse il proprio figlio anch’esso di nome Martino. Poiché l’erede del trono di Aragona, Giovanni, non aveva maschi, la corona sarebbe passata a Martino, e da costui sul figlio, che così sarebbe divenuto re d’Aragona e di Sicilia.

L’assedio stretto da Artale aveva ridotto Agosta agli estremi per la fame, e non era lontana la resa, quando a Siracusa approdava un’armatetta calatana, proveniente dalla Morea, che saputo come stavan le cose, s’affrettò ad aumentare il suo naviglio, e così rafforzato, ricomparve in Sicilia nell’agosto del 1382. Allora Artale, temendo di veder prese le sue navi, tolse il blocco e si ritirò in Catania, mentre Ruggero Moncada e la Regina si imbarcavano nelle navi catalane, e ricoveravano a Cagliari, che era venuta in potere degli Aragonesi. Lasciata Maria in quel castello, il Moncada correva a Barcellona.

Il duca Martino si dava allora a carezzare i Vicari con lettere, annunziava la sua venuta con la regina Maria, e intanto raccoglieva denari, galere e cavalieri desiderosi di farsi uno stato: ma discordie scoppiate in Aragona fra il re Pietro e il primogenito Giovanni, che Martino dovette sedare, ritardarono il viaggio. I Vicari e gran parte del baronaggio respirarono e ne approfittò Manfredi Chiaramonte, che per le seconde nozze si imparentava coi Ventimiglia, e dando una figlia a Nicolò Peralta, figlio del Vicario, stringeva legami con costui, e acquistava nuova potenza: e, andato a conquistare l’isola delle Gerbe nell’agosto del 1388, ne ottenne dal Papa l’investitura. L’anno dopo, accoglieva la domanda della Regina di Napoli, vedova di Carlo di Durazzo, e tutrice del quindicenne Ladislao, che chiedeva per costui la mano di Costanza, figlia di Manfredi, la quale con gran seguito, grandi ricchezze e quattro galere andò a Gaeta ove si celebrarono le nozze. Indi le galere di Manfredi liberarono il Castello dell’Ovo, e il Chiaramonte poteva ben dirsi il più alto e possente barone di Sicilia.

In questo tempo, composti i dissensi in Aragona per opera di Martino, che in premio ebbe il titolo di duca di Montblanc, Maria fu da Cagliari trasportata a Barcellona, e poi nel castello di Montblanc, in attesa delle nozze, che avvenivano nel 1390 appena uscito il figlio Martino dalla pubertà. Di queste nozze dava avviso ai principi e in Sicilia, promettendo il suo non lontano arrivo. Ad agevolarlo, il destino s’incaricava di sgomberargli il terreno. Morivano infatti il conte di Geraci e Artale Alagona, e non molto dopo Manfredi Chiaramonte; il vicariato passava ai figli Antonio Ventimiglia, Blasco Alagona, Andrea Chiaramonte, e degli antichi vicari rimaneva il Peralta. Dinanzi alla minaccia dell’invasione, il 10 luglio 1391, i vicari radunarono a convegno i principali baroni nella chiesa di S. Pietro a Castronovo; giurarono alleanza per procurare l’onore e il servizio della regina Maria, la sua restituzione nel regno, e per respingere qualsiasi principe ed esercito straniero. Uno strambotto popolare serba la memoria del convegno, che cominciato con tanto fervore, finiva dimenticando i patti.

Astuto, raggiratore, fine politico, il duca di Montblanc mandava lettere a questo e a quel barone, in segretezza, con profferte di amicizia, lusinghe, persuasioni: inviava Galdo di Queralt e Berengario Crujllas abili negoziatori e guadagnava consensi fra i borghesi agiati; seminava la corruzione nel baronaggio, e ne fomentava l’egoistico tornaconto. Disgregando il baronaggio, il duca non temeva più una resistenza pericolosa, perché il popolo non lo impensieriva: che non c’era popolo, ma torme di servi nei feudi, e masse senza più coscienza nelle città, che si tenevano estranee alle mene dei baroni.
 
 

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Pagine 702 - Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15%
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mercoledì 30 novembre 2016

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico: il rapimento di Maria d'Aragona.

Si pensava di dar nuova moglie a Federigo d'Aragona , e la scelta cadeva sulla figlia di Bernabio Visconti, quando il 27 luglio 1377 moriva in Messina e designava erede la figlia Maria, che commetteva alla tutela di Artale Alagona, grande Giustiziere. Re dappoco, nella prima giovinezza passava il tempo servendo messa: poi fra i piaceri, come i suoi fratelli, si compiaceva di letture, e nella sua biblioteca v’era la Commedia di Dante e la traduzione parafrastica siciliana dell’Eneide di Virgilio. Inadatto a regnare, trastullo dei baroni, qualche sua lettera querimoniosa lo dimostra senza neppure dignità nelle sventure.
Come tutore della giovane regina, Artale divenne di fatto l’arbitro del regno; eppure capì che non sarebbe stato agevole dominare sopra un baronaggio strapotente, che gli avrebbe conteso il governo, e che avrebbe rinnovato gli orrori della guerra civile. Intese che forse questa avrebbe gettato l’Isola nelle mani del re d’Aragona, contro le cui mire egli si era opposto, mostrandosi, sebbene Catalano, geloso della indipendenza del regno. Allora pensò di dividere il Vicariato con i principali e più potenti baroni di Sicilia. Erano essi Manfredi Chiaramonte che aveva ereditato la contea di Modica e tutte le altre signorie del parentado, sicchè era signore di uno stato vastissimo e potentissimo, ed era inoltre Grande Ammiraglio e, di fatto, signore di Palermo; Francesco Ventimiglia conte di Geraci, che aveva sulle Madonie ricostruito lo stato paterno, e vi aveva aggiunto la rettoria di Cefalù e Polizzi; Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, ricco fra i più ricchi baroni Catalani, imparentato con la casa reale, per avere preso in moglie Eleonora d’Aragona, figlia del duca Giovanni. Artale infine possedeva vasti feudi da Mistretta a Traina, da Aci a Butera e intorno all’Etna; e feudi e capitanerie aveva largito ai fratelli. Ognuno di questi quattro baroni estendeva il suo dominio diretto sopra una zona o provincia distinta. Invitati Artale i principali feudatari in un convegno a Caltanissetta, ed esposte le sue idee, si trovavan d’accordo nell’eleggergli compagni del Vicariato il Chiaramonte, il Ventimiglia e il Peralta. Guglielmo Raimondo Moncada conte d’Agosta, sebbene potente anche lui, tenutosi allora fra Latini e Catalani, non fu eletto. La Sicilia fu divisa per tanto in quattro Vicariati minori; i Vicari sottoscrivevano i loro atti con la formola “una cum sociis vicariis generalibus”; ma l’autorità della Regina, con cui s’intitolavano gli atti, era un nome vano senza soggetto.
Il re Pietro IV d’Aragona, che non s’era acquietato al testamento di Federico III, e pretendeva sempre che il regno di Sicilia toccasse a lui, mandò un’ambasceria ad Artale, il quale ostentando rispetto, la teneva a bada; e intanto mandava segretamente legati in Lombardia per trattare il matrimonio di Maria con Giovanni Galeazzo Visconti, conte di Virtù, purchè si obbligasse a venire con forti schiere a difendere la Sicilia. La proposta fu accolta ed era onorevole, ma gli altri Vicari e molti baroni si risentirono, chè in cosa tanto grave, dovevano essere intesi. E più di tutti, per dispetto, gridava Guglielmo Raimondo Moncada, cui parve giunta l’ora di vendicarsi.
La notte del 23 gennaio 1379, mentre Artale si trovava a Messina, due galeotte s’avvicinavano alla rocca Ursina, dimora della regina Maria; uomini armati vi sbarcavano, e penetrati nelle stanze della Regina la sorprendevano nel sonno. Il condottiero, tratta la giovinetta piangente dal letto, la trasportava fra le sue braccia sopra una delle  galeotte e qui si faceva conoscere. Era il Moncada. La notizia del ratto si sparse: Catania tumultuò, Artale disperato si strappò i capelli, e invano ordinò s’inseguisse il Moncada. Questi lasciata prigioniera la Regina in Licata partiva per Barcellona a mercanteggiare la Sicilia, e metteva Maria sotto la protezione di Pietro, in quale mandava a Licata un Ruggero Moncada del ramo spagnolo.
Tardi s’avvide Manfredi Chiaramonte del tradimento del conte d’Agosta, cui aveva dato mano, e levò milizie per assalire Licata: ma i due Moncada lo prevennero e trasportarono Maria ad Agosta, luogo più munito. Qui venne Artale a porre assedio per mare e per terra, ma intanto sorgevano complicazioni diplomatiche...

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Pagine 702 - Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli ed. Ciuni anno 1935, pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini.

Luigi Natoli: L'esodo. Quadro storico.


Sotto il viceregno di Ferdinando de Acuna, giunto in Palermo il 28 febbraio 1489, avvenne un fatto memorando per tutti gli stati della monarchia. Era in Spagna e alla Corte divenuto potentissimo fra Tomaso Torquemada, domenicano, fanatico fino alla ferocia, che fisso nell’idea di purificare il cattolicesimo, aveva riformato l’Inquisizione, e creato quel terribile Istituto, che acquistò dominio su tutto il Regno e sui Sovrani stessi. Musulmani ed ebrei eran la lebbra che bisognava distruggere col fuoco. Nell’animo del Re si confusero la superstizione e la necessità di denaro, sì che cedette alle insistenze violente e minacciose del frate, il quale, pretese che il Re cacciasse gli Ebrei da tutti gli Stati. Il bando fu promulgato il 31 marzo del 1492 ed ordinava che uscissero fra tre mesi, ma lasciando denari, vasellami e ogni loro cosa, per quanto misera. I miseri tentarono ottenere la sospensione offrendo grandissima somma, ma il feroce Torquemada non volle: e il Re ubbidì. Circa settantamila ne partirono dall’Aragona: parecchie migliaia che si erano convertiti, forse in apparenza, accusati di professare occultamente la religione degli avi, furono bruciati vivi.
In Sicilia fu notificato il bando del 31 marzo. Qui, preti fanatici avevano già suscitato qualche tumulto, nel quale era stato ucciso il sommo sacerdote degli Ebrei, ma in generale questi erano tollerati, e godevano di qualche benefizio, quando giunse l’ordine fatale. Essi supplicarono il Vicerè, che era di buon animo e incline a giustizia, e le loro suppliche furono appoggiate da lettere del Senato, che li difendeva dalle accuse, e mostrava i danni economici che sarebbero avvenuti. Fu vano. Non ottennero dal Re, mercè denaro, che una dilazione, e dovettero partire il 12 gennaio del 1493, non altro portando che un misero letto, gli abiti che avevano indosso, e tre tarì pel nolo della nave. I miseri scacciati da un Re cristiano, trovavano ricovero a Roma, sede della cristianità! E Ferdinando in merito della pia rapina ebbe il soprannome di Cattolico.
Il Sant’Offizio fu qui introdotto nel 1487 dal frate Antonio della Pegna; ma non c’è notizia di roghi anteriori al 1506, quando già il Sant’Offizio vi esercitava incontrastato il suo ministero.
Il secolo si chiudeva, lasciando la Sicilia povera, schiacciata dalle imposte, mal governata, esposta alle piraterie, terrificata dai roghi, sempre più appartata dall’Italia.
 
Luigi Natoli: L'esodo. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.
Prezzo di copertina € 19,00 - Sconto 15%.
Il quadro storico è tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli ed. Ciuni anno 1935 e pubblicato al termine della leggenda per maggiore comprensione del lettore.

 

venerdì 25 novembre 2016

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. Quadro storico:La guerra civile fra Latini e Catalani


Matteo Palizzi sbarcò presso Messina, nel giugno del 1348; Blasco corso con ottocento lance non potè ricacciarlo, e la regina Elisabetta fingendo di seguirlo in Catania con Ludovico, andava a Patti dove Matteo la raggiungeva, col quale si accordò. Indi il Palizzi si recò a Palermo, accolto con feste dai Chiaramonte. Proposero di abbattere Blasco Alagona, e fare strage dei Catalani, approfittando dell’odio di razza per eccitare il popolo di Palermo. E al grido di viva Palizzi e Chiaramonte!  fu fatta strage degli stranieri. Il moto si estese a quasi tutto il Val di Mazzara. Inutile e tristo vespro novello! Intanto Matteo, e i Chiaramonte accozzato un esercito mossero per risollevare tutta l’Isola. Dovunque andassero, da Termini a Randazzo, le città si rendevano, i Catalani erano perseguitati, imprigionati, uccisi. I sopravissuti riparavano in Catania e Matteo Palizzi entrava da trionfatore in Messina, dove la Regina, gli diede in moglie Margherita, già aia di Ludovico, tedesca e vedova di un cavaliere di Santo Stefano.
Blasco dal canto suo provvedeva a difendersi, e chiamava i baroni catalani, coi quali accorrevano anche i Ventimiglia, Enrico Rosso e altri, nemici giurati del Palizzi; adunava milizie, altre ne assoldava che avevan nome “briganti”, e fortificava Catania. Per singolarità del caso, il Re stava dalla parte latina, che in vero ne teneva in non cale l’autorità, ma ne appariva tutrice; la parte catalana, che in realtà gli era fedele, appariva invece come ribelle. Già qualche avvisaglia preannunciava la guerra aperta; e temendone gli effetti, la Regina troppo tardi cercò di impedirla. Invano, Matteo mosse contro Catania, bruciandone le messi; ma per evitare i danni di un assedio, Blasco ordinò che si incontrasse in campo aperto. Presso la Gurna di Paternò in un luogo detto Fontana Rossa, i due eserciti vennero a battaglia, che fu aspra e feroce. E già la parte catalana, non reggendo all’urto si scompigliava, e la latina si disordinava per far bottino, quando Blasco piombò con la riserva che teneva appostata, e mutò la sconfitta in vittoria. Matteo dovetti ritirarsi con gli avanzi dei suoi a Lentini...
La guerra civile continuò con imprese da banditi, dall’una parte e dall’altra. Campagne devastate, città e borghi saccheggiati, rapine e stragi, tra le quali si logoravano, si esaurivano quelle forze, che avrebbero dovuto serbarsi alla salute della patria. Privati rancori e insane ambizioni insanguinavano le città. Un certo Lorenzo Murra, familiare dei Chiaramonte, poi crucciato contro di loro, tenne una congiura e vi attirò i Ventimiglia e Matteo Sclafano. Trovò aderenti e si fece nominare capitano del popolo che aizzò a uccisioni; poi all’annunzio di schiere chiara montane, tradì i compagni, fingendo aver tramato tutto per cogliere i Ventimiglia, che si salvarono con la fuga (gennaio 1351). A Licata un certo de Vilis, catalano, cacciato, chiamò Artale Alagona figlio di Blasco, che accorse e vi fece strage e rapina. Quelli invocarono Manfredi  Chiaramonte, che non giunto a tempo per fermare Artale, già in mare col bottino, lo fece assalire a Siracusa. Altri torbidi vi furono a Castrogiovanni, una ribellione di vassalli ad Assoro, contro Scalore degli Uberti, partigiano dei Palizzi, loro tiranno, che fu fatto a pezzi dai villani. Scorrerie per terra, piraterie per mare; non v’era più governo, non Parlamento. L’ombra sinistra della malcelata ambizione di Matteo Palizzi si proiettava sulla Sicilia. Il povero Re, astutamente gittato da lui fra i piaceri, logorava la malferma giovinezza; e, mentre Matteo arricchiva, egli era costretto a pegnorare fin le gemme della corona....
 
 
 
Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia - Latini e Catalani vol. II.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo inserito al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini Editori.

giovedì 24 novembre 2016

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. Quadro storico: la potenza dei due baronaggi Latini e Catalani nella Sicilia del 1348.


Il baronaggio indigeno, che si sentiva e si diceva latino, era in gran parte d’origine normanna, francese e italiana: ma in quel formarsi della monarchia si era così naturalizzato, che aveva finito per considerarsi veramente indigeno. Possedeva grandi feudi, specialmente nella Sicilia settentrionale e occidentale, e vantava i nomi dei Chiaramonte, dei Lancia, dei Ventimiglia, dei Montaperto, dei Tagliavia, dei Rosso, dei Calvello, degli Sclafano; ricca, magnifica, conservava la tradizione di quei cavalieri vissuti nelle corti di Ruggero e di Federico imperatore. L’altro baronaggio venuto con Pietro d’Aragona e durante il regno di Giacomo e Federigo, catalano, rude, fiero, che contava i nomi degli Alagona, dei Moncada, dei Valguarnera, dei Peralta, dei Galcerando, meno numeroso, arricchitosi dei feudi tolti agli altri, era divenuto possente per la predilezione dei re, che erano di loro razza. I dinasti aragonesi non ebbero virtù di fondere le due aristocrazie, le tennero anzi divise, invide e gelose. E neppure seppero fondere con i naturali delle città i borghesi e gli artigiani che venivano di Catalogna, i quali formavano colonie con propri capi, per cui i Catalani vi furon tenuti sempre come stranieri, e spesso chiamati barbari.
Durante la potenza del Vespro, questo baronaggio, era cresciuto in potenza, a furia di concessioni e di privilegi, e appannaggio pel servizio dell’armi , di cui era sempre richiesto. La sua potenza cresceva a scapito di quella del Re, e a spese dei comuni non solo feudali, ma demaniali, e l’interesse di difenderle a ogni costo, si sovrapponeva ai giuramenti prestati, al dovere verso la patria, verso cui non si vergognavano di attirare l’odiato nemico, se per suo mezzo potevano trarre vendetta di quelli, che credevan torti. Per preminenza, autorità e nome i due baronaggi avevano automaticamente fatto capo a due famiglie: i latini ai Chiaramonte; i Catalani agli Alagona. Manfredi II Chiaramonte aveva le cariche di Gran Siniscalco del regno e Capitan Giustiziere di Palermo; Blasco Alagona era Gran Giustiziere del regno. Questa carica gli dava il diritto, morto il duca Giovanni, di prender le redini dello Stato, ma i Latini che avevano dalla loro la regina Elisabetta, s’adombrarono. E richiamò i Palizzi, ma venne solo Matteo, perché Damiano, ammalato, morì prima di partire...
 
 
 
Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. - Latini e Catalani vol II.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli e pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini.