lunedì 22 agosto 2022

Luigi Natoli: La banda di Angelo Sicco. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

La banda di Angelo Sicco non rubava che quando aveva bisogno di denaro, e rubava o i ricchi signori o il corriere del governo; non parendo grave colpa ritogliere ai signori e al governo quello che essi toglievano alla povera gente per tributi feudali o per gabelle.
Del resto parte delle somme, talvolta, andava a profitto della povera gente. La casa di una contadina vedova, con tre creature, era rovinata da un uragano, gittando quei miserelli in mezzo alla strada? Angelo Sicco rifabbricava la casa. Qualche vecchio contadino era spogliato dal fisco, per non poter pagare? Angelo Sicco faceva bastonare gli algozini, ma nel tempo stesso sovveniva il vecchio, perché si aggiustasse col fisco e riscattasse la roba. Un povero mulattiere era depredato da ladruncoli di campagna? Angelo Sicco gli faceva restituire fino all’ultimo denaro e infliggeva una punizione ai malandrini che usavano rubare la povera gente.
Di questi tipi di briganti non era scarsa l’isola. Avventurosi, ferocî, magnanimi, animati da un certo sentimento di giustizia, qual maraviglia se nella fantasia e nel sentimento popolare si ingrandivano e assurgevano all’eroismo, circondandosi non soltanto dell’ammirazione e della simpatia, ma anche del favore occulto, sincero, devoto quanto spontaneo e disinteressato degli umili? Questa era la loro invulnerabilità.
Il nome non fece più sembrare straordinario agli occhi di Corrado e di Pietro quello che il bandito aveva fatto: da lui non si poteva attendere altro. Corrado lo rimproverò:
- Dal momento che voi eravate nell’osteria, perché non siete venuto fra noi? Sarei stato contento di offrirvi un bicchiere di vino.
Angelo Sicco rispose con un sorriso significantissimo, scotendo il capo in segno di diniego. Poi si rimise il cappuccio dello “scapolare”, pose il fucile sotto il braccio, come per andarsene; ma Corrado, quasi per un presentimento, gli disse:
- Non ve ne andate; forse potrei aver bisogno dell’opera vostra...
- Pronti! – rispose il bandito, e sedette sopra un altro sasso.
- Aspetto qualcuno, – aggiunse Corrado: – un amico.
Quasi nel tempo stesso una mano spinse la porta, ed entrò zi’ Francesco, intabarrato, che guardò con sorpresa quel terzo personaggio, che non si aspettava di trovare, e del quale non vedeva il volto, celato dal cappuccio.
Si alzò, usci fuori dalla vecchia torre, e modulò quel fischio che aveva insegnato a Corrado. Un folto canneto si agitò violentemente e una specie di contadino, poveramente vestito, ne uscì e si avvicinò alla torre: mentre di fra le canne altri visi si affacciavano e qualche fucile luccicava.
Angelo Sicco parlò brevemente, rapidamente e imperiosamente; poi fece un gesto e il contadino partì. I volti e le canne di fucile sparvero nel canneto, e Angelo Sicco rientrò nella torre.
- Per giungere in città occorrono venti minuti; – disse sedendosi, – e venti per ritornare, e son quaranta; e un’ora per le indagini, fanno un’ora e quaranta; mettiamo due ore; a ventitrè ore noi sapremo qualche cosa...
Intanto zi’ Francesco, chinatosi all’orecchio di Pietro, gli domandava chi era quel personaggio, così umile in apparenza, e così straordinario; sottovoce Pietro glielo disse; e quel nome leggendario dipinse subito sul volto del popolano una specie di ammirazione e di stupore.
Per un istante il silenzio chiuse quelle quattro bocche in una specie di raccoglimento. Poi Corrado, impaziente, domando:
- È un uomo sicuro, quello che avete mandato?
- Il più abile per attingere informazioni... Vossignoria ha veduto se sono informato bene...
- Difatti, – confermò il giovane; – ed è una cosa stupenda...
Il bandito fece un cenno come per dire che, per lui, era cosa più ovvia e più semplice: l’uomo che aveva spedito era un ex birro, che, prima di far il birro, era stato in galera: da birro, non potendo dimenticare le amicizie contratte nella galera, e certe idee che costituivano il codice di quella gente: si prestava di buon animo a informare segretamente i latitanti, i banditi, e in generale tutti coloro, che, colpiti dalla giustizia, cercavano uno scampo nelle campagne. Poi, scoperta la sua complicità in un grosso furto commesso in Palermo, prese il largo e diventò un gregario della banda di Angelo Sicco. Il capobanda, da principio diffidente, lo fece sorvegliare dai più fidati e gli commise le imprese più arrischiate per provarlo. I risultati dissiparono la sua diffidenza; e l’ex birro per le sue relazioni con gli antichi compagni di mestiere, diventò un elemento prezioso per la banda. Egli conosceva intimamente due o tre spie, di quelle che tenevano il sacco ai ladri e ai sopraffattori della città; e poteva, volendo, mandarli in galera: il che, aggiunto a qualche sommerella, li rendeva fedeli e segreti.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento,  contagiata dalle idee rivoluzionarie francesi, che muove con Francesco Paolo Di Blasi i primi moti d'insurrezione anelanti la libertà.
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su La Feltrinelli.it, Ibs, Amazon e tutti gli store online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour, Palermo) e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: Le catacombe di S. Michele Arcangelo. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

Sei o sette minuti dopo, la carrozza svoltava, si fermava. Lì presso era un baccanale simile al precedente. La mano dello Spagnuolo prese pel braccio la duchessa:
- Vostra eccellenza scenda, e guai a dire una parola.
Ella provò un brivido al contatto di quella mano, che le parve ruvida e pesante; tremando, lasciandosi trascinare, piuttosto che scendere, si sentì condurre per pochi passi; udì un fischio sommesso, poi sentì una ventata umida in volto. Camminò.
- Badi; ora ci sono degli scalini e si scende - le disse lo Spagnuolo.
Ella tremava per tutta la persona, presa da un terrore che la rendeva un automa. Scendeva per una scala lubrica, sentendo sotto le sue scarpette un attaccaticcio come di fango rappreso. Più scendeva e più sentiva un umidore e un tanfo di muffa, come di cantina o di sotterraneo.
A un certo punto si fermarono. Lo Spagnuolo la fece sedere e le tolse la benda.
Ella guardò. Una fiaccola infissa a una parete illuminava intorno con riflessi sanguigni. Si trovava in un sotterraneo scavato nel tufo; era una specie di corridoio, nelle cui pareti da una parte e dall’altra erano scavate delle nicchie orizzontali, l’una sopra l’altra, parallele, che si sprofondavano nere nell’ombra. Alla sua destra il corridoio metteva in una specie di rotonda, sulla quale si capiva che mettevano altri corridoi: da uno di essi veniva un barlume, segno che era illuminato; gli altri si perdevano in un tenebrore fitto e pauroso. Dinanzi a lei stavano due uomini, con la maschera sul volto, armati, immobili.
Ella udì un brusìo di voci sommesse dall’altro corridoio, ma non distingueva nessuna parola. Si chiedeva dove fosse, guardando ogni cosa con uno spavento che le gelava il sangue.
Erano le catacombe di S. Michele Arcangelo.
V’è sotto la città di Palermo una città sotterranea, scavata nel tufo, nota agli antichi, ora inaccessibile; ed è formata di antiche catacombe cristiane. Un gruppo di esse si distende per tutta quella contrada che dall’antica chiesa di S. Michele Arcangelo va sotto la chiesa di Casa Professa fino a quella dei SS. Quaranta Martiri. Un altro gruppo si trova nel quartiere del Capo, presso S. Agata la Guilla, ed era il ritrovo di una setta famosa tra il cadere del secolo XVII e il principio del seguente: quella dei Beati Paoli.
Altre catacombe si trovano fra Porta S. Agata e l’antica Porta Mazara; altre fuori Porta d’Ossuna.
Queste ultime, scoperte, sono ancora visibili; le altre per ordini viceregi furono chiuse in varî tempi, e sono ora inaccessibili e ignorate.
Le catacombe di S. Michele Arcangelo furono delle più celebri nei secoli andati, giacchè al loro gruppo appartenne una grotta che si disse abitata da San Calogero, nella quale fu eretta una cappella, oggetto di venerazione da parte dei fedeli. Su di essa più tardi sorse la chiesa dei padri Gesuiti, Casa Professa, intitolata appunto a S. Maria della Grotta.
L’ombra che avvolgeva lo sfondo delle gallerie, i loculi scavati da ambo le parti, qualche scheletro che nella penombra mostrava le orbite vuote e spaventevoli, quegli uomini armati, quel brusìo che pareva lontano, quel sentirsi separata dalla vita, e trasportata in un mondo dove la morte pareva avesse la sua sede, tutto ciò circondava d’orrore l’anima della duchessa.
A un tratto risonò un fischio. Allora i due uomini mascherati, le ingiunsero:
- Alzatevi e venite.
Ma ella non poteva alzarsi: le sue gambe si rifiutavano. Fu necessario che quei due la sorreggessero per le ascelle. La condussero così fino alla rotonda, e svoltarono pel corridoio nel quale essa aveva scorto i riflessi di un lume. Si trovò di fronte ad una specie di areopago spaventevole.
Erano circa una ventina di uomini col volto coperto da una maschera, armati, seduti lungo le pareti, e intorno a un tavolo di pietra. Dietro a questo sedeva un uomo, giovane a giudicare dalla freschezza del mento e dalla vivacità dei gesti. Quattro fiaccole ficcate in buchi delle pareti illuminavano la scena.
Ritto dinanzi al tavolo con le mani legate dietro le reni stava un uomo, tremante, fra due mascherati.
A un cenno del giovane che pareva il capo, i due che conducevano la duchessa si fermarono; la duchessa vedeva soltanto le spalle dell’uomo dalle mani legate, ma ne udì tosto la voce e rabbrividì...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento,  contagiata dalle idee rivoluzionarie francesi, che muove con Francesco Paolo Di Blasi i primi moti d'insurrezione anelanti la libertà.
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su La Feltrinelli.it, Ibs, Amazon e tutti gli store online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour, Palermo) e nelle migliori librerie. 

giovedì 18 agosto 2022

Luigi Natoli: Era la vigilia dell'Assunta del 1795... Tratto da: L'abate Meli. Romanzo storico siciliano.

Meli si alzò senza dire una parola, prese il cappello e il bastone e mormorando un “sia fatta la volontà di Dio” disse al giovane:
- Andiamo!
Presero una portantina e si avviarono: Meli dentro e il giovane a piedi, fuori; l’ombra dei platani che fiancheggiavano la strada che da Porta Nuova menava ai Cappuccini li difendeva dai raggi solari. Quegli alberi, piantati da M. A. Colonna di Paliano, percorrevano la via sino al convento. Ora non restano che pochi avanzi presso Porta Nuova; non c’erano allora tutte le cose che ingombrano i due marciapiedi ed erano lieti delle ombre che rinfrescavano i cittadini. Di qua e di là lungo il corso, si aprivano cinque emicicli, con in mezzo fontane di pietra grigia. Di contro all’imboccatura della strada che conduceva ai Cappuccini (ora si chiama Via Pindemonte) c’era un’altra fontana più monumentale, mista di marmi bianchi e pietra grigia, che s’alzava maestosa, e dava acqua ai vicini. Ora fu distrutta, per dar luogo alla Via Cuba e non si sa che se ne sia fatto, così delle altre fontane nessuna più ne esiste, per ingordigia degli abitanti o per altre ragioni, salvo una a fianco dell’Educandato Maria Adelaide, chiusa da un cancello.
Era il pomeriggio. La via era affollata di gente, perché era la vigilia dell’Assunta, festa solenne dei Cappuccini. Gente che andava e gente che veniva: un viavai continuo: portantine di tutti i colori e carrozze padronali, carretti, pedoni; questi in maggior numero, uomini in giamberga e in giacca, donne col manto chiuso nel naso, lasciando liberi gli occhi neri e fulgidi; ragazzi che empivano la strada dei loro cicalecci; venditori di acqua, che la portavano sul fianco, coi bicchieri infilati in un ordegno di ferro; o di semi di zucca, o di ceci abbrustoliti: tutta gente che vociava, nel lungo tratto di strada.
Allo svolto della strada che conduceva ai Cappuccini, la folla era più fitta. Delle baracche cucinavano, delle altre facevano focaccie, qui una tenda vendeva dolciumi, lì una tavoletta esponeva Madonne di argilla, coricate con le mani stese ed aperte, vestite di bianco col manto azzurro; grandi e piccole; più in qua l’“incatena corone”, torcendo i fili di ottone intorno ai grani del rosario; e fra tutti, le piccole bare, con madonne di cera, illuminate, portate da quattro ragazzi che gridavano con le vocine squillanti: “viva Maria”. Ma su tutto ondeggiava un odore di fritto, tra il fumo delle padelle, nelle cucine improvvisate.
Fra questa folla varia e multiforme andava il Meli discorrendo col giovane che gli camminava a fianco.
- Al Convento non vi ho visto mai. Come vi chiamate?
- Mi chiamo Gerlando, ai suoi comandi. Gerlando Disa... Sono venuto da poco; il frate ortolano è mio parente...
- E siete intimo di fra Francesco?
- Sono il suo buon servitore, perché mi ha beneficato, quando ero, per così dire, nell’altro mondo!
- Come sarebbe a dire?
- Dunque voscenza non m’ha guardato?
- Che cosa volete che vi guardi?
- E mi guardi ora...
E il giovane si scoprì, voltandosi verso di lui e mostrando la testa. Aveva una cicatrice, piuttosto lunga, che gli correva dalla fronte e gli partiva i capelli, come una scrimatura.
- Questa – disse – me la fece un colpo di spada, una sera; e debbo a Fra Francesco se tornai dalla morte alla vita. Fu un signore. Credeva che volessi dare una lettera ad una delle sue donne e mi conciò a questo modo. Per poco non sono morto.
- Ma dimmi un po’, – disse sorridendo Meli, – tu non destasti sospetto? Non ti si era veduto con qualche signora?
- Oh! ma che va dicendo voscenza! Io non faccio il mezzano. Chi sa poi per chi m’ha preso quel signore.
Chiacchierando così, e scansando il continuo andirivieni, erano giunti al convento. La folla era più fitta e bisognava fermarsi. Dalla croce di legno, alta sopra uno zoccolo, fino a quella specie di portico pieno zeppo di... miracoli o “ex voto”, dipinti da pittori da strapazzo, la gente si ammassava. La chiesa era piccola e non c’entrava tutta; gran parte sostava. Un frate raccoglieva l’elemosina.
Eppure in quel viavai di gente allegra, in mezzo a quel cicaleccio, a quelle grida continue, nel convento un uomo moriva. E aspettava con l'ansia di chi teme di non fare in tempo.
Il Meli attraversò il portico dinanzi la chiesetta, piegò la testa, vedendo nella navata l’immagine della Madonna, coricata fra le candele accese; e salì le scale del convento.
Era quasi deserto. La festa chiamava i frati nella chiesa e nella cucina: solo qualche vecchio con la barba bianca e lunga errava nei corridoi.


Luigi Natoli: L'Abate Meli. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale, pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 19 settembre 1929, e comprende inoltre la trascrizione dell'opera "Giovanni Meli. Studio critico" pubblicato dalla tipografia del giornale "Il tempo" diretta da Pietro Montaina del 1883 e la raccolta di poesie di Giovanni Meli tratte da Musa Siciliana pubblicato dalla casa editrice Caddeo nel 1922; tutte le poesie sono corredate di traduzione in italiano a fronte a cura del prof. Francesco Zaffuto.
Pagine 727 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
Disponibile presso: La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

martedì 2 agosto 2022

Luigi Natoli: La vita del prigioniero e i suoi ultimi giorni... Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.

Da quando era entrato nel forte, ed eran quattro anni, dopo un processo laborioso, Giammaria era la prima persona con la quale discorreva; per quattro anni era stato relegato nel silenzio della segreta, guardato con disprezzo e terrore; oggetto di scherni e di crudeltà, contro le quali non poteva reagire. Nessuno doveva parlare con lui; neppure il barbiere, che una volta al mese radeva i prigionieri, non già per igiene o per decenza, ma perché la barba era segno di giacobinismo.
Aveva dovuto infingere una rassegnazione che non sentiva; ma era forse effetto della debolezza fisica, questa che gli pareva forza di rassegnazione.
La condanna era crudele; oltre alla segregazione in quella piccola, fetida, umida segreta, senza altro mobile che un banco di pietra sul quale era disteso uno schifoso pagliericcio; era obbligatorio il digiuno rigoroso per tre giorni della settimana: pane e acqua negli altri, una minestra di legumi nauseabonda le domeniche. La sua salute ne aveva sofferto; i suoi muscoli, la sua carne se ne erano logorati.
Egli non poteva sorreggersi con la speranza di una liberazione prossima o lontana che fosse.

La prigione detta del Pozzetto era la peggiore di tutti: si trovava nella torricella del mastio, a occidente; alta dal suolo circa sessantaquattro braccia, illuminata da un finestrino con triplice inferriata, aperto a meno di tre palmi dal pavimento nudo e limaccioso, nella parete spessa otto palmi. Angusta, umida, semioscura; non aveva porta: vi si entrava dall’alto, per una botola che si apriva esternamente, donde, occorrendo, si calava una scala. Il prigioniero vi era stato calato con una corda; forse per questo, la prigione aveva nome Pozzetto: nessuna fibra, per forte che fosse, avrebbe potuto durare a lungo in quella sepoltura, che la pietà religiosa del sant’uffizio e del papa dava ai prigionieri. Non v’era che un mucchio di paglia per giaciglio, gittata in un angolo, sotto un grosso anello di ferro infisso nella parete per incatenarvi il prigioniero. 
L’arciprete don Marini e il suo coa­diutore, il padre don Filippo Scalini, per quei quindici giorni, a vicenda avevano tentato ogni via per ammolli­re il cuore di quell'uomo, che, per loro, era in preda del demonio. Egli pareva si fosse chiuso in un mutismo, che nè esortazioni, nè preghiere, nè mi­nacce e neppur torture eran valse a vincere. Gli avevan punto le carni, gli avevano storto le braccia per vedere se conservava la sua sensibilità e se quel mutismo fosse un effetto del colpo apo­pletico o di pravità d’animo; egli si era riscosso, aveva mandato un urlo che non aveva nulla di umano, ed era caduto nel suo mutismo. Soltanto i suoi occhi avevano conservato nella profondità dello sguardo, la loro elo­quenza; e spesso alle insistenti doman­de degli ostinati padri, esso si era illu­minato di una superiorità sdegnosa, o di una penetrazione così profonda, che quelli se ne erano sentiti imbarazzare...


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo. 

Luigi Natoli: La fortezza di San Leo e il prigioniero. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.

San Leo s’adagiava sulla cresta di Montefeltro, colle staccato dalle giogaie dell’Appennino, cinto di valli, arduo a salire, e da una parte tagliato a picco. Sulla vetta più alta, a oriente del borgo, da cui è separata da un pendìo sparso di macchie e di cespugli, si alza la fortezza, che dal lato opposto domina la rupe a picco. Da questo lato, che non ha salita, e dove bisognerebbe aver ali per giungere, la fortezza appare come un insieme di fabbricati massicci, addossati gli uni sugli altri; ma dalla parte del borgo, essa si presenta in un aspetto guerresco, con due grandi torri circolari di qua e di là dalla cortina merlata, e il mastio massiccio in mezzo, difeso da torricelle quadrangolari.
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo. Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!... 
Il prigioniero era un uomo di una cinquantina d’anni, dai lineamenti energici, ma d’aspetto logoro ed emaciato; la fronte ampia e piana, il naso leggermente curvo all’apice e largo alla base, gli occhi neri, profondi, con un lampeggiare strano fra le ciglia nere e spesse; la mascella quadrata, parevano gli avanzi di una bellezza maschia e dominatrice; simili ai ruderi di un antico nobile edificio, rovinato dalle ingiurie degli uomini e del tempo. 
A giudicarne dallo spazio occupato nel letto, doveva essere di statura piuttosto bassa; ma aveva l’ossatura delle spalle larga e il petto ampio sebbene scarno. Nell’insieme rivelava una costituzione forte e vigorosa, resistente ancora ai patimenti che ne consumavano la carne e ne scoloravano il sangue. 


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico
L'opera è la fedele ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo.