Calvello il bastardo. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento

Bello e coraggioso, eroico nelle sue imprese
il personaggio di Corrado Calvello, creato da Luigi Natoli nella Palermo del 1794, che racchiude le grandi ideologie di libertè, egalitè e fraternitè. In una Palermo che, come lo stesso Natoli ci dice, “sia per il lento sviluppo della cultura, sia perché tagliata fuori dal movimento sociale di quell’epoca, non intese per nulla lo spirito della rivoluzione francese: e se qualche animo generoso della borghesia o, come si diceva, dei civili si aprì al nuovo verbo, l’enorme maggioranza della popolazione non vide nei rivoluzionari che dei banditi assetati di sangue, nemici di Dio e della religione” 
Su tutto il romanzo svetta la bandiera della Rivoluzione Francese.
Corrado Calvello viene presentato da Luigi Natoli nelle prime pagine del romanzo
“Fra gli spettatori fortunati era un bel giovane di ventisei anni, non molto alto, di membra delicate, strette nell’uniforme turchina dei fucilieri, a risvolte bianche. Pallido, con gli occhi neri, un’aria quasi feminea, ma con lo sguardo tagliente, che lampeggiava talvolta come una lama, il naso lievemente aquilino e la mascella forte, davano un carattere di energia a quel volto e temperavano la mollezza dell’ovale e della dolce e malinconica curva della bocca, rosea e piccola” 
Cambia radicalmente ed all’improvviso la posizione di Corrado nella società, ma non mutano i suoi ideali
“Bisognava rifare la coscienza di quella folla vile e miserabile; bisognava aprire la loro mente, serrata dall’ignoranza, alla luce del sapere. L’opera di redenzione doveva cominciare da Palermo, il cervello e il cuore dell’isola. Una propaganda attiva nella borghesia, la diffusione degli studi più moderni, e specialmente delle scienze, avrebbe certo creato una forza rinnovatrice, che avrebbe esercitato una salutare azione sul popolo. Proprio quel popolo del quale egli non ignorava le virtù, lo spirito di sacrificio, il valore, la fede e che egli pensava che sarebbe potuto essere il primo popolo dell’Italia, se aperto al nuovo ideale di libertà e di uguaglianza. Istituì in una casa sua una academia dei nuovi filosofi, il cui titolo destò i sospetti della polizia, tanto più che nessun patrizio vi si iscrisse, ma borghesi, liberi professionisti e maestri” 
La reazione del popolo non era quella da lui auspicata
“Erano parole nuove che stupivano quella gente avvezza a considerare il padrone, di cui non vedevano quasi mai l’aspetto, come una specie di semidio e di esse non capivano che una cosa: che avrebbero avuto frumento e legumi e che non dovevano essere poveri. Non comprendevano che quelle generosità potessero non avere un tornaconto personale, e pensarono che probabilmente celavano un’insidia. O pazzo o giacobino. Essere giacobino significava, per quelle menti rozze e imbevute di tutte le superstizioni e di tutti i pregiudizi, essere profanatore della religione, assassino dei re, violatore delle donne, incendiario, cannibale" 
Accanto a Corrado Calvello vive la figura storica di Francesco Paolo Di Blasi, giureconsulto palermitano e, come lo definisce Natoli, insieme a La Villa, Palumbo e Tenaglia “primi martiri della libertà, iniziarono in Sicilia la lunga serie di cospirazioni e rivolte che dovevano abbattere la signoria borbonica e mostrarono come si muore per un’idea”. 
Di Francesco Paolo di Blasi, del suo coraggio e  delle sue ideologie liberali e rivoluzionarie, emerge un profilo chiaro da vari passi del romanzo
Il Di Blasi, sebbene fossero noti i suoi sentimenti liberali, non era ritenuto così sospetto. Forse l’amicizia che aveva per lui il Vicerè e l’avere per servizio del governo curato una raccolta di leggi e prammatiche, allontanavano da lui i sospetti, ma gli amici sapevano quali discorsi arrischiati egli facesse, nei quali c’era un sentore lontano di rivoluzione. Qualcuno poi sussurrava che forse il Di Blasi era libero muratore. La massoneria cominciava allora ad essere considerata come nemica della religione e della monarchia non solo per la sua segretezza e per qualche leggenda di giuramenti orrendi e mostruosi che le si attribuivano, ma anche perché le si ascriveva una parte preponderante nella rivoluzione francese. Don Pippo ignorava che il Di Blasi, forse, aveva messo una pulce di massoneria nell’orecchio del Meli, fornendogli anche una nota di libri che ne trattavano di proposito” 
“Fra le accademie protette da lui aveva dato ombra quella fondata da Don Francesco Paolo Di Blasi, le cui finalità occulte avevano a poco a poco allontanato le anime paurose di ogni novità. Un discorso del Di Blasi, recitato molti anni innanzi, sulla Ineguaglianza degli uomini, imbevuto delle dottrine del Rousseau, faceva considerare il valoroso giureconsulto come uno dei sospetti, nonostante che, in servizio della monarchia e del Vicerè, avesse compilato con dottrina la Raccolta delle prammatiche del Regno di Sicilia. Un suo trattato sulla legislazione criminale, ispirato a dottrine liberali e secondo un nuovo criterio della dignità umana, aveva riconfermato il sospetto che egli tendesse un po’ alle dottrine rivoluzionarie” 
Egli aveva creato una Loggia massonica per la divulgazione delle sue idee di eguaglianza e libertà
“Don Francesco scrisse due o tre biglietti e li spedì ai suoi conoscenti. Convocava la Loggia. Grazie ad una ingegnosa organizzazione, l’invito poteva precedere di qualche ora l’adunanza. Il Venerabile avvertiva con una parola convenzionale l’oratore, il segretario e il tesoriere; il segretario passava l’avviso a due sorveglianti; questi alla loro volta correvano ad avvisare i tre o quattro maestri che avevano i gradi più alti, i quali si incaricavano di convocare gli altri maestri a loro noti e ognuno di essi, subito, l’iniziato, compagno o apprendista che fosse, da lui introdotto. In una o due ore i fratelli erano così invitati” 
 Di cui fanno parte una buona fetta di cittadini sia palermitani che dei paesi vicini
“Il lavorìo della Loggia s’era fatto più attivo, sebbene più guardingo. Fuori di essa, ma concertata e diretta dai maggiorenti della setta segreta, si era stretta una cospirazione, nella quale entravano artigiani, capi d’arte, militare, qualche signore e molti professionisti. Si era anche estesa fuori di città in alcune terre dei dintorni, dalle quali si promettevano aiuti di uomini e d’armi al momento del bisogno. Anima di tutto quel movimento era don Francesco Paolo di Blasi” 

Fanno da sfondo ai protagonisti del romanzo gli altri personaggi, che Natoli ci presenta così, in ordine di apparizione
Agata, fedele amica di Corrado Calvello .. “Era una ragazza del popolo, sovranamente bella, che non aveva forse tredici anni; alta, nel corpo ancora le ruvide e goffe grazie della bimba che si apparecchia a diventare donna, ma nel volto pallido incorniciato da grosse trecce nere, negli occhi neri e profondi, nella bocca rosea e piccolina, nell’aria trepidante e pensosa, era di una bellezza singolare e indimenticabile” 
La Duchessa di Falconara
.. “La duchessa di Falconara non era più giovane; i maldicenti che la conoscevano da un pezzo, assicuravano che essa si avvicinava alla cinquantina. Ne aveva infatti quarantasette, ma ci voleva uno sforzo di immaginazione per riconoscere tanta maturità nel volto ancora fresco e roseo e nella vivacità dello sguardo e del gesto. Era bella col suo piccolo naso lievemente curvo, gli occhi grandi, neri, acuti, un’espressione di alterigia e di volontà nell’insieme del volto. Non ostante l’atteggiamento di dolcezza e di tranquillità che ella cercava di dare al suo sorriso e al suo sguardo, segno di un’intima soddisfazione, c’era talvolta in essi una durezza o per lo meno una insensibilità, che faceva dubitare se quell’animo fosse capace di tenerezza o di compassione” 
Donna Dorotea .. “Dorotea aveva una cinquantina d’anni, i capelli grigi pettinati in trecce, come le donne del popolo; un volto comune e insignificante. Soltanto negli occhi v’era una espressione che ella pareva si sforzasse di nascondere, abbassando le palpebre” 
Famiglia Calvello.. “Nobiltà di prim’ordine. Andrea Calvello coronò Re Ruggero II, da allora in poi i Calvello acquistarono il diritto di portare sul cuscino la corona regale nelle solennità delle coronazioni. Sono duchi di Melia e baroni dell’Arenella. Oggi rappresenta la casa Don Goffredo Calvello e Eschero..Il loro palazzo è alla Gancia” 

Goffredo Calvello
.. “Il duca era un bell’uomo, che s’avvicinava ai sessanta, ma ancora vegeto e robusto. Era tutto bianco, con gli occhi nerissimi velati di una tale mestizia, come presaghi del vicino tramonto. Il suo aspetto rivelava l’erede di un’antica stirpe, nella quale il sentimento della grandezza aveva impresso le sue stimmate, senza degenerare in superbia o in vanità. Ciò che rendeva singolare la figura del duca erano le mani, piccole, bianche, lievemente carnose, sulle quali pareva che gli anni non avessero osato avanzarsi”
Don Lorenzo Ribadeneyra, padre di Donna Aurora.. “Don Lorenzo, marchese di Pratameno, vedovo da dieci anni e padre di una graziosa fanciulla, figlia unica, erede del pingue patrimonio, si recava a Milazzo per prendere possesso di alcune terre, assegnategli da una sentenza della Gran Corte Civile, dopo una lite che durava da venticinque anni” 
Donna Aurora, protagonista femminile del romanzo.. “Donna Aurora aveva forse diciassette o diciotto anni; era piccola, sottile, delicata; pareva una figura di sogno piuttosto che una donna reale; col suo volto di perla, i capelli d’oro, gli occhi grandi, azzurri, di una dolcezza meravigliosa sotto l’arco delle ciglia brune e folte. La bocca, dalle labbra tumidette, aveva una curva tenera e malinconica nel tempo stesso..” 
Don Diego d’Isnello.. “era un bel giovane sui trent’anni, alto, di larghe spalle, d’aspetto vigoroso: il volto regolare piuttosto bianco, gli occhi chiari felini, la bocca sottile. Nei suoi modi c’era qualcosa di aggressivo e di violento, che traspariva pure fra le forme della galanteria; facilmente montava in collera e alla collera cercava uno sfogo; donde i suoi duelli, che gli avevano procurato una fama di terribilità, della quale egli sapeva servirsi, per imporre talvolta il suo volere” 
Il Cristiano.. “Da questa specie di uomini, per degenerazione lenta e profonda nacque la mafia odierna, che è sopraffazione, ricatto e malandrinaggio. In quei tempi non si dicevano mafiosi, vocabolo nato e adottato in tempi più vicini, come assicurano gli studiosi. Si dicevano “cristiani”.
Il “cristiano” portava in una tasca il rosario, nell’altra il coltello; riconosceva e rispettava le classi sociali più elevate; aveva per i galantuomini – cioè per i patrizi – e poi per i signori – cioè per la borghesia, una vera sottomissione, negli atti e nelle parole, ma non servile, la quale si tramutava poi in una tacita protezione che egli estendeva sulle loro persone e sui loro averi; e nessuno o ladro o malvivente osava commettere un delitto contro coloro che si sapevano protetti di qualche “cristiano”. I maggiori, gli arcifanfani, diventavano capi del popolo nelle sommosse, esercitavano ufficio di arbitri e di pacieri tra il loro ceto, componendo questioni, risolvendo dubbi, e i loro responsi erano ascoltati e ubbiditi con un rispetto maggiore di quello che si professava ai precetti della religione e della legge”

Angelo Sicco.. “Era infatti uno dei briganti o capi di briganti più terribili, perchè aveva saputo mettere insieme una banda di uomini provati, risoluti, e quello che più conta, disciplinati e ubbidienti a lui con devota e illimitata devozione, pronti a qualunque rischio e a qualunque sacrificio. La banda di Angelo Sicco non rubava che quando aveva bisogno di denaro, e rubava o i ricchi signori o il corriere del governo perché non sembrava grave colpa ritogliere ai signori e al governo quello che essi toglievano alla povera gente per tributi feudali o per gabelle”  

Monsignor Lopez y Royo
, personaggio storico, arcivescovo, luogotenente generale e Capitano delle armi di S.M. nel regno di Sicilia nell’anno 1795 .. “Le casse erano scrupolosamente frugate e i libri giudicati sospetti o perniciosi inviati a monsignor Lopez y Royo, al quale, come arcivescovo di Palermo, dopo l’abolizione del Tribunale del Sant’Offizio, spettava la polizia in materia di fede e di costumi ed il quale inoltre, fin dal 9 gennaio del nuovo anno 1795, era diventato luogotenente generale” .. “Monsignor Lopez, un leccese avido, ambizioso, subdolo, anima di inquisitore, di spia e di ladro, spirito ristretto e reazionario, era uno dei pochi, a Palermo, che avrebbe voluto far seguire al Vicerè una politica di persecuzioni e di repressioni; si scandalizzava dell’amicizia del Caramanico (Vicerè) col Di Blasi, con un uomo, cioè, che si vantava di professare un grande rispetto per l’autore del Contratto sociale” .. “Appena confermato nel governo si pose subito a dare la caccia a tutto ciò che sapesse di liberale, sicuro di ingraziarsi la regina e il suo favorito Acton. Ordinò una revisione più rigorosa dei libri che giungevano dall’estero; chiuse qualche scuola privata; mandò attorno caporali e algozini a rovistare nelle case per scoprirvi elementi di accuse e di processi; giunse fino a violare il segreto delle corrispondenze all’arrivo di ogni corriere. E sguinzagliava spie dappertutto: nei tribunali, nelle chiese, nei ridotti, s’interessava a ordinare arresti e perquisizioni, cominciando da quelli sui quali aveva già elementi più che bastevoli per inaugurare un regime di supplizi.. Monsigor Lopez y Royo aveva cancellato nella curia le tradizioni di signorile gentilezza, di umanità, di generosità del suo predecessore, l’arcivescovo Sanseverino. Oltre ad essere un ambizioso volgare, era maleducato e impudico; raggiratore, senza scrupoli, traditore e feroce…Da quando il governo di Napoli aveva elevato parroci, cappellani e confessori alla dignità di spie, era un frequente accorrere di preti, che venivano a riferire e che, naturalmente, erano accolti con facilità”

Usi e costumi
 
Il Casotto delle Vastasate
..  “Poiché si signori avevano per loro i teatri di Santa Cecilia e di Santa Lucia, alcuni popolani verso il 1780 avevano fondato un teatro per loro ed avevano costruito una grande baracca, nella piazza Marina, nella quale recitavano commedie in dialetto, spesso improvvisate, ed i cui personaggi erano i facchini di piazza. Facchino, in dialetto, si dice vastasu, vocabolo prettamente greco; vastasate si chiamarono quelle commedie e Casotto delle vastasate il teatro. Attori e commedie riscossero grande successo. Fino allora a Palermo non s’era mai visto nulla di simile. C’erano state vecchie commedie, recitate da comici di mestiere, nelle quali il tipo buffo siciliano era rappresentato dal solito Travaglino o dal vieto Nardo; due maschere ormai insipide i cui lazzi e le cui buffonerie si ripetevano sempre identici. Figurarsi dunque la sorpresa e il piacere i vedere sul palco non più quelle maschere ma personaggi vivi, che si vedevano ogni giorno; gli artigiani, i provinciali e più i facchini di piazza col loro linguaggio, cio loro gesti, con le loro bestialità, i loro pettegolezzi, le loro baruffe, i loro piccoli intrighi! Un mondo nuovo!"

Il Gioco delle carte .. “La passione del gioco si era tanto diffusa a Palermo che i fabbricanti di carte erano divenuti così numerosi da poter formare una corporazione autonoma e da allettare il fisco, che nel 1775 imponeva una gabella sulle carte da gioco. Non vi era conversazione dove non si giocasse e dove talvolta ingenti fortune non passassero da una mano all’altra. I vicerè avevano cercato di frenarla con bandi che, come tutti i bandi proibitivi, rimanevano lettera morta. Avevano anche proibito i giochi più rischiosi: la bassetta, la primiera, il biribissi, il goffo, il trenta e quaranta, il banco fallito, la regia usanza, il faraone, il passa dieci e via dicendo; tutti giochi nei quali il trarre una carta o un getto di dadi poteva costare anche un feudo ai nobili, la vita d’un mese ai civili, la miseria e la disperazione e forse anche il delitto, ai plebei. Proibito non soltanto giocarli, ma anche vederli giocare; non soltanto nei caffè o negli altri luoghi pubblici, ma anche nelle case private” 

La festa del Corpus Domini .. “Il 6 giugno di quell’anno ricorreva la festa del Corpus Domini. A Palermo era una di quelle che si celebravano con tutta la pompa possibile e con l’intervento di tutte le autorità, per cui la processione richiamava una folla enorme nel Cassaro e nelle strade che di solito soleva percorrere. Essa segnava il principio dell’estate e per un’antica consuetudine quel giorno si indossavano i vestiti della stagione. Intanto giungeva la processione: quattro tamburini, vestiti con zimarre o specie di palii con maniche ampie, suonavano all’uninsono in grossi tamburi di legnom con un fracasso assordante; e dietro a loro uno stendardo e poi a due a due una congregazione, coi confrati in sacco, cappuccio e mantellina. Ultime venivano le compagnie aristocratiche: della Pace, della Carità, dei Bianchi. L’ordine era fissato da un cerimoniale per evitare contestazioni di preminenze che non mancavano mai. Sfilavano i conventi con le croci, le torce accese, salmodiando tra il fumo degli incensi. Non finivano mai. All’ultimo, sotto un ampio baldacchino di tela d’oro tenuto da otto gentiluomini monsignor arcivescovo con l’ostensorio in mano; un ostensorio magnifico, d’oro, scintillante di gemme, che accecava a guardarlo. Due diaconi gli reggevano lo strascico di seta paonazza e dinanzi, intorno, dei chierici con gli incensieri lo circondavano di una nube odorosa, mentre i musici del Senato riempivano l’aria di note trionfali e gli alabardieri facevano risonare il lastrico col calcio delle alabarde.
Dietro il baldacchino il Vicerè, in grande uniforme di capitano generale del Regno, col petto pieno di decorazioni, fra il Pretore e il Principe di Butera, primo titolo del Regno; poi secondo la gerarchia e il cerimoniale i senatori, il Sacro Consiglio, la deputazione del regno, il Protonotaro, il Tribunale del Patrimonio, le Corti, i Maestri razionali. E poi i lacchè, un vero esercito, guardie del Senato, granatieri e dietro altri soldati e un’enorme folla di popolo” 

Il vestito nuovo .. “Potere indossare un vestito nuovo è per il palermitano un godimento al quale volentieri sacrifica anche ciò che gli è più necessario alla vita. Chi oggi si reca a un pubblico passeggio non distingue più il piccolo industriale, il commesso di magazzino, il bottegaio dal signore, giacchè lo spirito democratico, cancellando nel diritto le distinzioni di casta, si è risolto in pratica nello scimmiottare in modo ridicolo le classi più elevate, almeno in apparenza. Un povero diavolo che guadagna due lire al giorno, che abita in una stamberga malsana e si nutre di fagioli, spende metà del suo guadagno in vestiti, cravatte e nel viaggiare in carrozza, giacchè uscendo dal vicoletto remoto e sudicio in cui abita e mostrandosi al passeggio in abbigliamento irreprensibile, si crea l’innocente illusione di farsi credere un signore. Nei tempi di cui parliano (1794) la separazione profonda dei ceti staccava nettamente anche le fogge di vestire”  
 
I Luoghi del Romanzo
 
Il Palazzo Reale
,.. “dimora del Vicerè dal secolo XVI in poi (prima abitavano al Castello a mare o nello Steri)sorge in capo alla via principale, allora battezzata col nome di via Toledo, ma dal popolo, come anche oggi, detta Cassaro, dall’antica denominazione araba. E’ un vasto edificio, o meglio l’aggregato di parecchi edifici, sorti per aggiunzioni posteriori o per trasformazioni di alcune antiche parti. Della sua forma principale non rimane più nulla; però sono ancora riconoscibili le masse pesanti di due delle quattro torri che lo fortificavano, quando esso era castello o rocca, sotto gli Emiri, e poi sotto i re Normanni e Svevi. In una di esse, la torre di Santa Ninfa, la più visibile, si trova ora la Specola o osservatorio astronomico, che all’epoca del nostro racconto era stato istituito da un anno; l’altra si indovina nell’ala che domina la sottostante Porta di Castro, ora distrutta. Gli appartamenti regali occupavano ancora la parte centrale, cui tolse l’aspetto di fortezza e ridusse nella forma presente il vicerè marchese di Villena.
La storia di questo palazzo è la storia di Palermo, e in gran parte anche della Sicilia. Tutte le vicende liete e tristi dell’isola vi sono legate intimamente, da quando la città divenne capitale del regno. Da lì Ruggero II spinse l’avido sguardo sognatore di più alto scettro; da lì Federico II iniziò la sua cinquantenaria lotta contro la teocrazia, primo a intendere la laicità dello Stato. Giorni di servaggio  e di indipendenza. Rivoluzioni baronali e di popolo; occulte e palesi tirannìe e voci di libertà si librarono da quel palazzo, ora come stormi di avvoltoi rapaci, ora di audaci aquile. Nelle aule di quel palazzo, Federico raccolse la bella scuola dei suoi poeti volgari; Ferdinando IV decretò le stragi del 1799; Garibaldi proclamò la libertà della Sicilia.
Lì si adunavano i Parlamenti, sedeva la deputazione del regno, vigile custode delle costituzioni e delle guarentigie dell’isola, lì i supremi tribunali.
Su per le stanze, intrighi ed amori e ordini occulte di morti misteriose, si alternavano col fasto borioso dei vicerè spagnoli e con l’ostentazione delle pratiche religiose; o scoppiavano feroci conflitti fra il potere viceregio e la potenza baronale….
Per andare a Palazzo, bisognava passare fra due bastioni. La porta principale, sormontata da una magnifica aquila marmorea, era custodita dalla guardia svizzera, e guardie si trovavano su per la magnifica scala di marmo rosso di Castellammare. Le carrozze e le portantine si fermavano dentro l’ampia corte a doppio ordine di portici; quelli del primo piano immettevano negli uffici e negli appartamenti. Un corridoio conduceva a quelli regali.
Dopo le sale di servizio si trovava il grande salone dove S.E. il Vicerè teneva le solenni udienze e dove si radunava il Parlamento. L’antica aula del Parlamento era giù, al pianterreno; l’aveva decorata Pietro Novelli; v’era fra l’altro dipinta la cerimonia dell’apertura del Parlamento e quella dell’atto di fede solito celebrarsi dal Sant’Offizio; ma il capriccio di un Vicerè abolì quell’aula, cui si legavano tante memorie, e ne fece scuderie. Le rappresentazioni pittoriche del Novelli non udirono più che nitriti e bestemmie.
Il Parlamento fu trasferito negli appartamenti regali e il Vicerè don Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, poco dopo il suo arrivo, ne fece dipingere la grande aula, facendovi rappresentare sul soffitto l’allegoria della Maestà regia protettrice delle scienze e delle arti. Oggi quelle pitture non esistono più. Pochi anni dopo re Ferdinando le fece cancellare, per fare dipingere dal pittore Velasquez le fatiche e l’apoteosi di Ercole, forse per non vedere in quella simbolica Maestà regia un’ironia a quelle virtù che egli non ebbe mai”.
La gran sala di ricevimento al palazzo reale, dove conveniva la nobiltà nelle grandi serate, era stata, come dicemmo, di recente decorata dal principe di Caramanico di nuovi affreschi allegorici, rivestita di tappezzerie ed arazzi e ornata dei due magnifici arieti di bronzo, recati da Giorgio Maniaci, donati e poi confiscati ai Ventimiglia e dei quali uno orna oggi il Museo Nazionale

L’Albergheria .. “Era il quartiere che accoglieva gli uomini più maneschi e più rissosi; espertissimi nella scherma di coltello, nella quale si esercitavano secondo le norme di una vera e propria arte; e ubbidientissimi a un certo loro codice di cavalleria, che non compativa la prepotenza sopra i deboli e gli inermi, il delitto a tradimento o a sorpresa, lo spionaggio, l’intromissione della giustizia. Uomini nei quali il sentimento dell’onore e del valore individuale era certo esagerato e anche in parte fuorviato dai pregiudizi sociali; ma nei quali c’era pure in fondo una grande dirittura e una generosità a volte anche magnanima” 

La Torre dei Diavoli
.. “Si era messo a passeggiare in lungo e in largo in quella vecchia torre senza tetto, squallida, con le eleganti finestre a sesto acuto, spartite da sottili colonne marmoree, unico avanzo dell’antica magnificenza. Chissà quali eventi gloriosi o feroci si erano maturati un giorno tra quelle mura, quando i Chiaramonte signoreggiavano come re a Palermo, mandavano le loro donne a sedere sul trono di Napoli, e spargevano in ogni angolo dell’Isola castelli e chiese ad attestare la loro grandezza e la loro munificenza! Ecco ora quella loro casa di campagna, abbandonata, come lo scheletro di un nobile animale, circondata di paurose leggende, asilo di banditi, cui quelle leggende davano la sicurezza del ricetto” 



La Cripta dei Cappuccini
.. “Era arrivato al convento dei Cappuccini. Si ricordò che, in un angolo della Chiesa, sotto un mattone muto, dormiva per sempre il buon principe di Caramanico e che nelle catacombe, in una nicchia, vestito col sacco nero, v’era lo scheletro di colei che era stata la bellissima duchessa di Falconara” 

Pagine 880. Prezzo di copertina € 24,00
L'opera è la trascrizione dell'unico romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913. 
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Puoi contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697
Su tutti gli store di vendita online e in libreria. 
 

Nessun commento:

Posta un commento