giovedì 29 febbraio 2024

Luigi Natoli: Ferrazzano fa lo spettacolo nel palazzo della marchesa di Geraci. Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano

C’era una grande conversazione in casa della marchesa di Geraci. Il palazzo sorgeva nel Cassaro, dove sorge ancora, sebbene non avesse ancora tutte le sue parti; e non mostrava nella triplice porta e nell’atrio la imponenza della sua mole e l’orgoglio della famiglia. Si capiva benissimo che non si tralasciava l’occasione per frequentare la nobile casa, e i Geraci sfoggiavano fin dallo scalone la loro magnificenza. Fino al Quattrocento i nobili erano solamente conti; il primo nominato marchese fu il magnifico Giovanni Ventimiglia, che da conte di Geraci diventò marchese, e per un secolo si disse in Sicilia semplicemente “il marchese” senza altro per indicare i Ventimiglia. Questo fatto aveva indotto a ritenere la loro nobiltà come la più antica e genuina; e sebbene il feudo fosse elevato a principato, pure tenevano a quel primo titolo.
Le vaste sale erano affollate di dame di tutte le età e di tutte le bellezze. Non dico che vi era anche qualche bruttezza; la quale per altro serviva inconsapevolmente di contrapposto per far meglio risaltare la beltà delle altre; e qualche scheletrica o per converso sferoidale figura, che facevano apprezzare meglio le gentili e giovanili silfidi che popolavano le sale. E la gran maggioranza era di maritate; gli usi del mondo allora non consentivano alle fanciulle di intervenire alle conversazioni e alle feste da ballo. Appena se ne vedeva qualcuna, ma di solito aveva oltrepassato i trenta anni, che in una città e in una classe abituata a vederle spose a sedici ed anche a quattordici anni, significava avere quasi l’età sinodale. Dunque giovani mogli, sul cui volto si leggeva apertamente il desiderio di piacere. E ne avevano il bisogno; maritate dai parenti, senza conoscere il futuro marito, senza amarlo, spesso d’età quattro volte maggiore di quella della sposa, sentivano in cuore una aspirazione a qualche sentimento più dolce, che si tramutava in desiderio, e da questo in voglia. Non diciamo poi delle vedove ancor giovani o per lo meno ancora piacenti, e della moda dei cavalieri serventi.
Si capisce quale poteva essere la conversazione tra le dame e i cavalieri serventi e non serventi, e quale era lo sdolcinato linguaggio in uso fra loro.
La marchesa di Geraci aveva oltrepassato la quarantina ed era bruttina, ma spiritosa, e doveva a questa qualità la corte che le facevano non certo i giovani, che sfarfallavano dove il miele era più fresco e più dolce, ma i più maturi. Ella riceveva con molto garbo; aveva una frase gentile per chiunque le era presentato, sorridente e incoraggiante. Accanto a lei stava la giovane duchessa di Archi, come una tortorella abbandonata, dacchè il marito, un rompicollo, aveva stimato meglio seguire in continente la prima donna del teatro di S. Cecilia, senza dar di sé alcuna notizia. Era bellina, e il sorriso dolcemente malinconico era una leva potente per sollevare i pesi più saldi. La marchesa di Geraci se la teneva vicina appunto per la sua forzata vedovanza, che la rendeva interessante agli occhi di tutti, specialmente degli uomini, che però non osavano farle la corte sotto la vigilanza della marchesa. Appunto per questo, ella aveva per suo servente il cavaliere d’Archirafi, che aveva cinquantacinque anni: le oneste maldicenze erano messe a tacere.
Un’altra stella di prim’ordine era la duchessa di Garsiliato, che splendeva in mezzo ad una corte di gentiluomini. Era veramente bella, alta, slanciata, il volto ovale, nel quale sfolgoravano gli occhi nerissimi, il naso era un poema, diritto con le narici piccole leggermente rosee; la bocca di corallo. Non si poteva dir quanto fosse da attribuire ai segreti della sua toeletta, ma le fattezze incomparabilmente regolari non avevano bisogno dell’aiuto dei cosmetici. Parlava con grazia, un po’ lenta, con lievi gesti del capo, e con un sorriso affascinante. Aveva trentadue anni.
Ma la marchesa di Aidone, una bella donna anche lei, pareva la fragilità in persona; si sarebbe detto che si spezzava in due; ogni più piccolo incidente le cagionava una grande commozione che si manifestava in interiezioni, in “ohimè”, in “oh Dio”, in mani al cuore e simili gesti di una straordinaria sensibilità. Era piccolina e piuttosto magra.
La contessa di San Bartolomeo per converso rideva sempre per qualunque causa, anche se triste; era una cosa superiore alla sua volontà; rideva di nulla, e spesso si domandava perché ridesse. Grassoccia, né alta, né bassa, bianca e rosea, pareva il ritratto della buona salute, e infondeva agli altri la giocondità. Aveva anche lei ventisette anni come la marchesa di Aidone.
La principessa d’Altofonte pareva una regina orgogliosa; era bella, ma le sue fattezze riflettevano l’orgoglio e acquistavano una certa durezza, che respingeva gli animi. Giunonica, s’avvaleva del suo corpo per imporsi, e dovunque passava, accoglieva con un sorriso di protezione gli inchini di chi, forse, valeva più di lei. Non aveva che una adorazione: la plastica e armoniosa bellezza delle sue forme; e quando usciva dal bagno, si guardava tutta nuda nel grande specchio, compiacendosi con se stessa, e domandandosi se v’era alcuna donna che si rassomigliasse a lei. Se fosse vissuta ai tempi delle favole, avrebbe creduto che il sommo Giove l’avesse generata.
Ma a che parlare di tutte quante le dame che rendevano i saloni della marchesa di Geraci simili a olezzanti superbi mazzi di fiori.
V’era da per tutto un cicaleccio frammisto di risatine, di esclamazioni, di domande; un brusìo di mille voci che parlavano a voce moderata ma che tutte insieme facevano un tumulto giocondo. Ma a un tratto corse una voce e si fece un gran silenzio; la marchesa aveva preparato una sorpresa che nessuno si aspettava: la recita d’una farsetta originale, non lunga, con pochissimi personaggi; la marchesa taceva chi era l’autore, ma la incorreggibile imprudenza della baronessa di Santo Stefano aveva rivelato sotto voce che era la stessa marchesa, che si compiaceva di serbare l’anonimo. La malignità sussurrava che la baronessa ne aveva ricevuto l’imbeccata: ma ognuno fingeva di ignorarne l’autore.
V’era nell’ultima sala un palcoscenico velato, e là passarono gli invitati, e presero posto. Durante il pezzo suonato da una orchestra il chiacchierio si fece più vivace. Certo l’idea della marchesa, una commedia in un atto o una farsa, recitata in casa, era una cosa graziosa, specialmente se breve, e se l’autore sapeva trovare un soggetto divertente. Chi erano gli attori? Anche questo rimaneva segreto; non v’era che un attore in città che sapeva divertire il pubblico: Ferrazzano. Ma la baronessa di Santo Stefano non lo sapeva neppur lei, aveva saputo la composizione dell’opera, ma sulla scelta degli attori non sapeva nulla.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il titolo dello spettacolo: era “L’Amor beffato”. Un mormorio ridevole si propagò per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il velario; cominciava lo spettacolo...


Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento in cui protagonista è Ferrazzano, comico del '700, maschera del teatro siciliano.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 338. Prezzo di copertina € 19,00.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli: A otto anni ella calcò per la prima volta le tavole del palcoscenico... Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano

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Floristella? ma si chiamava così se non sbaglio la piccola di Anna Consalvi. Una volta ella ne parlò, non ricordo più in quale occasione… E ora è fuggita… Con chi? E perché s’è rivolta a me per lasciarmi la sua creatura?... Ma domani ci penserò io!... Oh povero pulcino, e che ti darò io di pappa? perché tu avrai fame, me ne accorgo…
Tenendosi in braccio la bambina si diede a rovistare la casa. Non erano che due stanze quasi nude, con un letto, una tavola, un armadio, due ceste e tre sedie: e poi vesti alla rinfusa sulle sedie, sul letto, per terra; nell’armadio trovò un tozzarello di pane, lo porse in mano alla piccina, che lo mise in bocca: aveva quattro dentini.
Tutta la notte pensò e sognò la bambina; la portava all’ospedale degli esposti; la raccomandava al Governatore; non la consegnassero a nessuno, salvo che a lui, che verrebbe a ritirarla quando avesse sette anni compiuti. Ma il mattino cominciò col darsi attorno in cerca di latte; poteva stare la piccola senza nutrimento, fino a quando l’avrebbe portata ai trovatelli? Ai trovatelli non si recò, e così passò il giorno; e passarono altri giorni di seguito; passarono dei mesi; finì che Ferrazzano tenne ed allevò come sua la piccola esposta. E a chi gli domandava donde gli fosse venuta quella bambina, rispondeva:
- Me l’ha data mia moglie.
- Come? Se tu sei scapolo?
- Domandate a Floristella.
Domandavano a lei di chi fosse figlia, e la piccola si stringeva a Ferrazzano con affetto filiale. Così vissero; Ferrazzano tacendo rigorosamente quanto si riferiva alla origine di Floristella, Floristella credendosi realmente figliuola di Ferrazzano. A otto anni ella calcò per la prima volta le tavole del palcoscenico: fu un prodigio. Si trattava di una particina di fanciulletta, e Floristella la sostenne con tanta padronanza di scena e disinvoltura di linguaggio, che alla fine riscosse interminabili ed entusiastici applausi del pubblico e degli attori. Ferrazzano, che di mala voglia aveva acconsentito a far recitare la sua pupilla, chè non voleva assolutamente che si desse al teatro, dovette chinare il capo innanzi alla febbre che si impossessò di Floristella. Così divenne attrice, e da un anno faceva le parti di ingenua con la nuova compagnia messa su dal Minniti. Intanto ella aveva con Ferrazzano girato un po’ per l’Isola, dove c’era una festa religiosa e un magazzino disposto a mutarsi in teatro.
Quel giorno ella se ne stava quasi dinanzi la porta, e pareva che aspettasse qualcuno. Pensieri torbidi le offuscavano la mente; si vedeva dal corrugare degli occhi che pareva non avessero requie. A un tratto rialzò il capo; aveva visto venire nel quadrato di luce la figura di Ferrazzano...


Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento in cui protagonista è Ferrazzano, comico del '700, maschera del teatro siciliano. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 338. Prezzo di copertina € 19,00.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli: Il teatro dei Travaglini (oggi teatro Bellini) nel 1775. Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano.

Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera, rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti. L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina; gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile: si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice. Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.

Si rappresentava il “Don Chisciotte”, commedia tutta da ridere, che era il melodramma di Apostolo Zeno ridotto a commedia non certe innovazioni dal Minniti. Molte scene si facevano a braccio, fra cui quelle del Minniti e quelle del Ferrazzano. I personaggi avevano subito anche loro delle trasformazioni, e in generale lo spirito della commedia era reso più allegro dell’originale. Il duca aveva preso un nome, si chiamava “Asdrubale”, ed era rappresentato da Antonio Zardo; la duchessa si chiamava “Doralinda” e la sosteneva una attrice, Anna Saverino, “Don Chisciotte” era il Minniti, “Sancio Panza” il Ferrazzano, “Rosaura” Giuliana Buzzelle, “Lauretta” Stefania Corona, “Don Alvaro” Vincenzo Migliocco, “Florindo” Nino Pollione, “Donna Filomena” Carmela Grassa.


Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento in cui protagonista è Ferrazzano, comico del '700, maschera del teatro siciliano. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 338. Prezzo di copertina € 19,00.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)


Luigi Natoli: La smorfia, ossia il vero mazzo per vincere all'estrazione dei lotti... Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano.


Il giuoco! L’anno innanzi il vicerè don Marcantonio Colonna principe d’Aliano, aveva pubblicato un bando coi soliti modi, e suon di trombe e di tamburi, col quale proibiva i giuochi di “invito e parata”, fra i quali elencava quelli che erano in uso tra le classi elevate e le infime: “Bassetta, biribisso, primera di qualsivoglia sorte, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta, cartetta, banco fallito, regia usanza, o sia truppa, faraone, paris e pinta, passa dieci, sette e otto, scassaquindici, laccio e cavigliola, cacocciolille, o siano tabacchiere, o siano scorze di noce” e altri popolari; ma era stato tempo perso. Il bando proibiva assolutamente a qualsiasi persona, senza differenza di grado, condizione, dignità, nazionalità, privilegio, di tenere “né direttamente né indirettamente, ridotti di giuochi pubblici o sia baratteria di carte, dadi, palle e biribisso”. Proibiva che nessuno doveva giocare e “intervenire anche per vedere giocare”, fosse in luogo pubblico o privato, “palagi, case, giardini... ecc.”
Li proibiva, e minacciava gravi pene: pei nobili, se uomini cinque anni di relegazione, se donne cinque anni d’esilio; senza contare le multe in soprappiù, e le pene che colpivano i creditori di giuoco e quelli che avevano giocato in parola, e i conduttori di case da giuoco, i quali dovevano pagare al fisco mille ducati, e perdere tavolini, sedie, “e tutti gli strumenti dei giuochi proibiti”, che dovevano essere bruciati innanzi le case in cui si fosse giocato… Ma non ci fu nessun condannato, nessuna casa vide bruciata la più piccola cosa; e la prammatica del vicerè Marcantonio Colonna raggiunse tutte le altre dei suoi predecessori sul gioco nel gran mare delle parole inutili.
Perciò si giocava a primera, a trenta e quaranta e alla bassetta in barba alle disposizioni.
Dunque don Diego e il baronello Spinola, due arrabbiati giocatori, giocavano audacemente forti somme. Il baronello puntava; che questo aveva voluto, dacchè aveva la mano buona; del resto erano in vena di vincere, e dopo un’ora il mucchietto ch’era dinanzi a loro, diventò un mucchione. Ridendo si alzarono dal giuoco, e passarono nella sala di conversazione. C’erano gli oziosi e in quel momento parlavano di un annunzio, che si leggeva nella gazzetta “Il Nuovo Postiglione”. Era questa una raccolta di notizie da Parigi, da Madrid, da Vienna, ecc. frammischiate con avvisi di cose cittadine. Il numero, di cui si parlava, conteneva l’annunzio di un libro pubblicato in quei giorni. Non è a credere che si trattasse di una edizione di Dante o di Petrarca o d’un altro classico, ma semplicemente “la Smorfia” o sia “Il vero mezzo per vincere all’estrazione dei lotti, o sia, una nuova lista generale contenente quasi tutte le voci delle cose popolaresche e appartenenti alle Visioni e Sogni, con loro numero, esposto per ordine alfabetico. Opera di Fortunato Indovino, da esso estratta da Vecchi Libretti dell’Anonimo Cabalista, e di Albumazzar da Carpinteri. Accresciuta di 400 voci, ed ora in questa terza edizione se ne aggiunge 582 oltre delle 90 figure esprimenti le arti, il giuoco del Barone... V’è annesso il giuoco romano, e i numeri delle contrade. Tre nuove Cabale d’ignoto autore, le tavole astronumeralgebrate, quali saranno per la cabala di Rutilio Benincasa...”. E chi ne ha più ne metta.


Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento in cui protagonista è Ferrazzano, comico del '700, maschera del teatro siciliano. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate sul Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 338. Prezzo di copertina € 19,00.
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mercoledì 28 febbraio 2024

Luigi Natoli: Dedicata a A. E. Onufrio

S’affaccia a mare il sole e non sbadiglia, 
ma sorride co i flutti e gli inargenta, 
passa l’aura sottile, e s’accapiglia
co ’l fiorrancio che trema e si lamenta. 

Sovra il mio tetto il passero pispiglia
la sua canzone garrula e contenta; 
la rosa entro la buccia s’invermiglia, 
s’ingemma il pesco e infogliasi la menta.

E il sol si leva; il bruco su la foglia, 
su ’l letamaio il tafano rivive; 
ogni grano di terra s’ingermoglia

ed io non sento l’amoroso foco; 
un amaro sconforto in me sol vive, 
e mi sento morire a poco a poco. 

Luigi Natoli

Luigi Natoli: Poesie.
Il volume comprende le raccolte di poesie edite e mai più ripubblicate e soprattutto inedite, fedelmente trascritte dai manoscritti originali. 
Pagine 278 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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mercoledì 21 febbraio 2024

Luigi Natoli: La mia dottrina, che è la vera, ha uno scopo: la rigenerazione dell'uomo... Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.

Le logge seguivano tutta la stretta osservanza, ed eran sotto la protezione della Corte: sicchè era vano ogni tentativo di modificarle secondo quelle idee, che con la lettura dell’opuscolo di Giorgio Cafton, s’erano venute formando nella mia mente.
Qualche visita che vi feci mi confermò nella mia idea, che cioè l’illuminismo, che era la dottrina di queste logge, conduceva a una specie di ateismo sterile. Ma dove io concepii la necessità di una riforma, fu a Lipsia, dove udii dalla stessa bocca di Scieffort, la sua dottrina. Essa era un impasto curioso della dottrina del primo fondatore Giovanni Boheme – la quale ammetteva che l’uomo riceveva direttamente da Dio un lume speciale, per cui poteva da sé raggiungere la perfezione – di riti massonici, e dell’ordine fondato da Adamo Weisshaupt, qualche anno prima, che mescolando fra loro la dottrina dell’illuminismo e i riti massonici ne aveva cavato fuori una setta più politica che altro; e che pretendeva poter generare il bene dalle stesse cause che generavano il male.
Tuttavia io vi riscontravo qualche cosa che poteva servire ai miei scopi.
Io facevo come l’ape. Andavo suggendo qua e là ciò che mi poteva servire. Dal conte di Saint-Germain, come da Scieffort; da Swedemborg – e da costui presi anzi molto – come da Cofton; dagli alchimisti di cui studiavo i segreti, come dai libri di mastro Altotas; dalle mie conoscenze di medicina come da quelle cognizioni superficiali di storia e della Scrittura; da quella mia forza occulta, come dalle pratiche magiche di cui conoscevo i procedimenti.
Tutto ciò doveva servirmi nella esecuzione del disegno che già s’era fermato nella mia mente.
Una voce interna mi chiamava a compiere grandi cose; l’avvenire si schiudeva dinanzi a me; io mi lanciai animosamente nel nuovo cammino, con la sicurezza della vittoria.
“Tutto ciò che voi credete maraviglioso, e che sia frutto della vostra scienza, è vecchio; io lo appresi in un tempo del quale ho perduto la memoria. Voi tramutate i metalli? Ed io li tramuto da un pezzo; voi credete di possedere la pietra filosofale, ma vi ingannate: nessuno di voi conosce la formula segreta del divino Ermete Trimegisto incise sopra una colonna del tempio; perché nessuno di voi ha passato lunghi anni nella penitenza e nel colloquio con Dio e coi sette Angeli, come li ho passati io tra le rovine di Menfi o dentro le Piramidi misteriose, dove nessun mortale è mai entrato: voi credete di essere immortali, ebbene io dico a voi che non passerà un mese che Scieffort, colpito dall’ira divina, morrà.”
“La mia dottrina, che è la vera, ha uno scopo: la rigenerazione dell’uomo; mira ad aumentare la potenza e la dignità della sua anima; a insegnar loro, che per quanto grandi siano le cose maravigliose che egli può vedere, siano anche i sette angeli che stanno al cospetto di Dio, egli non deve adorarli, ma considerarli per uguali; che nel mondo degli spiriti o egli non deve penetrare, o se vi penetra, deve parlare da maestro e dominatore non già implorante o avvilirsi; poiché egli è stato creato a immagine di Dio, che gli ha dato il diritto di comandare e dominare la natura. Per giungere a questo non sono necessarie le vostre cerimonie; le vostre formule magiche; ma un cuor puro, un animo forte, amare, far del bene e aspettare!”


Luigi Natoli:  Cagliostro e le sue avventure – Romanzo storico siciliano ambientato nel 1700. È la storia di Giuseppe Balsamo, alias Conte di Cagliostro, narrata dal protagonista come la lettura di un Diario. 
L’opera, in una edizione totalmente restaurata dal titolo all’indice, è costruita e trascritta dal romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 881 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store on line
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macajone (Via M.se di Villabianca 102), Libreria Forense (Via Maqueda 185)

Luigi Natoli: Io nacqui in un vicolo che allora prendeva il nome da una celebre taverna detta della Perciata... Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.

Per restringere la mia parentela, e perchè sappiate che il titolo di Caglio­stro non è meno mio di qualunque al­tro, voglio farvi un breve albero ge­nealogico della mia famiglia.
Anche nella Bibbia e nei Vangeli si comincia con l’albero genealogico. Io non risalgo ad Abramo e Noè, la pa­rentela dei quali per altro non respin­go; ma scendo a tempi assai più vicini.
Carlo Matteo Martello ebbe due fi­glie, una, Maria andò sposa di don Giu­seppe Bracconieri, morto nel 1754; l’altra, Vincenza, si maritò in don Giuseppe Cagliostro di Novara Sicula, e fu la mia buona madrina.
Dal matrimonio di Maria col Brac­conieri nacquero quattro figli, due ma­schi Antonino e Matteo, miei zii, e due femine; Felicia Bracconieri, mia madre, che andò in moglie a don Pie­tro Balsamo, e Maria che fu sposata al signor Filippo Abate di Termini.
Dicono che il mio nonno paterno Antonino Balsamo fosse un libraio molto noto in Palermo. Non so, e non mi importa saperlo. Mio padre era un mercante.
Le nozze di Felicia Bracconieri e di Pietro Balsamo furono feconde di due figliuoli: Giovanna Giuseppa Maria, mia sorella, che poi – a quanto ne ho saputo – si è sposata con un Giovan Battista Capotummino, ed io.
Io nacqui a Palermo, il 2 giugno 1743 nella casa paterna, in un vicolo che allora prendeva il nome da una ce­lebre taverna detta della Perciata, nelle vicinanze dell’ospedale dei frati Benfratelli. Fui battezzato sei giorni dopo alla Cattedrale dal parroco don Diego Mezzopane e fui tenuto a battesimo da don Giovan Battista Barone e dalla zia Vincenza Cagliostro che, non potendo venire personalmente, si fece rappre­sentare per procura.
Nel battesimo ebbi imposti i nomi di Giuseppe, Giovan Battista, Vincen­zo, Pietro, Antonino e Matteo.
Troppi nomi per un uomo solo. I miei mi chiamarono sempre col primo.
Se nel corso della mia vita io assun­si cognomi diversi non c’è dunque da stupirsi. Dal momento che era piaciuto ai miei parenti di caricarmi di tutti quei nomi che io non domandavo, per­chè mai non potevo io concedermi di mia volontà quelli che mi piacevano?
Questi particolari sulla mia nascita risulterebbero dalla fede di battesimo, che fu domandata in occasione del mio matrimonio; ma io ho sempre dato uno scarsissimo valore a questo docu­mento insignificante per la vita di un uomo.
Per un pezzo io stesso credetti di essere nato a Termini o a Messina o a Malta; ma poi mi son persuaso che, per quanto la fede di battesimo assicuri il luogo e la data della mia nascita, è da sciocchi cercare quando o dove la mia personalità abbia avuto origine. Io l’ignoro. Io sono stato sempre e la mia patria è il mondo.




Luigi Natoli:  Cagliostro e le sue avventure – Romanzo storico siciliano ambientato nel 1700. È la storia di Giuseppe Balsamo, alias Conte di Cagliostro, narrata dal protagonista come la lettura di un Diario. 
L’opera, in una edizione totalmente restaurata dal titolo all’indice, è costruita e trascritta dal romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 881 – Prezzo di copertina € 25,00
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sabato 17 febbraio 2024

Luigi Natoli: Lillì. Tratto da: Fioravante e Rizzeri. Romanzo ambientato nella Palermo del 1920

Angelica! Egli la chiamava ancora “la piccola” ma era cresciuta, toccava i sedici anni e frequentava la scuola normale. La scuola normale? Eh buon Dio! Non aveva potuto farne a meno; un po’ di istruzione si doveva alle fanciulle, e poi ella studiava per fare la maestra elementare. Salirebbe così un gradino più in alto dei suoi genitori. Ma quel Cicciarello don Calcedonio l’aveva sullo stomaco. Che cosa? sposarla? Chi: un barbiere? Lei che era una maestra? Ma non mi fate ridere! Fosse stato un impiegato del Municipio o dello Stato, un impiegato di concetto (ben inteso), “transeat”. E poi Angelica era molto bellina; un po’ piccolina, ma ben fatta; aveva i capelli castani ondulati, che le inquadravano il viso bianco e roseo. Non poteva dire quanta cipria e quanto rossetto ci fossero sotto quella bianchezza e le labbra erano troppo rosse, per avere un colore naturale, ma avevano una linea, parola d’onore, che facevano venire la voglia di morderle come ciliegie. E gli occhi! Che occhi! Non erano neri, non azzurri, non castani; avevano un colore indefinito con delle pagliuzze d’oro, bruni, grandi: ma quando guardavano, Dio! Che sguardi! Ti scendevano in fondo all’anima, te la scombussolavano, non sapevi più in che mondo tu fossi, né cielo, né in paradiso né in inferno, o piuttosto in tutti e due. E lei, assassina! Lo sapeva; e quando rideva gli occhi le ridevano, e tu tremavi, e dicevi di sì, anche quando la ragione ti diceva di no".
La camera di Lillì era relativamente la più bella. Era solo imbiancata, ma Lillì l’aveva trasformata; tendine alla finestra, il letto di ferro tinto in bianco, il comodino, uno scendiletto da poche lire, un tavolino coi libri in ordine, l’avrebbero fatta scambiare per una camera da studente, se non fosse stato per la toletta che rivelava la donna. Era piena di boccette, di spazzolini, di scatolette di crema, di cipria, di rossetto per le labbra, di ferri per arricciare. Perché Lillì o piuttosto la signorina Lillì (ella si firmava Lilly), da quando aveva toccato i quattordici anni, era divenuta alunna della scuola normale (così allora si chiamava l’istituto magistrale superiore), aveva cominciato a usare i profumi e a darsi l’aria di signorina.
La scuola normale! Veramente avrebbe dovuto frequentare la professionale; sarebbe stata più adatta per lei, ma donna Concettina si era incaponita che la figlia dovesse nobilitare la casa. Che sarta! che modista! Una maestra doveva essere. E a furia di sacrifizi, di assottigliare il pane, di rinunciare alle cose più necessarie, aveva pagate le tasse e aveva vestita la figliola in modo da non sfigurare. E a poco a poco l’animo di Angelica s’era trasformato; ella si era fatta chiamare Lillì, sembrandole più signorile che si dovesse allungare le labbra per pronunciare il suo nome; e poi quel nome le appariva quasi di una persona diversa, di una persona “per bene”. Che cosa fosse una persona per bene non sapeva figurarselo, benché frequentasse la scuola normale; le caratteristiche morali le sfuggivano, o meglio credeva che stessero nel formalismo di certe pratiche esteriori. Per questo cominciava a sentirsi un po’ male in quella casa e in quel vicolo; e quando qualche volta un’amica l’accompagnava, ella aveva cura di separarsi da lei prima di arrivare a casa.
Dopo essersi guardata ed ammirata, si vestiva continuando ad osservare nello specchio le proprie mosse, studiandole perché non perdessero nulla della loro grazia. Ah, perché lo specchio non era grande abbastanza da potercisi ammirare tutta dal capo alle piante? Ogni tanto si voltava di profilo, studiando la linea del corpo; si torceva in modo da vedersi le spalle e le reni falcate. Ma poi ahimè! si guardava intorno, e la tristezza le allungava il viso. La sua camera non era quella che la sua fantasia le dipingeva nei sogni o che vedeva nei film al cinematografo. Quelle pareti bianche di calce stridevano con le cure, che prodigava al suo corpo; erano squallide; il suo letto di ferro pareva quello di un collegio, con la coperta di cotone.
Ella si profumava abbondantemente ma i suoi profumi non erano davvero di Houbigant o di Coty. Quella camera le era insoffribile, e quel vicolo poi la offendeva...


Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Romanzo ambientato nella Palermo del 1920.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1936.
Pagine 304 - Prezzo di copertina € 19,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno
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giovedì 15 febbraio 2024

Luigi Natoli: Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri... Tratto da: Fioravante e Rizzeri. Romanzo storico

 

Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.
Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento.
(Nella foto il pupo Orlando realizzato dal maestro Vincenzo Argento - Teatro famiglia Argento)

Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Romanzo ambientato nella Palermo del 1920.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1936.
Pagine 304 - Prezzo di copertina € 19,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Prefazione dell'autore, pubblicata sul Giornale di Sicilia del 16 dicembre 1936

Quanti hanno letto il magnifico libro dei “Reali di Francia”?
Il trovarlo sui muriccioli, stampato Dio sa come, o nelle case dei contadini e degli umili, che se ne fanno assidua lettura, disdegna le anime gentili di comprarlo o di guardarlo. Né si trova dai librai. Essi vi hanno bensì l’ultima “creazione” moderna, che è morta prima di nascere, ma che rechi la cantafera di una qualche signora, piuttosto un libro che ha novecento anni addosso, quanti ne ha la “Divina Commedia”.
Perché i “Reali di Francia”, nella veste che lor diede Andrea da Barberino, rimontano al trecento, e sono citati fra i testi classici, e costituiscono per noi la nazionalizzazione della materia epica francese, che sarebbe per il nostro cantafavole italiano.
Che narrano i “Reali di Francia” infatti?
Narrano la storia come da Costantino imperatore romano derivasse per naturale discendenza tutti i principi illustri che governarono la Francia da quell’epoca fino a Carlo Magno, e con loro i valorosi che li accompagnarono e che ne furono il più bello ornamento. Orlando, che è il maggiore eroe, e diventò l’immagine del valore, della cortesia e della fede, che riassume il sentimento nazionale francese, nasce per i “Reali” in Italia, e in una grotta in Sutri, dove lo partorì Berta moglie di Milone conte di Anglante, e sorella di Carlo Magno, fuggendo l’ira di costui. Così egli è italiano non soltanto per discendenza, ma anche per nascita; italiano e cittadino romano. E l’orifiamma, la gloriosa insegna che si trasmette da re a re, e che evidentemente è il vessillo, in cui Costantino fece scrivere le famose parole “In hoc signo vinces”, e che forma il centro della storia, è pur esso italiano.
Fioravante e Rizzeri sono come Buovo d’Antona e come Orlando una parte dei “Reali”, e, come quelli, la più popolare. Non è il caso di investigare se Andrea da Barberino abbia attinto ad altri poemi, di cui era ricca la Marca Trivigiana e di cui si servivano i cantafavole nelle piazze; chi ha la pazienza di leggere lo studio che precede il “Fioravante”, nella Collezione dei testi di lingua, e gli studi sulla Epopea francese e sull’ “Orlando” di Pietro Raina, e i maggiori scrittori della storia letteraria d’Italia, può farlo; per noi il romanzo di Andrea da Barberino è tutto; noi non facciamo dell’erudizione; prendiamo quello che con tanta grazia e ingenuità narra lo scrittore toscano; e se di una cosa ci maravigliamo, è appunto che esso non sia letto oggi più dei romanzi gialli.
Io lo lessi giovanotto e ricordo che non potevo, se non difficilmente tralasciare la lettura; lo rilessi ora, e provai il medesimo diletto al racconto delle avventure subite e affrontate da Fioravante e da Rizzeri suo compagno e maestro, primo paladino di Francia e uomo senza macchia e senza paura. Comincia Fioravante con una monelleria, che lo spinge a lasciare il tetto paterno del re Fiorello; e di là si partono le sue avventure. Liberazione di giovanette, uccisione di nemici della fede, perdita di armatura rubatagli da un ladrone, prigioniero del re di Scondia, innamoramento con Drusolina, il suo valore come incognito e via via quello che gli succede da re, le persecuzioni di sua madre Biancadoro, che voleva dargli moglie, le avventure di Drusolina, che sola abbandonata, dà alla luce due gemelli, uno dei quali le viene rubato, e il duello dei due fratelli che non si conoscono, tutto ciò frammezzato di tanti episodi forma il romanzo, che spira un senso di giustizia e solleva gli animi nelle regioni del sogno. I nomi delle contrade non si sa dove trovarli, le distanze di parecchie migliaia di chilometri si percorrono in un tempo irrisorio, gli eserciti sono così innumerevoli da superare il numero degli abitanti delle città che li armano... Che importa? Siamo nelle sfere del sogno, nel quale ci piace navigare.
Qualche volta, passando per una stradetta, sopra una porta, vedo pendere un cartellone con dipinti in quadri alcuni episodi di quello che si rappresentava la sera nel teatro delle marionette; e vi leggevo i nomi di Fioravante e di Rizzeri. La storia di Andrea da Barberino si era rifugiata lì: Fioravante e Rizzeri erano tramutati in teste di legno, come tutti gli altri campioni del valore e della fede; ma anche in quelle vesti che destano in noi un sapore di cose nuove. In un quadro v’erano due guerrieri, che abbassavano le armi e un leone fra loro in atto di separarli; in un altro, una folla di popolo e una regina condotta al rogo: i cavalieri erano vestiti con le armature del cinquecento, con un salto di mille e duecento anni. Non importa nulla. Pel popolo abituato a quel teatro e pel puparo, ossia per l’ “oprante” tutte queste differenze sparivano nell’antico, in cui tutto accadeva senza distinzione di tempo, di luoghi, di costumi: ma l’onda di poesia che scaturiva anche da quelle piccole teste di legno era possente e riecheggiava nelle anime semplici degli spettatori.
Ora anche adesso questo giornale si ispira alle avventure di Fioravante, e lo riproduce attraverso un “oprante”; e intreccia l’antico con il moderno; e le avventure di Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell’onesto puparo sembra foggiato con l’anima dei suoi pupi. C’è riuscito? È quello che vedrà il lettore. Ma se non è immodestia dirlo, coloro che mi hanno seguito attraverso i diciotto o venti romanzi, da me pubblicati su questo giornale, sanno per prova che un certo interesse so trovarlo.


Maurus o William Galt



Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Romanzo ambientato nella Palermo del 1920.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1936.
Pagine 304 - Prezzo di copertina € 19,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile:
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martedì 13 febbraio 2024

Luigi Natoli: Una commozione di tenero rimpianto penetra in quei cuori, mentre le mani stringono armi omicide... Tratto da: Alla guerra! Romanzo storico

 
La colonna doveva raggiungere prima dell’alba Rochefort; donde, doveva in ferrovia scendere fino a Marloie, ed aspettarvi ordini. 
Il comando serbava un grande silenzio sulle mosse delle truppe, per paura di indiscrezioni: i soldati non sapevan mai dove eran diretti: gli ufficiali inferiori sapevano il nome dei grandi alti più vicini che si sarebbero trovati sulla direttiva. Rochefort era il primo. Gli ufficiali intelligenti indovinavano in qualche modo qual fosse la meta. 
Del resto che cosa importava saperlo prima? Importava raggiungere un dato luogo a una data ora precisa, senza un minuto di più o di meno, importava ubbidire rigidamente, senza discutere, andare innanzi; uccidere, lasciarsi uccidere... Questa era la guerra; e così bisognava farla: così la facevano i tedeschi... Ne convenivano; ma in Francia ufficiali e soldati, invece discutevano e criticavano... Era il loro difetto. Vecchio difetto. Ma questa volta bisognava discutere meno. 
Intanto altri soldati, presi dal contagio s’eran messi a canticchiar anche loro. La cadenza dei passi segnava il ritmo. S’erano accordati, senza volerlo, per istinto, in un coro sommesso, che pareva venisse di sotterra; pareva la voce della terra dolente, che presentiva l’orrore del sangue; la voce della madre che accompagna il figlio lontano, sul quale incombe la minaccia della morte; la voce della gran pace umana lacerata dallo scoppio delle granate e dalle punte della baionette: ed era anche la voce del paese nativo coi suoi ricordi, con le sue care e tenere ricordanze: la chiesa, il campanile alto ad aguglia, la piazza con la farmacia e la mairie, l’officina del maniscalco e del carradore, la scuola, e più in là il mulino; il vecchio mulino dalla enorme ruota, su la quale precipitava spumeggiando l’acqua; e più in là, nell’aperta campagna, l’opificio, con gli alti camini fumanti. V’era in quel canto come l’eco del suono delle campane all’alba e alla sera; l’eco del martello picchiante sull’incudine; del fischio della sirena… 
E tenere visioni si ridestavano in fondo alle anime. Chi è là? una vecchietta rugosa, sotto la cuffia dalle bianche ali delle donne di Normandia, o quella graziosa e singolare delle donne di Arles. Ella caccia con la verghetta le oche, che si dimenano sulle zampe gialle, crocchiando… Mamma Ghita?... No, non è Mamma Ghita, è invece un volto roseo di giovanetta, ombreggiato da un largo cappello di paglia infiorato di rosolacci. Ella ride… Forse no, ora non ride più: domanda al portalettere se ha una cartolina illustrata di lui… 
Una commozione di tenero rimpianto penetra in quei cuori, mentre le mani stringono le armi omicide. 
- Silenzio! – ordinò l’ufficiale. 
Anche lui pensava; la visione aveva uno sfondo diverso; ma il sentimento che destava era forse il medesimo. 
Il sottotenente Guy Vandois, uscito da Saint-Cyr da un anno, era stato incorporato nel 112° di fanteria di linea, di guarnigione a Parigi; il che gli aveva permesso di continuare a vivere nella casa paterna, e di godersi la vita gaia e turbinosa della capitale. 
Doveva questa sua fortuna alle relazioni del padre, ex sotto-prefetto; il quale, avendo rinunciato a posare la sua candidatura in un collegio elettorale, in favore di uno dei più noti e autorevoli uomini di parte radicale, amico del presidente del consiglio; ed essendosi anzi cooperato, perché l’amico del presidente del consiglio riportasse una votazione quasi plebiscitaria di contro al candidato della coalizione clericale-legittimista e bonapartista, ne aveva acquistato una riconoscente e grande amicizia, che non era stata infeconda di alte e utili relazioni politiche. 
L’on. Cadenat era divenuto così uno degli assidui del circolo di madama Vandois, che, non ostante i suoi quarantadue anni, era una donna piena di attrattive e ancora piacente. 
Guy aveva potuto, in grazia dell’interesse materno, e per le intercessioni di M.Cadenat, ottenere di restare a Parigi; fortuna invidiatagli dagli amici, che, naturalmente, per vendicarsi un po’, attribuivano alle grazie di madama Vandois l’efficacia delle raccomandazioni. 
La guerra aveva colto Guy improvvisamente, in mezzo alla sua vita gaia e spensierata...


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nel Belgio e nella Francia della prima guerra mondiale. 
L'opera, raccolta per la prima volta in libro, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 950 - Prezzo di copertina € 31,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: V'era nella sua parola l'angoscia paurosa di una sciagura imminente... Tratto da: Alla guerra! Romanzo storico.

 
La notte era tiepida e limpida; una notte d’agosto, col cielo disseminato di stelle lucenti. La strada illuminata dalle lampade, dai fasci di luce che uscivano dai caffè, si dilungava fino all’angolo dell’avenue de Wagram, dalla quale si distinguevano, precisi, chiari, sotto la luce delle grandi lampade, gli alberi allineati. Per la strada era il via vai faticoso della gente; un trascorrere di carrozze, di automobili, di biciclette; un formicolìo di persone; il rumore confuso delle ruote, delle cornette, dei motori; le grida degli strilloni, il brusìo indistinto e multivoco dei passanti, notteggiavano fra i muri della strada. Ma su, oltre i tetti, ove finiva il travaglio umano, quale pace infinita e misteriosa, nei cieli luminosi!...
Benoist aveva guardato la strada, seguito la folla, sollevato lo sguardo in alto: qualche cosa gli agitava il petto; sentiva la vicinanza di Bianca, e provava una sofferenza oscura, un piacere doloroso, dei bisogni spirituali, delle aspirazioni vaghe e infinite come quel cielo che gli si stendeva sul capo.
Bianca lo esaminava, mentre egli guardava il cielo. Benoist aveva la linea della fronte pura e nobile; e nel volto quella pensosità un po’ malinconica, che è il sigillo imposto dalla consuetudine di una intensa vita spirituale. In quella raffazzonatura dell’abbigliamento era un po’ goffo e impacciato, come un provinciale venuto di fresco, e che non abituato ancora a vestire un abito nero, lo indossi per la prima volta; ma il ridicolo di questa goffaggine non saliva oltre il colletto.
Per l’abitudine che egli aveva contratto di passarsi la mano su la fronte, aveva un po’ scompigliato la pettinatura odiosa con la quale il parrucchiere aveva creduto di farlo più bello; i suoi capelli, pur serbando una certa divisione, avevano un disordine che restituiva all’espressione generale del volto un po’ del suo primo carattere.
Per un po’ rimasero in silenzio: Bianca aspettava che Benoist le dicesse qualche cosa: Benoist aveva il pensiero pieno di idee e di espressioni tumultuose; ma la sua bocca rimaneva chiusa, la parola mentale pareva si arrestasse nelle radici della lingua.
- Come mai, – domandò Bianca a un tratto, per rompere il silenzio; e anche per ubbidire a un’idea che l’aveva perseguitata da parecchi giorni; – come mai voi, che avevate tanto orrore per la guerra, ne siete diventato ora un partigiano?
Benoist la guardò non senza provare una certa amarezza per quella domanda, così lontana, così estranea alle idee che gli turbinavano nel capo: nondimeno respirò: quella domanda rompeva il silenzio.
- No, madamigella, – disse dolcemente; – io ho sempre lo stesso orrore per la guerra; io ho sempre sognato e sogno un patto di fratellanza fra tutti gli uomini; la grande famiglia umana affratellata dalla scienza e dal lavoro; due cose che non conoscono confini… È un bel sogno, che si avvererà, deve avverarsi; dobbiamo anzi affrettarne la sua traduzione in realtà… Ma bisognerebbe rendere impossibile ogni violenza… E non son diventato partigiano della guerra, no; ma nessuno può consentire che sia violato il diritto alla esistenza!... La Francia patisce la più bestiale sopraffazione: essa è aggredita, unicamente per essere assoggettata e sfruttata dal capitalismo tedesco, che si è impadronito dell’esercito… Il capitalismo tedesco ha bisogno della ricchezza francese, per non perire. La sua è una aggressione brigantesca, dissimile soltanto nelle proporzioni da quelle che compivano i banditi leggendari sulle strade maestre!... Difendersi non è soltanto un diritto, ma è più, un dovere! Nessuno può sottrarsi al dovere di difendere la terra, la casa, il lavoro, la libertà dei propri concittadini… Non è questa che combattiamo noi, e della quale io riconosco il santo dovere, una guerra per gli interessi di una dinastia o di una classe: è guerra di difesa di tutta la nostra storia passata e avvenire; è la nostra difesa dei due diritti fondamentali, il diritto di vivere e il diritto di esser liberi…
La sua voce era a poco a poco divenuta più sonora e più calda; e i suoi occhi si illuminavano. Bianca però non si diede vinta, scosse il capo, e mormorò:
- È vero; ma quanto sangue, e quanti cuori spezzati!...
V’era un tremito nella sua parola, l’angoscia paurosa di una sciagura imminente e immancabile.


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nel Belgio e nella Francia della prima guerra mondiale. 
L'opera, raccolta per la prima volta in libro, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 950 - Prezzo di copertina € 31,00
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Luigi Natoli: La fede ingenua, la pietà umana si confondevano con la più feroce e spietata ironia. Tratto da: Alla guerra! Romanzo storico


"C’era ancora il cadavere del capitano, col suo profilo tagliente, coi baffi grigi quasi ispidi; disteso sul letto con le mani incrociate; ed era solo, chi poteva in quel momento vegliare un morto? Ella lo guardò con un misto di pietà, di ribrezzo, di curiosità. 
Sedette a un angolo della camera, sopra una seggiola bassa, e si mise a recitare le preghiere. Se ci fosse stata dell’acqua benedetta nella pila di porcellana appesa al capezzale del letto! Si alzò, guardò: c’era. Tolse allora la frondicella dell’ulivo benedetto, che era infilata di traverso all’anello della piletta; ne immerse le foglie nell’acqua, e spruzzò il volto, le mani, la divisa del morto. E le parve di aver reso un pio e doveroso tributo verso di lui; le parve che il morto dovesse esserne lieto e grato. Ella se ne sentiva più sollevata; posò l’ulivo fra le mani del morto, e ritornò a sedere e a pregare.
Ah quell’ulivo, simbolo di pace e di concordia fra gli uomini, posto dalle mani inconsapevoli di una povera contadina, fra quelle di un ucciso nella tremenda guerra di sterminio, quale profondità di significati attingeva negli abissi del pensiero! La fede ingenua, la pietà umana, si confondevano con la più feroce e spietata ironia. Era il crollare rovinoso di tutte le teorie umanitarie e sentimentali dinanzi alla realtà inesorabile; ed era anche l’eterna aspirazione a una divina armonia; pareva una protesta contro la crudeltà belluina della guerra; il vaticinio o l’augurio che dalle terre bagnate di tanto sangue umano germogliasse l’albero della pace universale…"


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nel Belgio e nella Francia della prima guerra mondiale. 
L'opera, raccolta per la prima volta in libro, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 950 - Prezzo di copertina € 31,00
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Luigi Natoli: Improvvisamente i gemiti si mutavano in ululi di dolore... Tratto da: Alla guerra! Romanzo storico

 
"S’accostò al letto del ferito, gli sollevò con una mano il capo, con l’altra porse alle labbra riarse una tazza d’acqua… Poi gli acconciò le coperte; e ritornò al letto, e dopo essersi assicurata che il suo ufficiale dormiva, sedette di nuovo sullo sgabello, con le mani sul grembo, lo sguardo vagante sopra i letti, dove ogni tanto qualcuno si lamentava. Quanti ve n’erano!... E di là altre c’erano altre sale, e si intravedevano altri letti; e sopra, nel piano superiore ce n’erano ancora. 
Si sentivano dei passi andar su e giù; forse medici, infermieri; ogni tanto di fuori una voce impartiva ordini; si udiva un rotolare di carrette; un via vai frettoloso; poi qualche urlo di dolore; dei gemiti che levavano il cuore; frammezzati da improvvisi silenzi. A ogni aprir di porta entravano zaffate di odore d’acido fenico; e il vocìo si faceva più distinto e i gemiti più forti. Ella riconosceva la voce del capitano medico; e immaginava che medicasse altri. Forse estraeva altre palle. 
Improvvisamente i gemiti si mutavano in ululi di dolore che facevano rabbrividire. Si alzò e s’avvicinò alla porta; vide intorno al letto operatorio un gruppo di persone, che le nascondevano la vista del letto; uno dei chirurghi pareva intento a qualche cosa che Betty non poteva capire: vide però uno dei medici trascegliere di fra gli strumenti, una sega. Ella si sentì gelare il sangue, ma non si mosse; una curiosità folle la inchiodava lì, su la soglia, nell’aspettazione trepidante di qualche cosa orrenda. I suoi occhi spalancati erano costretti da una forza ineluttabile a seguire ogni gesto; i suoi orecchi a udire.
Nessuno parlava. Solo, ogni tanto, qualche ordine breve, rapido, quasi sottovoce, ma il  ferito che stava in mezzo ai medici, e che Betty non vedeva, non taceva. Betty l’udiva: udiva un mugolìo disperato che non aveva nulla di umano, un rantolo che pareva squarciasse il petto; e si sentiva il cuore pieno di sgomento e di pietà. A un tratto vide una mano buttar in un canto, presso il tavolo degli strumenti, qualche cosa. Mandò un grido, chiudendo gli occhi; ma li riaprì subito e guardò. Era una gamba, una gamba umana, spezzata, sanguinante, nuda, col piede inerte, un piede tozzo, dalle dita ripiegate, come se un rabbrividimento li avesse contratti: una gamba divelta dal suo tronco, buttata là come una cosa inutile, come una cosa nociva; ed era carne umana…"


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nel Belgio e nella Francia della prima guerra mondiale. 
L'opera, raccolta per la prima volta in libro, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 950 - Prezzo di copertina € 31,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15)
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