giovedì 31 maggio 2018

Luigi Natoli: La congiura e la chiesa dell'Annunziata. Tratto da: Squarcialupo.

La chiesa dell’Annunziata era stata eretta da pochi anni sulle rovine di un’altra chiesa distrutta nel secolo XIV; e accanto ad altra, dello stesso titolo, appartenente a confrati, che però l’avevano abbandonata, e avevano trasportato il loro archivio, il sagramento, i vasi, tutto insomma nella nuova; che esiste tutt’ora, nella sua graziosa forma originale, accanto all’edifizio del Conservatorio di Musica, dentro il quale si trovano il portico e gli avanzi della chiesa dei confrati. Allora questo portico e la chiesa abbandonata comunicavano con la nuova.
Fin dalla prima mattinata gente vi si recava da ogni parte; i più entravano nella chiesa vecchia e nel portico; altri rimanevano fuori. Era facile a un vecchio esperto riconoscere fra essi servitori di famiglie nobilesche, schiavi, artigiani, gente di campagna, venuta dalle vicine terre feudali. Non avevano apparentemente armi; ma se ne indovinavano nascoste; e se alcuno avesse frugato nella vecchia chiesa, avrebbe scoperto picche e archibugi.
Verso nona cominciarono ad arrivare signori e mercanti; e a prender posto nella chiesa nuova, occupando la navata destra: il padre Iacopo Crivello, del vicino convento di Santa Cita, aspettava in sacrestia il momento per vestirsi coi paramenti per celebrare la messa di pacificazione: e intanto mormorava orazioni: ma Giovan Luca ancora non veniva.
Giovan Luca aspettava i suoi compagni per andare insieme in chiesa, quando Dorotea gli si presentò pallida e agitata:
- Non andare, Giovan Luca; – gli mormorò all’orecchio con voce supplichevole; – non andare! Ho fatto un brutto sogno; t’ho visto grondante di sangue in un cataletto. Vergine santa, che spavento!... Non andare, te ne scongiuro!...
Giovan Luca sorrise...
Quando giunse in chiesa, trovò piena di gente non solo la navata destra, ma anche la parte superiore della navata di mezzo. Gli fecero largo per farlo passare co’ suoi amici; ma si richiusero dinanzi ai popolani, che rimasero accalcati nella parte inferiore della navata di mezzo. Dorotea non potè penetrare; si rannicchiò in un canto, presso la pila dell’acqua benedetta cercando di vedere dove fosse Giovan Luca.
Egli si era avvicinato all’altare maggiore, dove erano i nobili invitati al convegno. Vi era Guglielmo Ventimiglia, Pompilio Imperatore, Francesco e Cola Bologna, Alfonso Saladino, Pietro d’Afflitto, Giovanni Antonio Postella, Girolamo Imbonetta e altri signori, che egli ravvisò a uno a uno. Rivoltosi a Guglielmo Ventimiglia:
- Magnifici signori, il luogotenente generale questa notte è fuggito; e questa fuga non si spiega, quando egli avrebbe dovuto ratificare i nostri accordi. Se io non avessi a cuore la pace della città mi asterrei da ogni trattativa; ma noi dobbiamo con o senza l’approvazione di lui, fondare la pace degli animi sul buon governo e sulla libertà.
- Ascoltiamo la santa messa – disse Guglielmo Ventimiglia – il Signore Iddio e la Santa Vergine ci ispireranno. Prendiamo posto.
Uscì la messa.
Guglielmo si messe in prima fila, e accanto a lui volle Squarcialupo: di qua e di là Cristoforo Di Benedetto e Alfonso La Rosa. Dietro a loro si posero i nobili: Pompilio Imperatore era dietro a Squarcialupo; Nicola Bologna dietro a Cristofaro Di Benedetto, Pietro d’Afflitto dietro ad Alfonso La Rosa; gli altri fiancheggiavano e seguivano. Tutti stavano in ginocchio divotamente. Cominciò la messa: nel gran silenzio diffuso per la chiesa s’udiva il biascicare del celebrante, ora più alto, ora più basso e le risposte del sagrestano, più argentine e chiare.
Ma quel silenzio avea qualche cosa di cupo, di misterioso: c’era nell’aria il senso di una aspettazione pavida e irrequieta; in quei volti che pregavano qualche cosa di duro, che contrastava con la luce mistica di un raggio di sole che penetrando da una finestra illuminava il Cristo sull’altare.... 

Nella foto: La chiesa dell'Annunziata, distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ancora esistente al tempo in cui Luigi Natoli scrive il romanzo. 


Luigi Natoli: Squarcialupo. 
Grande romanzo storico siciliano sulla rivoluzione del 1517 in Palermo ad opera di Giovan Luca Squarcialupo; pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio del 1924; raccolto ed edito in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

mercoledì 30 maggio 2018

Luigi Natoli: la nobile Compagnia dei Bianchi. Tratto da: Calvello il bastardo.

Questa compagnia, istituita nel 1541, e della quale potevano far parte solamente gentiluomini di provata nobiltà, aveva per ufficio di assistere fino agli ultimi istanti i condannati a morte, di qualunque ceto si fossero, di qualunque delitto rei. Pietoso ufficio che, bisogna dirlo, la nobiltà esercitava con vivo sentimento di carità, in un tempo in cui le condanne capitali erano frequenti; e con una generosità e con una scrupolosità rimaste leggendarie. Essa aveva il pieno e completo governo del condannato, appena l’avvocato fiscale lo rimetteva in sue mani. Il governatore della Compagnia, o vogliam dire il capo di essa, affidava a quattro confrati l’ufficio di condurre nella cappella di conforto, di assistere e preparare a morir cristianamente il condannato, o, come dicevano, l’afflitto: uno dei quattro prendeva il nome di Capo di Cappella; e stabiliva tutto il da fare, riceveva la confessione segreta e gli ultimi desideri del condannato, e li trascriveva in un libro, detto Scarichi di coscienza, sul quale nessun occhio profano poteva posarsi. I desideri dell’afflitto erano soddisfatti; le sue ultime volontà eseguite scrupolosamente; il segreto custodito gelosamente.
Nei tre giorni, quanto ordinariamente durava la Cappella, il capo di cappella e gli altri confrati si alternavano l’ufficio: non lasciando solo neppur per un istante il condannato; intanto che il cappellano della Compagnia celebrava messe, confessava, amministrava i sagramenti, recitava l’uffizio e le preghiere per gli agonizzanti. Questa lunga agonia di tre giorni, che una malintesa pietà religiosa infliggeva al condannato, per lui veniva abbreviata a un giorno soltanto, non per pietà, ma per rigore e per fretta.

Nella foto: Oratorio dei Bianchi - Palermo 



Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908. 
Pagine 856 - prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

venerdì 25 maggio 2018

Luigi Natoli: La torre dei diavoli. Tratto da: Calvello il bastardo.

Corrado spedì Pietro a Palermo, perchè si mettesse a disposizione del Di Blasi. Travestito da frate, in maniera irriconoscibile, precedendo la banda, il fedel servo entrò in Palermo all’Avemaria, come un fraticello che torni dalla sua passeggiata. Poichè ora non era più un mistero il disegno del duca, aveva con entusiasmo assunto la sua parte, sicuro di poter, con le relazioni contratte nel quartiere dell’Albergaria per mezzo di zi’ Francesco, sollevare quella popolazione manesca e pronta ad ogni impresa.
Quanto il Teriaca, preso da paura, aveva denunziato, era vero. Sicuro del soccorso delle bande, e specialmente di quella del duca di Falconara, don Francesco Paolo Di Blasi aveva fissato di insorgere il venerdì santo, 3 aprile, nell’ora della processione della Compagnia della Soledad, la più famosa di quelle che avevan luogo a Palermo durante la settimana santa. La processione usciva dalla chiesa dei padri Trinitari, recando l’urna a vetri col Cristo deposto, e la “bara” con l’Addolorata ammantata di nero. Vi prendevan parte tutti i conventi e le confraternite, e gruppi di fanciulli, vestiti da apostoli, da angeli e da Maddalene, rappresentanti i misteri della passione. L’Urna era attorniata da uomini chiusi in pesanti armature medioevali, con la celata in testa, l’alabarda in pugno, terribili: questo spettacolo, l’intervento della truppa, in uniforme di gala, il concorso della nobiltà, l’intervento ufficiale del Vicerè e del luogotenente, con la deputazione del Regno, coi tribunali, e con tutte le magistrature, del senato con tutti gli ufficiali della città, rendeva questa processione la più spettacolosa e la più magnifica.
Approfittar dell’assenza della truppa dalle caserme e della loro dispersione lungo la strada; piombar sul luogotenente generale e impadronirsene con l’aiuto dei soldati ribelli; impadronirsi delle caserme, dell’armeria, delle carceri, del banco pubblico; sollevare il popolo, e gridar la repubblica, intanto che la flotta francese, raccolta allora nelle acque della Sardegna, accorresse a dar mano forte, era un disegno audace, che se fosse riuscito, avrebbe avuto conseguenze assai gravi per la dinastia borbonica.
Si era convenuto che appena iniziata la sommossa, avrebbero suonato a stormo le campane del Duomo, e sul cuspide della torre avrebbero issato lo stendardo di Sicilia bianco con l’aquila nera nel mezzo, ma attraversato da una larga fascia rossa e turchina, i colori della repubblica francese. Dall’alto della torre dei Diavoli si vedevano bene le quattro torri della cattedrale e il grande campanile costruito di recente; e poichè la distanza era di un mezzo miglio, lo stendardo si sarebbe veduto chiaramente.
La notte passò tranquilla. Corrado ricordava che due anni innanzi, proscritto, ricercato, aveva chiesto l’ospitalità a quella vecchia torre abbandonata. Ora, alla viva fiamma che ardeva in mezzo alla vasta sala scoperchiata, vedeva quegli uomini addormentati, col capo appoggiato alle selle, le armi fra le gambe; sui quali il riverbero delle fiamme disegnava luci strane e fantastiche, e pensava a quanta gloria erano serbati. Non tutti avrebbero goduto la gloria del trionfo; ma a tutti la patria risorta avrebbe decretato l’alloro. Fra due giorni essi non sarebbero stati più oscuri.
Immaginava il loro ingresso in Palermo: qualcosa di magnifico e di terribile! Quei quaranta centauri, appena veduto lo stendardo bianco e udito il rombo lontano delle campane, si sarebbero lanciati giù pel piccolo ponte della Guadagna sullo stradale; stretti, compatti, formidabili, come gli antichi catafratti; di galoppo, per la porta Montalto fino al piano del palazzo reale, per impadronirsi dei baluardi, occupar la sede del governo, tagliar la strada alla cavalleria dei Borgognoni.
Pensava e sognava. E guardando i muri screpolati e derelitti dell’antica dimora di una delle più illustri famiglie della Sicilia, estintasi combattendo per l’indipendenza della patria, diceva fra sé:
- Quali destini si covano questa notte dentro queste rovine del passato!

Nella foto: la torre dei diavoli (oggi non più esistente) dell'antica famiglia dei Chiaramonte. 


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Le catacombe di san Michele. - Tratto da: Calvello il bastardo.

Ella udì un brusìo di voci sommesse dall’altro corridoio, ma non distingueva nessuna parola. Si chiedeva dove fosse, guardando ogni cosa con uno spavento che le gelava il sangue.
Erano le catacombe di S. Michele Arcangelo.
V’è sotto la città di Palermo una città sotterranea, scavata nel tufo, nota agli antichi, ora inaccessibile; ed è formata di antiche catacombe cristiane. Un gruppo di esse si distende per tutta quella contrada che dall’antica chiesa di S. Michele Arcangelo va sotto la chiesa di Casa Professa fino a quella dei SS. Quaranta Martiri. Un altro gruppo si trova nel quartiere del Capo, presso S. Agata la Guilla, ed era il ritrovo di una setta famosa tra il cadere del secolo XVII e il principio del seguente: quella dei Beati Paoli.
Altre catacombe si trovano fra Porta S. Agata e l’antica Porta Mazara; altre fuori Porta d’Ossuna.
Queste ultime, scoperte, sono ancora visibili; le altre per ordini viceregi furono chiuse in varî tempi, e sono ora inaccessibili e ignorate.
Le catacombe di S. Michele Arcangelo furono delle più celebri nei secoli andati, giacchè al loro gruppo appartenne una grotta che si disse abitata da San Calogero, nella quale fu eretta una cappella, oggetto di venerazione da parte dei fedeli. Su di essa più tardi sorse la chiesa dei padri Gesuiti, Casa Professa, intitolata appunto a S. Maria della Grotta.
L’ombra che avvolgeva lo sfondo delle gallerie, i loculi scavati da ambo le parti, qualche scheletro che nella penombra mostrava le orbite vuote e spaventevoli, quegli uomini armati, quel brusìo che pareva lontano, quel sentirsi separata dalla vita, e trasportata in un mondo dove la morte pareva avesse la sua sede, tutto ciò circondava d’orrore l’anima della duchessa.
A un tratto risonò un fischio. Allora i due uomini mascherati, le ingiunsero:
- Alzatevi e venite.
Ma ella non poteva alzarsi: le sue gambe si rifiutavano. Fu necessario che quei due la sorreggessero per le ascelle. La condussero così fino alla rotonda, e svoltarono pel corridoio nel quale essa aveva scorto i riflessi di un lume. Si trovò di fronte ad una specie di areopago spaventevole.
Erano circa una ventina di uomini col volto coperto da una maschera, armati, seduti lungo le pareti, e intorno a un tavolo di pietra. Dietro a questo sedeva un uomo, giovane a giudicare dalla freschezza del mento e dalla vivacità dei gesti. Quattro fiaccole ficcate in buchi delle pareti illuminavano la scena.
Ritto dinanzi al tavolo con le mani legate dietro le reni stava un uomo, tremante, fra due mascherati.
A un cenno del giovane che pareva il capo, i due che conducevano la duchessa si fermarono; la duchessa vedeva soltanto le spalle dell’uomo dalle mani legate, ma ne udì tosto la voce e rabbrividì...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Pagine 856 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistata dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

venerdì 18 maggio 2018

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Grande romanzo storico siciliano ove si narrano le gesta di Guglielmo I e di Matteo Bonello


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.
Pubblicato unicamente dal Giornale di Sicilia a puntate nel 1911, è oggi in unico volume edito I Buoni Cugini editori.
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: Il giudizio di Dio. Tratto da: Gli ultimi saraceni.


Attraverso i capitoli e le consuetudini delle città, i capitoli o le Assise dei re di Sicilia, si può indagare in quali circostan­ze e in quali forme si consentisse di ricor­rere al giudizio di Dio; nè dispiacerà al lettore di farvi una scorsa rapidissima, per avere un criterio di ciò che si sarebbe svolto al cospetto della folla e del re. 
Quando, come si è detto, non v’eran altre prove per accertare la colpa di cui qualcuno era accusato, si ricorse dapprima al giuramento, dato in forma solenne dal presunto reo, e, in tempi forse in cui il giuramento era tenuto veramente sacro, bastava esso a purgare – come si diceva – il reo. Ma col tempo i giudici divennero un po' increduli, e pretesero che testimoni ossia compurgatori, condividessero col reo la responsabilità del giuramento; la qual cosa non fece che aumentare il numero degli spergiuri, senza far fare un passo in là alla giustizia... tal quale come avviene oggi nei processi criminali.
Allora si ricorse all'intervento soprannaturale. Dio non può permettere che chi è innocente soccomba. Egli dunque manifesterà il vero; sottoporre un presunto reo a una prova straordinaria, e dall'effetto, dal modo come è sostenuta, dedurne la manifestazione del giudizio di Dio, parve metodo sicuro e infallibile.
I giudizi di Dio furono di due specie: purgazioni e duelli. Le purgazioni consistevano nel subire una prova insensata e atroce, come quella dell'acqua bollente, quelle del ferro arroventato o dell’acqua ghiaccia, o del pane e cacio. Un documento curioso, riprodotto da monsignor Di Giovanni in un'opera De divinis siculorum offici e poi dal Gregorio, contiene il rito da seguire in queste prove di purgazione; alle quali non soltanto era sottoposto l’imputato, ma, potevan anche essere obbligati i testimoni. Il duello invece, era più adoperato fra' nobili, ma meno anche da borghesi; sia fra le due parti in causa, accusatore e accusato, sia fra l'uno dei due e un testimonio. La legge consentiva che uno o tutti e due i contendenti si facessero rappresentare da un campione. L’età dei combattenti o dei campioni, il giorno, il luogo, le armi, le forme, il rito del duello erano minutamente prescritti.
Le leggi nostre prescrivevano anche i casi in cui era ammesso il giudizio di Dio per duello; si possono desumere dalle consuetudini della città di Trapani. Erano i delitti di lesa maestà, gli attentati alla vita del re, la falsificazione della moneta, l’omicidio, il furto, la rapina, e in generale qualunque altro delitto che, secondo i riti ordinari della giustizia, avrebbe comportato la pena di morte o l’amputazione di qualche membro. 
Questa volta la curiosità e l’aspettazione dei cittadini di Palermo erano eccitate e legittimate dal fatto che accusatore era il Gaito Pietro, eunuco, camerario del re Guglielmo, e già Almirante della flotta siciliana all’impresa di Al Madhiah, malamente condotta tra il luglio e il settembre di quell’anno; l’accusato era un giovane cavaliere Orsello di Godrano, uno dei militi che avevan preso parte a quella campagna.


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 

Pubblicato unicamente dal Giornale di Sicilia a puntate nel 1911, è oggi in unico volume edito I Buoni Cugini editori. 

Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 


Luigi Natoli: Topografia della Galca al tempo di Guglielmo I. Tratto da: Gli ultimi saraceni


È necessario indugiarsi un poco, per la intelligenza degli avvenimenti su particolari topografici; giacchè difficilmente ci si può formare un’idea di quel che fosse la parte superiore della città di Palermo nel secolo XII, occupata oggi da Villa Bonanno, dallo stereobato del palazzo reale, dalle caserme, dalla Prefettura e dal Seminario Arcivescovile. Allora formava un quartiere distinto dal resto della città, e chiuso da mura, che da una parte dominavano la palude del Papireto, e girando dietro al castello regio, piegando a mezzodì, scendevano lungo il Kemonia, fino all’altezza della Caserma della Trinità o Distretto Militare, donde, piegando nuovamente in linea quasi retta, correvano fino al Papireto, passando dinanzi al Campanile del Duomo, che probabilmente era una delle torri che munivano queste mura. 
Il vasto recinto si chiamava con voce greca Galca: era sparso di chiese, percorso di strade, rallegrato di vigne e di giardini. Dalla Torre Pisana si partivano due stra­de, una percorreva presso a poco lo stesso asse della moderna via Vittorio Emanuele, e si chiamava As Simat, la fila, o latiniz­zando questo nome, la Semità del Cassaro. Tagliava in due dall'alto in basso la Galca, e, per una porta, si congiungeva al resto della Simat o ruga marmorea, che attraversava la città antica, in linea quasi letta, ed è oggi la via Vittorio Emanuele, l'altra strada percorreva invece la linea delle mura occi­dentali e settentrionali, passava dinanzi la chiesetta della Maddalena, ancor esistente dentro la Caserma dei carabinieri, la chiesa di S. Paolo, e scendeva giù, fino alla torre del Campanile del Duomo, passava dietro la cappella dell'Incoronazione, e finiva in una altra strada che si arrestava alla porta di S. Agata nel fiume del Papireto, o, arabicamente wadi, donde Guidda. Questa strada si chiamava Ruga magna Coperta, perchè era in fondo un lungo por­tico, murato da una parte, e illuminato da ampie finestre.
Due altre strade principali tagliavano la Semita, la ruga del Pissoto, o ruga Mag­giore che passava tra l'edificio dell'Aula regia e la chiesa di S. Costantino, (che an­cora sorvive presso a poco nell'antico sito), e si prolunga fra la caserma dei carabi­nieri e la caserma S. Giacomo ora Calatafimi; e la ruga di S. Nicolò dei Poveri, che costeggiava gli edifici romani, di cui si son trovate le vestigia, e passava tra la Prefet­tura e il Seminario arcivescovile, dove prendeva il nome di Ruga di S. Barbara. Questa strada, ora chiusa da un cancello, è ancora visibile.
Oltre gli edifici ricordati via via, e le chiese nominate, v'eran altre chiese nella Galca; v'era la chiesa di S. Maria dell'Itria, forse tra la Torre Rossa e S. Costantino; la chiesa di S. Maria la Mazara e quella di S. Giacomo, nell'area della caserma Calatafimi; la chiesa di S. Barbara Soprana, e più giù quella di S. Teodoro, con un o­spizio, e un bello e vasto viridario o giar­dino. Queste due chiese sparirono con la fabbrica del nuovo arcivescovato e del se­minario tridentino. Un'altra strada princi­pale, infine, quasi parallela alla Semita del Cassaro, correva lungo le mura meridio­nali; e poichè essa dominava il burrone del Kemonia, ed era, per così dire, una specie di lungo terrazzo o boulevard, prendeva nome di Sera, che in arabo significa ap­punto strada sulle mura o terrazzo o bou­levard. Questo Sera prendeva vari nomi, secondo gli edifici che costeggiava. Nella Galca, si chiamava Sera di S. Costantino. Oltre la Galca, correndo via per le antiche muraglie della città antica si chiamava successivamente Sera della Casa del Saraceno, Sera della porta di Sudan, Sera della casa del conte di Marsico, Sera delle case di Martorano.
Sbozzata così la topografia della Galca, riesce più facile immaginare dove e quanto fosse ampia la piazza nella quale si era raccolta la folla, per assistere alla pubblica decisione di una lite giuridica, per la qua­le, non essendovi altri elementi di prova, le due parti invocavano l'intervento della volontà divina, con una di quelle forme giudiziali in uso tra i franchi e introdotte dai principi normanni nella legislazione si­ciliana: il giudizio di Dio.


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.

Pubblicato unicamente dal Giornale di Sicilia a puntate nel 1911, è oggi in unico volume edito I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Il palazzo reale al tempo di Guglielmo I - Tratto da: Gli ultimi saraceni


- Il re! Il re!...
La piazza fremette, come un campo di spighe, quando vi passa un'ala di vento; le teste ondeggiarono, voltandosi, guar­dando su il loggiato del palazzo reale, sul cui parapetto di pietra leggiadramente in­tagliato era stato disteso un drappo di seta ricamato.
Il palazzo reale, o castello regio, o, come ancora si chiamava volgarmente, il Cassaro, offriva allora, dalla parte della città, un aspetto assai diverso da quello che gli diedero bestialmente i viceré spagnoli dal Secolo XVI in poi.
Nel 1159, sebbene dai due Ruggeri, il conte e il re, avesse subito  modificazioni tali da distinguervisi il Castello dal pa­lazzo, palatium, serbava nelle sue linee generali l'aspetto massiccio e formidabile di rocca. Aveva alle estremità due torri, una detta Pisana, ed è ancora in piedi, con le sue arcate, la sua torricella laterale – è quella stessa su cui si trova la Specola; l'altra, all'estremità opposta, dominando il burrone sotto il quale scorreva il fiumicello di Kemonia, detta Greca; ora scomparsa, ma pure non difficilmente riconoscibile. Fra l'una e l'altra torre si stendeva come una specie di cortina merlata, con portici, costruita o trasformata o rabellita da Rug­gero II, e si chiamava la Gioaria. Coloro che han veduto il sipario del teatro Mas­simo, dipinto dallo Sciuti, sapiente rico­struttore di ambienti, possono formarsi un'idea di quello che fosse il palazzo regio.
Nel 1159 il re, Guglielmo I faceva costruire un'altra torre, detta Chirimbi, la quale però non modificava il prospetto principale dell’edificio. 
Dinanzi al quale, presso a poco là dove è il monumento a Filippo V si levava altra torre, forse avanzo di fortificazioni romane, che dal colore dei mattoni, di cui era fab­bricata, era detta Torre Rossa. Sorgeva i­solata, presso le mura che partendo dalla torre Greca, correvano a levante, sul ciglio del burrone, signoreggiando la bassura, verdeggiante di orti e di vigne, fra cui scorreva il Kemonia o Cannizzaro. Poco discosto dalla Torre Rossa, di fronte alla Gioaria si levava allora un altro edificio, anch’esso circondato di portici, con un vasto cortile o recinto, lastricato: forse antica basilica o curia dei pretori di Roma, che il popolo chiamava volgarmente il Pissoto, e i dotti Aula regia, e più tardi, caduta in abbandono, ridotta cava di pietre e di colonne invasa dalle erbe, passò nelle memorie col nome di Sala Verde. Una parte di questo edificio si trova anch’essa ritratta nel sipario dello Sciuti, a sinistra dello spettatore.

Fra la Gioaria e il portico del Pissoto rimaneva uno spazio sufficiente, come una piazza di cui i due edifici formavano due lati; un altro, il meridionale era formato dalle mura; l’ultimo del tempio di S. Maria de Pietà, antico tempio romano o romaico, che durò intatto, finchè nel 1648, al cardinal Trivulzio non venne in capo di abbatterlo per dar luogo a un bastione da minacciare il popolo. (Che il diavol lo riposi pel doppio sacrilegio, cotesto barbaro settentrionale!)


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Pubblicato unicamente dal Giornale di Sicilia a puntate nel 1911, è oggi in unico volume edito I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

mercoledì 16 maggio 2018

Luigi Natoli: la duchessa di Falconara. Tratto da: Calvello il bastardo.




La mattina di quel giorno Dorotea, modestamente vestita, col lungo manto nero che le copriva quasi il volto era andata in piazza S. Anna nel palazzo Falconara, del quale invano oggi si cercherebbero le vestigia a causa dei tramutamenti edilizi che dal 1820 in poi hanno modificato e trasformato la pianta della città di Palermo. 
Mancava più di un’ora a mezzodì. Le strade erano affollate di gente; venditori ambulanti, che andavano gridando la loro roba, con voci cadenzate e talvolta con immagini così ardite, da non potersene cogliere subito il significato reale; uomini di negozio; servi in livrea con qualche schiavo appresso; carico di oggetti; commessi di mercanti; donne del volgo, le più agiate coperte col manto nero, secondo l’usanza, le più povere con un cencio sul capo; e in mezzo a tutta questa gente un serpeggiar di carrozze signorili, di tarioli, di portantine; qualche lettiga che si dondolava sui muli alla cadenza delle sonagliere, qualche carro dipinto vivacemente. Era il via vai affaccendato di una grande città piena di ricchezze e di miserie, in una bella mattinata di aprile.
Dorotea non pareva di avvedersi di tutto questo tumultuare di vita d’intorno a lei, aveva attraversato in fretta la Strada Nuova, la Discesa dei Giudici e la piazza di S. Anna la Misericordia; entrando difilata nel portone, s’era indirizzata al guardiaporta...

Ella rimase immobile nell’ampia sala, dalle pareti bianche, dal soffitto ornato di lievi stucchi rococò, in mezzo ai quali pompeggiavano le armi del casato, scudo azzurro, con sbarra d’oro e otto stelle, tra cannoni, bandiere e spade in rilievo bianco e oro. Intorno intorno, addossate alle pareti, sormontate dalle armi gentilizie; e sulle panche due portantini, sonnecchianti, con le gambe distese, il nicchio gallonato sulle ginocchia; i due lacchè e un “volante”. L’ozio pareva il nume titolare di quella sala.
La signora duchessa, stava nel suo abbigliatoio, seduta dinanzi allo specchio, avvolta in un ampio accappatoio di mussola bianca, sparso di fiorellini rosa. Di qua e di là due cameriere, reggevano dei vassoi d’argento carichi di boccette d’odori, vasetti di pomate, ferri, forcine, spazzole, armature di fil di ferro, riccioli finti; scatole di cipria, pennellini da dipingere ciglia e nei. Monsù, dietro alla signora, con le agili sapieni mani volgeva e svolgeva le chiome, prendendo dai vassoi quel che gli occorreva per costruire quella pettinatura, mirabile ma difficile edificio, che richiedeva un buon paio d’ore di lavoro. Intanto faceva la cronaca del giorno. Più in là, seduto sopra una elegante seggiola, con l’occhialetto in mano, il signor cavaliere Gallego, dei principi di Militello, onorato delle funzioni di cavalier servente della nobile dama. 

La duchessa di Falconara non era più giovane; i maldicenti che la conoscevano da un pezzo, assicuravano che essa avvicinavasi alla cinquantina. Ne aveva infatti quarantasette: ma ci voleva uno sforzo di immaginazione per riconoscere tanta maturità nel volto ancor fresco e roseo e nella vivacità dello sguardo e del gesto; tanto più che l’arte sapiente di Monsù sapeva cancellare le lievi ingiurie del tempo agli angoli degli occhi, e qualche capello bianco spariva sotto il niveo strato della cipria. 
Era bella, col suo piccolo naso lievemente curvo, gli occhi grandi, neri, acuti, un carattere di alterigia e di volontà nell’insieme del volto. Non ostante l’espressione di dolcezza e di tranquillità che ella cercava di dare al suo sorriso e al suo sguardo, segno di una intima soddisfazione, c’era talvolta in essi una durezza, o per lo meno una insensibilità, che faceva dubitare se quell’animo fosse capace di tenerezza o di compassione. 
La sua casa, del resto, rivelava il culto quasi esclusivo della persona; il lusso, la profusione, la inutilità di mille nonnulla indicavano la ricchezza, il gusto, il godimento estetico della dama. Un gusto e un godimento di raffinata, che delle dolcezze di una vita artificiosa ha fatto lo scopo della vita stessa. 
In quell’abbigliatoio, tappezzato di seta bianca, dai mobili di puro stile Luigi XV, profumato, tiepido, ella troneggiava tra il parrucchiere, dinanzi allo specchio, candida e rosea, con le labbra dipinte di carminio e il piccolo neo sulla guancia, avvolta nell’accappatoio, come in un pallio. 
Sedette mollemente in una soffice poltroncina dorata, prendendo in mano la poesia del Meli, con una studiata aria di noncuranza e di degnazione. Appena Dorotea, col mantello rovesciato su le spalle, entrò inchinandosi per baciarle la mano, la duchessa la guardò con curiosità, poi le domandò:
- Chi siete?
- Vostra eccellenza mi perdoni, – rispose Dorotea – ma credevo di trovarla sola; ciò che io debbo dirle non può nè deve essere udito da altri...
Disse queste parole con una certa fermezza, quasi con un mal celato tono di dispetto. La duchessa se ne stupì e guardò più curiosamente quella donna, così modestamente vestita, che osava parlarle in un modo che ella non era abituata a udire. 
Dorotea aveva una cinquantina d’anni, i capelli grigi, pettinati in trecce, come le donne del popolo; un volto comune e insignificante. Soltanto negli occhi v’era una espressione che ella pareva si sforzasse di nascondere, abbassando le palpebre. 
La duchessa guardò con intenzione il cavaliere, che si era alzato alle prime parole.

- Ebbene? – disse la duchessa quando rimasero sole.
- Mi chiamo Dorotea, – rispose la donna fissando in volto la nobile dama.
Corrugò le sopraciglia per ricordare; poi a un tratto un lieve rossore le si diffuse pel volto. Riprese freddamente:
- Dorotea?... Nient’altro?
- Poiché vostra eccellenza non ricorda il nome, è inutile aggiungere altro. Il cognome le sarebbe d’altronde sconosciuto del tutto… Infatti è passato tanto tempo…
- Spiegatevi meglio.
- Poiché me ne da licenza… Forse sarà necessario risalite a molti anni fa… Ventisei anni! Nella mia memoria sono passati come un giorno solo; ma per me è un’altra cosa… Ventisei anni addietro io abitavo in una casa di campagna, quasi sulla riva del fiume S. Leonardo, sulla strada di Termini. Era una di quelle case, che, secondo il bisogno, servono da osterie e da locande pei viaggiatori, sorpresi o dal temporale, o dalla sera, o dalla piena del fiume. 
La duchessa sentì un’onda di sangue salirle sul volto; ma non fece un gesto; appoggiò soltanto il capo a una mano volgendolo un po’, in modo da lasciarlo nell’ombra... Pareva sopraffatta da cupi pensieri; come se quel racconto la avesse risospinta indietro negli anni e avesse suscitato nell'anima sua dolorosi ricordi, da lungo tempo sopiti.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Pagine 851 - Prezzo di copertina € 25,00
Nell'unica versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913, completata dal quadro storico dell'epoca tratto da: Storia di Sicilia dello stesso autore. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 




Luigi Natoli: il segreto del cofano. Tratto da: Calvello il bastardo.


Dorotea si passò le mani sugli occhi, e sulla fronte, si guardò intorno, poi disse sottovoce a Corrado: 
- Fate uscire tutti…
Quando rimasero soli, da un sacchetto di reliquie benedetto che portava al collo, cavò una piccola chiave, mentre diceva: 
- Apri il… cassettone; c’è un cofanetto… prendilo… portalo qui. 
Corrado le portò un piccolo cofano di legno rozzamente intagliato, e ornato di piccole borchie di bronzo. 
- Ascoltatemi… - cominciò Dorotea; ma non continuò, fu presa da una nuova convulsione, e ricadde sul letto, stirò le braccia, rovesciò il capo con un lieve contorcimento della bocca. Il suo volto divenne livido. 
- Mamma! Mamma! – gridò disperatamente Corrado, abbracciandola. 
Ella tentò di parlare, accennando il cofano con la mano che teneva la chiavetta…
- Volete che apra? – domandò Corrado. 
Accennò di sì. Egli aperse con mano tremante; v’era una borsetta di seta con uno stemma ricamato a colori, e delle carte. Prese la borsa, la sollevò e disse: 
- Questa?
Un sibilo uscì di fra’ denti serrati di Dorotea, che Corrado interpretò per un
- Ebbene? – domandò con ansia, non sapendo spiegarsi quel mistero.
Parve che Dorotea raccogliesse tutte le sue forze, in un atto supremo di volontà; i muscoli del suo volto si contrassero, i suoi occhi si spalancarono, disse con uno sforzo: 
- Tuo padre! – e ricadde indietro, senza vita, con gli occhi chiusi, la bocca serrata. 
Corrado sentì un fremito per tutto il sangue e i capelli drizzarglisi sul capo. Suo padre? Chi? E quella borsa stemmata? Era la prima volta che sua madre pronunciava quel nome: aveva sempre detto “mio marito” parlando dello scrivano: ora, in quel momento supremo, accennando a quel cimelio, ella evocava il “padre”. 
- Mamma! Mamma!... spiegatevi, una parola… – urlò.  
Invano. Sentì che quelle mani diventavan di ghiaccio, che il respiro si faceva più lento; vide il volto farsi ancora più livido, umido di sudore, e le labbra violacee. Lo spavento gli corse nel sangue; si levò, guardò Dorotea, gridò ancora: 
- Mamma!... una parola!... Mamma… Essa muore!... Agata!... Agata!...
Accorse la fanciulla e la zia Orsola; la quale, non sì tosto guardò in volto Dorotea, comprese, mormorò: 
- Requiem Aeternam! Gesù, Giuseppe e Maria vi raccomando l’anima mia!...
- Morta! Morta!... – gridò Corrado, cadendo in ginocchio e coprendosi il volto con le mani. 
Agata ai piedi del letto singhiozzava. Poco dopo venne il frate-medico, mandato dall’aromatario. Prese la lampada e la sollevò illuminando il volto di Dorotea sul quale la rigidità cadaverica aveva composto la sua maschera immobile e raccapricciante. Il frate esaminò attentamente, corrugando le sopraciglia:
- Strano! – disse fra sé. 
Corrado si era levato in piedi e spiava con ansia il volto del frate. Il quale… visto che come medico non aveva nulla a fare, si limitò all’ufficio di frate, e levata la mano in alto, pronunciò solennemente la formola dell’assoluzione in articulo mortis
- O madre mia! Madre mia! – gemeva Corrado. 
Il frate gli pose una mano su la spalla: 
- Coraggio! – gli disse – Dio ha voluto così… Però… Ditemi un po’, aveva delle inimicizie vostra madre?...
- Inimicizie? Perché?...
- Perché… potrei ingannarmi, ma al vederla in volto, si direbbe che è morta avvelenata...

La sventura era piombata improvvisa, terribile, misteriosa. 
Di là la sua mamma morta, di qua quel cofano e quella borsa dei quali non osava indagare il segreto. 
Aperse il cofano, per deporvi la borsetta stemmata; ma le sue mani toccarono un piccolo piego. Tremando, lo trasse, e lo spiegò: erano due foglioline di carta ingiallita dal tempo. Qualcosa, come il fremito di un sospetto, gli passò per la mente.
Lesse. Il primo diceva: “1766 addì 4 di questo mese di giugno, è morta e fue sepelita in questa madre eclesia Marina figlia picciola di m. sei, di Leonardo Sunzeri e di Dorotea Maravigna jugales”.
Una bambina! Aveva dunque avuta una sorella? Uno stupore profondo si dipinse sul suo volto. Una sorella? E quel Leonardo Sunzeri, appariva il marito di sua madre; invece dello scrivano Maurici? Svolse la seconda carta e lesse: “1766 addì di questo marzo fu baptizzato in questa madre chiesa thermitana un figliolu, cui nomen Corradus, ignorontum parentium, e il compare fu d. Leonardo Sunzeri e la domare d. Dorotea sua leggittima mogle”.
Il foglio gli cadde dalle mani! Ignoti? Egli era figlio di ignoti? E colei che egli aveva adorato come una madre, non era dunque la mamma sua? E l’aveva amato così? Egli era stato un estraneo in quella casa, della quale pur era il vero e unico signore, circondato di cure, di affetti, di tutte le finezze, di cui quella povera donna era stata capace! E mai, mai il mistero della sua nascita oscura era trapelato; mai una parola, un’allusione, avevano tradito quella donna. E chi era dunque quello scrivano passato come un’ombra attraverso la sua prima infanzia se il marito di colei che aveva amato e piangeva come una madre si chiamava Sunzeri? Stupefatto, stretto da un’ambascia ansiosa, col cervello sconvolto da quell’inattesa rivelazione si sentì come perduto in un mare tenebroso. Cominciò a interrogare i suoi più lontani ricordi tormentando la sua memoria per trovare un qualche lampo, torturandosi per trovare un legame in tutte quelle scoperte, che gli tumultuavano nel cervello. Gli pareva di impazzire. Si alzò, aprì l’uscio, guardò la morta, seduta sul seggiolone, immobile, impenetrabile, fra le torce accese. Ah la buona e santa donna, che lo aveva sottratto all’abbandono! Ella era discesa nella tomba col suo segreto, quando appunto stava per rivelarglielo. Sentì gli occhi empirsi di lagrime. Poi a un tratto rabbrividì. Gli tornarono alla mente le parole del frate: “avvelenata” e poi le altre “tuo padre” e quella borsa, unico raggio di luce in tanta oscurità; ma qual luce!... E se quella morte fosse stata una vendetta?... o una soppressione? E la morta gli apparve improvvisamente come una martire...

Scudo d'argento, con sbarra traversata all'angolo e squadra nera col vertice sopra... È 1'arme dei Calvello....
- Dei Calvello?
- Nobiltà di prim'ordine. Andrea Calvello coronò re Ruggero II, da allora in poi i Calvello acquistarono il diritto di portar sul cuscino la corona regale nelle solennità delle coronazioni. Non lo sapete?
- Calvello !... – ripetè Corrado sbalordito.
- Sono duchi di Melia e baroni dell'Arenella. Oggi rappresenta la casa don Goffredo Calvello e Eschero, che ha per moglie donna Laura Castello e Giglio. Il loro palazzo è alla Gancia... Un gran signore. Don Antonio, suo primogenito e futuro erede, sposò donna Rosa Caracciolo di Napoli...
Ma Corrado non udiva; dentro di sè ripeteva quel nome con uno sgomento del quale non sapeva darsi ragione.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Nell'unica versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
Pagine 851 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it