giovedì 30 aprile 2020

Luigi Natoli: La piazza Marina nel 1401. Tratto da: Il paggio della regina Bianca


La vasta piazza Marina in Palermo era quasi deserta in quell’ora mattutina del mese di maggio del 1401; e l’ampia mole dello Steri vi proiettava un’ombra lunga e trasparente. 
In quel tempo, la piazza Marina era assai più vasta di quel che è oggi, e serbava ancora le tracce di seno di mare prosciugato. Il porto, ridotto ora alla Cala, era più profondo; le acque del mare si spingevano su un tratto della odierna via Porto Salvo, lambendo quasi il muro del palazzo delle Finanze e un tratto della piazza della Fonderia. 
Più di due secoli prima bagnavano la scogliera sotto la torre di Baych, o di porta di Mare, che si apriva dietro la parrocchia di S. Antonio; poi, ritraendosi, o respinte da disseccamenti artificiali, avevan lasciato asciutto un lungo tratto, sul quale già sorgevano case e correvano nuove strade. Il Cassaro, o via Marmorea – come si chiamava ufficialmente, – si arrestava però alla porta di Mare, che era rimasta, intatta fra le due torri di guardia, come erano rimaste tuttavia in piedi le mura della antichissima città, sebbene oramai inutili. 
La piazza Marina, così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta.
Le altre case intorno eran piccole dimore, frammezzate da orti e giardini, tra i quali, dalla parte opposta allo Steri, sorgeva nella sua bella architettura ogiva la chiesa di S. Francesco dei Chiovari e accanto a essa si innalzava bruna, massiccia , fiera nei suoi merli, con finestrette simili a feritoie, la torre di Maniace o volgarmente di Manau.
Fra quelle case v’era qualche taverna, sulla cui porta una fronda di alloro rinsecchita serviva d’insegna.
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Un giovinetto s’era fermato con un senso di meraviglia e una certa commozione in mezzo alla piazza, guardando il palazzo chiaramontano.
Poteva avere sedici o diciassette anni, e vestiva poveramente; il suo farsetto aveva qualche strappo ai gomiti, e le sue calze erano sdrucite. La tasca che portava appesa con una cordicella, rivelava la rotondità di un pane. Le sue scarpe erano rotte e impolverate, come di chi viene da lungo viaggio. Aveva in mano un grosso bastone, e infilato alla cintura un pugnale con la guaina di cuoio.
Non era bello: il suo volto aveva qualcosa di irregolare, ma nell’insieme era piacevole ed espressivo. V’era un non so che di fiero e di malinconico a un tempo, ma una malinconia silenziosa e pacata; e gli occhi grandi, neri, acuti, mobili, investigatori, contrastavano col color dei capelli tra biondi e castani.
Doveva esser bianco di carnagione, e si vedeva dalla sommità della fronte, quando con un gesto che pareva volesse scacciar qualche torbido pensiero, egli sollevava il berretto e scostava i capelli. Ma il sole aveva abbronzato il suo volto e le sue mani.
Sebbene poveramente vestito e sporco di polvere il suo aspetto aveva qualche cosa di fine e delicato, che non sfuggiva neppure a uno sguardo superficiale e distratto.
Egli stette un poco fermo in mezzo alla piazza, guardando lo Steri; poi volse gli occhi intorno a sé, come uno che voglia riconoscere qualche cosa o qualche luogo: accortosi di una taverna a pochi passi dallo Steri, vi si avvicinò, e sedette sopra una panchetta di legno, accanto alla porta.
Aveva fame; tirò la saccoccia dinanzi a sé, e ne trasse un pane da contadini, tondo e bruno, che addentò vigorosamente.



Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, quando era appena tramontata l'epoca chiaramontana.
Riproduzione fedele dell'opera originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Pagine 700 - prezzo di copertina € 23,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione a mezzo corriere)
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile in libreria.

Luigi Natoli: Palermo nel 1401. Tratto da Il Paggio della regina Bianca


Palermo offriva in quei tempi uno spettacolo curioso e singolare.
La sua pianta si era via via allargata fin dal tempo dei Romani; una città nuova era sorta oltre il letto del fiume il Maltempo; le cui sponde superiori, per esser piantate a “cimino(2)” fecero dare grecamente il nome di Kèmonia, alla parte alta dell’Albergheria. 
Il letto di questo fiumicello, che il Senato avea deviato da qualche tempo, per evitare le frequenti inondazioni, è riconoscibile nell’attuale via Castro. 
Nel 1401 esso, d’inverno, correva ancora nel suo letto, e scendendo per le odierne vie di Casa Professa e dei Calderai, piegando per la contrada dei Tornieri, si univa al fiumetto della Conceria, e scendeva nel mare. 
Di là da questo fiume era dunque sorta una città più vasta dell’antica, dovuta all’opera di espansione e di adattamento dei vari dominatori. 
I Romani vi fabbricarono quasi tutta quella parte che oggi forma il mandamento Palazzo Reale; i Bisantini vi aggiunsero altre contrade, più in giù, che giungevano fin presso S. Francesco d’Assisi; gli ebrei vi costruirono le loro case e la Sinagoga, tra la moderna piazza del Ponticello e la contrada dei Calderai; gli Arabi vi edificarono una vera città, chiusa da mura, dove aveva sede il governo e serbavano il tesoro, e la chiamarono Kalesa, l’Eletta, nome che ancor serba, sincopato in Kalsa, o secondo la pronuncia palermitana hausa. 
Queste nuove contrade col tempo si erano confuse; nel secolo XV i loro confini si erano cancellati, e solo era visibile qualche pezzo di muro o quale torre dalla Kalesa. Esternamente erano difese da una muraglia comune, che girava da occidente a mezzogiorno e piegava a oriente, sul mare; nella quale si aprivano alcune porte, due delle quali, sopravvissute al naufragio di tante altre cose e ai rinnovamenti edilizi, rimangono ancora, coi loro nomi antichi, ruderi gloriosi del passato: porta Mazzara (el Mahassaar) e porta S. Agata: di altre, come la porta delle Terme e quella dei Greci, rimane il nome. Delle muraglie qualche frammento è ancora visibile fra le case che vi si addossano, nei pressi dell’Ospedale Civico, e dietro la Caserma dei Carabinieri. 
Dalla parte opposta, dall’altro lato dell’antica città si apriva una vasta palude, detta di Buonriposo, che per esser piena di papiri diede il nome di Papireto alla contrada. Essa un tempo si estendeva, costeggiando le mura settentrionali della città antica, e occupando l’area delle odierne piazze del Monte di Pietà, di S. Onofrio e dei mercati; ma a poco a poco s’era disseccata. 
Nel secolo XV la palude s’era ristretta alla parte più alta, giungendo appena a S. Cosmo: stagnante spesso e miasmatica. Un emissario, che era il fiumetto o fiume della Conceria, la metteva in comunicazione col mare, e di là da questa palude eran sorti dal tempo degli Arabi altri borghi, che formavano un’altra città transpapiretana; e forse perché vi aveva avuto sede un cadi, dal nome composto di Sera-al-cadi, Seralcadi, era venuto il nome al quartiere, di Seralcadio, poi Civilcari; la cui parte superiore il popolo chiamò Capo. 
Anche oggi, il visitatore curioso può riconoscere tanto l’antico letto del Maltempo o fiume di Kemonia, quanto quello della palude Papireta, nei due avvallamenti o parti più basse da via Castro a Lattarini a destra, dal Papireto alla piazza Caracciolo a sinistra, che lasciano anche oggi in mezzo più elevata, tutta la parte centrale della città fino a S. Antonio. Questa parrocchia, come si può vedere, resta infatti più alta dell’attuale livello del corso Vittorio Emanuele e della nuova via Roma: e più alte rimangono a sinistra le vie del Celso e delle Vergini, che sovrastano a quelle dei Candelai e alla piazza Nuova; e a destra le vie Biscottai e S.Chiara, e le chiese di S. Cataldo e della Martorana, che sovrastano alla via Castro, alla rua Formaggi, alla piazza del Ponticello e alla via dei Calderai. 
L’antichissima Palermo era appunto questa parte centrale più alta, sovrastante alle altre or accennate. Essa era cinta di mura e di torri, che l’allargarsi successivo della città non distrusse. 
Nel 1401, come abbiamo detto, queste mura e queste torri esistevano ancora, con le antiche porte; l’ultima delle quali sparve nel 1588, quando si costruì il convento dei frati Benefratelli. Formavano dunque una città murata dentro la città.

Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, quando era appena tramontata l'epoca chiaramontana. 
Riproduzione dell'opera originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Pagine 700 - prezzo di copertina € 23,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione a mezzo corriere)
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile in libreria.

lunedì 27 aprile 2020

Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli. Indice dell'opera.

La Città
Come era - I baluardi - Il palazzo Reale - Il palazzo del Comune - Bonifiche e nuove vie  - Fontane, statue, chiese, palazzi - Le ville   

Il Governo
I Vicerè - Parlamento e Deputazione - Conflitti per nulla - Disagi e rimedi - I segretari - “Humanum est...”   

Il Comune
Come era costituita l’amministrazione - Il Senato e i Vicerè - Tribolazioni - Liti con le città - La Tavola     

La Popolazione
Quanti eravamo - Gli esposti, i cani, i maiali et reliqui - I Capicento - I Ceti - Qualche fatto - Una storia romantica - "Vanitas vanitatum” - I mercanti     

Il Sant’Offizio
Come entrò e quali preminenze ebbe - Brighe e contese - Casi tipici - Il Luteranesimo - Ottantasei luterani processati in dieci anni - Per tutta la Sicilia - Come si condannava   

Il Clero e le Confraternite
Sedici arcivescovi in due secoli - Dieci centesimi per una messa - Brighe fra loro - Due altri preti e le suore - Santi e processioni - Litigi - Manifestazioni di penitenza -  Miracoli, superstizioni, pregiudizi  

Nel tempo di temi
Quanti fori!  - Ad arbitrio  - Bruto Secondo - Notari      

Le Maestranze
Le Corporazioni d’arte e mestieri  - I “cilii” - Quaranta maestranze  

Fierezza di popolo 
Prima sedes, corona Regis et Regni Caput - La serie delle sommosse - Addosso allo spagnolo - La fiera rissa di Porta d’Ossuna  - Contro la nobiltà   

Armi ed Armati
Ordinamenti militari   - A Palermo  -  L’Accademia dell’armi  - Il Valore Siciliano - L'armata  - I Siciliani a Lepanto   

Scuole e maestri
Come si studiava  - La lingua thosca e le Accademie - Studi e invenzioni - Artisti e scienziati  - Una incoronazione 

Stampa e stampatori. Gli avvisi
La stampa -  Gli autori - Avvisi      

In casa e fuori
I figli - Il dovere del cittadino - Il sesto comandamento - Il fidanzamento - Le doti - Matrimoni spettacolosi - Quelle altre - Le spese di casa - Il ventre di Palermo - Beati stomachi!    

Vita fastosa
Come s’andava ai ricevimenti - Il vestire  - Le prammatiche contro il lusso - Ancora lusso - Gli schiavi - I mortori     

Pietà cittadina
Ospedali e Compagnie - Altre istituzioni pie - I fanciulli dispersi - Disgrazie - La peste - Altri disastri    

Il teatro e le feste carnevalesche
Il teatro - Gli intermedi  - Il melodramma - Il Carnevale e le maschere - Altri spettacoli - Le corse     

Divertimenti cavallereschi
Le giostre - I premi della giostra - Botte da orbi - Seicentismi o esagerazioni 

Giostre spettacolose
La caccia in piazza Marina - La liberazione di Cupido - Altre giostre

Sacco nero
Banditi e “stradari” -  Bande famose - Un quadro eloquente - Misfatti e vendette - Duelli - Condanne 

Luci ed ombre di due secoli   

Bibliografia     

Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli
Pubblicato oggi dalla fedele trascrizione dell'inedito (purtroppo senza data) ricostruito ad opera de I Buoni Cugini editori.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica


Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli (1500-1700)

Pagine 283 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno

Pubblicata oggi per la prima volta e fedelmente ricostruita e copiata dal manoscritto originale dell’autore, purtroppo privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche più frivoli. Un’opera che fa sentire ancora viva la voce di questo scrittore che tanto amò e diede alla sua bella Palermo. 

"Dunque mettiamo punto, che può bastare: quello che ho scritto è abbastanza per mostrare come si svolgeva la vita in tutte le sue manifestazioni in quel tempo del dominio spagnolo. Dal 1500 al 1700 incominciò e finì la dinastia di casa d’Austria; e furono due secoli nei quali si alternano splendori e miserie, luci ed ombre. L’ombre è nel fosco delitto e nel castigo più crudele che lo segue; la luce è nella carità che apre un fiore sul delitto, e col pentimento redime uno spirito: l’ombre è nell’esosa avarizia che prostra con l’usura il misero; la luce è nel provvedere a mitigar la miseria: l’ombre è nei figli abbandonati, negli orfani che andrebbero ad aumentare il numero dei candidati al patibolo, delle fanciullette che il vizio avrebbe travolte, nelle traviate stesse; la luce è aprire ricoveri, rifugi ai derelitti, reclusori dove nella onestà e nella religione gli spiriti trovino pace. I nobili rubano, ammazzano, commettono ogni eccesso, ma nel tempo stesso si uniscono per promuovere civili istituzioni in soccorso del popolo, e dappertutto essi, quasi ad espiare la loro ricchezza e la loro potenza, si moltiplicano ad amministrare le istituzioni stesse delle quali costituiscono gli averi. La luce è nello spirito della religione, l’ombre è nella pratica della vita che ondeggia tra le più insane superstizioni e le spettacolose e ridicole penitenze; la luce è nella fierezza del popolo, pronto a impugnare le armi in difesa del Regno, contro i cavalieri, il Senato, il Vicerè, quando patisce un’ingiuria e per domandare dei diritti; la luce è quando si commove dinanzi all’esempio della bontà, della rigida onestà di chi amministra; si commove e si impietosisce di chi è caduto in miseria ed è punito, sia pure scellerato; si esalta a ogni azione generosa, e nei suoi canti esalta la virtù dell’onore, del coraggio, della magnanimità, della nobiltà d’animo, della giustizia."

Luigi Natoli

Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.

venerdì 24 aprile 2020

Luigi Natoli: Don Agostino Caracciolo e don Gaetano La Paglia. Tratto da: La vecchia dell'aceto


Il primo era don Agostino Caracciolo. Dal don e dal vestiario si riconosceva che era del ceto di quei piccoli impiegati, copisti o portieri negli uffici, scrivanelli o faccendieri che facevano da sensali presso i “paglietti”, cioè procuratori e avvocati di scarto, e qualche volta si adattavano anche a insegnare la Santa Croce ai ragazzi del popolo, a un grano al giorno. Era un uomo sui trent’anni, bruno di carnagione, di capelli nero, gli occhi impiccioliti dall’abitudine di tenerli socchiusi, come per raccogliere l’acutezza dello sguardo; una riga profonda tra le due sopracciglia corrugate; una espressione di sprezzo per gli altri e di coscienza del proprio valore; l’aria dell’uomo che sa il fatto suo, che “si fida”, che non indietreggia dinanzi ad un coltello, e sa impugnarne uno con tutte le regole dell’arte. Nel tono del saluto si sentiva l’abitudine di “masticare le parole”; nella camminatura, l’uomo che sa di imporre rispetto. Don Agostino Caracciolo non esercitava una professione fissa: si adattava a quelle che gli capitavano nelle mani, tanto per aver l’apparenza di vivere del suo lavoro. Da alcuni anni faceva il “razionale dei bottegai”; era, cioè, il contabile o ragioniere, che teneva i conti dei fruttaiuoli.

Don Gaetano La Paglia, poteva avere qualche anno di più; era anche lui bruno; e all’aspetto, al vestire, al gesto, all’andatura si vedeva subito che era dello stesso ceto, e della stessa specie. Egli esercitava la professione di scrivano pubblico nel piano della Correria che l’anno prima era stata trasportata nelle case di S. Cataldo, di fronte alla porta meridionale del palazzo del Senato, cioè Municipale. Allora il palazzo aveva quattro porte, una per lato; di esse due in tempi vicini furono chiuse. Anticamente il prospetto principale era dalla parte dell’odierna piazza Bellini; e qui era naturalmente la porta principale, fino a tutto il secolo XVI; quando allargato dalla parte della fontana, e fatto un nuovo prospetto, vi si fece il nuovo portone e si mutò l’aspetto del palazzo. La Correria, o Posta, dunque era di fronte all’antica facciata principale, in alcune case addossate alla chiesetta normanna di San Cataldo, che vi rimaneva sepolta, e serviva di magazzino, e tale rimase finché trasportati altrove gli uffici, il prezioso monumento non rivide la luce. Allora agli ufficî si accedeva per due scalette esterne, la seconda delle quali metteva in un portico, sotto cui erano le finestre per la distribuzione. Giù nel piano, lungo il muro di questa seconda scala erano schierati i tavolini dei pubblici scrivani. Quello di don Gaetano guardava le due statue marmoree che si trovavano all’angolo del palazzo municipale di fronte alla Martorana. Quelle due statue dell’epoca romana rappresentavano un magistrato e la moglie, ed erano prima dinanzi alla chiesa di San Francesco; donde nel 1563, erano state portate su quel canto, e ivi stettero fino al 1823, quando furono tolte e poste nell’atrio del palazzo.

Quattro volte la settimana egli collocava il suo tavolino, protetto da un ombrellone; e aspettava i clienti; non molti in verità. Erano i giorni della spedizione dei corrieri, lunedì e giovedì, e della distribuzione delle corrispondenze, martedì e sabato; chi aveva da spedire lettere o chi voleva farsele leggere ricorreva all’opera dello scrivano; il quale avrebbe fatto assai magri affari, se, oltre alle lettere non si prestava a scrivere suppliche ed istanze, e a copiare carte e a vendere penne d’oca, carta e ostie per incollare le lettere.
Certamente questi proventi bastavano appena per non far morire di fame un uomo senza bisogni; ma don Gaetano aveva famiglia, e non era un uomo da contentarsi di pan solo. Aveva altre fonti, alle quali attingeva per vivere con una certa agiatezza secondo il suo stato. Qualcuno se ne meravigliava, sebbene per soggezione, non osasse esprimere dinanzi a lui la sua meraviglia.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del '700. La storia di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica

La "festa della Catagogia". Tratto da: Gli schiavi


Quando giunsero a Erice, poco lontano dal tempio, la città era rumoreggiante per la prossima festa. Era detta “catagogia”, come “anagogia” era chiamata la partenza della Dea. Nella “catagogia” si celebrava il ritorno alla sua sede, lasciata per breve tempo, ma che pareva lungo, quasi la Dea volesse abbandonare Erice. In ogni casa erano festoni di mirto e di rose, e ardeva dinanzi ad una piccola immagine di Afrodite il fuoco, dentro un’ara portatile o un tripode. Chi poteva, spingeva al tempio capre o pecore per il sacrificio; portava in canestri le colombe o i frutti che la stagione dava; e per tutto era un affrettarsi di cittadini e di schiavi, un andare e venire, un tramestìo, un cicaleccio da non si dire. E attorno soldati, che raccomandavano l’ordine, senza poterlo ottenere. 
Cleone aveva condotto con sé dieci schiavi e cinque ancelle, e aveva ordinato al suo navarca che con un numero di marinai libici si unisse con lui nel pellegrinaggio. I soldati, schierati lungo la via del Tempio, mormoravano parole piccanti alle donne; e alle belle raccomandavano ridendo di rinchiudersi tra le jerodule. E il cammino procedeva tra una fioritura di motti grassi e scurrili e di risate. 
Il tempio sorgeva su una sommità isolata, e vi si giungeva mediante un ponte steso fra le due cime, che pareva si contendessero il primato. Era in un recinto di mura, e la porta ne era guardata da parecchi soldati. Dietro di questa si allargava una vasta spianata, ad una estremità della quale sorgeva il tempio. Non era magnifico, e nella costruzione dimostrava il carattere arcaico; scoperto, ma tutto di marmi preziosi e bronzi dorati, oro ed argento a profusione. V’erano candelabri ricchissimi, doni offerti, “ex voto”, stoffe rare, statue e oltre l’ara, sopra un altare, l’immagine della Dea, non quale si vede effigiata dallo scalpello greco, ma di forme arcaiche, rigide, con un volto che incuteva spavento per la sua immobilità ieratica, coperta di vesti e di monili preziosi. 
Le jerodule cantavano un inno, e i sacerdoti sacrificavano. Non vittime umane, come quando Erice cadde sotto i Cartaginesi, ma pecore, capre ed altri animali, coronati di rose. 
Cleone ed Egle erano da poco arrivati innanzi al tempio, quando s’intese un grido: 
- Vengono! Vengono!
Un movimento febbrile commosse la folla: tutti gli occhi mirarono con ansia un gruppo che apparve volando nell’estremo orizzonte, e che s’ingrandiva via via che s’avvicinava. Erano le colombe. Allora da mille e mille bocche si levò un canto di ringraziamento: le jerodule, i sacerdoti, unirono il loro inno; tutto il monte parve animarsi, fumare e cantare; e su quel canto svolazzarono le colombe, si posavano sulle cornici, sulle scannellature, sul frontone del tempio; alcune seguendo la colomba rossa, immagine della Dea, penetrarono nel sacrario spaventate dall’immenso clamore.
Egle aveva tolto il bambino dalle braccia della nutrice, e lo alzava verso la porta del tempio, quando ad un tratto impallidì…


Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato nel 103 a.C. al tempo della seconda guerra servile. Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1936.
Pagine 195 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Spedizione a mezzo corriere)
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica

giovedì 23 aprile 2020

Luigi Natoli: Il nobile Cleone. Tratto da: Gli schiavi


La nave era uscita dal porto di Catana(1) con un bel sole caldo di maggio. Era una bireme; ma sembrava fatta per diporto di una persona nobile e lussuosa. In proporzioni ridotte, in parte pareva aver tolto a modello la nave che Gerone(2) mandò in Egitto. Non v’erano certamente, come in quella l’Afrodisio, e l’agora ed i giardini; le torri erano due, e la stiva conteneva appena trentamila staia di frumento. Ma nel tutto era agiata. V’erano quattro stanze e una saletta da pranzo, col pavimento a mosaico, la biblioteca, con un letto da starvi comodamente per leggere; e sopracoperta, l’agora, che da un lato aveva un portico e un giardino, se tale poteva dirsi una fila di vasi, su cui spandevano l’ombra alberelli odorosi. 
I rematori sedevano in duplice ordine, sotto l’occhio vigile dell’esortatore armato di un bastone, minaccia alle spalle di chi, stanco, lentava un istante di tuffare il remo; ma per il momento ciò non sembrava necessario, perché tutti remavano di buona voglia. 
La nave era diretta per Drepano (3). Il nobile Cleone, centuripino, con la moglie Egle e il figlio Elio, si recava a Erice, per sciogliere un voto a Venere Ericina. Cleone era ricco e splendido; la conquista della Sicilia da parte di Roma l’aveva fatto ancora più ricco, dandogli agio di acquistare nuove terre di quelle tolte ai vinti o sottratte dal fisco ai possessori morosi. In tutta Centuripe(4) non c’era uno che non lo conoscesse; l’agora, o piazza pubblica, come ancora si chiamava il foro nelle città greche o ellenizzate, risonava del suo nome. Egli vi si recava circondato e seguito da clienti, alla maniera dei Romani; ed erano moltissimi, chè la fama dell’illustre patrono ne attirava a decantarne con enfasi la liberalità, la giustizia, l’umanità e le altre virtù. E chi non conosceva direttamente Cleone, lo vedeva ingigantito dalla cortigianeria di costoro. 
La nave era sua: la teneva nel porto di Catana, dove egli si recava quando occorreva recarsi a Messana(5) o a Siracusa o a Lilibeo(6), e talvolta anche a Panormo (7). Quando egli non se ne serviva, il suo navarca faceva il commercio dei grani o dei vini e dell’olio per conto di Cleone. 
Questa volta, dovendo imbarcare donne, il navarca aveva ordinato grandi pulizie: aveva caricato le piante più odorifere, aveva preparato gli appartamenti di Egle, messo in ordine il bagno, con la sua doppia vasca di marmo pel calidario, e il frigidario; aveva ripulito il triclinio(8), stropicciato i marmi, strofinato i bronzi, reso più lucenti le dorature; e la nave sembrava rinnovata, più gaia, più festosa. Il viaggio importava una lunga navigazione: Erice era all’altra estremità della Sicilia, e col buon tempo sarebbe durato due giorni.
Egle, sposata a Cleone da cinque anni, non era stata feconda; e Cleone, dopo aver desiderato invano per cinque anni un figlio, nonostante l’affetto che sentiva per Egle, pensava già a divorziarne, quando ella gli confidò che aveva avuto un sogno, di cui voleva la spiegazione dagli indovini galeoti, che ancora esistevano nella città dell’antica dea Iblea. Essi, che erano di origine sicula, godevano una famosa nomea di felici interpreti dei sogni e di profeti. Se il loro nome ricorda quello dei pescespada, come vogliono i critici moderni, gli antichi lo facevano derivare invece da Galeote, figlio di Apollo: e attribuivano ad essi le facoltà divinatorie, delle quali ebbero prova Dionisio e Gelone. Probabilmente essi se la cavavano con responsi di interpretazione ambigua come quell’Ibis et redibis non(9), famoso nelle scuole.  


Luigi Natoli: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato nel 103 a.C. al tempo della seconda guerra servile. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1936.
Pagine 195 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica 

Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano.


Restituiamo con orgoglio alla collettività Gli schiavi, uno dei romanzi più belli e completi nati dalla penna di Luigi Natoli. 
Un’opera della quale lo scrittore andava fiero e che considerava fra le sue migliori, che riporta il lettore alla vita in Sicilia del 103 a.C. al tempo della dominazione romana, descrivendo in modo perfetto il modo di vivere, di parlare, le feste, i pranzi, le guerre, i funerali; ma soprattutto fa rivivere quelle che furono le guerre servili in Sicilia, dove Gli Schiavi si ribellarono al governo romano per la loro libertà, con a capo personaggi come il re Trifone e il condottiero Atenione.
Voglia perdonare l’appassionato lettore, la farcitura di note fatte al testo da parte dell’editore e contrassegnate dalla sigla n.d.e., anche per distinguerle da quelle già numerose di Luigi Natoli, ma è parso necessario operare in tal senso per far risaltare la cultura e il genio creativo dello scrittore, dato che le vicende dei suoi eroi sono sempre ricostruite con tale ricchezza di particolari, di nomi, di toponomastica, di versi, di costumi e quant’altro da lasciare a bocca aperta il lettore e arricchire di conoscenze anche lo studioso. Ricostruzioni incredibili e impensabili per un’epoca priva di internet, dove ancora si scriveva con la penna d’oca e il calamaio, che ci riportano alla dominazione romana e a quel modo di vivere, di parlare, di vestirsi, di mangiare. Anche e proprio per questo è impossibile non amare le sue storie che tra finzione e realtà sono narrate con una naturalezza ineguagliabile.
Si è anche provveduto a valorizzare il volume con  la descrizione del periodo storico in questione trascrivendolo fedelmente da  Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo sempre dello stesso Luigi Natoli (anno 1935). 

Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato nel 103 a.C., al tempo della dominazione romana e delle guerre servili.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1936
Pagine 195 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica 

mercoledì 22 aprile 2020

Luigi Natoli: Il gioco d'azzardo a Palermo nel Settecento. Tratto da: Calvello il bastardo


La passione del giuoco era divenuta in Palermo tanto grande, che i fabbricanti di carte erano divenuti numerosi così da poter formare una corporazione autonoma, e da allettare il fisco che, nel 1775, imponeva una gabella sulle carte da giuoco. Non vi era conversazione, dove non si giocasse e dove talvolta ingenti fortune non passassero da una mano all’altra. I vicerè avevano cercato di frenarla con bandi, che, come tutti i bandi proibitivi, rimanevano lettera morta. Avevano anche proibito i giuochi più rischiosi: la bassetta, la primiera, il biribisso, il goffo, il trenta e quaranta, il banco fallito, la regia usanza, il faraone, il passadieci, e via dicendo; tutti giuochi nei quali il trarre di una carta o un getto di dadi poteva costare anche un feudo ai nobili, la vita d’un mese ai civili, la miseria e la disperazione, e forse anche il delitto, ai plebei. Proibito non soltanto giocarli, ma anche vederli giocare; non soltanto nei caffè e negli altri luoghi pubblici, ma anche nelle case private.

Ma intanto lo stesso Vicerè, lo stesso Pretore, nei ricevimenti ufficiali, non mancavano di aprire una sala pel giuoco, ed eran costretti a chiudere un occhio sulle ordinanze.

Alla “Conversazione grande” o al “Cesarò”, dunque, si giocava. Al tavolino più affollato si giocava a bassetta; sul tappeto verde eran distese le dieci carte, cucite in una striscia di panno; altre carte stavano dinanzi e dietro e sparivano sotto le poste: colonne e monti d’argento e d’oro. Il banco sfogliava: or tirava a sé alcune poste, ora pagava. Intorno al tavolino era un incrociarsi di dialoghi, di esclamazioni, di risa, di sommessi bisbigli; qualche mano a un tratto si abbandonava furtivamente, qualche altra andava a cercarla; in una leggera pressione si comunicavano, nell’ombra del tappeto, una parola non detta. Negli altri tavolini si giocava a goffo e a primiera, in silenzio, con raccoglimento, con brevi parole monotone, con lievi osservazioni, e con un ammonticchiarsi di carte, gittate ne lo sballo.

Appena la duchessa entrò, appoggiandosi al braccio del cavalier Gallego e seguita da tre o quattro signori, che, vistala nell’anticamera, mentre gittava lo scialletto di seta ai servi, erano corsi a riverirla e l’accompagnavano; alcuni giuocatori si staccarono dal tavolino della bassetta e le vennero incontro. Quelli degli altri tavolini si alzarono a mezzo inchinandosi; ella rispondeva con un grazioso sorriso, porgendo la mano al bacio, o se si trattava di salutar qualche dama, facendo quelle graziose riverenze da minuetto, che la moda contemporanea ha in qualche modo risuscitato. Qualche volta una dama si alzava, lasciava il tavolo; un cavaliere la seguiva; sotto le forme della galanteria, traspariva qualcosa che oltrepassava i limiti delle cortesie e nel vano delle finestre, tra le cortine, si potevano sorprendere rapidi sussurrii.

Nelle altre sale, quelle di conversazione, intorno al cembalo o in soffici canapè, la galanteria prendeva un tono e maniere assai più libere: le dame si lasciavano corteggiare, forse anche un po’ troppo; e mentre il frasario non dimenticava le formule prescritte, le mani e i sospiri dicevan pensieri più intimi e più audaci. I sussurrii, le risa fresche e argentine, talvolta il suono del cembalo, giungevano nella sala da giuoco, e si frammischiavano alle conversazioni sommesse, al tintinnìo delle monete.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento, influenzata dalle nuove idee della rivoluzione francese che ruotano, oltre che intorno al protagonista, al giurecolnsulto Francesco Paolo di Blasi.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
Pagine 850 - Prezzo di copertina € 25.00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)