venerdì 24 luglio 2015

Luigi Natoli: rivive nel suo romanzo un grande eroe palermitano: Giovanni Luca Squarcialupo.

- Ebbene, non si può estendere a tutta la Sicilia, e fare del regno una grande Repubblica? Questo è il mio sogno; ma forse voi non ne vedete tutta la bellezza, perchè le vostre idee sono diverse dalle mie, quanto alla forma del governo.
Tratto dal romanzo Squarcialupo, di Luigi Natoli edito I Buoni Cugini Editori.
 
Ricordiamo questo eroe palermitano, che il 24 luglio 1517, quasi 500 anni fa tentò di fare della Sicilia una Repubblica indipendente dal potere e dal giogo dello straniero.

Luigi Natoli dal romanzo Squarcialupo: 24 luglio 1517 l'inizio della rivoluzione

E quella era la giornata, finalmente!...
Intanto arrivavano altri cavalieri, e infine Giovan Luca Squarcialupo, che contò i convenuti: erano ventidue.
- Orsù, – disse: – col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo.
E la cavalcata si mosse verso la città.
- Signori – disse – abbiamo giurato di andare o alla vittoria o alla morte. Per la Sicilia e per la libertà! Avanti!......
Luigi Natoli - Squarcialupo.
 
Con queste parole Giovanni Luca Squarcialupo, il 24 luglio 1517, dà inizio alla prima rivoluzione contro il potere spagnolo. Come scrisse Luigi Natoli "La cospirazione di Gian Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati e senza un fine determinato: egli ne fu biasimato, e i suoi uccisori lodati. Ma con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse, delle cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la perduta indipendenza".
Disegno di Niccolò Pizzorno

Luigi Natoli dal romanzo Squarcialupo: 24 luglio 1517

Era la sera del 22 luglio 1517, antivigilia della festa di Santa Cristina, patrona della città che i Palermitani si affaccendavano a celebrare, come facevano ogni anno, nella maniera più sontuosa imbiancando cioè i muri delle case, e appendendovi festoni di fronde; innalzando per le strade che la processione doveva percorrere archi trionfali, anch’essi di verdi fronde; e preparando coperte e panni e, chi li aveva, arazzi, da stendere sulle finestre, e lanterne e torce resinos...e per far la luminaria.
Questa era la festa principale, e più solenne per la città; cominciava la vigilia, col Vespro solenne che si cantava nel Duomo, e si svolgeva il giorno della festa, cioè il 24, con la “cappella reale” e la messa cantata, di mattina, e immediatamente dopo la processione. Cappella reale significava che alla funzione religiosa interveniva il vicerè o il luogotenente, come rappresentante del sovrano, in gran pompa; sedeva sul trono e riceveva l’incenso nelle forme prescritte dal cerimoniale. Tanto nell’andare al Vespro solenne, quanto alla messa cantata, l’intervento del vicerè era per se stesso uno spettacolo che attirava la folla: perché egli vi andava con le insegne della carica, con gran seguito di cavalieri e di creati: ed era ricevuto alla porta del Duomo dall’Arcivescovo: e perché andando il vicerè in veste ufficiale, a esercitare un atto di sovranità, ci si recavano anche le alte magistrature del regno, e il Senato, anch’esso in gran pompa.
Il popolo, dunque, faceva i preparativi per addobbare le strade specialmente quelle che la processione avrebbe percorso, secondo prescriveva il bando del Senato. E quell’anno era prescelto il quartiere del Capo, o come si diceva, di Civalcari...
Luigi Natoli - Squarcialupo.

martedì 14 luglio 2015

Luigi Natoli: la leggenda di Santa Rosalia per i bambini.

Narrano gli scrittori di storie religiose, che alla corte del re di Sicilia, Guglielmo il Buono, c'era un cavaliere, parente del re, di nome Sinibaldo, signore del monte Quisquina; il quale aveva una figlia, giovinetta bellissima, che si chiamava Rosalia, virtuosa e tutta data alla preghiera.
Ora molti la domandavano in isposa, ma essa si rifiutava, perché voleva consacrarsi a Dio; e per sottrarsi alle nozze, fuggì di casa. Pellegrinando, andò a ricoverarsi in certe grotte del monte Quisquina, dove visse, cinta di rozzo saio, nutrendosi di erbe e bevendo acqua fresca con una ciotola. Così passava i giorni in penitenze e in preghiere.
Dal monte Quisquina, a piedi, valicando aspre montagne, venne verso Palermo: arrampicatasi sul monte Pellegrino, vi trovò una grotta, e ne fece la sua abitazione.
Ivi trascorse il resto della sua vita; ivi morì ignorata: ma poi la fama del suo peregrinaggio si sparse; e sul monte Pellegrino fu eretta una piccola chiesa in suo onore. Se non che, non si sapeva dove fosse sepolta, per quante ricerche si facessero.
Nel 1624 Palermo fu afflitta da una fiera pestilenza; la gente moriva a centinaia, e non valevano rimedi di medici, né preghiere e penitenze ad arrestarla. A chi ricorrere?
Quand'ecco un giorno un cacciatore si presenta all'arcivescovo, e gli dice di aver veduto santa Rosalia, che gli aveva indicato il punto preciso dove erano le sue ossa; e lo aveva incaricato di farle togliere e trasportare in Palermo.
E allora vanno sulla montagna; trovano una grotta, scavano, e proprio nel punto indicato trovano le ossa. Era il 15 di luglio. Subito le mettono in un'urna, le portano in processione per tutta la città, e le depositano nel Duomo, dove poi fanno alla Santa un'arca d'argento, che è una bellezza.
La peste indi a poco cessò; santa Rosalia fu dichiarata patrona di della città di Palermo; e ogni anno in luglio si celebrano grandi feste, che una volta duravano dall'11 al 15 luglio, poi si restrinsero a tre giorni. Si chiamavano il Festino; e un tempo erano così magnifiche e famose, che da ogni parte accorreva gente in Palermo, per ammirarle.
 
Luigi Natoli
 

mercoledì 8 luglio 2015

Lettera di Luigi Natoli a Giuseppe Pitrè: Pisa, 7 maggio 1897.




Illustre amico, 
ho rimandato di giorno in giorno questa lettera, ma finalmente eccola; e son certo che, malgrado il ritardo, le giungerà gradita e speranzosa che Ella non imiterà la mia indolenza. Non le dirò nulla di questa città: è interessante e chiude in sé monumenti d'arte dei quali non si ha idea. Cose maravigliose! Il Duomo e il camposanto sono quanto di più stupendo può ideare l'arte umana. Più in là non si può andare. Ma fuor di questo poi... Quale monotonia, quale silenzio. E' una città di studenti, ma non di studiosi: oltreché mancano a chi, come me, si piace di osservarle, le manifestazioni della vita, mancano anche i mezzi per lavori d'erudizione. Biblioteca povera, e fuor che il D'Ancona, nessun altro letterato! Il D'Ancona ha una mera biblioteca; ma presterebbe qualche libro? Chi lo sa!
Io ho visitato il D'ancona; è un uomo simpatico, alla mano, piacevole; piccolino, rotondetto, con una vocina fessa; il volto improntato ai caratteri della razza, ma affabile, arguto, senza alcuna posa. Parlammo di Lei. Quando seppe che Lei fu a Roma, sclamò: "Ah, il birbante! e perché non fa una scappata fino a Pisa?"
Sono stato a Firenze. Dio! che città! No, non possiamo formarcene un'idea, stando costaggiù, no. Quali maraviglie d'arte! Io ho sognato a occhi aperti, e sarei felice di vivere in quel paradiso. Là, là si vive la vera vita dell'intelletto: Palermo vista di lassù sembra una cosa miserella... S. Maria del Fiore, il campanile di Giotto, le gallerie Pitti, Uffizi, Nazionale, il Bargello, il Palazzo Vecchio, il ponte di Ghiberti... A S. Croce ho provato emozioni fortissime. Una dietro l'altra sono i mausolei di Machiavelli, Dante, Alfieri... Pensi un po' lei!
Ma andiamo avanti.
Posso lagnarmi con Lei che non mi ha mandato il volume di enigmatica popolare? Eppure Fobi l'ha avuto! Sono io da meno di Fobi nella sua stima? E dacchè sono nella lagnanza, Teresa è fortemente imbronciata con la signorina Maria, alla quale scrisse pochi giorni dopo il nostro arrivo, senza avere finora ricevuto un rigo di risposta, come ne ha ricevuti da tutte le sue amiche.
Basta: abbia i miei saluti affettuosi e faccia gradire i miei convenevoli alla Signora e alla signorina.
Suo Luigi Natoli"

lunedì 6 luglio 2015

Luigi Natoli dal romanzo "Ferrazzano": il conte di Montaspro.

Diego Montecateno conte di Montaspro, figlio unico di donna Grazia, vedova di don Gaetano, era un giovinotto di venti anni, non bello ma neppure brutto: di statura media ben tagliato, elegante: passava il tempo bisticciandosi con chicchessia, e tirando quello che aveva in mano ai camerieri. Suo padre morì quando egli dava i primi passi, e sua madre era molto giovane per consacrarsi a un figlio non desiderato. Il marito aveva quarantacinque anni più di lei, che ne aveva diciotto; e le nozze furono concertate dai genitori di lei, come era uso in quei tempi. Ella ubbidì, perché era dover suo; e ubbidì anche al marito, che le fece giurare al letto di morte di non rimaritarsi mai più. Questo giuramento ella l’avrebbe facilmente violato; ma il conte le lasciava l’usufrutto dei beni spettanti al figlio, fino alla maggiore età di costui, e il possesso di alcune terre, purchè non passasse a seconde nozze: che nel caso si rimaritasse, si considerava come non avvenuta questa disposizione, e l’amministrazione dei beni come la tutela, era affidata a un parente. Donna Grazia non si rimaritò, ma seppe passare lietamente la sua prima giovinezza, senza curarsi molto del figlio, che appena toccò i sei anni, fu chiuso nel real collegio Borbonico. Dal quale uscì a diciotto anni, non molto erudito in vero, anzi con quella ignoranza che era un pregio pei nobili signori, sebbene nei saggi pubblici avesse sfoggiato un talento e una cultura straordinaria, trattando temi  altissimi di letteratura, come per esempio questo: perché i francesi riescono superiori agli italiani nello stile tragico. E si poteva ammirare la perizia del nobile don Diego nel copiare fedelmente quanto aveva di nascosto scritto il maestro. In compenso uscì pieno di sé, litigioso, iracondo, facile a innamorarsi di tutte le donne, e con altri difettucci, che erano un complemento delle qualità di un giovane ben nato.
La sua signora madre intanto aveva per diciotto anni gustato i vantaggi di una vedovanza in età molto giovane; e provato le differenze che corrono tra un uomo di sessanta anni ed un giovane di venticinque; e le sue esperienze erano state parecchie, e ancora ne contava, sebbene avesse oramai trentanove anni sonati. Una cosa pretese dal figlio: la esatta osservanza all’ora della colazione, del pranzo e della cena. Era la sola cosa in cui spiegava tutta l’autorità materna, per non dare agli occhi della servitù lo spettacolo di un disordine nell’ora del desinare. Questa era la ragione per la quale don Diego aveva chiamato il servitore per farsi vestire.
Don Diego aveva passata la notte al teatro d’opera, si era affacciato a quello di prosa ed era andato al circolo, la Grande Conversazione, che allora si trovava nel palazzo del duca di Cesarò, rimpetto la chiesa del Salvatore. Aveva giocato, aveva perduto, era di malumore non già per la perdita in se stessa, ma perché, a lui abituato a vincere in ogni cosa, perdere al gioco pareva una sconfitta immeritata. Del resto aveva le mani bucate, trattandosi di mostrare la nobiltà della sua illustre famiglia; salvo a litigare il terdenari con la povera gente.

Luigi Natoli
www.ibuonicuginieditori.it
Disegno di Niccolò Pizzorno.

Luigi Natoli nel romanzo "Alla guerra!" : il professore Benoist.

Al quarto piano il professore Benoist, già allievo della Scuola Normale, ora insegnante di storia nel Liceo Carlomagno, una specie di misantropo: giovane ancora, non brutto, anzi a guardarlo bene d’un viso regolare e benfatto; ma barbuto, arruffato, con gli occhiali azzurrognoli e le tasche piene di libri...
 
- La guerra è una cosa scellerata; è il più grande delitto che i popoli possano commettere; è un ritorno alla barbarie, alla violenza. Tutto il cammino lento e glorioso della civiltà, per sostituire alla forza violenta e sanguigna delle armi, il diritto, la legge, si arresta a un tratto: l’uomo ridiventa l’animale primitivo… Ahimè! il torto è anche della scuola, dico scuola nel senso più largo, come educazione degli spiriti; letteratura, arte, tradizioni, costumi, monumenti, nomi di strade, i libri sui quali impariamo perfino i primi elementi del leggere, tutto glorifica la guerra, esalta l’eroismo guerresco, perpetua quella ammirazione per la bravura, che in fondo è, dirò così, una qualità inferiore dello spirito; è una virtù comune con le bestie feroci, che anzi sono più forti e più coraggiose dell’uomo… Non è vero? Fra il genio che distrugge centinaia di uomini, e quello che li salva, il primo eccita più la fantasia e il sentimento; ma perché non abbiamo ancora saputo e voluto guardare in faccia la realtà; e perché si copre di scherno e d’ignominia il sogno nostro: non più guerra!... non più armi! tutti fratelli!... Tutti un popolo, un gran popolo!... Ecco perché gridai a M.r Guy quelle parole!...
Parlando, il suo volto si colorava, i suoi occhi illuminati dall’idea, avevano un’eloquenza più suggestiva delle parole; il suo aspetto si trasformava, come quello di un ispirato; si abbelliva di una espressione, di un carattere.
 
Benoist guardava. Quanta miseria!... e quanta abbiezione!... Era un altro quadro che la guerra gli offriva; un quadro assai diverso dal quello che Montmartre già quartiere della gaia scienza del piacere, gli aveva rivelato; era la fine del lavoro pacifico e produttivo, donde scaturiva il largo fiume della ricchezza della Francia; un cataclisma tellurico, sommergeva quella sorgente e arrestava a un tratto il corso di quel fiume. Tutta quella gente lacera, solcata dai disagi e dalla fame, avvilita dalla paura e dall’incertezza del domani, spinta verso l’ignoto che riceveva un pezzo di pane per carità; era per quella che aveva fino a ieri prodotto la ricchezza!... Le locomotive fischiavano; pareva dicessero: “Ora vi porteremo via!” Dove? In Italia? In Svizzera? più lontano ancora? dove?
Luigi Natoli.