lunedì 29 novembre 2021

Luigi Natoli: Scudo d'argento, con sbarra traversata all'angolo e squadra nera col vertice sopra... Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

La sventura era piombata improvvisa, terribile, misteriosa. Di là la sua mamma morta, di qua quel cofano e quella borsa dei quali non osava indagare il segreto. Aperse il cofano, per deporvi la borsetta stemmata; ma le sue mani toccarono un piccolo piego. Tremando, lo trasse, e lo spiegò: erano due foglioline di carta ingiallita dal tempo. Qualcosa, come il fremito di un sospetto, gli passò per la mente.Lesse. Il primo diceva: “1766 addì 4 di questo mese di giugno, è morta e fue sepelita in questa madre eclesia Marina figlia picciola di m. sei, di Leonardo Sunzeri e di Dorotea Maravigna jugales”.
Una bambina! Aveva dunque avuta una sorella? Uno stupore profondo si dipinse sul suo volto. Una sorella? E quel Leonardo Sunzeri, appariva il marito di sua madre; invece dello scrivano Maurici? Svolse la seconda carta e lesse: “1766 addì di questo marzo fu baptizzato in questa madre chiesa thermitana un figliolu, cui nomen Corradus, ignorontum parentium, e il compare fu d. Leonardo Sunzeri e la domare d. Dorotea sua leggittima mogle”.
Il foglio gli cadde dalle mani! Ignoti? Egli era figlio di ignoti? E colei che egli aveva adorato come una madre, non era dunque la mamma sua? E l’aveva amato così? Egli era stato un estraneo in quella casa, della quale pur era il vero e unico signore, circondato di cure, di affetti, di tutte le finezze, di cui quella povera donna era stata capace! E mai, mai il mistero della sua nascita oscura era trapelato; mai una parola, un’allusione, avevano tradito quella donna. E chi era dunque quello scrivano passato come un’ombra attraverso la sua prima infanzia se il marito di colei che aveva amato e piangeva come una madre si chiamava Sunzeri? Stupefatto, stretto da un’ambascia ansiosa, col cervello sconvolto da quell’inattesa rivelazione si sentì come perduto in un mare tenebroso. Cominciò a interrogare i suoi più lontani ricordi tormentando la sua memoria per trovare un qualche lampo, torturandosi per trovare un legame in tutte quelle scoperte, che gli tumultuavano nel cervello. Gli pareva di impazzire. Si alzò, aprì l’uscio, guardò la morta, seduta sul seggiolone, immobile, impenetrabile, fra le torce accese. Ah la buona e santa donna, che lo aveva sottratto all’abbandono! Ella era discesa nella tomba col suo segreto, quando appunto stava per rivelarglielo. Sentì gli occhi empirsi di lagrime. Poi a un tratto rabbrividì. Gli tornarono alla mente le parole del frate: “avvelenata” e poi le altre “tuo padre” e quella borsa, unico raggio di luce in tanta oscurità; ma qual luce!... E se quella morte fosse stata una vendetta?... o una soppressione? E la morta gli apparve improvvisamente come una martire...
Scudo d'argento, con sbarra traversata all'angolo e squadra nera col vertice sopra... È 1'arme dei Calvello....
- Dei Calvello?
- Nobiltà di prim'ordine. Andrea Calvello coronò re Ruggero II, da allora in poi i Calvello acquistarono il diritto di portar sul cuscino la corona regale nelle solennità delle coronazioni. Non lo sapete?
- Calvello !... – ripetè Corrado sbalordito.
- Sono duchi di Melia e baroni dell'Arenella. Oggi rappresenta la casa don Goffredo Calvello e Eschero, che ha per moglie donna Laura Castello e Giglio. Il loro palazzo è alla Gancia... Un gran signore. Don Antonio, suo primogenito e futuro erede, sposò donna Rosa Caracciolo di Napoli...
Ma Corrado non udiva; dentro di sè ripeteva quel nome con uno sgomento del quale non sapeva darsi ragione...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15)
Disponibili a Catania presso: Libreria La Paglia di Stefano Morgano (Via Etnea, 393-395)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
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Luigi Natoli: Goffredo Calvello era suo padre... Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

Lo accompagnarono nella foresteria: due celle in fondo al corridoio, presso l’ampio balcone che dava sul giardino, e dal quale si vedeva la città distendersi giù pel clivo, fino a mare. Il frate che l’accompagnava aprì una di quelle celle, depose sopra un tavolino la lampada di ottone, a due lucignoli, augurò la buona notte e se ne andò.
Corrado esaminò la stanza: era più grande delle celle ordinarie, con una finestra di fronte all’uscio: le pareti bianche; il letto di ferro, modesto, ma pulito e soffice; accanto al letto un inginocchiatoio sormontato da un Crocefisso annerito dal tempo, e una piletta d’acqua santa; addossata ad una parete, una tavola di quercia, e su, in alto, uno scaffalino, a due palchetti, pieno di libri, legati in pergamena, coi titoli scritti a grosse lettere nere, per il lungo del dorso. Ne prese uno, che destò la sua curiosità: era un libro di note manoscritte, che riguardavano la cronaca del convento. Il frate compilatore aveva cominciato col notarvi l’anno della fondazione del primo convento nel 1472, fuori le mura, per opera di Pietro e Giacomo de Bruno e delle elemosine dei cittadini; trasportato poi nel centro della città, e arricchito di rendite e di doni. Seguiva la trascrizione dei documenti; poi la descrizione dei poderi, quella dell’edificio del convento e della chiesa; e le lodi dei quadri del Monocolo da Racalmuto e del Monrealese, del gruppo della Pietà, marmo del 1430, che i “forestieri volevano pagare a peso d’oro”, la tomba di Simone Solito del 1626, e quell’altra più bella assai di Giambattista Romano e Ventimiglia, barone di Resuttano, del 1552. E infine seguivano brevi elogi dei frati insigni, e dei personaggi ragguardevoli che il convento aveva ospitato.
Corrado sfogliava negligentemente, come chi non sa che farsi, senza leggere in verità, ma scorrendo con l’occhio ozioso qua e là sulle pagine, cogliendo qualche parola, qualche titolo; mentre il suo cervello pensava ad altro.
Ad un tratto sentì il sangue dargli un tuffo. Un nome gli cadde sott’occhio, le cui lettere gli parve che formassero una parola a lui già nota. Rilesse: era una noticina che diceva:
“Nota come addì 15 di marzo di questo anno 1766 è stato nostro ospite l’illustrissimo signore don Goffredo Calvello barone e duca di Melia, e uno dei primi titoli del regno; essendo padre guardiano fra Felice, suo consobrino dal lato paterno”.
Gli occhi gli tremolarono, divenne pallidissimo. Goffredo Calvello, tre giorni dopo la nascita di lui, s’era recato a Termini: Goffredo Calvello era il proprietario di quella borsa trovata nel cofanetto; quella borsetta Dorotea aveva indicato con le parole “tuo padre!”; Goffredo Calvello era suo padre, e forse l’uccisore della povera donna!



Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato alla figura del patriota e giureconsulto palermitano Francesco Paolo Di Blasi.
L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti gli store online 
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lunedì 22 novembre 2021

Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Dalla prefazione dello stesso autore (Giornale di Sicilia, 16 dicembre 1936)

Fioravante e Rizzeri sono come Buovo d’Antona e come Orlando una parte dei “Reali”, e, come quelli, la più popolare. Non è il caso di investigare se Andrea da Barberino abbia attinto ad altri poemi, di cui era ricca la Marca Trivigiana e di cui si servivano i cantafavole nelle piazze; chi ha la pazienza di leggere lo studio che precede il “Fioravante”, nella Collezione dei testi di lingua, e gli studi sulla Epopea francese e sull’ “Orlando” di Pietro Raina, e i maggiori scrittori della storia letteraria d’Italia, può farlo; per noi il romanzo di Andrea da Barberino è tutto; noi non facciamo dell’erudizione; prendiamo quello che con tanta grazia e ingenuità narra lo scrittore toscano; e se di una cosa ci maravigliamo, è appunto che esso non sia letto oggi più dei romanzi gialli.
Io lo lessi giovanotto e ricordo che non potevo, se non difficilmente tralasciare la lettura; lo rilessi ora, e provai il medesimo diletto al racconto delle avventure subite e affrontate da Fioravante e da Rizzeri suo compagno e maestro, primo paladino di Francia e uomo senza macchia e senza paura. Comincia Fioravante con una monelleria, che lo spinge a lasciare il tetto paterno del re Fiorello; e di là si partono le sue avventure. Liberazione di giovanette, uccisione di nemici della fede, perdita di armatura rubatagli da un ladrone, prigioniero del re di Scondia, innamoramento con Drusolina, il suo valore come incognito e via via quello che gli succede da re, le persecuzioni di sua madre Biancadoro, che voleva dargli moglie, le avventure di Drusolina, che sola abbandonata, dà alla luce due gemelli, uno dei quali le viene rubato, e il duello dei due fratelli che non si conoscono, tutto ciò frammezzato di tanti episodi forma il romanzo, che spira un senso di giustizia e solleva gli animi nelle regioni del sogno. I nomi delle contrade non si sa dove trovarli, le distanze di parecchie migliaia di chilometri si percorrono in un tempo irrisorio, gli eserciti sono così innumerevoli da superare il numero degli abitanti delle città che li armano... Che importa? Siamo nelle sfere del sogno, nel quale ci piace navigare.
Qualche volta, passando per una stradetta, sopra una porta, vedo pendere un cartellone con dipinti in quadri alcuni episodi di quello che si rappresentava la sera nel teatro delle marionette; e vi leggevo i nomi di Fioravante e di Rizzeri. La storia di Andrea da Barberino si era rifugiata lì: Fioravante e Rizzeri erano tramutati in teste di legno, come tutti gli altri campioni del valore e della fede; ma anche in quelle vesti che destano in noi un sapore di cose nuove. In un quadro v’erano due guerrieri, che abbassavano le armi e un leone fra loro in atto di separarli; in un altro, una folla di popolo e una regina condotta al rogo: i cavalieri erano vestiti con le armature del cinquecento, con un salto di mille e duecento anni. Non importa nulla. Pel popolo abituato a quel teatro e pel puparo, ossia per l’ “oprante” tutte queste differenze sparivano nell’antico, in cui tutto accadeva senza distinzione di tempo, di luoghi, di costumi: ma l’onda di poesia che scaturiva anche da quelle piccole teste di legno era possente e riecheggiava nelle anime semplici degli spettatori.
Ora anche adesso questo giornale si ispira alle avventure di Fioravante, e lo riproduce attraverso un “oprante”; e intreccia l’antico con il moderno; e le avventure di Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell’onesto puparo sembra foggiato con l’anima dei suoi pupi. C’è riuscito? È quello che vedrà il lettore. Ma se non è immodestia dirlo, coloro che mi hanno seguito attraverso i diciotto o venti romanzi, da me pubblicati su questo giornale, sanno per prova che un certo interesse so trovarlo.

 Maurus o Willam Galt



Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri – Romanzo ambientato nella Palermo del 1920 ricostruito e trascritto dalle puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936, con premessa dell’autore tratta da un articolo dello stesso Giornale pubblicato il 16 dicembre 1936. È ispirato alle storie di Buovo D’Antona e dell’opera dei pupi, nello specifico del re Fioravante e del suo scudiero Rizzeri, alle avventure di Fioravante che riproduce attraverso un oprante, don Calcedonio; e l'antico si intreccia con il moderno; e le avventure della giovane figlia Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell'onesto puparo sembra foggiato con l'anima dei suoi pupi. (Dalla prefazione dell'autore)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 308 – Prezzo di copertina € 19,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
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Luigi Natoli: Don Calcedonio e il pupo Fioravante. Tratto da: Fioravante e Rizzeri

Don Calcedonio, con le mani sotto l’occipite, guardava in alto, e contava i travi del soffitto. Era una cosa abituale in lui; non già che lo facesse di proposito, ma appena si sdraiava supino con gli occhi in su, subitamente si metteva a contare i travi del soffitto. Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.
Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento. 
Quella sera Fioravante avrebbe combattuto Finaù; era un duello mortale; si sapeva che Finaù sarebbe stato ucciso, nondimeno il duello si presentava agli spettatori dubbio, nonostante fossero in due a combatterlo, Fioravante e Tibaldo di Lima. L’armatura di questo cavaliere era già pronta dal giorno innanzi. Era di ottone, e pareva d’oro, ma rimaneva di minor valore di quella di Fioravante; anche il gonnellino non aveva i ricami di quello; era pavonazzo, filettato di oro. 
Don Calcedonio teneva gli occhi al soffitto, ma la sua mente si perdeva dietro ai paladini; correva dietro a loro e studiava le parole più sonanti e i gesti più appropriati. Dove li metterebbe? Fioravante a destra, Finaù a sinistra, Tibaldo in mezzo. Combattevano. Ta ta tata, ta ta tata, ta ta tata, ta ta ta, ta a a a. Don Calcedonio a poco a poco si addormentò, e nel sonno continuava il combattimento. I pupi erano sul palcoscenico illuminato; la scena rappresentava una boscaglia, nella quale erano schierati gli eserciti, da una parte cristiani dall’altra saraceni. Folla. Erano vestiti poveramente, elmi e turbanti, e in mano avevano la lancia. Stavano immobili; poi i saraceni sarebbero fuggiti, e le lancie e le spade ne avrebbero fatto scempio. 
(Nella foto: antichi pupi Orlando esposti al museo Pasqualino di Palermo) 


Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri – Romanzo ambientato nella Palermo del 1920, ricostruito e trascritto dalle puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936, con premessa dell’autore tratta da un articolo dello stesso Giornale pubblicato il 16 dicembre 1936. È ispirato alle storie di Buovo D’Antona e dell’opera dei pupi, nello specifico del re Fioravante e del suo scudiero Rizzeri, e le avventure di Fioravante riproduce attraverso un oprante, don Calcedonio; e l'antico si intreccia con il moderno; e le avventure della giovane figlia Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell'onesto puparo sembra foggiato con l'anima dei suoi pupi... (dalla prefazione dell'autore) 
Pagine 308 – Prezzo di copertina € 19,00
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mercoledì 17 novembre 2021

Luigi Natoli: Il bandito Gian Giorgio Lancia e la lettera che scrisse a don Galcerano Corbera. Tratto da: La dama tragica

Il secolo XVI fu  in Sicilia il periodo classico del banditismo. Storici e cronisti lasciarono memoria delle gesta compiute da alcuni banditi, forse i più famosi, nei tre Valli della Sicilia. In quel Caso di Sciacca, che rimase nella tradizione popolare, una banda di Albanesi fu assoldata dal conte don Sigismondo de Luna; in un altro caso, che fu detto dei Barresi, men celebre del primo, un nobile signore di Naro, Enrico Giacchetto, era a capo d’una banda di cento cavalli, coi quali, dice un cronista dei tempi, «faceva allo spesso gesti eroici e singolari». Durante il viceregno del duca di Medinaceli empì il regno di ammirazione e spavento un bandito, Vincenzo Agnello, che comandava una banda di quaranta cavalli, con suo trombetta e suo alfiere; e aveva nello stendardo dipinta l’immagine della Morte. Innamoratosi di una schiava, e fattala sua, dimenticò sè stesso negli amori, fu sorpreso dal capitan d’arme Frisone, e ucciso in combattimento. Era valorosissimo e audace fino al punto da venire fin sotto le mura di Palermo per punire un cavaliere di casa d’Afflitto. E una volta, andando il Vicerè in visita del regno, con seguito di cavalleggeri, Vincenzo Agnello gli volle rendere onore: schierò i suoi quaranta cavalieri sopra un poggio, spiegò l’insegna e fe’ dare nella tromba, che era poi una buccina.
Ai tempi di Marcantonio Colonna s’era formata un’altra banda, di vecchi briganti, avanzi di altre bande, sfuggiti alla giustizia, e di nuovi; e s’era raccolta intorno a un giovane di Randazzo, Gian Giorgio Lancia, contadino, gittatosi in campagna, come pur troppo avviene il più spesso, per aver voluto vendicare una sopraffazione, un torto, un’offesa all’onore.
La fama del valore di Gian Giorgio faceva accorrere sotto di lui quanti erravano nei boschi, vivendo di ladronecci e di assassinii.
Nel suo maggior fiorire, cioè alcun anni dopo, la banda si componeva di duecento uomini a cavallo, che davan battaglia alle compagnie dei cavalleggeri mandate contro di loro. In quei primi anni la banda aveva poco meno di un centinaio di uomini: due trombetti, uno stendardo, un segretario, che era un prete datosi alla campagna, per aver ucciso il seduttore di sua sorella. Segretario e Cappellano. Campo alle imprese era il Val Demona; ma in quei giorni, valicato il Salsa, la banda scorazzava nel Val Mazzara, incutendo terrore. Viveva imponendo tributi ai signori, saccheggiando i castelli e le terre di coloro che si rifiutavano o non eran solleciti; depredando gli armenti e le greggi dei ribelli agli ordini di Gian Giorgio. Dormivano nei feudi, sicuri da ogni sorpresa; sapevano di trovare dovunque di che banchettare, alla maniera degli eroi omerici..
La banda si era spinta nel territorio di Corleone, e si era impadronita delle riscossioni del fisco, che si mandavano a Palermo; Don Galcerano doveva appunto andare a debellarla. Impresa pericolosa e dubbia. Molti capitan d’arma in Val Demone avevano perseguitato la banda. Vi lasciavano morti parecchi cavalleggeri, senza riuscire a circondare e a prendere i banditi, che a ogni insuccesso della giustizia, diventavano più audaci.
Galcerano stava così, tentando di guadagnarsi la confidenza del vecchio, quando ecco di fra le macchie sbucare un grosso cane bianco e villoso, che data un’occhiata bieca a Galcerano, e ringhiando, si avvicinò al pastore scodinzolando, e strusciando la testa sui ginocchi di lui. Il pastore lo accarezzò, e ponendogli la mano sul collo, toccò una cordicella.
- Toh! t’hanno legato?...
Girò la cordicella, per trovare il nodo. Nel nodo era infilato un rotolino di carta. Galcerano se ne accorse.
- Che cos’è cotesto?
- Umh! chi ne sa niente?
- Dammi quella carta... 
- Vossignoria la prenda pure. Tanto io, non so leggere, e non saprei che farmene.
Disse queste parole con una indifferenza tale che Galcerano non dubitò della loro sincerità. Prese il rotolino, lo svolse; era una lettera, chiusa con un po’ d’ostia, ed era diretta proprio a lui. 
Lesse con stupore, due volte, l’indirizzo «Al molto magnifico e illustrissimo signore don Galcerano Corbera barone del feudo del Miserendino».
E chi poteva avergli scritto? E chi poteva mandargli la lettera con quel messo? Il cane era certamente del pastore: chi glielo aveva preso?
Aprì la lettera e lesse:
«Magnifico e illustrissimo Signore e Padrone colendissimo.
«Vi scrivo io Giovanni Giorgio Lancia di Randazzo, capitano della grande compagnia, e vi mando prima di tutto il mio saluto. E poi vi dico, che io Giovanni Giorgio Lancia voglio vincere i miei nemici in giusto combattimento, di faccia a faccia, senza tradimenti; e se ci troveremo di fronte un giorno, vi dimostrerò che io non tremo di nessuno, fuor che di essere creduto un vile. Perciò vi faccio sapere che nei vostri cavalleggeri ci sono due traditori che vi vogliono ammazzare, nel primo scontro con me, per far poi credere che voi siete stato ucciso da me, e così essi non avranno alcuna pena dell’assassinio. Non vi dico i nomi dei due traditori, che sono stati prezzolati da qualche vostro nemico; voi state in guardia; al primo attacco mandate avanti i vostri cavalleggeri, e non ne lasciate nessuno dietro di voi. Ascoltate il mio consiglio, e non vi fidate troppo. Siete giovine, e non sapete che i vostri cavalleggeri sono più banditi e «stradari» dei miei. E, vi saluto, con la speranza di misurarmi con voi».


La dama tragica – Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15)
Disponibili a Catania presso: Libreria La Paglia di Stefano Morgano (Via Etnea, 393-395)
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Luigi Natoli: Geronimo Colloca, il re della Bocceria... Tratto da: La dama tragica.

Don Francesco uscì dal palazzo, e s’avviò verso S. Domenico, per andare alla loggia dei Genovesi, che era nella piazza del Garraffello, dove a quell’ora s’adunavano i mercanti. Erano le logge allora quel che oggi presso a poco sono le borse; ma con un campo di operazioni più largo, perchè vi si trattavano tutte le faccende di commercio: dalle granaglie alle stoffe: e vi si contraevano mutui e scambi e vendite. Tutta una folla di faccendieri, di mediatori, di procaccianti si aggirava intorno ai vari banchi, dietro i quali sedevano gravemente i mercanti coi loro commessi, con le bilancette per pesare le monete d’oro e d’argento. Qua e là gruppi e capannelli di gente che confabulava sottovoce, per contrattare, per dare il prezzo; e in giro, fra un banco e l’altro, fra un capannello e l’altro qualche figuro, losco e fosco, con un gran ciuffo di capelli sulla fronte, un grande spadone ai fianchi; la guardatura di chi fruga e cerca leggere in viso o cogliere al movimento delle labbra le parole susurrate a voce bassissima.
Erano malandrini che vivevano di scrocchi e di imposizioni, e fiutavano gli affari, e al momento opportuno si avvicinavano o al banchiere o al compratore, e pretendevano e ottenevano un regalo proporzionato alla somma. Nessuno si rifiutava. Rifiutarsi equivaleva esporsi alle rappresaglie e alla vendetta, che potevano anche arrivare con una coltellata, di notte, a tradimento. Erano i re dei mercati e delle logge. Chi non voleva impicci, chi desiderava vivere in pace, e meritarsi la protezione di questi ricattatori, pagava un tanto al giorno o alla settimana, sui propri guadagni. Il malandrino così stipendiato accordava la sua protezione al banco o alla bottega; e nessuno si rischiava di rubarla.
La giustizia più volte aveva cercato di purgare la città di questa lebbra; e i Vicerè avevano moltiplicato i bandi; ma invano. Quando qualcuno di questi malandrini era colto, non mancavano protettori che lo sottraevano alla meritata punizione. Erano grandi e potenti signori che si servivano assai spesso dell’opera di quelli, per esercitare qualche vendetta o per cavarsi qualche capriccio, senza correre alcun rischio. Una manciata di pezze d’argento, e il malandrino serviva scrupolosamente. Tornava il conto dunque di sottrarli, alla giustizia, per averli sotto mano e non essere denunciati.
Marcantonio Colonna aveva anche lui cercato di sbarazzare la città di questi malandrini. L’anno innanzi, nel mese di agosto ne aveva fatto impiccare uno, a una forca altissima. Si chiamava Geronimo Colloca, e aveva stabilito il suo dominio nella piazza ciel mercato, sì che lo chiamavano il Re della Bocceria...
(Nella foto dipinto di Bartolomeo Passerotti) 


Luigi Natoli: La dama tragica – Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15)
Disponibili a Catania presso: Libreria La Paglia di Stefano Morgano (Via Etnea, 393-395)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
Le librerie possono acquistare contattandoci alla mail ibuonicugini@libero.it

Luigi Natoli: Quando Marcantonio Colonna vide per la prima volta donna Eufrosina... Tratto da: La dama tragica

Tre o quattro sedie più in là, ma sulla stessa fila di essi, era seduta donna Eufrosina Corbera, sotto un grande specchio, che pareva le facesse da cornice.
Marcantonio Colonna fermò un istante il suo sguardo sopra di lei, come cercando nella sua memoria di ricordare chi fosse, e dove l’avesse veduta altra volta. Non gli pareva un volto del tutto nuovo. Una rimembranza imperfetta e confusa era balenata nel suo cervello; ma per quanto frugasse nei più profondi recessi della memoria, non vi scorgeva dove, come e quando avesse conosciuto quella dama. Pensò che forse s’ingannava. Ma o nuova, o veduta, il signor Marcantonio diceva a se stesso che quella donna era veramente bellissima.
Donna Eufrosina se ne stava immobile, con le piccole mani affilate inerti sul grembo, e in quell’atteggiamento, entro la cornice dello specchio, pareva un meraviglioso dipinto. Le grazie del corpo risaltavan maggiormente sotto il vestito, scelto e adattato con un fine senso di civetteria. Indossava una veste di broccato turchino, con ricami d’argento e bottoni di perle; e in testa aveva un berrettino di velluto dello stesso colore, sormontato d’un ciuffetto di piccole piume bianche, che le cadevan leggiadramente sui capelli annodati con un filo di perle.
Donna Eufrosina, girando gli occhi, si accorse in quel momento di essere guardata dal Vicerè e dal Pretore, e divenne rossa. Gli occhi del Vicerè insistettero ancora un po’ come per godere di quel rossore, poi si distolsero lentamente e quasi con rammarico.
Non osava confessarselo, ma in fondo o in cima al suo pensiero stava quella giovane e bellissima dama, alla quale per la prima volta egli poneva mente, e la cui immagine gli stava dinanzi agli occhi inte­riori con una insistenza che non gli dispiaceva.
Il suo pensiero non andava più oltre di quella contemplazione platonica, nè si fer­mava sopra qualche vaga e lontana speranza. Marcantonio Colonna non era più giovane; cinquant’anni erano già sonati; era calvo e brizzolato; non poteva dunque illudersi di ferire il cuore di una giovane e bella donna, che aveva un marito giovane, bello e valente. Ma pure non poteva impedire al suo cuore di schiudersi a qualche desiderio, e di vagar dietro qualche sogno...


La dama tragica – Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
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mercoledì 10 novembre 2021

Luigi Natoli: L'osteria di Malpasso. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano


L’inverno di quell’anno si annunciava triste e minaccioso; cattivi raccolti, scarse importazioni, commerci ristagnati, miseria e desolazione dovunque. Dalle provincie accorreva alla capitale una folla di uomini e donne, di vecchi e di fanciulli, attirati dal miraggio di una ricchezza che alle loro menti pareva disposta perchè tutti vi attingessero; e dalla fama dei provvedimenti ai quali il Senato ricorreva, con una facilità che poteva creare l’illusione di uno stato finanziario floridissimo, e che invece trascinava l’amministrazione municipale al fallimento.
La nobiltà elegante, frivola, spendereccia, spensierata, alla quale bastava e soverchiava quel che dai feudi, accumulati in poter suo, proveniva ogni anno sotto vari titoli; che non visitava mai i proprii feudi, non curava di migliorare l’agricoltura; e ignorava che cosa fosse la miseria; questa nobiltà vedeva con dispetto quell’agglomerarsi di affamati e seminudi, dagli aspetti torvi e macilenti; e non trovava altro rimedio che incitare il governo a ricacciarli via nelle province, verso la fame e la morte.
Ne derivavano furti e depredazioni, talvolta omicidi, e conseguenza inevitabile, il gittarsi alla campagna, per sfuggire alla polizia, aumentando il numero degli sciagurati che, più spesso radunati in bande, rendevano mal sicure le strade maestre e le campagne.
Le condizioni di viabilità, la polizia imperfetta, agevolavano le imprese brigantesche. Varî luoghi, dove la facilità delle sorprese assicurava l’esito, avevano acquistato fosca rinomanza, e non vi si passava senza trepidazione.
Tutt’ora rimangono qua e là, in alcune contrade, nomi paurosi, e nel linguaggio popolare frasi che ricordano le grassazioni frequenti e abituali, di cui quei luoghi erano il teatro.
Uno di questi era noto col nome di Malpasso. Non era molto lontano dalla città, e forse non sarebbe stato difficile a una polizia bene ordinata di vigilarlo. Tuttavia le rapine, le grassazioni a danno dei vetturali e dei carrettieri o della corriera postale vi erano continue e audaci. La campagna vi offriva tali nascondigli, che, compiuto il colpo, le bande vi si potevano dileguare senza esser vedute.
V’era una piccola osteria; almeno tale sembrava dalla frasca di alloro che vi sporgeva dallo stipite della porta sulla strada. In verità era una meschina casetta di pietre e fango, senza ammattonato; due stanze, nella prima delle quali era una tavola sudicia e barcollante, e alcune panche di legno non meno sudice e malferme, un piccolo banco e una botte; nell’altra stanza, dove non a tutti era concesso di entrare, si apriva un’altra porta che dava nella campagna.
I carrettieri, i “canceddi”, i corrieri, si fermavano un istante, sulla porta, a bere un bicchier di vino, per ristorarsi; scorgevano talvolta nell’interno delle facce torbide e spaventevoli, e un luccicar di canne di fucili e di tromboni; e allora si raccomandavano ai santi e alle anime del purgatorio, e si affrettavano a partire. L’oste aveva un viso doppio e traditore: pareva a prima vista un brav’uomo contento e buon amico di tutti; ma aveva sotto quella maschera un sogghigno malvagio e poco rassicurante. Egli era per la sua sicurezza la spia, il manutengolo, il provveditore delle bande brigantesche, pur fingendo di essere nel tempo stesso la spia della giustizia, pur troppo continuamente ingannata dalle sue false indicazioni
Da parecchi giorni era piovuto; e le strade eran così fangose, che le ruote dei carri vi affondavano e vi aprivano dei solchi che si sovrapponevano o si intersecavano e rendevano difficile e faticoso il cammino. Ma qualche giorno prima della festa di Natale il tempo s’era rasserenato, e un bel sole ristoratore splendeva nell’azzurro del cielo. Lunghe “retini” di muli e carri, pieni di agnelli, di maiali, di caci, di tutto ciò che la provincia inviava alla voracità cittadinesca, e che i feudi mandavano ai signori, percorrevano le strade. Chi per sue faccende si trovava lontano dalla capitale, approfittando del bel tempo, si affrettava a tornare: cosicchè non era infrequente incontrare una lettiga, dondolantesi alla cadenza delle sonagliere, che trasportava qualche signore o qualche procuratore.
I “borgesi” viaggiavano a cavallo. Raramente s’incontrava la compagnia dei cavalleggeri, addetta alla sicurezza delle strade e delle campagne. Essa accorreva, quando accorreva, dopo qualche grande e audace aggressione.
L’antivigilia del Natale due cavalli fermatisi dinanzi all’osteria di Malpasso fecero accorrere l’oste premuroso. Due giovani cavalieri ne smontarono, con le carabine in mano. Uno di essi, gittando le redini nelle mani dell’altro, disse all’oste:
- Avete da mangiare?
- Eccellenza, – rispose l’oste – che cosa vuole che una povera bettola di campagna abbia? Un pezzo di formaggio e del pane casalingo... Non sono cose per...
- Sta bene. Basta per togliere la fame...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.

Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15)
Disponibili a Catania presso: Libreria La Paglia di Stefano Morgano (Via Etnea, 393-395)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
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Luigi Natoli: Strade pericolose. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

 
Le strade non erano sicure; una contrada, presso Palermo, Portella di mare, era diventata tristamente famosa per l’audacia dei malandrini; e alla forca dello Sperone si vedevano assai spesso pendere le membra, orribilmente oscene e sanguinose, dei ladroni di strada squartati dalla giustizia. Chi viaggiava, dunque, o si faceva accompagnare dai propri campieri, guardie dei feudi, che costituivano una milizia baronale, o dai militi delle compagnie rurali del regno, specie di cavalleria campestre, reclutata tra il fiore dei bricconi per dar la caccia quando la davano, ai malandrini.
Oltrepassando il ponte dell’Ammiraglio la strada era deserta: a mala pena, fra gli oliveti e i giardini, si vedeva qua e là, fino a monte Grifone, qualche casa colonica, o qualche torre; poi più nulla. La strada mal tenuta, fangosa d’inverno, polverosa d’estate, or procedeva all’aperto, coi monti da un lato, il fiume dall’altro, declinante verso il mare; or si incassava fra rupi gialle e rosse, o correva sulla china di una giogaia, qua e là fiancheggiata da macchie folte e selvagge; o da siepi naturali e intricate di fichi d’India irti di spine, e di zabare dai pungiglioni simili a punte di lance.
Oltrepassata Bagaria, or sì, or no, costeggiava il mare e scopriva tutta la curva del golfo di Termini, col promontorio di Cefalù in fondo e, dietro, il dorso dei contrafforti delle Madonie; poi, a un tratto, l’azzurro del mare e la spiaggia, dove Aspra di scogli neri e pittoreschi, sparivano dietro un poggiolo.
I tre cavalli andavan all’ambio, scotendo le sonagliere ritmicamente; quando la strada saliva, allentavano il passo, trascinandosi dietro la carrozza pesante, che si dondolava sulle forti cinghie di cuoio, fatta ancor più pesante da due grandi valigie e da una cesta di provisioni da bocca.
La fanciulla, che viaggiava per la prima volta, sporgeva il capo dallo sportello, ammirando il paesaggio sempre nuovo e diverso, di quella bellezza selvatica che ha la natura vergine, anche dove l’orrido le dà un aspetto spaventevole e minaccioso.
Al suono delle sonagliere, allo scalpitio di cinque cavalli, al rumore delle ruote, che l’eco sonora delle rocce ripeteva nel silenzio deserto, si levavano dai fichi d’India o dai crepacci delle prossime rupi stormi di uccelli, con un frullìo rumoroso d’ali che si perdeva nel cielo luminoso.
La carrozza aveva oltrepassato il castello di S. Nicola, con la sua torre a specchio sul mare, entrando in una gola, fra due pareti di rocce silicee, dalle cui spaccature pendevano fichi selvatici e cespi di capperi. Saliva lentamente. I due campieri erano passati innanzi, con lo schioppo sulle cosce. L’uscita della gola era traditora: le rocce finivano a un tratto e la strada usciva all’aperto fra due piaggie lievemente inclinate, delle quali una saliva fino ai monti, foracchiati da grotte nere, l’altra finiva in un poggiuolo, oltre il quale discendeva nuovamente fino al mare. Della gente si poteva appiattare dall’una parte e dall’altra dello sbocco, senza esser veduta da chi stava ancora dentro la gola; e poteva cogliere alla sprovvista.
Si sapeva che quello era uno dei passaggi pericolosi; epperò la carrozza andava di passo, e i due campieri le si erano posti dinanzi, il servo aveva preparato lo schioppo e il marchese aveva posto sul sedile le pistole, montate.
Donna Aurora a questi preparativi era diventata bianca come la cera, e si era cacciata in fondo alla carrozza, tremando di quell’ignoto che li minacciava.
A un tratto cacciò un urlo di spavento....


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.

Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15)
Disponibili a Catania presso: Libreria La Paglia di Stefano Morgano (Via Etnea, 393-395)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
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martedì 9 novembre 2021

Luigi Natoli: Audioracconto de "Il fantasma del web" : L'odio di Matteo Palizzi nei confronti del popolo palermitano. Tratto da: Il tesoro dei Ventimiglia

 


Grazie a "Il fantasma del web" per l'audioracconto tratto da Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2) nella parte di Matteo Palizzi che esprime tutto il suo odio nei confronti del popolo palermitano. Chi vuole ascoltare l'audioracconto completo: 


Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli anni 1925 e 1926.
Copertine di Niccolò Pizzorno



Mastro Bertuchello – Pagine 575 – Prezzo di copertina € 22,00
Il Tesoro dei Ventimiglia – Pagine 525 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile online su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella 15), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Nuova Ipsa Editore (Piazza Leoni)

mercoledì 3 novembre 2021

Luigi Natoli: Grande conversazione al palazzo Geraci. Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano

 
C’era una grande conversazione in casa della marchesa di Geraci. Il palazzo sorgeva nel Cassaro, dove sorge ancora, sebbene non avesse ancora tutte le sue parti; e non mostrava nella triplice porta e nell’atrio la imponenza della sua mole e l’orgoglio della famiglia. Si capiva benissimo che non si tralasciava l’occasione per frequentare la nobile casa, e i Geraci sfoggiavano fin dallo scalone la loro magnificenza. Fino al Quattrocento i nobili erano solamente conti; il primo nominato marchese fu il magnifico Giovanni Ventimiglia, che da conte di Geraci diventò marchese, e per un secolo si disse in Sicilia semplicemente “il marchese” senza altro per indicare i Ventimiglia. Questo fatto aveva indotto a ritenere la loro nobiltà come la più antica e genuina; e sebbene il feudo fosse elevato a principato, pure tenevano a quel primo titolo.
Le vaste sale erano affollate di dame di tutte le età e di tutte le bellezze. Non dico che vi era anche qualche bruttezza; la quale per altro serviva inconsapevolmente di contrapposto per far meglio risaltare la beltà delle altre; e qualche scheletrica o per converso sferoidale figura, che facevano apprezzare meglio le gentili e giovanili silfidi che popolavano le sale. E la gran maggioranza era di maritate; gli usi del mondo allora non consentivano alle fanciulle di intervenire alle conversazioni e alle feste da ballo. Appena se ne vedeva qualcuna, ma di solito aveva oltrepassato i trenta anni, che in una città e in una classe abituata a vederle spose a sedici ed anche a quattordici anni, significava avere quasi l’età sinodale. Dunque giovani mogli, sul cui volto si leggeva apertamente il desiderio di piacere. E ne avevano il bisogno; maritate dai parenti, senza conoscere il futuro marito, senza amarlo, spesso d’età quattro volte maggiore di quella della sposa, sentivano in cuore una aspirazione a qualche sentimento più dolce, che si tramutava in desiderio, e da questo in voglia. Non diciamo poi delle vedove ancor giovani o per lo meno ancora piacenti, e della moda dei cavalieri serventi.
Si capisce quale poteva essere la conversazione tra le dame e i cavalieri serventi e non serventi, e quale era lo sdolcinato linguaggio in uso fra loro.
La marchesa di Geraci aveva oltrepassato la quarantina ed era bruttina, ma spiritosa, e doveva a questa qualità la corte che le facevano non certo i giovani, che sfarfallavano dove il miele era più fresco e più dolce, ma i più maturi. Ella riceveva con molto garbo; aveva una frase gentile per chiunque le era presentato, sorridente e incoraggiante. Accanto a lei stava la giovane duchessa di Archi, come una tortorella abbandonata, dacchè il marito, un rompicollo, aveva stimato meglio seguire in continente la prima donna del teatro di S. Cecilia, senza dar di sé alcuna notizia. Era bellina, e il sorriso dolcemente malinconico era una leva potente per sollevare i pesi più saldi. La marchesa di Geraci se la teneva vicina appunto per la sua forzata vedovanza, che la rendeva interessante agli occhi di tutti, specialmente degli uomini, che però non osavano farle la corte sotto la vigilanza della marchesa. Appunto per questo, ella aveva per suo servente il cavaliere d’Archirafi, che aveva cinquantacinque anni: le oneste maldicenze erano messe a tacere.
Un’altra stella di prim’ordine era la duchessa di Garsiliato, che splendeva in mezzo ad una corte di gentiluomini. Era veramente bella, alta, slanciata, il volto ovale, nel quale sfolgoravano gli occhi nerissimi, il naso era un poema, diritto con le narici piccole leggermente rosee; la bocca di corallo. Non si poteva dir quanto fosse da attribuire ai segreti della sua toeletta, ma le fattezze incomparabilmente regolari non avevano bisogno dell’aiuto dei cosmetici. Parlava con grazia, un po’ lenta, con lievi gesti del capo, e con un sorriso affascinante. Aveva trentadue anni.
Ma la marchesa di Aidone, una bella donna anche lei, pareva la fragilità in persona; si sarebbe detto che si spezzava in due; ogni più piccolo incidente le cagionava una grande commozione che si manifestava in interiezioni, in “ohimè”, in “oh Dio”, in mani al cuore e simili gesti di una straordinaria sensibilità. Era piccolina e piuttosto magra.
La contessa di San Bartolomeo per converso rideva sempre per qualunque causa, anche se triste; era una cosa superiore alla sua volontà; rideva di nulla, e spesso si domandava perché ridesse. Grassoccia, né alta, né bassa, bianca e rosea, pareva il ritratto della buona salute, e infondeva agli altri la giocondità. Aveva anche lei ventisette anni come la marchesa di Aidone.
La principessa d’Altofonte pareva una regina orgogliosa; era bella, ma le sue fattezze riflettevano l’orgoglio e acquistavano una certa durezza, che respingeva gli animi. Giunonica, s’avvaleva del suo corpo per imporsi, e dovunque passava, accoglieva con un sorriso di protezione gli inchini di chi, forse, valeva più di lei. Non aveva che una adorazione: la plastica e armoniosa bellezza delle sue forme; e quando usciva dal bagno, si guardava tutta nuda nel grande specchio, compiacendosi con se stessa, e domandandosi se v’era alcuna donna che si rassomigliasse a lei. Se fosse vissuta ai tempi delle favole, avrebbe creduto che il sommo Giove l’avesse generata.
Ma a che parlare di tutte quante le dame che rendevano i saloni della marchesa di Geraci simili a olezzanti superbi mazzi di fiori.
V’era da per tutto un cicaleccio frammisto di risatine, di esclamazioni, di domande; un brusìo di mille voci che parlavano a voce moderata ma che tutte insieme facevano un tumulto giocondo. Ma a un tratto corse una voce e si fece un gran silenzio; la marchesa aveva preparato una sorpresa che nessuno si aspettava: la recita d’una farsetta originale, non lunga, con pochissimi personaggi; la marchesa taceva chi era l’autore, ma la incorreggibile imprudenza della baronessa di Santo Stefano aveva rivelato sotto voce che era la stessa marchesa, che si compiaceva di serbare l’anonimo. La malignità sussurrava che la baronessa ne aveva ricevuto l’imbeccata: ma ognuno fingeva di ignorarne l’autore.
V’era nell’ultima sala un palcoscenico velato, e là passarono gli invitati, e presero posto. Durante il pezzo suonato da una orchestra il chiacchierio si fece più vivace. Certo l’idea della marchesa, una commedia in un atto o una farsa, recitata in casa, era una cosa graziosa, specialmente se breve, e se l’autore sapeva trovare un soggetto divertente. Chi erano gli attori? Anche questo rimaneva segreto; non v’era che un attore in città che sapeva divertire il pubblico: Ferrazzano. Ma la baronessa di Santo Stefano non lo sapeva neppur lei, aveva saputo la composizione dell’opera, ma sulla scelta degli attori non sapeva nulla.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il titolo dello spettacolo: era “L’Amor beffato”. Un mormorio ridevole si propagò per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il velario; cominciava lo spettacolo...



Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700, quando l’opera comica si teneva al teatro Bellini. L’opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1932. Protagonista è Ferrazzano, comico del ‘700 e maschera del teatro siciliano sullo sfondo di arditi intrecci di dame, principi e cavalier serventi.  Prefazione di Rosario Palazzolo. 
Prezzo di copertina € 19,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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