mercoledì 28 settembre 2016

Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte e Vitale, lo scudiero di messer Andrea. Tratto da: Il pagigo della regina Bianca.


Mentre scioglievano le corde, Vitale in piedi volse gli occhi intorno. Dietro la fila dei bacinetti vide eretto sul cavallo Giovannello.
La folla che mareggiava accalcata dietro i soldati e  quelle migliaia d’occhi febbrili sparvero al suo sguardo, che si era empito della visione del giovanetto; come fosse un’apparizione d’altro mondo, desiderata e inaspettata a un tempo.
Giovannello era pallidissimo, ma sorridente. Vitale vide con curiosità che egli aggiustava una freccia nella balestra.
- Monta su! – gli gridò l’aiutante.
Vitale cominciò a salire.
Un vocìo gli fece calar gli occhi; poco distante dal luogo dov’era Giovannello vide alcuni uomini, che spingendosi sopra la fila dei bacinetti, e facendola ondeggiare, contrastavano coi soldati.
Vitale era giunto; il boia assicurò la corda, e l’aiutante passato il nodo intorno al collo della vittima, si apparecchiava ad aggrapparglisi ai piedi, per affrettarne lo strozzamento. Dalla scala dov’era strinse con ambo le braccia i piedi e stava per lanciarsi nel vuoto…
Prese l’abbrivo… Qualche cosa guizzò sibilando, la corda si spezzò. Vitale e l’aiutante precipitarono sul palco in un fascio.
Avvenne un tumulto indescrivibile: la folla, urlando: “Grazia! grazia!” urtò contro le file dei soldati, scomponendole; i soldati resistettero; gli uomini che eran sotto il palco sguainarono i coltellacci, rovesciarono il fiscale e si lanciarono sul palco tra il balenare delle picche; la folla ondeggiò: si vide un cavallo balzare, farsi largo, accostarsi al palco; un uomo saltare in groppa.
Tra le grida, la confusione, il tumulto, il cavallo fendè la calca, si cacciò per una strada, sparve tra’ vicoli deserti; intanto che ancora intorno al palco la folla urtando e urtata dai soldati, invaso il patibolo, gridava: “Grazia! grazia!” e gli uomini armati di coltellaccio, minacciando, si facevano largo.
Sul palco il boia e il suo aiutante eran rimasti attoniti, irresoluti, fermati dalle grida della moltitudine, impauriti dal balenare delle armi, pensosi più di guardar se stessi che d’altro. L’invasione del palco li aveva oppressi; qualche pugno era caduto sopra di loro. Per difendersi avevan dovuto sguainare i coltelli.
Nessuno in quell’istante indescrivibile s’era accorto che Vitale era sparito; tutti lo cercavano. Il boia e l’aiutante per non farlo sfuggire, la folla per portarlo in trionfo.
A quel cavallo che impennandosi, balzando, aveva sbandato intorno a sè la folla, e s’era fatto largo, nessuno, intento a scansare una zampata, aveva guardato bene.
Soltanto un uomo, mastro Cecco di Naro, aveva seguito quella scena con l’animo sospeso, tremando, senza sangue nelle vene, tutto occhi.
Egli aveva veduto una balestra tendersi, un dardo scoccare, sibilare, recider netta la corda del supplizio; il suo cuore aveva cominciato a picchiare, e i suoi orecchi a ronzare.
Poi aveva veduto il cavallo lanciarsi, e il tumulto far quasi sparire il palco sotto l’onda umana; e l’aveva veduto ripassargli dinanzi, montato da due uomini; e allora vinto dalla commozione, dalla gioia, dallo stupore, s’era sentite vacillar le gambe.
 
 
Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca
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Luigi Natoli: la rivolta di Caccamo alla morte di Andrea Chiaramonte - Tratto da: Il paggio della regina Bianca.


Quando, decapitato Andrea, i beni furono confiscati, e Caccamo e gli armenti del conte di Modica furono dati da re Martino a messer Galdo di Queralt, uno degli avventurieri catalani venuti col re, Caccamo si ribellò, assalì il castello, cacciò via gli ufficiali del nuovo conte e, stretta poi d’assedio, si difese gagliardamente. Il re fu costretto ad accogliere il voto dei caccamesi e a decretare Caccamo città regia, e che mai potesse venire alienata e concessa ad altro barone. Ma nove mesi dopo, cioè sul finire del 1396, fu data in feudo a don Giaimo de Prades, parente del re e grande ammiraglio del regno.
Caccamo insorse una seconda volta. Don Giaimo de Prades ebbe dal re l’incarico di sottometterla. L’assedio durò a lungo; la città stremata di forze, dovette sottomettersi e domandar perdono.
I più ostinati tra’ ribelli, esclusi dal perdono regio, giudicati fuor bando, si gittarono fra’ monti per salvar la vita, vivendo di imposizioni e di scorrerie; razziando gli armamenti in specie dei baroni di origine catalana, dando così al loro brigantaggio un colore politico, che cattivava loro le simpatie delle popolazioni.
Le rivalità fra i baroni, la necessità di avere sottomano uomini risoluti per difendersi da aggressioni o per farne, dava qua e là ricovero a quei banditi, e col ricovero la sicurezza dell’impunità.
Coloro che pativano vendette o rappresaglie se ne lamentavano col re: il re scriveva ai capitani delle città regie, impartiva ordini ai baroni, prometteva premi; ma i banditi se ne ridevano. I capitani delle città non avevano milizie; i baiuli e i giurati, – che è come dire i magistrati municipali – non avevano da parte loro alcuna ragione di perseguitare quei banditi, che, pigliandosela coi baroni, rendevano assai spesso, indirettamente, qualche buon servigio alle città.
Così essi vivevano sicuri. Non mancava loro dove dormire la notte, né dove trovare agnelli e maiali e vino e pane, e quanto potesse loro occorrere. I boschi per altro abbondavano di selvaggina.
Una mattina quegli uomini, riposando all’ombra delle querce e degli elci del Godrano, videro un uomo a cavallo, d’aspetto feroce, con le vesti a brandelli. Qualcuno lo riconobbe.
-  È Vitale! È Vitale!
Agli abbracci, seguirono le spiegazioni. Gli altri si erano avvicinati; essi conoscevano di nome Vitale, che era stato lo scudiero devoto di messer Andrea.
Sfuggito all’arresto e alla morte, errava anche lui pei boschi come una selvaggina inseguita.
Quel giorno egli diventò il capo di quella banda, alla quale diede un nuovo indirizzo. Compiere ogni genere di rappresaglie contro quel nuovo baronaggio catalano venuto coi due Martini in Sicilia, e che a poco a poco s’andava sostituendo agli antichi baroni. Razzie di bestiame, incendi di ricolti, taglie. Quando occorreva, una freccia esperta e terribile serviva a punire gli audaci.
Le gesta di Vitale e dei suoi compagni cominciarono a diffondersi e ad acquistare un colore leggendario.
Un giorno Vitale seppe che Giovannello, il figlio del suo signore, era ancor vivo...


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Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte libero dalla prigionia ... - Tratto da: Il paggio della regina Bianca.


- Noi siamo di Caccamo, e non intendiamo avere altri signori, che non siano della vostra casa; abbiamo militato sotto il magnifico messer Andrea vostro padre, e quando egli fu assassinato dal re, seguimmo messer Enrico, vostro zio… Siamo venti, banditi dalla nostra terra, ricercati dalle milizie del re come ribelli… perché fedeli alla vostra casa… Abbiamo aspettato il momento opportuno per librarvi dalla prigionia, messere; perché voi, ultimo ed unico erede del gran nome, voi siete stato prigioniero del barone di Ciminna per ordine del re!... Ora eccovi libero, messere: voi siete il nostro signore. Comandateci.

La luna sorgeva in quel momento di fra le nubi, dietro i neri dorsi taglienti dei monti, e diffondeva una luce azzurra e blanda sul colle, dal quale non era ancor fuggito l’estremo barlume crepuscolare. Iluminava i profili di quegli uomini, con tocchi di luce, resi gagliardi dalle ombre.
In quell’ora, in quel colle, con quel silenzio, le parole di quell’uomo rude e affettuoso, fiero e sottomesso, selvaggio e devoto, avevano una solennità eroica e divina.
Giovannello taceva; si sentiva il cuore gonfio di una grande commozione.
Per la prima volta assaporava la gioia di sentirsi libero e signore di sé: lo stupore dei primi momenti, cedeva ad una specie di ebbrezza ineffabile. Per la prima volta sentiva di possedere la chiave della sua esistenza.
Guardò quegli uomini con un sentimento di riconoscenza, di ammirazione e di tenerezza. Quegli uomini, che vagavano ribelli, perseguitati, avevano conosciuto messer Andrea Chiaramonte, avevano combattuto con lui e per lui.
Stette un po’ in silenzio, non sapendo che risolvere: non aveva una meta, non aveva mai pensato che la sua vita potesse indirizzarsi a qualche scopo; non conosceva quelle contrade, non sapeva dove conducesse il sentiero che si intravedeva appena tra le rocce e le macchie.
La notte scendeva. Da lontano si udì echeggiare lugubre e lungo l’ululato di un lupo.
Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca
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martedì 27 settembre 2016

Luigi Natoli: Alla guerra! La grande storia del conflitto europeo del 1914...


A un tratto le trombe squillarono; i tamburi rullarono; e allora i soldati chinarono il capo sui fucili, tesero l’occhio ai mirini. Laggiù in fondo appariva una striscia grigiastra. Una nube di fumo la ravvolse; cento, mille sibili passarono sopra la trincea; era la morte invisibile. La trincea tuonò; un tuono che si propagò per una lunghezza interminabile; si ravvolse nel fumo; una striscia bianchiccia, che si sollevava da terra, in globi che si disfacevano.

In piedi, appoggiato alla sciabola sguainata, col binocolo sul petto, gli occhi fissi dietro le lenti, Benoist guardava, attraverso il fumo: la terra percorsa si levava con impeti; dei sassi si scheggiavano; sul capo, alle orecchie udiva continuo un sibilare strano, un miagolìo acuto e rabbioso; un frombar violento e rapido; e tuoni, e tuoni dietro a lui, dinanzi a lui; e guizzi di fiamme tra l’ondeggiare del fumo, e grida.

Passò nuovamente il maggiore, a cavallo, di trotto.

- Bravi, ragazzi!...

Ogni tanto qualcuno si lasciava cadere, pallido, con un gemito: qualche altro piombava senza neppure un grido, girando sopra sè stesso, come urtato da un colpo violento. Chi l’aveva colpito? Dinanzi a sè, oltre il fumo, Benoist vedeva la pianura deserta; solo in fondo, il paesaggio era sparso di piccoli bioccoli di fumo; uno accanto all’altro; percorso di una specie di nebbia, bassa, densa, prolungata sopra una linea. Non altro. Il nemico era quasi invisibile; ma la morte era lì, sospesa sul capo di tutti; Benoist ne sentiva la presenza; ne vedeva il gesto inesorabile; e tuttavia quel senso di orrore, di pietà, che fino a un’ora innanzi, destato dalle sue idee, gli aveva preso l’animo, ora taceva; lo spettacolo di quei soldati, che fermi al loro posto, non avevano un attimo solo di esitazione, non un gesto di debolezza, quei feriti, che si fasciavano da sé, e ritornavano al fuoco impassibili, o sorridendo; quell’offrirsi alla morte con la serenità di un dovere da compiere, che pareva dominasse la morte stessa; tutto ciò gli dava una forza nuova, una coscienza che superava quel momento, una gagliardia di spirito, per la quale sentiva crescere in sè tutte le energie della vita; un sentimento eroico, tanto più grande, quanto più non v’era difesa contro l’invisibile imminente pericolo.
Luigi Natoli - Alla guerra!
con le illustrazioni di Niccolò Pizzorno.


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Luigi Natoli: Alla guerra! La prima guerra mondiale narrata dall'autore siciliano.


L'automobile ansava per strade fatte arride dalla crudeltà della guerra: pareva che di proposito cercasse le immagini più terribili delle devastazioni, per imprimere nella memoria di Bianca indelebilmente la vasta, orrenda visione.        

Tramontava. Un tramonto triste, fosco nel quale le nebbie rosseggiavano, e qualche raggio di sole che rompeva le nubi, pareva uno zampillo di sangue. Il   sangue della Francia che gemeva ancora sotto l'im­mane guerra.

Giunsero a un villaggio, del quale non esisteva in piedi una sola casa. Immane mucchio di rovine deserte, che nell’ultimo bagliore crepuscolare avevano un aspetto più angosciante, l’automobile doveva andar lentamente e cautamente nel solco aperto tra le rovine pel passaggio dei carri. Quelle macerie erano irriconoscibili. Sassi sbriciolati e terriccio; di fra i quali emergeva qualche piede di tavola, o qualche trave di ferro contorto, o la spalliera di un letto. Un lembo di stoffa, uscendo di fra’ sassi, svolazzava. Dall’ombra nel quale il villaggio era scomparso, salutava forse con quel lembo di stoffa i vivi che passavano? Bianca rabbrividì. Su la parte più alta del villaggio, dove le macerie erano maggiori, qualche cosa diritta, rigida, si levava in aria. Bianca mandò un grido di spavento religioso. Era un Cristo. Un Cristo crocefisso, grande. L’ultimo guizzo di luce, estinguendosi sul suo corpo piagato, gli diede come un fremito di carne ancor vivente. Solo, nella rovina della chiesa, diritto nell’altare sepolto; solo, con le braccia aperte, col capo inchinato sul petto ferito, solo sopra la grande rovina, sopra le stragi, sopra le nefandezze; solo sopra la furia degli odii bestiali, rimaneva il Cristo nell’ultimo gesto del suo sacrificio; e parea che contemplando quelle rovine, con bocca amara mormorasse:

- Ah! non per questo offersi io la vita!

E Bianca mirò quell’immagine, che le bombe e l’incendio avevano lasciata intatta; e s’abbandonò sui cuscini del sedile piangendo e pregando.

L’automobile passò oltre.
 
 
Luigi Natoli - Alla guerra!
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Alla guerra! Il grande romanzo storico di Luigi Natoli ambientato in Francia nella prima guerra mondiale.


Qua e là per la foresta si incontravano fattorie, villaggi, castelli devastati, deserti. La furia della guerra vi si era abbattuta con tutti i suoi orrori. Bianca vedeva quel che fino allora non aveva veduto: la barbarie tedesca le si rivelava in tutta la sua fredda e calcolata crudeltà. I campanili demoliti, le chiese scoperchiate, le navate illese tramutate in stalle; le case e le officine ridotte macerie nere di fumo; e qua e là l'elmo puntuto di un fante; che seduto su quel­le rovine, pareva il genio della distruzione.

A ogni passo era una scena di nuove di­struzioni; anche gli alberi, i secolari alberi che avevano offerto pio ricovero ai nidi, che erano stati propizi d'ombre agli agricoltori, giacevano squarciati, spezzati, abbattuti per la foresta. E qua e là erano anche cumoli di terra, che trasudavano il tristo odore della morte.         

Soldati? paesani? innocenti sacrificati dal ferro e dal fuoco tedesco? Forse tutti insieme; e tutti francesi; gente del suo sangue, gente della sua lingua e su le loro fosse il piede del barbaro!

Più oltre, più oltre ancora! Fritz e il ser­gente parlavano vivacemente, ridendo ogni tanto, senza volgere uno sguardo alle rovine che attraversavano... Il sergente, accen­nando talora con la mano verso luoghi invisibili e lontani, pareva raccontasse le vicende delle lunghe e interminate battaglie, che si combattevano lungo il fronte da No­gan a la Lys; e le gesta compiute dalle loro truppe lo infiammavano ed eccitavano la sua allegria.
Luigi Natoli - Alla guerra!
 

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Illustrato da Niccolò Pizzorno.

giovedì 22 settembre 2016

Luigi Natoli: una riflessione di Giovanni Meli. Tratto da: L'abate Meli.


- Questa acciuga è ottima, e ac­compagnata dal pane è squisita, non c'è che dire. Però, mi piacerebbe di più se avessi una credenza o un riposti­glio, dal quale potrei prendere un bel pezzo di caccia. La quistione è che io sono un poeta, e perciò vivo quasi nella miseria: “Pictores, sculptores et cantores” con quel che segue. Vero è che mi danno del genio, ma preferirei che me lo mutassero in danari. Col genio non si vive. Per esempio, ho una sorella pazza che mi lascia senza desinare. Bene. Apro il ripostiglio e prendo un altro desinare, dai maccheroni alla frutta, senza tralasciare gli intingoli e i “piattini”... Quei domenicani hanno festeggiato il loro nuovo provinciale con un banchetto di ventiquattro piatti, settanta piattini, oltre i gelati e la frutta... Non dico che questo mi sarebbe piaciuto e toccato, ma... Il genio!... Se mi dessero l’equivalente, io non patirei tanto...
Luigi Natoli - L'abate Meli.
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Luigi Natoli e il Risorgimento siciliano. - Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


Rivedere la storia del nostro risorgimento sulla scorta dei documenti, degli epistolari, delle memorie e delle testimonianze dei sopravissuti; narrare le vicende fortunose attraverso le quali si unificò l’Italia, senza altra preoccupazione che di cercare la verità, senza inopportune adulazioni, e senza la retorica frasaiola che serve ordinariamente a celare o a falsare quella verità; divulgare la storia verace fra’ giovani, che di solito la imparano – se l’imparano – su compilazioni o igno­ranti o in malafede; e fra il popolo, che non l'impara punto, mi sembra lavoro utile, che occorrerebbe fare per ogni regione o provincia: chè oramai è tempo di finirla coi luoghi comuni e coi travestimenti.
Io voglio qui ricordare, e vorrei dir meglio narrare, come procedette nel 1860 l’annessione della Sicilia al Piemonte, perchè si vegga con quali artifizii e con quali menzogne fu creata sul continente una opinione pub­blica ostile al movimento rivoluzionario; e in Sicilia uno stato di animo, che senza il profondo sentimento patriottico di Garibaldi e dei repubblicani che lo circon­davano, avrebbe potuto generare conflitti fratricidi, a detrimento della causa nazionale.
 
 
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Luigi Natoli e i fratelli De Benedetto - Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860.


Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e appre­star armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contri­buendo largamente del loro patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolge­vano nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera.

Questa dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei Cairoli. Raffaele combattè al ‘48, cospirò nel decennio di preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì eroicamente a Monte San Giovanni nel 1367, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale morirono sulle barricate. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.
 
 

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Nella foto: Raffaele De Benedetto, ritratto esposto al Museo di Storia Patria - Palermo.

martedì 20 settembre 2016

Luigi Natoli: la battaglia al Monastero di S. Placido - Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.


Fu una pioggia di fuoco; ma gli ufficiali spagnuoli avevano potuto rior­dinare le compagnie, e rispondevano vi­gorosamente al fuoco. Il monastero era avvolto in una cer­chia di nubi cineree, squarciate da lampi e da tuoni.
L'ingegnere Secolo intanto cercava di trasportare i suoi pezzi sopra un'altra collina più alta; impresa ardua, giacché bisognava tirare i cannoni a braccia fra macchie e pruni e alberi; tuttavia da quei cannoni bene appostati dipendeva l'esito del combattimento.
Il capitan generale si recava da per tutto, osservando, ordinando, provveden­do. Dalla parte di tramontana gli spa­gnoli avevano superato la barricata, e si spingevano sotto le mura; i messinesi avevano dovuto ritirarsi dietro la secon­da linea, sorretti dai monaci e dagli altri insorti che tiravano dalle finestre.
Allora il capitano generale Lazzaro ebbe un'idea audace; mutar la difesa in un contrattacco; gittar due forti colonne sui reggimenti regi, ad arma bianca, sba­ragliarli, rovesciarli sul terzo reggimento, recarvi il disordine, e approfittandone prenderli di fronte e di fianco. Spiccò subito ordine a tutti i capi, avvertendo che l'assalto a ferro freddo doveva essere simultaneo da due parti, non appena piazzati i cannoni, al lancio di un razzo.
Gli spagnoli erano troppo preoc­cupati a sostenere il fuoco e a cercar di sloggiare i ribelli, per accorgersi di un movimento, ben mascherato del resto. Galeazzo, distese una trentina di ti­ratori scelti sul limite della boscaglia, per sostenere il fuoco, e raccolse gli altri, coi cavalieri della Stella, in colonna. Il capitan generale radunava altri trecento uomini nel sacrato della chiesa, coi migliori capitani, lasciando un centi­naio di tiratori alle finestre e ai muri per sostenere il fuoco. L'ingegnere che era giunto a collocare i suoi cannoni, tirò un colpo, e allora il capitan generale mandò per aria il suo razzo. Dalla fronte della chiesa e dal fianco della collina, due tor­renti impetuosi, con alte grida terribili, si slanciarono all'assalto dei due reggimen­ti spagnuoli.
La mischia fu terribile. Il numero rendeva quasi insormontabile la linea degli spagnuoli, ma l'impeto dei messinesi aveva qualcosa della irresistibilità degli alti marosi oceanici. La loro inferiorità numerica era ricompensata a usura dal­l'impeto, dal coraggio, da tutti i dolori, da tutte le vendette accumulate in tanti anni di servaggio, rese più acute, più feroci, più violente dai disagi presenti, dalla fa­me, dai morti.
Quella pugna notturna, intorno a quel monastero magnifico e solenne, sotto lo scampanare fitto e incessante, tra il lampeggiare rosseggiante delle schiop­pettate, nell'ondeggiar del fumo lievemente cinereo, aveva qualcosa di fantastico. Ogni uomo pareva moltiplicato. La tenue luce lunare obbligava gli occhi ad acuirsi per non sbagliare: la vita pareva tutta condensarsi nella potenza visiva e nella elasticità del braccio. Gli spagnuoli, ripiegando lentamente, erano venuti a poco a poco avvicinandosi al reggimento che si ostinava a battere il monastero dalla parte della grande ala: il capitan generale allora ordinò a Galeazzo di compiere col suo distaccamento e coi ca­valieri della Stella un movimento aggi­rante su pei colli, in modo da prendere alle spalle gli spagnuoli, e tagliata loro la ritirata sulla Scaletta, ributtarli in mare. Era precisamente ciò che gli spagnuoli avevano tentato invano.
Galeazzo si slanciò con entusiasmo, con un centinaio d'uomini, mentre il grosso del presidio continuava nella sua lenta avanzata, protetto dai tiratori che seminavano infallibili la morte nelle file nemiche.
Eran cinque ore che si combatteva; l'orologio del monastero impassibile e sereno, aveva suonato la mezzanotte; e la luna pareva si fosse fermata nell'alto dei cieli per illuminare quelle stragi....
Luigi Natoli
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Luigi Natoli: Rivendicazioni. - Da un articolo del Giornale di Sicilia del 15 gennaio 1901.


Noi abbiamo avuto il grandissimo torto di dimenticare la nostra storia, come se di essa avessimo da vergognarci. Prima del 1860 troppo esclusivisti, e, forse ciechi strumenti di vedute politiche, restringevamo ogni cultura storica alla Sicilia; dopo il ’60, per riazione contro il passato, cancellammo la Sicilia dai paesi che hanno una storia.
Perché? Per un malinteso principio di unitarismo. Noi – si disse con la solita esagerazione impetuosa meridionale – dobbiamo essere italiani: né siciliani, né napoletani, né toscani; tutti una sola famiglia!
Avemmo paura di una parola che parve coniata a posta per paralizzare ogni nostra iniziativa: il regionalismo; e questa paura ci fece confondere le aspirazioni dei separatisti col sentimento della nostra personalità storica; e per respingere l’accusa dei separatisti e reazionarii, che le combriccole affariste allobroghe, longobardiche ed etrusche ci gittavano in faccia, tutte le volte che avevano bisogno dei nostri danari, per farsi le ferrovie, i canali, le strade ecc. ecc. – per respingere questa accusa tendenziosa, ci sforzammo di distruggere quel sentimento della personalità, che piemontesi, lombardi, toscani han sempre conservato, e fatto anche pesare, pur mantenendosi politicamente unitari.

Dimenticammo così la nostra storia: e, gli studiosi nostri, che hanno consacrato e consacrano il loro tempo a illustrare, rinnovare la nostra storia, giudicammo e giudichiamo come dei fossili; le loro opere, ricercate e apprezzate fuori dall’Italia, abbiamo guardato e guardiamo con un disdegno e una superiorità tanto maggiori, quanto più profonda è la nostra ignoranza. Io vorrei sapere quanti fra noi oggi conoscono le opere del Gregorio; quanti hanno letto le monografie del La Lumia, le storie dell’Amari; quanti conoscono le pubblicazioni della Società di Storia Patria. Che maraviglia, se dal momento che noi pei primi diamo l’indecente spettacolo della nostra ignoranza e abbiamo tanto poco rispetto delle cose nostre, le ignorino e non ne abbiano nessuna stima i connazionali della penisola? Come pretenderemmo, per esempio, che in quel Pincio che a Roma è come il Famedio dell’Italia, siano ricordati i siciliani illustri, se i Consiglieri comunali di Palermo ridono allegramente all’udir proporre il battesimo di una strada col nome di un siciliano glorioso?
Come pretendere che nel Campidoglio, fra’ busti dei grandi maestri di musica sia compreso quello di Vincenzo Bellini, se in Sicilia, e l’ho sentito io, per la smania di scimmiottare, c’è chi bestemmia che il grande catanese è un musicista da barbieri? Come pretendere, che un professore di storia moderna d’una università d’Italia in un libro edito per cura della Società Dante Alighieri, non scriva spropositi di storia siciliana da far arrossire le statue della fontana pretoria, se un siciliano, che ha reputazione di colto, ed è uomo politico a Milano è andato a predicare che noi siamo quasi i beoti d’Italia? Come pretendere che in quel ciclo di conferenze fiorentine che avrebbero dovuto esprimere la vita politica e intellettuale di tutta l’Italia, si parli della Sicilia, se a Palermo non è stato mai possibile organizzare un circolo di conferenze sulla Vita Siciliana, e se della nostra storia non abbiamo nessun culto?
 
E c’è anche peggio: c’è che quando si è voluto dar saggio di conoscere la storia, non soltanto si son commessi spropositi madornali, ma si è perfino fatta ingiuria alla nostra dignità, si è dato uno schiaffo al nostro orgoglio cittadino, decretando testimonianze onorevoli a chi ci calunniò per malanimo, in sue storie, dopo averci offeso e calpestato con la prepotenza delle armi!
Ora mi par che sia tempo far conoscere noi a noi stessi; perché ci conoscan meglio gli altri; imparare a stimarci, perché gli altri ci stimino; mostrare quel che fummo, quel che facemmo, perché non ci si tratti più da popolo barbaro e conquistato. Mi par che sia tempo di far conoscere che la Sicilia ha dato al mondo qualcosa di più, e di più alto, e di più nobile, che non quella mafia voluta e reggimentata dai governi dal 1860 in poi, e che è la sola cosa che noi sciagurati, ed i continentali, ingiusti, facciamo conoscere.
Luigi Natoli - Maurus
Tratto da un articolo del Giornale di Sicilia del 15 gennaio 1901
Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: come reagì la famiglia Chiaramonte al "divorzio" di Francesco Ventimiglia da madonna Costanza. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Calatani vol 1)


Verso la metà di settembre di quell’anno 1328, l’armata siciliana ritornò. Era partita forte di cinquanta galere, oltre le navi minori, sotto il comando del giovine re Pietro, e col fiore dei cavalieri siciliani (v’erano i due Chiaramonte, Pietro Lancia, Matteo Sclafano, Rosso Rossi). Navigando pel Tirreno, aveva espugnato il castello di Astura, per vendicar l’ombra di Corradino, tradito dai signori d’Astura: poi quello di Nettuno; avevan dato qualche guasto alle marine di Toscana; poi avvenuto un abboccamento tra re Pietro e l’imperatore Ludovico; e compiuta qualche altra prodezza contro l’armata genovese e i guelfi di Toscana, l’armata se ne tornò a Messina, dove re Federigo era andato ad aspettarla.

I Chiaramonte ignoravano quanto era avvenuto a Costanza; chè si era creduto occultarlo finchè quelli stessero alla guerra; ma dopo le festevoli accoglienze del re, Damiano e Matteo Palizzi tratti i due Giovanni Chiaramonte in disparte li informarono a modo loro del ripudio e delle pratiche del divorzio. Da prima essi ascoltarono con stupore, parendo loro incredibile la cosa, ma poi lo sdegno e la collera infiammarono i loro volti. Giovanni il giovane voleva subito noleggiare una galera, o mettersi a cavallo per recarsi a Palermo. Voleva vedere e parlare con Costanza; voleva sapere come e perché; minacciava di uccidere il conte Geraci e strappargli il cuore. Giovanni il vecchio non era men di lui desideroso di vendetta; ma sapeva usar prudenza.

- La fretta non produsse mai nulla di bene! – ammoniva; – noi partiremo con agio, perché tanto arrivare un giorno prima o un giorno dopo non mette né toglie. E soprattutto, silenzio!

Essi partirono il domani, a cavallo. Matteo Palizzi, invitato ad accompagnarli, si scusò che il servizio di corte non glielo consentiva. In realtà voleva godersela da lontano.
L’incontro fra Costanza e suo fratello fu commovente. Ella gli si gittò fra le sue braccia piangendo: ed egli non seppe dirle nessuna parola di conforto, ma pianse anche lui, ma d’ira; e proruppe in amare invettive e in minacce...
Luigi Natoli
Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol 1)
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Luigi Natoli: il conte di Geraci "divorzia" dalla moglie Costanza Chiaramonte. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)

- Ascoltate, madonna. Sa Dio  se mi duole dover parlare di cose che non fanno piacere; ma è necessario per voi e per me. Sono trascorsi cinque anni da che siamo maritati: ma Dio non ha voluto benedire la nostra unione… Ho tanto aspettato da voi, un figlio che mi succedesse: ma la fortuna avversa ha inaridito in voi le sorgenti della vita… Or io non posso lasciare con me spegnersi la stirpe dei Ventimiglia. I miei maggiori mi legarono un obbligo sacro di continuare la loro discendenza, a gloria del nome e del regno… ed io non posso mancare. Speravo che le nostre nozze ci avrebbero reso felici; esse invece son divenute fonte di amarezza, per voi e per me. È necessario perciò che riprendiamo la nostra libertà...
- Era appunto questo che volevo proporvi; perché troppo, messer Francesco, avete mortificato il mio amor proprio di donna e di moglie, tenendomi alla pari della vostra concubina… Domani io lascerò la vostra casa…
- Non basta…
- Che c’è altro?
- Forse non mi sono saputo esprimer bene, madonna Costanza. Una separazione non basta, se noi restiamo legati; è un divorzio che noi dobbiamo domandare tutti e due d’accordo…
- Sta bene, – disse madonna Costanza, pallida, ma senza dar indizio di turbamento.
Messer Francesco se ne stupiva.
- S’intende che restituirò tutta la vostra dote…
- Di questo vi intenderete coi miei, messere.
E così dicendo, madonna Costanza se ne andò con passo fermo, con altera nobiltà nella sua camera, dove si chiuse, lasciando il marito balordo per lo stupore. Egli aveva immaginato di dover sostenere una lotta, che probabilmente lo avrebbe eccitato; si trovava ora vinto dalla grandezza d’animo di Costanza, e indispettito di dover riconoscere di uscire da quel discorso umiliato, anzi avvilito. Ma poi pensò, per consolarsi, che quella magnanimità era forse freddezza d’animo: che madonna Costanza non l’aveva mai amato.
Il domattina madonna Costanza si fece portare in lettiga nel palazzo di suo zio, il vecchio Giovanni Chiaramonte. Nessuno seppe come ella avesse trascorsa la notte: il velo nel quale s’era avvolta nascondeva il pallore del volto, le occhiaie livide e le palpebre arrossate.
Nel palazzo non trovò che le donne e il giovane Manfredi, suo cugino. Giovanni Chiaramonte, suo zio, era partito con la spedizione capitanata dal re Pietro, e che doveva coadiuvare l’impresa del re di Germania: l’altro Giovanni, suo fratello, era al seguito di questo re: Manfredi era ancor troppo giovine, e le donne erano imbelli. Nessuno poteva dunque prender le difese di lei. Alle donne, che vedendola così pallida e disfatta, le domandavano che cosa le fosse accaduto, rispose da prima brevemente e celando la verità; ma finì poi col confessare tutto tra i singhiozzi. La confessione suscitò orrore ed ira. Era un’infamia! Non doveva cedere, no! Bisognava che lo spergiurato non godesse la libertà che domandava!... Ah povera figlia! Quale sventura!...
Ma ella ricacciò indietro le lagrime. No! Aveva risoluto di rompere ogni legame. Era meglio. Che vendetta sarebbe mai stata quella di ricusare il suo consenso, se messer Francesco, potente com’era, poteva ottenere i divorzio anche senza l’assentimento di lei? Ora voleva vivere in pace, nell’ombra di un monastero...
Luigi Natoli
Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.

venerdì 9 settembre 2016

Luigi Natoli e la Quinta casa dei padri Gesuiti: tratto da "I mille e un duelli del bel Torralba".


Il nome le veniva dall’essere la quinta delle sei case religiose che i padri Gesuiti possedevano in Palermo. Sorgeva presso il Molo ed era adibita ordinariamente agli esercizi spirituali; e vi si andavano a chiudere per un dato periodo di giorni gli uomini che volevano purgarsi l’anima dei peccati, che ricommettevano poi uscendone. Ma cacciati i gesuiti nel 1776, la Casa fu in seguito trasformata in caserma per la cavalleria, e poi in casa di correzione, e munita di grosse inferriate alle finestre. Vasto e massiccio edificio, come ancora si vede, vi si chiudevano i borsaioli, maschi e femine, che si volevano correggere, “i figli dei ladri di cui si volevan fare dei buoni Siciliani, i cattivi soggetti, i bancarottieri, i rapitori di donne, che si lasciavano rapire e infine, per grazia speciale, si accordava ai padri scontenti di confidare i loro figli alla tenera vigilanza del padre Geronimo, cappuccino, e le loro figlie alla materna sollecitudine della signora donna Virginia”. Così si chiamavano i due corpulenti ed atletici personaggi direttori di questo istituto. Essi avevano una potestà illimitata sui loro prigionieri, salvo quella di vita e di morte.

Per entrarvi non occorreva una sentenza di magistrato; bastava che un padre, che voleva “amorosamente” correggere un figlio di qualche suo amoretto, ottenesse un biglietto dalla presidenza della Gran Corte, che era allora il giureconsulto don Giovanbattista Paternò; col quale biglietto egli cominciava col far prendere e legare il proprio figlio dai birri, che lo conducevano alla Quinta Casa “dove lo si chiudeva sotto chiave, e dove l’autore dei suoi giorni non tardava a raggiungerlo. Lì questi si accordava col padre Geronimo, per far amministrar regolarmente al suo caro figlio venti, trenta o quaranta nerbate la settimana, sopra una parte del corpo che il pudore mi vieta di nominare, colpi dei quali la prima ragione ordinariamente era data sotto gli occhi paterni”.    

Si usciva dalla Quinta Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì.
 
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%.

martedì 6 settembre 2016

Luigi Natoli e le rivoluzioni siciliane. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! (127). E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi!

E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.

E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.

Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano!

 Rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.

Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno.

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giovedì 1 settembre 2016

Luigi Natoli e re Federigo d'Aragona. Tratto da Latini e Catalani vol 1 - Mastro Bertuchello.


Federigo fu di animo grande; buon capitano, accorto ma non profondo politico, seppe far fronte alle grandi difficoltà, tenendo testa per quarant’anni al Papato, alla casa d’Angiò, alla Francia, ai Guelfi d’Italia, alla casa Aragona, alle armi, alle scomuniche, ai tradimenti; mantenendo l’indipendenza del Regno da abile nocchiero. I Siciliani videro in lui il principe che difendeva l’indipendenza, e per quarant’anni gli diedero sangue e averi; e con essi la forza e la costanza. Fu amico degli studi, e studioso egli stesso; fece venire in Sicilia Arnaldo di Villanova, celebre alchimista e filosofo, e con lui aveva in animo una riforma religiosa, alla quale s’era ispirato nel proporre un ordinamento generale della scuola, il primo che si vedesse. Fu legislatore sapiente, il quarto dopo Ruggero II, Guglielmo II e l’imperatore Federico. Ma sventuratamente lasciava tre mali; un successore inetto, un baronaggio strapotente, la guerra ancora accesa.

La stella della dinastia aragonese tramontò con lui, per non risorgere più.  
 
 
Luigi Natoli - Latini e Catalani vol 1- Mastro Bertuchello.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Luigi Natoli: La festa della Madonna della Lettera - Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.


Era questa una delle feste più solen­ni che si celebravano in Messina, e dopo quella dell'Assunta, era la più importan­te, come quella che celebrava, niente­meno! il giorno in cui la Madre di Gesù, proprio lei, inviava ai Messinesi con una lettera, scritta di suo pugno, una ciocca dei suoi biondi capelli. La lettera scritta il 3 giugno dell'an­no 42, fu data a due ambasciatori che i Messinesi, volendo convertirsi alla nuo­va fede avevano spedito alla madre di Gesù in Gerusalemme.

L'autenticità di questa lettera e della ciocca dei capelli non fu messa menoma­mente in dubbio; nessuno volle accor­gersi dello strafalcione cronologico che essa contiene; e dire che la lettera fu fab­bricata dall'umanista Lascaris nel secolo XV, pare anche oggi una bestemmia ai fedeli Messinesi; peggio poi pensare a qual capo poté essere tolto il capello che custodito in un'urna di cristallo di rocca, è per così dire, il palladio della città.

Si capisce come, aggiustando fede a una impostura, la festa che celebrava un avvenimento unico, orgoglio di Mes­sina, della quale la Vergine stessa si di­chiarava protettrice (Protectricem nos esse volumus) dovesse venire celebrata con le maggiori magnificenze.

Tutte le strade si addobbavano di drappi e di arazzi, magnifici di disegni e di ricami d'oro e d'argento quelli pen­denti alle finestre dei palazzi e dei mona­steri, rallegrati da ghirlande e da festoni di fiori quelli poveri delle umili case po­polari. Sopra antenne rizzate di proposi­to, sventolavano bandiere variopinte, e qua e là, nei crocicchi si elevavano archi di trionfo. Ogni tanto un altare ornato riccamente, con una immagine della Madonna; e intorno altri arazzi, altri fe­stoni, e fiori e sete e oggetti preziosi.

Le botteghe degli orafi e dell'arte della seta, vale a dire delle due maestran­ze più ricche e più potenti, si tramutava­no in gallerie fantastiche, che offrivano spettacoli meravigliosi di magnificenza, per le ricchezze che vi si mettevano in mostra. E poi, da per tutto, nelle finestre, nei balconi, dinanzi alle porte, intrec­ciati tra i festoni, lumi, lumi e lumi, che accesi la sera, spandevan tanta luce da fare, come scrive un cronista del tempo, “scorno al più fitto meriggio”. Ma ciò che formava la singolarità di quella festa era la esposizione di quadri, di statue, di nuova invenzione, ogni an­no; e che talvolta avevan argomento reli­gioso, ma più spesso erano allegorie, il si­gnificato delle quali non sfuggiva al popolo.

Quella era una delle processioni più strepitose, che si svolgeva per una lunga teoria di confraternite, di conventi e di preti, col capitolo del Duomo, il Sena­to, gli ufficiali della città, un lungo segui­to di gentiluomini e i Cavalieri della Stel­la, che godevano lo speciale privilegio di condurre la reliquia anche per la loro fe­sta, che cadeva il 6 gennaio, giorno dell'Epifania. I famosi capelli della Madonna nel­la loro custodia di cristallo, eran portati sopra un fercolo o macchina di argento, splendente di ceri, sotto un baldacchino di seta, tra i canti del clero e il fumo degli incensi e il rullìo dei tamburi, mentre su pel cielo squillavano le campane delle chiese.
 
Luigi Natoli - I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.
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