"I nostri romanzi sono una lettura eletta ed altamente appassionante, essi sono opera del grande WILLIAM GALT"
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venerdì 30 settembre 2016
mercoledì 28 settembre 2016
Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte e Vitale, lo scudiero di messer Andrea. Tratto da: Il pagigo della regina Bianca.
Mentre scioglievano le corde, Vitale in
piedi volse gli occhi intorno. Dietro la fila dei bacinetti vide eretto sul
cavallo Giovannello.
La folla che mareggiava accalcata dietro
i soldati e quelle migliaia d’occhi
febbrili sparvero al suo sguardo, che si era empito della visione del
giovanetto; come fosse un’apparizione d’altro mondo, desiderata e inaspettata a
un tempo.
Giovannello era pallidissimo, ma
sorridente. Vitale vide con curiosità che egli aggiustava una freccia nella
balestra.
- Monta su! – gli gridò l’aiutante.
Vitale cominciò a salire.
Un vocìo gli fece calar gli occhi; poco
distante dal luogo dov’era Giovannello vide alcuni uomini, che spingendosi
sopra la fila dei bacinetti, e facendola ondeggiare, contrastavano coi soldati.
Vitale era giunto; il boia assicurò la corda,
e l’aiutante passato il nodo intorno al collo della vittima, si apparecchiava
ad aggrapparglisi ai piedi, per affrettarne lo strozzamento. Dalla scala
dov’era strinse con ambo le braccia i piedi e stava per lanciarsi nel vuoto…
Prese l’abbrivo… Qualche cosa guizzò
sibilando, la corda si spezzò. Vitale e l’aiutante precipitarono sul palco in
un fascio.
Avvenne un tumulto indescrivibile: la
folla, urlando: “Grazia! grazia!” urtò contro le file dei soldati,
scomponendole; i soldati resistettero; gli uomini che eran sotto il palco
sguainarono i coltellacci, rovesciarono il fiscale e si lanciarono sul palco
tra il balenare delle picche; la folla ondeggiò: si vide un cavallo balzare,
farsi largo, accostarsi al palco; un uomo saltare in groppa.
Tra le grida, la confusione, il tumulto,
il cavallo fendè la calca, si cacciò per una strada, sparve tra’ vicoli deserti;
intanto che ancora intorno al palco la folla urtando e urtata dai soldati,
invaso il patibolo, gridava: “Grazia! grazia!” e gli uomini armati di coltellaccio,
minacciando, si facevano largo.
Sul palco il boia e il suo aiutante eran
rimasti attoniti, irresoluti, fermati dalle grida della moltitudine, impauriti
dal balenare delle armi, pensosi più di guardar se stessi che d’altro.
L’invasione del palco li aveva oppressi; qualche pugno era caduto sopra di
loro. Per difendersi avevan dovuto sguainare i coltelli.
Nessuno in quell’istante indescrivibile
s’era accorto che Vitale era sparito; tutti lo cercavano. Il boia e l’aiutante
per non farlo sfuggire, la folla per portarlo in trionfo.
A quel cavallo che impennandosi,
balzando, aveva sbandato intorno a sè la folla, e s’era fatto largo, nessuno,
intento a scansare una zampata, aveva guardato bene.
Soltanto un uomo, mastro Cecco di Naro,
aveva seguito quella scena con l’animo sospeso, tremando, senza sangue nelle
vene, tutto occhi.
Egli aveva veduto una balestra tendersi,
un dardo scoccare, sibilare, recider netta la corda del supplizio; il suo cuore
aveva cominciato a picchiare, e i suoi orecchi a ronzare.
Poi aveva veduto il cavallo lanciarsi, e
il tumulto far quasi sparire il palco sotto l’onda umana; e l’aveva veduto
ripassargli dinanzi, montato da due uomini; e allora vinto dalla commozione,
dalla gioia, dallo stupore, s’era sentite vacillar le gambe.
Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca
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Luigi Natoli: la rivolta di Caccamo alla morte di Andrea Chiaramonte - Tratto da: Il paggio della regina Bianca.
Quando, decapitato Andrea, i beni furono
confiscati, e Caccamo e gli armenti del conte di Modica furono dati da re
Martino a messer Galdo di Queralt, uno degli avventurieri catalani venuti col
re, Caccamo si ribellò, assalì il castello, cacciò via gli ufficiali del nuovo
conte e, stretta poi d’assedio, si difese gagliardamente. Il re fu costretto ad
accogliere il voto dei caccamesi e a decretare Caccamo città regia, e che mai
potesse venire alienata e concessa ad altro barone. Ma nove mesi dopo, cioè sul
finire del 1396, fu data in feudo a don Giaimo de Prades, parente del re e
grande ammiraglio del regno.
Caccamo insorse una seconda volta. Don
Giaimo de Prades ebbe dal re l’incarico di sottometterla. L’assedio durò a
lungo; la città stremata di forze, dovette sottomettersi e domandar perdono.
I più ostinati tra’ ribelli, esclusi dal
perdono regio, giudicati fuor bando, si gittarono fra’ monti per salvar la
vita, vivendo di imposizioni e di scorrerie; razziando gli armamenti in specie
dei baroni di origine catalana, dando così al loro brigantaggio un colore
politico, che cattivava loro le simpatie delle popolazioni.
Le rivalità fra i baroni, la necessità di
avere sottomano uomini risoluti per difendersi da aggressioni o per farne, dava
qua e là ricovero a quei banditi, e col ricovero la sicurezza dell’impunità.
Coloro che pativano vendette o
rappresaglie se ne lamentavano col re: il re scriveva ai capitani delle città
regie, impartiva ordini ai baroni, prometteva premi; ma i banditi se ne
ridevano. I capitani delle città non avevano milizie; i baiuli e i giurati, –
che è come dire i magistrati municipali – non avevano da parte loro alcuna
ragione di perseguitare quei banditi, che, pigliandosela coi baroni, rendevano
assai spesso, indirettamente, qualche buon servigio alle città.
Così essi vivevano sicuri. Non mancava loro
dove dormire la notte, né dove trovare agnelli e maiali e vino e pane, e quanto
potesse loro occorrere. I boschi per altro abbondavano di selvaggina.
Una mattina quegli uomini, riposando
all’ombra delle querce e degli elci del Godrano, videro un uomo a cavallo,
d’aspetto feroce, con le vesti a brandelli. Qualcuno lo riconobbe.
- È
Vitale! È Vitale!
Agli abbracci, seguirono le spiegazioni.
Gli altri si erano avvicinati; essi conoscevano di nome Vitale, che era stato
lo scudiero devoto di messer Andrea.
Sfuggito all’arresto e alla morte, errava
anche lui pei boschi come una selvaggina inseguita.
Quel giorno egli diventò il capo di
quella banda, alla quale diede un nuovo indirizzo. Compiere ogni genere di
rappresaglie contro quel nuovo baronaggio catalano venuto coi due Martini in
Sicilia, e che a poco a poco s’andava sostituendo agli antichi baroni. Razzie
di bestiame, incendi di ricolti, taglie. Quando occorreva, una freccia esperta
e terribile serviva a punire gli audaci.
Le gesta di Vitale e dei suoi compagni
cominciarono a diffondersi e ad acquistare un colore leggendario.
Un giorno Vitale seppe che
Giovannello, il figlio del suo signore, era ancor vivo...Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca.
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Luigi Natoli: Giovannello Chiaramonte libero dalla prigionia ... - Tratto da: Il paggio della regina Bianca.
- Noi siamo di Caccamo, e non intendiamo
avere altri signori, che non siano della vostra casa; abbiamo militato sotto il
magnifico messer Andrea vostro padre, e quando egli fu assassinato dal re,
seguimmo messer Enrico, vostro zio… Siamo venti, banditi dalla nostra terra,
ricercati dalle milizie del re come ribelli… perché fedeli alla vostra casa… Abbiamo
aspettato il momento opportuno per librarvi dalla prigionia, messere; perché
voi, ultimo ed unico erede del gran nome, voi siete stato prigioniero del
barone di Ciminna per ordine del re!... Ora eccovi libero, messere: voi siete
il nostro signore. Comandateci.
La luna sorgeva in quel momento di fra le
nubi, dietro i neri dorsi taglienti dei monti, e diffondeva una luce azzurra e
blanda sul colle, dal quale non era ancor fuggito l’estremo barlume crepuscolare.
Iluminava i profili di quegli uomini, con tocchi di luce, resi gagliardi dalle
ombre.
In quell’ora, in quel colle, con quel
silenzio, le parole di quell’uomo rude e affettuoso, fiero e sottomesso,
selvaggio e devoto, avevano una solennità eroica e divina.
Giovannello taceva; si sentiva il cuore
gonfio di una grande commozione.
Per la prima volta assaporava la gioia di
sentirsi libero e signore di sé: lo stupore dei primi momenti, cedeva ad una
specie di ebbrezza ineffabile. Per la prima volta sentiva di possedere la chiave
della sua esistenza.
Guardò quegli uomini con un sentimento di
riconoscenza, di ammirazione e di tenerezza. Quegli uomini, che vagavano ribelli,
perseguitati, avevano conosciuto messer Andrea Chiaramonte, avevano combattuto
con lui e per lui.
Stette un po’ in silenzio, non sapendo
che risolvere: non aveva una meta, non aveva mai pensato che la sua vita
potesse indirizzarsi a qualche scopo; non conosceva quelle contrade, non sapeva
dove conducesse il sentiero che si intravedeva appena tra le rocce e le
macchie.
La notte scendeva. Da lontano si udì
echeggiare lugubre e lungo l’ululato di un lupo.
Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca
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martedì 27 settembre 2016
Luigi Natoli: Alla guerra! La grande storia del conflitto europeo del 1914...
A un tratto le trombe
squillarono; i tamburi rullarono; e allora i soldati chinarono il capo sui
fucili, tesero l’occhio ai mirini. Laggiù in fondo appariva una striscia
grigiastra. Una nube di fumo la ravvolse; cento, mille sibili passarono sopra la
trincea; era la morte invisibile. La trincea tuonò; un tuono che si propagò per
una lunghezza interminabile; si ravvolse nel fumo; una striscia bianchiccia,
che si sollevava da terra, in globi che si disfacevano.
In piedi, appoggiato
alla sciabola sguainata, col binocolo sul petto, gli occhi fissi dietro le
lenti, Benoist guardava, attraverso il fumo: la terra percorsa si levava con impeti;
dei sassi si scheggiavano; sul capo, alle orecchie udiva continuo un sibilare
strano, un miagolìo acuto e rabbioso; un frombar violento e rapido; e tuoni, e
tuoni dietro a lui, dinanzi a lui; e guizzi di fiamme tra l’ondeggiare del
fumo, e grida.
Passò nuovamente il
maggiore, a cavallo, di trotto.
- Bravi, ragazzi!...
Ogni tanto qualcuno si
lasciava cadere, pallido, con un gemito: qualche altro piombava senza neppure
un grido, girando sopra sè stesso, come urtato da un colpo violento. Chi
l’aveva colpito? Dinanzi a sè, oltre il fumo, Benoist vedeva la pianura deserta;
solo in fondo, il paesaggio era sparso di piccoli bioccoli di fumo; uno accanto
all’altro; percorso di una specie di nebbia, bassa, densa, prolungata sopra una
linea. Non altro. Il nemico era quasi invisibile; ma la morte era lì, sospesa
sul capo di tutti; Benoist ne sentiva la presenza; ne vedeva il gesto
inesorabile; e tuttavia quel senso di orrore, di pietà, che fino a un’ora
innanzi, destato dalle sue idee, gli aveva preso l’animo, ora taceva; lo
spettacolo di quei soldati, che fermi al loro posto, non avevano un attimo solo
di esitazione, non un gesto di debolezza, quei feriti, che si fasciavano da sé,
e ritornavano al fuoco impassibili, o sorridendo; quell’offrirsi alla morte con
la serenità di un dovere da compiere, che pareva dominasse la morte stessa;
tutto ciò gli dava una forza nuova, una coscienza che superava quel momento,
una gagliardia di spirito, per la quale sentiva crescere in sè tutte le energie
della vita; un sentimento eroico, tanto più grande, quanto più non v’era difesa
contro l’invisibile imminente pericolo.
Luigi Natoli - Alla guerra! con le illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
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Luigi Natoli: Alla guerra! La prima guerra mondiale narrata dall'autore siciliano.
L'automobile ansava per strade fatte arride
dalla crudeltà della guerra: pareva che di proposito cercasse le immagini più
terribili delle devastazioni, per imprimere nella memoria di Bianca
indelebilmente la vasta, orrenda visione.
Tramontava. Un tramonto triste, fosco nel quale le nebbie
rosseggiavano, e qualche raggio di sole che rompeva le nubi, pareva uno
zampillo di sangue. Il sangue della
Francia che gemeva ancora sotto l'immane guerra.
Giunsero a un
villaggio, del quale non esisteva in piedi una sola casa. Immane mucchio di
rovine deserte, che nell’ultimo bagliore crepuscolare avevano un aspetto più
angosciante, l’automobile doveva andar lentamente e cautamente nel solco aperto
tra le rovine pel passaggio dei carri. Quelle macerie erano irriconoscibili.
Sassi sbriciolati e terriccio; di fra i quali emergeva qualche piede di tavola,
o qualche trave di ferro contorto, o la spalliera di un letto. Un lembo di
stoffa, uscendo di fra’ sassi, svolazzava. Dall’ombra nel quale il villaggio
era scomparso, salutava forse con quel lembo di stoffa i vivi che passavano?
Bianca rabbrividì. Su la parte più alta del villaggio, dove le macerie erano
maggiori, qualche cosa diritta, rigida, si levava in aria. Bianca mandò un
grido di spavento religioso. Era un Cristo. Un Cristo crocefisso, grande.
L’ultimo guizzo di luce, estinguendosi sul suo corpo piagato, gli diede come un
fremito di carne ancor vivente. Solo, nella rovina della chiesa, diritto
nell’altare sepolto; solo, con le braccia aperte, col capo inchinato sul petto
ferito, solo sopra la grande rovina, sopra le stragi, sopra le nefandezze; solo
sopra la furia degli odii bestiali, rimaneva il Cristo nell’ultimo gesto del
suo sacrificio; e parea che contemplando quelle rovine, con bocca amara
mormorasse:
- Ah! non per questo
offersi io la vita!
E Bianca mirò
quell’immagine, che le bombe e l’incendio avevano lasciata intatta; e
s’abbandonò sui cuscini del sedile piangendo e pregando.
L’automobile passò
oltre.
Luigi Natoli - Alla guerra!
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Alla guerra! Il grande romanzo storico di Luigi Natoli ambientato in Francia nella prima guerra mondiale.
Qua e là per la foresta si incontravano fattorie,
villaggi, castelli devastati, deserti. La furia della guerra vi si era
abbattuta con tutti i suoi orrori. Bianca vedeva quel che fino allora non aveva
veduto: la barbarie tedesca le si rivelava in tutta la sua fredda e calcolata
crudeltà. I campanili demoliti, le chiese scoperchiate, le
navate illese tramutate in stalle; le case e le officine ridotte macerie nere di
fumo; e qua e là l'elmo puntuto di un
fante; che seduto su quelle rovine, pareva il genio della distruzione.
A ogni passo era una scena di nuove distruzioni; anche gli
alberi, i secolari alberi che avevano offerto pio ricovero ai nidi, che erano
stati propizi d'ombre agli agricoltori, giacevano squarciati,
spezzati, abbattuti per la foresta. E qua e là erano anche cumoli di terra, che
trasudavano il tristo odore della morte.
Soldati? paesani? innocenti sacrificati dal ferro e dal fuoco
tedesco? Forse tutti insieme; e tutti francesi; gente del suo sangue, gente
della sua lingua e su le loro fosse il piede del barbaro!
Più oltre, più oltre ancora! Fritz e il sergente parlavano
vivacemente, ridendo ogni tanto, senza volgere uno sguardo alle rovine che attraversavano...
Il sergente, accennando talora con la mano verso luoghi invisibili e lontani,
pareva raccontasse le vicende delle lunghe e interminate battaglie, che si combattevano
lungo il fronte da Nogan a la Lys; e le gesta compiute dalle loro truppe lo
infiammavano ed eccitavano la sua allegria.
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Illustrato da Niccolò Pizzorno.
giovedì 22 settembre 2016
Luigi Natoli: una riflessione di Giovanni Meli. Tratto da: L'abate Meli.
- Questa acciuga è ottima, e accompagnata dal pane è
squisita, non c'è che dire. Però, mi piacerebbe di più se avessi una credenza o
un ripostiglio, dal quale potrei prendere un bel pezzo di caccia. La quistione
è che io sono un poeta, e perciò vivo quasi nella miseria: “Pictores, sculptores et cantores” con quel che segue. Vero è che
mi danno del genio, ma preferirei che me lo mutassero in danari. Col genio non
si vive. Per esempio, ho una sorella pazza che mi lascia senza desinare. Bene.
Apro il ripostiglio e prendo un altro desinare, dai maccheroni alla frutta,
senza tralasciare gli intingoli e i “piattini”... Quei domenicani hanno
festeggiato il loro nuovo provinciale con un banchetto di ventiquattro piatti,
settanta piattini, oltre i gelati e la frutta... Non dico che questo mi sarebbe
piaciuto e toccato, ma... Il genio!... Se mi dessero l’equivalente, io non
patirei tanto...
Luigi Natoli - L'abate Meli. Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Luigi Natoli e il Risorgimento siciliano. - Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Rivedere
la storia del nostro risorgimento sulla scorta dei documenti, degli epistolari,
delle memorie e delle testimonianze dei sopravissuti; narrare le vicende
fortunose attraverso le quali si unificò l’Italia, senza altra preoccupazione
che di cercare la verità, senza inopportune adulazioni, e senza la retorica
frasaiola che serve ordinariamente a celare o a falsare quella verità;
divulgare la storia verace fra’ giovani, che di solito la imparano – se l’imparano
– su compilazioni o ignoranti o in malafede; e fra il popolo, che non l'impara
punto, mi sembra lavoro utile, che occorrerebbe fare per ogni regione o
provincia: chè oramai è tempo di finirla coi luoghi comuni e coi travestimenti.
Io
voglio qui ricordare, e vorrei dir meglio narrare, come procedette nel 1860 l’annessione
della Sicilia al Piemonte, perchè si vegga con quali artifizii e con quali
menzogne fu creata sul continente una opinione pubblica ostile al movimento
rivoluzionario; e in Sicilia uno stato di animo, che senza il profondo
sentimento patriottico di Garibaldi e dei repubblicani che lo circondavano,
avrebbe potuto generare conflitti fratricidi, a detrimento della causa
nazionale.
Luigi Natoli e i fratelli De Benedetto - Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860.
Erano tutti stati attivissimi nel cospirare e apprestar
armi alla rivoluzione, rischiando la vita e contribuendo largamente del loro
patrimonio; Salvatore era stato arrestato poco tempo innanzi; Raffaele e
Pasquale eran fuggiti alle ricerche della polizia, e s'erano uniti con Rosalino
Pilo; poi avevano raggiunto Garibaldi, e il 27 maggio li trovò nelle prime
file. Il 28, Salvatore, uscito con gli altri dal carcere, corse a trovarli, ma Raffaele
giaceva per la grave ferita toccata il 27 al ponte dell'Ammiraglio, e soltanto
Salvatore e Pasquale poteron prender parte ai combattimenti che si svolgevano
nella città. Ora difendevano con le squadre e coi volontari la barricata del
palazzo Carini; Pasquale audace, ferito già da una scheggia, pugnando a petto
scoverto, cadeva colpito nuovamente da una palla al fianco; Salvatore, che gli
stava di presso, accorso per sostenerlo, aveva da un'altra palla passato il
cuore: caddero abbracciati sulla barricata, all'ombra della loro bandiera.
Questa
dei De Benedetto fu una famiglia di eroi per nulla inferiore a quella dei
Cairoli. Raffaele combattè al ‘48, cospirò nel decennio di
preparazione, fu coi fratelli massima parte della rivoluzione del 4 aprile, fu
ferito a Palermo, seguì Garibaldi ad Aspromonte, combattè nel Trentino, morì
eroicamente a Monte San Giovanni nel 1367, dinanzi a Roma. Salvatore e Pasquale
morirono sulle barricate. Anche i due minori fratelli Luigi e Carmelo aiutarono
le rivoluzioni, sebbene ancor giovinetti.
Luigi Natoli - Tratto da Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano. Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Nella foto: Raffaele De Benedetto, ritratto esposto al Museo di Storia Patria - Palermo.
martedì 20 settembre 2016
Luigi Natoli: la battaglia al Monastero di S. Placido - Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.
Fu una pioggia di fuoco; ma gli
ufficiali spagnuoli avevano potuto riordinare
le compagnie, e rispondevano vigorosamente al fuoco. Il monastero era avvolto in una cerchia di nubi cineree, squarciate da
lampi e da tuoni.
L'ingegnere Secolo intanto
cercava di trasportare i suoi pezzi sopra un'altra collina più alta; impresa
ardua, giacché bisognava tirare i cannoni a braccia fra macchie e pruni e
alberi; tuttavia da quei cannoni bene appostati dipendeva l'esito del combattimento.
Il capitan generale si recava
da per tutto, osservando, ordinando, provvedendo. Dalla parte di tramontana
gli spagnoli avevano superato la barricata, e si spingevano sotto le mura; i
messinesi avevano dovuto ritirarsi dietro la seconda linea, sorretti dai monaci e dagli altri
insorti che tiravano dalle finestre.
Allora il capitano generale Lazzaro ebbe un'idea audace; mutar la difesa in un
contrattacco; gittar due forti colonne sui reggimenti regi, ad arma bianca, sbaragliarli,
rovesciarli sul terzo reggimento, recarvi il disordine, e approfittandone
prenderli di fronte e di fianco. Spiccò subito ordine a tutti i capi,
avvertendo che l'assalto a ferro freddo doveva essere simultaneo da due parti,
non appena piazzati i cannoni,
al lancio di un razzo.
Gli
spagnoli erano troppo preoccupati a sostenere il fuoco e a cercar di sloggiare
i ribelli, per accorgersi di un movimento, ben mascherato del resto. Galeazzo,
distese una trentina di tiratori scelti sul limite della boscaglia, per
sostenere il fuoco, e raccolse gli altri, coi cavalieri della Stella, in
colonna. Il capitan generale radunava altri trecento uomini nel
sacrato della chiesa, coi migliori capitani, lasciando un centinaio di
tiratori alle finestre e ai muri per sostenere il fuoco. L'ingegnere che era
giunto a collocare i suoi cannoni, tirò un colpo, e allora il capitan generale
mandò per aria il suo razzo. Dalla fronte della chiesa e dal fianco della
collina, due torrenti impetuosi, con alte grida terribili, si slanciarono
all'assalto dei due reggimenti spagnuoli.
La
mischia fu terribile. Il numero
rendeva quasi insormontabile la linea degli
spagnuoli, ma l'impeto dei messinesi aveva qualcosa della
irresistibilità degli alti marosi oceanici. La loro inferiorità numerica era
ricompensata a usura dall'impeto, dal coraggio, da tutti i dolori, da tutte le
vendette accumulate in tanti anni di
servaggio, rese più acute, più feroci, più violente dai disagi presenti, dalla
fame, dai morti.
Quella
pugna notturna, intorno a quel monastero magnifico e solenne, sotto lo scampanare fitto e incessante, tra il lampeggiare
rosseggiante delle schioppettate, nell'ondeggiar del fumo lievemente cinereo, aveva qualcosa di fantastico.
Ogni uomo pareva moltiplicato. La tenue luce lunare obbligava gli occhi ad acuirsi per non sbagliare: la vita pareva tutta
condensarsi nella potenza visiva e nella elasticità del braccio. Gli spagnuoli,
ripiegando lentamente, erano venuti a poco a poco avvicinandosi al reggimento
che si ostinava a battere il monastero dalla parte della grande ala: il capitan
generale allora ordinò a Galeazzo di compiere col suo distaccamento e coi cavalieri
della Stella un movimento aggirante su pei colli, in modo da prendere alle
spalle gli spagnuoli, e tagliata loro la ritirata sulla Scaletta, ributtarli in
mare. Era precisamente ciò che gli spagnuoli avevano tentato invano.
Galeazzo
si slanciò con entusiasmo, con un centinaio d'uomini, mentre il grosso del
presidio continuava nella sua lenta avanzata, protetto dai tiratori che seminavano
infallibili la morte nelle file nemiche.
Eran
cinque ore che si combatteva; l'orologio del monastero impassibile e sereno, aveva
suonato la mezzanotte; e la luna pareva si fosse fermata nell'alto dei cieli
per illuminare quelle stragi....
Luigi Natoli
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Luigi Natoli: Rivendicazioni. - Da un articolo del Giornale di Sicilia del 15 gennaio 1901.
Noi abbiamo avuto il
grandissimo torto di dimenticare la nostra storia, come se di essa avessimo da
vergognarci. Prima del 1860 troppo esclusivisti, e, forse ciechi strumenti di
vedute politiche, restringevamo ogni cultura storica alla Sicilia; dopo il ’60,
per riazione contro il passato, cancellammo la Sicilia dai paesi che hanno una
storia.
Perché? Per un malinteso principio
di unitarismo. Noi – si disse con la solita esagerazione impetuosa meridionale
– dobbiamo essere italiani: né siciliani, né napoletani, né toscani; tutti una
sola famiglia!
Avemmo paura di una
parola che parve coniata a posta per paralizzare ogni nostra iniziativa: il
regionalismo; e questa paura ci fece confondere le aspirazioni dei separatisti
col sentimento della nostra personalità storica; e per respingere l’accusa dei
separatisti e reazionarii, che le combriccole affariste allobroghe,
longobardiche ed etrusche ci gittavano in faccia, tutte le volte che avevano
bisogno dei nostri danari, per farsi le ferrovie, i canali, le strade ecc. ecc.
– per respingere questa accusa tendenziosa, ci sforzammo di distruggere quel
sentimento della personalità, che piemontesi, lombardi, toscani han sempre
conservato, e fatto anche pesare, pur mantenendosi politicamente unitari.
Dimenticammo così la
nostra storia: e, gli studiosi nostri, che hanno consacrato e consacrano il
loro tempo a illustrare, rinnovare la nostra storia, giudicammo e giudichiamo
come dei fossili; le loro opere, ricercate e apprezzate fuori dall’Italia,
abbiamo guardato e guardiamo con un disdegno e una superiorità tanto maggiori,
quanto più profonda è la nostra ignoranza. Io vorrei sapere quanti fra noi oggi
conoscono le opere del Gregorio; quanti hanno letto le monografie del La Lumia,
le storie dell’Amari; quanti conoscono le pubblicazioni della Società di Storia
Patria. Che maraviglia, se dal momento che noi pei primi diamo l’indecente
spettacolo della nostra ignoranza e abbiamo tanto poco rispetto delle cose
nostre, le ignorino e non ne abbiano nessuna stima i connazionali della
penisola? Come pretenderemmo, per esempio, che in quel Pincio che a Roma è come
il Famedio dell’Italia, siano ricordati i siciliani illustri, se i Consiglieri
comunali di Palermo ridono allegramente all’udir proporre il battesimo di una
strada col nome di un siciliano glorioso?
Come pretendere che nel
Campidoglio, fra’ busti dei grandi maestri di musica sia compreso quello di
Vincenzo Bellini, se in Sicilia, e l’ho sentito io, per la smania di
scimmiottare, c’è chi bestemmia che il grande catanese è un musicista da
barbieri? Come pretendere, che un professore di storia moderna d’una università
d’Italia in un libro edito per cura della Società Dante Alighieri, non scriva
spropositi di storia siciliana da far arrossire le statue della fontana
pretoria, se un siciliano, che ha reputazione di colto, ed è uomo politico a Milano
è andato a predicare che noi siamo quasi i beoti d’Italia? Come pretendere che
in quel ciclo di conferenze fiorentine che avrebbero dovuto esprimere la vita
politica e intellettuale di tutta l’Italia, si parli della Sicilia, se a
Palermo non è stato mai possibile organizzare un circolo di conferenze sulla
Vita Siciliana, e se della nostra storia non abbiamo nessun culto?
E c’è anche peggio: c’è
che quando si è voluto dar saggio di conoscere la storia, non soltanto si son
commessi spropositi madornali, ma si è perfino fatta ingiuria alla nostra
dignità, si è dato uno schiaffo al nostro orgoglio cittadino, decretando testimonianze
onorevoli a chi ci calunniò per malanimo, in sue storie, dopo averci offeso e
calpestato con la prepotenza delle armi!
Ora mi par che sia tempo
far conoscere noi a noi stessi; perché ci conoscan meglio gli altri; imparare a
stimarci, perché gli altri ci stimino; mostrare quel che fummo, quel che
facemmo, perché non ci si tratti più da popolo barbaro e conquistato. Mi par
che sia tempo di far conoscere che la Sicilia ha dato al mondo qualcosa di più,
e di più alto, e di più nobile, che non quella mafia voluta e reggimentata dai
governi dal 1860 in poi, e che è la sola cosa che noi sciagurati, ed i
continentali, ingiusti, facciamo conoscere.
Luigi Natoli - Maurus
Tratto da un articolo del Giornale di Sicilia del 15 gennaio 1901
Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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Luigi Natoli: come reagì la famiglia Chiaramonte al "divorzio" di Francesco Ventimiglia da madonna Costanza. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Calatani vol 1)
Verso la metà di
settembre di quell’anno 1328, l’armata siciliana ritornò. Era partita forte di
cinquanta galere, oltre le navi minori, sotto il comando del giovine re Pietro,
e col fiore dei cavalieri siciliani (v’erano i due Chiaramonte, Pietro Lancia,
Matteo Sclafano, Rosso Rossi). Navigando pel Tirreno, aveva espugnato il
castello di Astura, per vendicar l’ombra di Corradino, tradito dai signori
d’Astura: poi quello di Nettuno; avevan dato qualche guasto alle marine di
Toscana; poi avvenuto un abboccamento tra re Pietro e l’imperatore Ludovico; e
compiuta qualche altra prodezza contro l’armata genovese e i guelfi di Toscana,
l’armata se ne tornò a Messina, dove re Federigo era andato ad aspettarla.
I Chiaramonte ignoravano
quanto era avvenuto a Costanza; chè si era creduto occultarlo finchè quelli
stessero alla guerra; ma dopo le festevoli accoglienze del re, Damiano e Matteo
Palizzi tratti i due Giovanni Chiaramonte in disparte li informarono a modo
loro del ripudio e delle pratiche del divorzio. Da prima essi ascoltarono con
stupore, parendo loro incredibile la cosa, ma poi lo sdegno e la collera
infiammarono i loro volti. Giovanni il giovane voleva subito noleggiare una
galera, o mettersi a cavallo per recarsi a Palermo. Voleva vedere e parlare con
Costanza; voleva sapere come e perché; minacciava di uccidere il conte Geraci e
strappargli il cuore. Giovanni il vecchio non era men di lui desideroso di
vendetta; ma sapeva usar prudenza.
- La fretta non produsse
mai nulla di bene! – ammoniva; – noi partiremo con agio, perché tanto arrivare
un giorno prima o un giorno dopo non mette né toglie. E soprattutto, silenzio!
Essi partirono il
domani, a cavallo. Matteo Palizzi, invitato ad accompagnarli, si scusò che il
servizio di corte non glielo consentiva. In realtà voleva godersela da lontano.
L’incontro fra Costanza e
suo fratello fu commovente. Ella gli si gittò fra le sue braccia piangendo: ed
egli non seppe dirle nessuna parola di conforto, ma pianse anche lui, ma d’ira;
e proruppe in amare invettive e in minacce...Luigi Natoli
Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol 1)
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Luigi Natoli: il conte di Geraci "divorzia" dalla moglie Costanza Chiaramonte. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)
- Ascoltate, madonna. Sa
Dio se mi duole dover parlare di cose
che non fanno piacere; ma è necessario per voi e per me. Sono trascorsi cinque
anni da che siamo maritati: ma Dio non ha voluto benedire la nostra unione… Ho
tanto aspettato da voi, un figlio che mi succedesse: ma la fortuna avversa ha
inaridito in voi le sorgenti della vita… Or io non posso lasciare con me
spegnersi la stirpe dei Ventimiglia. I miei maggiori mi legarono un obbligo
sacro di continuare la loro discendenza, a gloria del nome e del regno… ed io
non posso mancare. Speravo che le nostre nozze ci avrebbero reso felici; esse
invece son divenute fonte di amarezza, per voi e per me. È necessario perciò
che riprendiamo la nostra libertà...
- Era appunto questo che
volevo proporvi; perché troppo, messer Francesco, avete mortificato il mio amor
proprio di donna e di moglie, tenendomi alla pari della vostra concubina…
Domani io lascerò la vostra casa…
- Non basta…
- Che c’è altro?
- Forse non mi sono
saputo esprimer bene, madonna Costanza. Una separazione non basta, se noi
restiamo legati; è un divorzio che noi dobbiamo domandare tutti e due
d’accordo…
- Sta bene, – disse
madonna Costanza, pallida, ma senza dar indizio di turbamento.
Messer Francesco se ne
stupiva.
- S’intende che
restituirò tutta la vostra dote…
- Di questo vi
intenderete coi miei, messere.
E così dicendo, madonna
Costanza se ne andò con passo fermo, con altera nobiltà nella sua camera, dove
si chiuse, lasciando il marito balordo per lo stupore. Egli aveva immaginato di
dover sostenere una lotta, che probabilmente lo avrebbe eccitato; si trovava
ora vinto dalla grandezza d’animo di Costanza, e indispettito di dover riconoscere
di uscire da quel discorso umiliato, anzi avvilito. Ma poi pensò, per consolarsi,
che quella magnanimità era forse freddezza d’animo: che madonna Costanza non
l’aveva mai amato.
Il domattina madonna
Costanza si fece portare in lettiga nel palazzo di suo zio, il vecchio Giovanni
Chiaramonte. Nessuno seppe come ella avesse trascorsa la notte: il velo nel
quale s’era avvolta nascondeva il pallore del volto, le occhiaie livide e le palpebre
arrossate.
Nel palazzo non trovò
che le donne e il giovane Manfredi, suo cugino. Giovanni Chiaramonte, suo zio,
era partito con la spedizione capitanata dal re Pietro, e che doveva coadiuvare
l’impresa del re di Germania: l’altro Giovanni, suo fratello, era al seguito di
questo re: Manfredi era ancor troppo giovine, e le donne erano imbelli. Nessuno
poteva dunque prender le difese di lei. Alle donne, che vedendola così pallida
e disfatta, le domandavano che cosa le fosse accaduto, rispose da prima
brevemente e celando la verità; ma finì poi col confessare tutto tra i
singhiozzi. La confessione suscitò orrore ed ira. Era un’infamia! Non doveva
cedere, no! Bisognava che lo spergiurato non godesse la libertà che
domandava!... Ah povera figlia! Quale sventura!...
Ma ella ricacciò
indietro le lagrime. No! Aveva risoluto di rompere ogni legame. Era meglio. Che
vendetta sarebbe mai stata quella di ricusare il suo consenso, se messer
Francesco, potente com’era, poteva ottenere i divorzio anche senza
l’assentimento di lei? Ora voleva vivere in pace, nell’ombra di un monastero...
Luigi Natoli
Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)
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venerdì 9 settembre 2016
Luigi Natoli e la Quinta casa dei padri Gesuiti: tratto da "I mille e un duelli del bel Torralba".
Il nome le veniva
dall’essere la quinta delle sei case religiose che i padri Gesuiti possedevano
in Palermo. Sorgeva presso il Molo ed era adibita ordinariamente agli esercizi
spirituali; e vi si andavano a chiudere per un dato periodo di giorni gli
uomini che volevano purgarsi l’anima dei peccati, che ricommettevano poi
uscendone. Ma cacciati i gesuiti nel 1776, la Casa fu in seguito trasformata in
caserma per la cavalleria, e poi in casa di correzione, e munita di grosse
inferriate alle finestre. Vasto e massiccio edificio, come ancora si vede, vi
si chiudevano i borsaioli, maschi e femine, che si volevano correggere, “i
figli dei ladri di cui si volevan fare dei buoni Siciliani, i cattivi soggetti,
i bancarottieri, i rapitori di donne, che si lasciavano rapire e infine, per
grazia speciale, si accordava ai padri scontenti di confidare i loro figli alla
tenera vigilanza del padre Geronimo, cappuccino, e le loro figlie alla materna
sollecitudine della signora donna Virginia”. Così si chiamavano i due
corpulenti ed atletici personaggi direttori di questo istituto. Essi avevano
una potestà illimitata sui loro prigionieri, salvo quella di vita e di morte.
Per entrarvi non
occorreva una sentenza di magistrato; bastava che un padre, che voleva
“amorosamente” correggere un figlio di qualche suo amoretto, ottenesse un biglietto
dalla presidenza della Gran Corte, che era allora il giureconsulto don Giovanbattista
Paternò; col quale biglietto egli cominciava col far prendere e legare il
proprio figlio dai birri, che lo conducevano alla Quinta Casa “dove lo si
chiudeva sotto chiave, e dove l’autore dei suoi giorni non tardava a raggiungerlo.
Lì questi si accordava col padre Geronimo, per far amministrar regolarmente al
suo caro figlio venti, trenta o quaranta nerbate la settimana, sopra una parte
del corpo che il pudore mi vieta di nominare, colpi dei quali la prima ragione
ordinariamente era data sotto gli occhi paterni”.
Si usciva dalla Quinta
Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e
qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì.
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba.
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martedì 6 settembre 2016
Luigi Natoli e le rivoluzioni siciliane. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e
cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e
cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i
siciliani combattenti non superarono
le due migliaia, e i borbonici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti
dodicimila! (127). E la lotta fra i
regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e
delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi
se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di
Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città
d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ventisei giorni! Ma allora, forse,
o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o
erano d'accordo coi regi!
E
sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano
su Palermo? Ma guardate un po’ che cosa viene in testa alle squadre cittadine!
Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani;
e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.
E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misilmeri,
Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste
squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico
gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5
aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno
indietreggiare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre
compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra
volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.
Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da
oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo scoperto, bagnati dalla
pioggia, soffrendo la fame, sostengono l’urto di tre colonne borboniche. Vi
perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e
Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che
nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e
addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a
ripetere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor
Luzio, e compagnia, fuggivano!
Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860,
noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti;
dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei
volontari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri
dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia
conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le
loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squadra, combattevano,
taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti
nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la
gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto,
senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non contesero la
gloria a nessuno.
giovedì 1 settembre 2016
Luigi Natoli e re Federigo d'Aragona. Tratto da Latini e Catalani vol 1 - Mastro Bertuchello.
Federigo fu di animo
grande; buon capitano, accorto ma non profondo politico, seppe far fronte alle
grandi difficoltà, tenendo testa per quarant’anni al Papato, alla casa d’Angiò,
alla Francia, ai Guelfi d’Italia, alla casa Aragona, alle armi, alle scomuniche,
ai tradimenti; mantenendo l’indipendenza del Regno da abile nocchiero. I Siciliani
videro in lui il principe che difendeva l’indipendenza, e per quarant’anni gli
diedero sangue e averi; e con essi la forza e la costanza. Fu amico degli
studi, e studioso egli stesso; fece venire in Sicilia Arnaldo di Villanova,
celebre alchimista e filosofo, e con lui aveva in animo una riforma religiosa,
alla quale s’era ispirato nel proporre un ordinamento generale della scuola, il
primo che si vedesse. Fu legislatore sapiente, il quarto dopo Ruggero II,
Guglielmo II e l’imperatore Federico. Ma sventuratamente lasciava tre mali; un
successore inetto, un baronaggio strapotente, la guerra ancora accesa.
La stella della dinastia
aragonese tramontò con lui, per non risorgere più.
Luigi Natoli: La festa della Madonna della Lettera - Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.
Era questa una delle feste più solenni che si celebravano
in Messina, e dopo quella dell'Assunta, era la più importante, come quella che celebrava, nientemeno! il
giorno in cui la Madre di Gesù, proprio lei, inviava ai Messinesi con una lettera,
scritta di suo pugno, una ciocca dei suoi biondi capelli. La lettera scritta il 3
giugno dell'anno 42, fu data a due ambasciatori che i Messinesi, volendo
convertirsi alla nuova fede avevano spedito alla madre di Gesù in Gerusalemme.
L'autenticità di questa
lettera e della ciocca dei capelli non fu messa menomamente in dubbio;
nessuno volle accorgersi dello strafalcione cronologico che essa contiene; e
dire che la lettera fu fabbricata dall'umanista Lascaris nel secolo XV, pare anche
oggi una bestemmia ai fedeli Messinesi; peggio poi pensare a qual capo poté
essere tolto il capello che custodito in un'urna di cristallo di rocca, è per
così dire, il palladio della città.
Si capisce come, aggiustando fede a una impostura, la
festa che celebrava un avvenimento unico, orgoglio di Messina, della quale la
Vergine stessa si dichiarava protettrice (Protectricem nos esse volumus)
dovesse venire celebrata con le maggiori magnificenze.
Tutte le
strade si addobbavano di drappi e di arazzi, magnifici di disegni e di ricami
d'oro e d'argento quelli pendenti alle finestre dei palazzi e dei monasteri,
rallegrati da ghirlande e da festoni di fiori quelli poveri delle umili case popolari.
Sopra antenne rizzate di proposito, sventolavano bandiere variopinte, e qua e
là, nei crocicchi si elevavano archi di trionfo. Ogni tanto un altare ornato
riccamente, con una immagine della Madonna; e intorno altri arazzi, altri festoni,
e fiori e sete e oggetti preziosi.
Le botteghe degli orafi e dell'arte della seta, vale a
dire delle due maestranze più ricche e più potenti, si tramutavano in
gallerie fantastiche, che offrivano spettacoli meravigliosi di magnificenza,
per le ricchezze che vi si mettevano in mostra. E poi, da per tutto, nelle
finestre, nei balconi, dinanzi alle porte, intrecciati tra i festoni, lumi,
lumi e lumi, che accesi la sera, spandevan tanta luce da fare, come scrive un
cronista del tempo, “scorno al più fitto meriggio”. Ma ciò che formava la
singolarità di quella festa era la esposizione di quadri, di statue, di nuova
invenzione, ogni anno; e che talvolta avevan argomento religioso, ma più
spesso erano allegorie, il significato delle quali non sfuggiva al popolo.
Quella era una delle processioni più strepitose, che
si svolgeva per una lunga teoria di confraternite, di conventi e di preti, col
capitolo del Duomo, il Senato, gli ufficiali della città, un lungo seguito di
gentiluomini e i Cavalieri della Stella, che godevano lo speciale privilegio
di condurre la reliquia anche per la loro festa, che cadeva il 6 gennaio,
giorno dell'Epifania. I famosi capelli
della Madonna nella loro custodia di cristallo, eran portati sopra un fercolo
o macchina di argento, splendente di ceri, sotto un baldacchino di seta, tra i
canti del clero e il fumo degli incensi e il rullìo dei tamburi, mentre su pel
cielo squillavano le campane delle chiese.
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