venerdì 28 ottobre 2022

Luigi Natoli e il paragone fra la crudeltà francese del 1200 e quella tedesca del 1900 nei romanzi Il Vespro siciliano e Alla guerra!

Luigi Natoli dal 17 ottobre 1914 al 9 ottobre 1915, pubblica in 204 puntate in appendice al Giornale di Sicilia il romanzo Alla Guerra! Non è ambientato in Sicilia, ma nella Francia e nel Belgio invasi dalla Germania. Nello stesso periodo riprende “Il Vespro siciliano” che pubblica nel 1915 in dispense con la casa editrice La Gutemberg, in una versione “riveduta, corretta, rifatta, ampliata, aggiunta”. Perché?
L’autore evidenzia diverse similitudini tra i fatti storici narrati: l’invasione della Sicilia da parte dei francesi nel 1269 e l’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco nel 1914. E conclude con la nota numero sette (soppressa nelle precedenti edizioni) la descrizione della strage di Agosta: 
Questo commisero nel duecento, tempi di ferocia, Francesi e Provenzali ad Agosta; questo han commesso nel novecento, tempi di civiltà, i soldati della civilissima Germania nel Belgio, in nome del loro “vecchio Dio!”
Nel romanzo Alla guerra! tanti sono i tragici episodi descritti dall’autore durante l’invasione tedesca, a partire dalla presa di Charleroi. 
“Grosse pattuglie percorrevano le strade ingombre di macerie, di mobili fracassati, di cadaveri, che non si era avuto il tempo di portar via: coi calci dei fucili percotevano le porte chiuse; più spesso le atterravano: gli ufficiali con le rivoltelle in pugno, i soldati coi fucili spianati, gridando minacciosamente entravano; frugavano perfino sotto i letti, dentro i grandi armadi, dentri i camini! scassinavano i mobili a colpi di baionetta, intascavano quel che trovavano; intanto che l’ufficiale o un sottoufficiale interrogava minacciando, i poveri abitanti, per lo più donne, vecchi e fanciulli, raccolti in una stanza atterriti e tremanti”.
Il furto del cibo ai civili: 
“C’era però qualche cosa da portar via negli armadi, nelle casse, nella credenza!... Chi giungeva pel primo prendeva. Quei poveri soldati avevan sempre fame e sete; dovunque assalivano prima di tutto le credenze e le cantine; e avevan le tasche ampie; come i loro stomachi: c’entrava sempre roba!... Quella che non c’entrava si rompeva, si lacerava, si bruciava, si distruggeva. Bisognava far sentire a Charleroi quanto pesasse il pugno tedesco in collera: Charleroi aveva per due giorni infranti gli sforzi tedeschi, e meritava una punizione. Tutta la città ancora fumante, era in-vasa da orde di saccheggiatori: qua e là rimbombavano colpi di fucile o di rivoltella: un francese scovato? No: qualche borghese che aveva protestato; qualche donna che aveva forse difeso il suo pudore. Un colpo, e via!... Le case erano molte, e c’era da lavorare. Le fatiche del combattimento non avevano spossati i saccheggiatori”.

Proprio come facevano a Palermo i cuochi al servizio di messer Giustiziere: 
Il cuoco non andava mai al mercato dove si trovava la roba vendereccia, ma ogni mattina, accompagnato da guardie, si recava in casa di questo o di quel cittadino, prendeva senza cerimonie i migliori polli, la migliore selvaggina, i più teneri agnelli, le paste più delicate per la mensa di messer Giustiziere. Pagare? No: ai cittadini, di qualunque ceto o ricchezza fossero, doveva bastare l’onore di servire monsignor di Saint-Remy. L’eccellente cuoco entrava, portava via senza neppur salutare: talvolta si degnava di ingiuriare i “paterini”, se non si mostravano solleciti o soddisfatti. Di ribellarsi al latrocinio non si parlava; le guardie che accompagnavano il cuoco, oltre a rubare la loro parte, avevano il compito di bastonare chi osasse ribellarsi. Quanto ai vini, li fornivano le cantine dei migliori produttori del Vallo, coi metodi medesimi”
E le violenze sulle donne dei soldati tedeschi: 
Le donne non capivano il tedesco: videro il sergente e i soldati avvicinarsi e stesero le mani supplichevoli. Il sergente, forse per veder meglio, prese per le braccia una giovinetta, e la tirò da parte; francesi non ce n’erano; ma quella giovinetta era così graziosa nel suo terrore!... E il sergente era così allegro!... e i suoi nervi così eccitati... Se la prese fra le avide braccia, e la rovesciò per terra. Allora, come un branco di lupi, quei soldati, si gittarono sulle donne. Grida, gemiti, lotte brevi, rapide, di corpi che tentavano disperatamente divincolarsi dalle strette bestiali; un ansare mo-struoso; un percotere di pugni feroci, per abbattere le resistenze. La bestia concupiscente trionfava... Rossi, con le nari dilatate, ancora ansanti, lasciavan la preda abbandonata per terra, priva di sensi; sopra la quale altri si gittavano, come assetati a una fonte di acqua. Una fanciulla era morta: aveva il petto squarciato da un colpo di baionetta; il sangue che le sgorgava su le vesti scomposte, non aveva impedito la profanazione. Il sottotenente non aveva detto una parola. Aveva alzato le spalle, bisognava pure che quei poveri ragazzi, che avevan combattuto da tre giorni, trovassero uno svago. Un soldato gli aveva offerto una fanciulletta di quindici anni, che pareva un giglio; ma egli non aveva nessuna voglia. Aveva rifiutato”.
Sono uguali a quelle compiute dai soldati francesi nella strage di Agosta: 
“Cominciò un’opera orrenda. Allo squassare delle torce, delle quali il vento torceva e soffocava le fiamme, quelle torme avide di sangue e di stragi, armate di spade, scuri, picche, si lanciavano all’assalto delle case, al grido di guerra: Monjoie! Abbattevano le porte, salivano nelle stanze, ferivano, uccidevano ciecamente e pazzamente. Sorpresi, seminudi, sparsi per le case, gli Agostani non rendendosi ancora conto di come il nemico fosse entrato; presi da terrore, non combattevano, non fuggivano; il ferro nemico li coglieva nello stupore, inermi e smarriti. Scampo non v’era. L’ordine di Re Carlo era preciso: nessun agostano doveva sopravvivere, ma tutti dovevano essere passati a fil di spada. Con acute e pazze grida di terrore donne e uomini di ogni età ed ogni condizione cercavano di sottrarsi alla fuga con la morte; scansavano un branco di belve umane e cadevano in un altro; e presi fra due bande erano trucidati, fatti a pezzi, per voluttà rabbiosa di sangue, non per necessità di guerra. Soltanto le giovani donne e belle stornavano per un momento la ferocia delle armi, ma per un maggiore scempio. Tre o quattro soldati si gettavano sopra una fanciulla, la trascinavano sugli altari, la violavano, ne facevano strazio; l’ultimo, satollata la libidine, la scannava lì, sull’altare profanato. Strappavano i fanciulli alle madri e li sgozzavano, e recidevano le innocenti teste e se le palleggiavano orrendamente! Questa gente che il papa aveva benedetto e assolto da ogni peccato; e che serviva la Chiesa e Dio!”
Invitiamo il lettore a leggere entrambi i romanzi per scoprire il continuo paragone che l’autore fa tra la crudeltà francese del 1282 e quella tedesca del 1914, che nella nota successiva esprime così: 
“I tedeschi d’oggi pur troppo dimostrano che queste predonerie non si compievano soltanto in quei tempi semibarbari!...”


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo di una delle rivoluzioni più famose della storia. L'opera, restaurata dal titolo all'indice, è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1915. 
Pagine 945 - Prezzo di copertina € 25,00
Alla guerra! - Opera inedita, ricostruita dal romanzo pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 17 ottobre 1914 al 9 ottobre 1915, raccolta per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 980 - Prezzo di copertina € 31,00. 
Copertine e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
I volumi sono disponibili: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e nelle migliori librerie. 

lunedì 24 ottobre 2022

Luigi Natoli: Il magnifico signor Antonio Barresi, barone di Militello: un Otello siciliano. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri fatti di sangue.

Cavalcava nel cuor della notte, solo, fra le orride gole dei monti e le pianure interminate; attraversava boschi aspri e selvaggi e campi di frumento ancor tenero; e al trotto concitato del suo cavallo fuggiva un cerbiatto, spiccava il volo una upupa, s’appiattava un lepre. Né la paura di incogliere nei malandrini che infestavano le campagne, né la stanchezza, il bisogno di dormire o di rifocillarsi arrestavano il suo viaggio. L’idea che lo tormentava, l’ira e il dolore che gli sconvolgevano l’anima, gli infondevano una lena e un vigore straordinario.
Egli non vedeva nulla intorno a sé; gli alberi, le rocce, le torri sparivano come fantasmi da un lato e l’altro della via; un bisogno solo urgevagli: arrivar presto, improvviso nel castel di Militello, piombar nelle stanze, come un fulmine, e infrangere la vita di coloro che avevano infranta l’anima sua. 
Non vedeva che il suo castello, il magnifico signor Antonio Barresi, e nel castello non vedeva che una camera, e in quella camera non vedeva svolgersi che una scena, una orribile scena!... E spronava il cavallo, che sbuffava e nitriva dolorosamente, affranto da quella corsa continua di dodici ore. 
Pure, talvolta, il barone Antonio Barresi dubitava.
- Possibile?... ma è possibile? – si chiedeva affannosamente – Come? Quando? Perché? – E ritornava con la mente a ripetersi il fatto che gli era stato svelato da quella lettera infame. Egli era arrivato da un giorno a Palermo dall’Aragona, dove era stato per ambascerie presso il re Giovanni: ed ecco che gli recarono una lettera: da chi era scritta? Dai suoi fratelli, proprio eran essi firmati giù, sotto l’accusa formidabile: “don Niccolao, don Luigi”... E se i suoi fratelli mentivano?... Mentire? E per qual ragione? Che cosa potevano aver loro con donna Aldonza? Doveva esser vero... Vero?!... Morte e dannazione!... Oh perché invece di scrivergli quella lettera, essi, i suoi fratelli, non piantarono uno stile nel cuore di quei turpi traditori? 
Pure la lettera non recava alcun particolare, alcuna prova... nemmeno un indizio; l’accusa era breve e laconica “mentre voi andate nelle Spagne pel servizio di Sua Maestà, donna Aldonza vi tradisce vergognosamente col segreto”. E col segreto poi! un vassallo, un servo, un miserabile! Oh quale ondata di fango insozzava le sbarre di argento del suo scudo!...
E mentre pensava, mentre tutti questi dubbi gli tumultuavano nell’anima, e ruggivano mille passioni nel suo petto, egli stringeva le redini nel pugno nervoso, ficcava gli sproni nel ventre del suo cavallo, e lo spingeva al galoppo. E il generoso animale, sbuffando, nitrendo, fremeva, spumeggiava e galoppava. 
Certo fu spaventevole l’ingresso del barone Antonio Barresi nel suo castello. Il Bellopede era legato sul dorso di una mula, livido e pesto, dietro venivano i familiari del barone con la fronte bassa, tremanti, muti, atterriti dalla collera del padrone. Donna Aldonza, che aveva veduto venire la comitiva, ed era venuta a pie’ della scala a ricevere il suo signore e marito, visto il Bellopede in quello stato, levò un grido di spavento. 
Antonio Barresi sorrise ferocemente. 
- Ve lo riconduco, donna Aldonza, non certo come speravate voi!
Ella guardò il marito, senza intendere nulla, e lo seguì nelle stanze, mentre due schiavi, due mori alti e robusti, toglievano Bellopede dalla mula e lo trasportavano nella soffitta della gran torre. 
Calava già il sole dietro i monti, e spandeva una luce sanguigna per tutta la campagna. Le mura del castello rosseggiavano tristamente; ed intorno ad esse pesava un silenzio fosco e pieno di paure. Sulla terrazza della gran torre, Antonio Barresi aveva fatto trascinare il povero segreto. 
- Ebbene, Bellopede, non sei tu commosso del grido di dolore della tua padrona?
Bellopede non rispose; soffriva orribilmente per le staffilate ricevute la notte innanzi e per le torture inflittegli dal padrone lungo il viaggio. 
- Non rispondi, Bellopede?... Vuoi tu che chiami donna Aldonza?... E dimmi dunque... non sei stato tu felice?
Bellopede guardò il padrone fisso negli occhi; misurò lo stato in cui si trovava; comprese che la morte lo attendeva, e allora, il desiderio di vendicarsi gli accese sinistramente gli occhi; volle, morendo, vibrare un colpo di pugnale nell’anima del padrone, e sorreggendosi sui pugni, levata in alto la faccia rispose: 
- Io non ho commesso tal peccato, o signore, e non m’è venuto in mente di commetterlo; ma se l’avessi fatto, giuro a Dio, che ritornerei volentieri a farlo!...
Quella fu una terribile notte: quando il misero avanzo di Bellopede compiè il giro delle strade di Militello, insanguinando le rocce e i ciottoli, tra gli urli degli schiavi ebbri pel feroce spettacolo, e fu abbandonato sullo stradale come una carogna; e quando si spense nella campagna deserta l’ultimo ululato di disperazione della povera madre, impazzita da quella orrenda catastrofe; il magnifico signore Antonio Barresi ritornò al castello, dove donna Aldonza, muta, esterrefatta, chiusa nella sua camera, attendeva la spiegazione del terribile mistero...


Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. Raccolta di leggende a sfondo storico trascritte dal volume originale Storie e leggende, pubblicato in Palermo dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Alla raccolta è stata aggiunta la novella "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia nel 1910 con pseudonimo di Maurus, "Un poemetto siciliano del secolo XVI" estratto dagli Atti della reale accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (serie III - vol. IX - Palermo 1910) e "Storia della Baronessa di Carini (sec XVI) estratto da "Musa siciliana" con note dell'autore - Casa editrice Caddeo 1922. Il volume raccoglie quindi, a parte le altre leggende su famosi "casi" siciliani come "Il caso di Sciacca" o dei "Santapau" tutto quanto Luigi Natoli scrisse sul famoso "caso" della Baronessa di Carini.
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie. 

giovedì 20 ottobre 2022

Luigi Natoli: Giovanna di Saint-Remy de Valois. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico siciliano

Mentre io ero a Bordeaux, si ordiva a Parigi la tela di un intrigo, il cui epilogo doveva empire di rumore l’Europa, per un gran processo, nel quale io fui, senza alcuna ragione, e per malvagità altrui, coinvolto e travagliato.
Ne fu protagonista quella contessa de la Motte, che il cardinale m’aveva presentato a Strasburgo nel 1781, della cui vita voglio qui, per memoria del singolare personaggio tracciarvi quanto venne a conoscersi durante il famoso processo. 
La contessa de la Motte si chiamava Giovanna di Saint-Remy de Valois. Il nome de Valois non era tolto a imprestito; suo padre discendeva in linea retta mascolina da quell’Enrico di Saint-Remy, che il re Enrico II ebbe dalla baronessa Nicoletta de Savigny, e che riconobbe come suo figlio. Il padre di Giovanna era Giacomo, barone di Luz e Valois. Egli sedusse e poi sposò una contadina Maria Iassel, che serviva nel castello. N’ebbe quattro figli: Giovanna era la seconda, l’ultima era Margherita Anna, minore di due anni e mezzo o tre. 
Il barone possedeva un castello a Luzette; ma la moglie era una dissipatrice e lo ridusse al verde; i figlioli crebbero senza alcuna educazione, abbandonati a sé stessi, quasi selvaggi. Giovanna dovette acconciarsi ad accompagnare il gregge alla pastura, a piedi nudi, coi capelli arruffati, ricompensata dalla madre a colpi di forca. 
Venduto l’ultimo lembo di terra, l’ultimo mattone del castello, cacciati via dai creditori i Saint-Remy, a piedi abbandonarono Luzette, e dopo qualche pietosa avventura giunsero a Parigi; ma non trovando di che vivere si ritirarono a Boulogne. 
Ivi Maria Iessel mise a profitto la sua bellezza di contadina robusta e avvenente. Trovò un soldato, certo Raymond, sardo, se ne fece l’amante, e cacciò via il marito che era ammalato. Giacomo di Saint-Remy e Valois, raccolto dalla pietà di qualche passante, fu condotto a Parigi, ricoverato all’Hotel-Dieu, dove morì di malattia, di miseria, di dolore. 
La coppia bestiale e delittuosa sfogò il suo odio sui poveri fanciulli. Raymond legava Giovanna ai piedi del letto, e la madre la batteva con una verga, che spesso si rompeva nelle tenere membra della piccina. 
Poi un giorno le due piccine Giovanna e Margherita Anna furon cacciate. Giovanna si pose in collo la sorellina, e andò per le strade elemosinando: 
- Date per carità un soldo a una fanciulla che discende dai Valois!... 
- Fate l’elemosina a una figlia di Valois. 
La gente rideva, e ingiuriava; le due fanciullette lottavano con la miseria e con la malvagità altrui. 
Un giorno del 1763 esse si trovavano presso una villa della marchesa di Boulainvilliers, nei dintorni di Passy. Questa dama udì il grido della piccola Giovanna; non rise; le domandò chi fosse; e saputo tutto, prese con sé le due abbandonate, e le portò in un istituto di educazione a Passy. Qualche anno dopo Margherita Anna morì di vaiolo. 
A quattordici anni Giovanna fu tolta dall’istituto e collocata a Parigi presso una delle grandi sarte: ma ella non era nata per un mestiere o per soggiacere a una disciplina. Il suo sangue si ribellava. Aveva bisogno di aria, di libertà, di agire. Ogni tanto la marchesa di Boulainvilliers la conduceva in sua casa; Giovanna fu a volta a volta lavandaia, stiratrice, cuciniera, tutto, salvo che felice e considerata per la sua origine. 
In questo tempo la marchesa volle conoscere se veramente Giovanna era una Saint Remy de Valois; e assicuratasene, fece venire a sé un’altra sorella di Giovanna, Anna Maria, che era in casa di un antico fattore del barone, e pose le due ragazze nel pensionato dell’abbadia di Verres, per educarvisi come nobili fanciulle, e ottenne dal re Luigi XVI una pensione per collocare le due fanciulle nel convento di Longchamp, dove erano allevate le principessine e le duchessine. 
Giovanna aveva allora circa vent’anni, ed era bella; Anna Maria ne aveva diciassette ed era bella anch’essa. Quando la marchesa, nelle solennità le conduceva a Passy nella sua villa, le due fanciulle erano circondate e insidiate da tutti i giovani eleganti, e bevevano le frasi sensuali d’uso in quei tempi di frivoli amori, e vedevano un nuovo mondo schiudersi dinanzi ai loro occhi avidi. Il matrimonio della figlia della marchesa finì con incantare le due fanciulle, che allora rifiutarono di prendere il velo...


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico siciliano. 
Il volume, restaurato dal titolo all'indice, è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e nelle migliori librerie. 

venerdì 14 ottobre 2022

Luigi Natoli: Odio materno. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.


Rimasta sola, la duchessa stese le braccia al cielo con un gesto disperato e deprecativo. Poi si mise a passeggiar per la stanza, pensando a quel passato così lontano, che l’evocazione di quella donna le faceva apparire recentissimo, abolendo quasi tutti gli avvenimenti della sua vita in quei ventisei anni.
Ella rivide quella cameretta povera e nuda, l’ampio letto, duro per le carni abituate alle mollezze, dove soffrì, per l’unica volta in vita sua, i dolori della maternità, senza gustarne le gioie, anzi sopprimendole, volontariamente. Non aveva provato nessun dolore nel separarsi da una creatura, la cui apparizione l’aveva fatta rabbrividire di spavento e di vergogna. Come era venuta? E perchè? Ricordava. A diciassette anni l’avevano maritata al duca di Falconara, che ne aveva trentotto: un bell’uomo, freddo, rigido. Dopo due anni di matrimonio infecondo era stato chiamato in corte e poi in missione all’estero. Ella si era chiusa nel palazzo, aspettando il ritorno del marito, pudica e fedele come Penelope; sorvegliata per altro dalla vecchia suocera.
Ma erano così fredde le ampie sale del Palazzo Falconara! Erano così vuote le giornate, e così desolanti le notti nel letto vasto e deserto, dove i suoi sensi avevane intraveduto un mondo nuovo, ed era germogliata una fioritura di desideri consapevoli! La vecchia suocera non la lasciava mai sola, ma le faceva pesare la compagnia con interminabili prediche morali sui doveri di una moglie, durante l’assenza del marito, e con le lamentazioni sui tempi corrotti, talchè ella per sottrarsi a quel supplizio desiderava giungesse presto la fredda e solitaria notte. Un bel mattino fu trovata la suocera nel letto morta di accidente avuto nella notte. Se ne fecero funerali sontuosi, e un corriere fu spedito al duca per annunciargli la disgrazia.
Passati nove giorni di lutto stretto rigoroso, ella, per tutelar meglio la sua reputazione se ne andò nella casa paterna... E lì... Ricordava l’incontro con l’uomo fatale, sette mesi dopo. Il duca non ritornava; quell’uomo era giovane, bello, elegante, valoroso e appassionato... Come avvenne? Non sapeva; fu una specie di ubbriachezza; ma certo, una notte, le sue mani tremanti apersero, senza far rumore, le vetrate del balcone che dava sul giardino; e accolse quell’uomo; e... e così anche le altre notti!...
Poi un bel giorno improvvisamente trasalì; aveva sentito dentro di sé agitarsi qualcosa... Ah quale spavento! quale odio fu quel piccolo essere germogliato in silenzio, che veniva a un tratto ad avvelenare la sua felicità! Quali tentativi per spegnere quella nuova vita accusatrice!... Indarno. Trionfava. Venne il tempo in cui non potè celare le sue condizioni. Allora si confidò alla madre. Qual colpo per la povera donna!... Bisognava nascondere agli occhi di tutti l’orribile colpa. La ricondussero nel suo palazzo, relegandola in una camera, dando a credere che fosse ammalata. Poi, perchè ogni cosa rimanesse nel mistero, si avvisarono di mandarla nei suoi stati, col pretesto di mutar aria; in realtà per far disparire ogni traccia... Oh! come tutto pareva alla sua memoria vivo e recente!...
A trent’anni vedova, bella, ricca, padrona di sè, riaperse la sua casa; si circondò di una piccola corte, scelse un cavalier servente galante ma circospetto; si lasciò adulare e corteggiare; ma corazzandosi di freddezza contro ogni possibile sorpresa del cuore; concedendo alla moda e alla libertà fin dove le era possibile, e con tutte le precauzioni, per non compromettersi; vivendo una vita di finzione, nel falso sentimentalismo del tempo; felice nel suo egoismo di quella sua condizione, senza desideri di affetti, senza altra passione che quella di sè stessa! Ella amava sè, amava il fasto e le raffinatezze della vita che soddisfacevano il suo egoismo. Aveva dunque una cura meticolosa di conservar quella ricchezza, che dava alla sua beltà e al suo grado, alla sua condizione, tutte le gioie dell’impero.
Ecco ora quel figlio, improvvisamente apparso dal fondo oscuro del passato, minacciarla nella sua fama intatta, nel suo dominio, nella sua ricchezza. Era la verità che insorgeva contro la menzogna, contro l’inganno. Quella donna, quel testimonio di un passato, se fosse venuta in potere dei congiunti diseredati, sarebbe stata l’arma potente per strapparle la pingue eredità, per gittarla nella miseria e nell’onta. Nella miseria, perchè la sua dote era una irrisione, e l’avrebbe costretta a vivere come una borghesuccia, nell’ombra. Il suo palazzo vasto e magnifico, le sue carrozze, le sue portantine, i suoi cavalli, le ventisei persone di servizio, il parrucchiere, l’abate, la sua loggia al teatro di Santa Cecilia, gli inviti alle feste di corte, gli omaggi, tutto sarebbe finito!... Invece gli scherni, il disprezzo, la vergogna, la solitudine! Aveva odiato quel figlio nel suo concepimento, nella sua nascita; l’odiò con maggiore acerbezza ora che le ricompariva dinanzi minaccioso; odiò quella donna che possedeva il suo segreto, che era più potente di lei, che l’aveva in pugno, e poteva perderla con un cenno...
L’onda dell’odio le si distese sul volto, le coperse gli occhi; voltandosi e vedendo la sua immagine in uno specchio, ella apparve terribile a sè stessa. Strinse i pugni, con un gesto oscuro di minaccia e restò lì, ferma dinanzi allo specchio, sotto il peso di un pensiero terribile.
Un sorriso perfido le errò sul volto diventato pallidissimo sotto lo strato della cipria e del belletto. Doveva sacrificar sè, la sua vita, a una donna ignota, a un giovane sconosciuto? e perchè?


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento, quando il vento di libertà della Rivoluzione francese soffiava in tutta Europa. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno.
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) 

Luigi Natoli: Il casotto delle vastasate. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

Quella sera, sabato, si recitava al Casotto delle Vastasate una delle tre commedie popolari più fortunate e più originali: il Cortile degli Aragonesi. Bisognava sentire Marotta, il celebre comico creatore della parte di ‘Nofrio, e Giuseppe Sarci, biondo e femineo d’aspetto e di voce, nelle vesti di Lisa e il Montera nei panni di don Litterio il notaio messinese, e il Corpora sotto le spoglie di Caloriu il Ciancianese. Che risate!... La recita diurna aveva riempito la cassetta; non un posto vuoto: e di gente ne era rimasta fuori, e non si era mossa da lì, aspettando la recita notturna, per prendere i posti migliori, e rifarsi della lunga attesa. Laura stava alla finestra con un vaso intimo in mano, mentre il Barone, fradicio di un liquido che non era nanfa, minacciava con la canna in pugno, e Lisa gridava, e ‘Nofrio si sganasciava dalle risa. La folla batteva le mani, rideva, urlava, fischiava, si abbandonava a una ilarità tempestosa che faceva tremare la baracca.
Il Casotto era lontano: giù a Piazza Marina, quasi un miglio di strada. Era il teatro popolare, o, come si diceva anche, nazionale, dacchè la Sicilia era una “Nazione” per sè, e il dialetto era considerato come lingua nazionale.
Poiché i Signori avevano per loro i teatri di Santa Cecilia e di Santa Lucia, alcuni popolari avevano verso il 1780 fondato un teatro per loro; ed avevano costruito una grande baracca, nella piazza Marina, nella quale recitavano commedie in dialetto, spesso improvvisate, e delle quali i personaggi principali erano i facchini di piazza.
Facchino, in dialetto, si dice vastasu, vocabolo prettamente greco; vastasate si chiamarono quelle commedie, e Casotto delle vastasate il teatro.
Attori e commedie levarono grido.
Fino allora a Palermo non s’era mai visto nulla di simile. C’erano state vecchie commedie, recitate da comici di mestiere, nelle quali il tipo buffo siciliano era rappresentato dal solito Travaglino, o dal vieto Nardo; due maschere oramai insipide i cui lazzi e le cui buffonerie si ripetevan sempre gli stessi. Del resto le commedie non eran molte, e per riudirle bisognava aspettare qualche compagnia di comici randagi e disperati. Figurarsi dunque la sorpresa e il piacere di vedere sul palco non piú quelle maschere, ma personaggi vivi, che si vedevan ogni giorno: gli artigiani, i provinciali, e più i facchini di piazza col loro linguaggio, coi loro gesti, con le loro bestialità, i loro pettegolezzi, le loro baruffe, i loro piccoli intrighi! Un mondo nuovo!
E non eran mica del mestiere, gli attori; tutt’altro. Gente che di mattina attendeva ad altro ufficio, spesso in aperto dissidio con Talia: Giuseppe Marotta che era il capocomico, ed era un vero creatore di tipi, era portiere del giudice della Monarchia; Giuseppe Sarcì portiere dell’Imprese del Lotto; degli altri chi era operaio, chi sarto, chi povero azzeccagarbugli; e pure quanta verità, quanto sapore di arte spontanea in quei comici improvvisati!
Si capisce che la fortuna della Compagnia aveva acceso cupidigie ed emulazioni. Intorno al teatro del Marotta ne eran sorti degli altri; e altre compagnie si eran formate, ma invano: Marotta non ce n’era che uno, e don Biagio Perez che era il poeta comico della Compagnia, non aveva competitori.
Fra gli spettatori fortunati era un bel giovane di ventisei anni, non molto grande, di membra delicate, strette nell’uniforme dei fucilieri, turchina, a risvolte bianche. Pallido, con gli occhi neri, un’aria quasi feminea; ma lo sguardo tagliente, che lampeggiava talvolta come una lama, il naso lievemente aquilino e la mascella forte, davano un carattere di energia a quel volto; e temperavano la mollezza dell’ovale, e della dolce e malinconica curva della bocca, rosea e piccola.
Si vedeva bene che egli aveva una gran cura della bella uniforme turchina, dei calzoni bianchissimi e delle lunghe uose nere; e in generale di tutta la persona, forse un po’ troppo attillata. A non guardarlo in volto, poteva parere un vagheggino; ma lo sfolgorìo degli occhi e la vigorìa delle mascelle avvertivano che sotto quella lindura quasi feminea c’era un cuore che non tremava, e che quella mano sottile e bianca, sapeva render pericolosa la spada, dall’impugnatura dorata, che gli batteva sui polpacci.
Egli stava lì, allo spettacolo, ma non pareva che ne godesse; nel suo volto era steso un velo di melanconia, e il suo sguardo distratto correva evidentemente dietro qualche idea...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento, quando il vento di libertà della Rivoluzione francese soffiava in tutta Europa. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) 

giovedì 13 ottobre 2022

Luigi Natoli: Mariquita. Tratto da: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano.

In fondo alla via detta della Bandiera, quasi allo sbocco della via di S. Andrea, in una casa a un sol piano, abitava la signora Mariquita di Siviglia, una spagnola come ce n’eran tante, attirate dal terzo di Sicilia, che così si chiamava il reggimento spagnolo venuto in presidio. La casa era di apparenza modesta, con un portoncino minuscolo, sopra il quale si apriva una finestretta a sesto acuto, che ora avrebbe fatto gola ad un antiquario, ed accanto, curiosa compagnia, si apriva un balconcino con la ringhiera di ferro di gusto contemporaneo, se di gusto può parlarsi. Per compenso vi ricorreva una cornice della stessa epoca della finestra, intagliata, con pigne e grappoli e foglie intrecciate fra loro; e sotto il balconcino si vedeva ancora l’arco a sesto acuto spezzato per dar luogo alla nuova apertura. 
La signora Mariquita abitava sola con la serva, una cinquantenne, Miguela, anche lei di Siviglia, ma che stava in Palermo da venticinque anni. Essa aveva servito da introduttrice e sistematrice di Mariquita nella società dei giovani… e anche dei vecchi. Si capisce da ciò perché era andata ad abitare presso S. Andrea, dove di solito andavano ad alloggiare le sue consorelle, che davano tanto da dire ai frati di S. Domenico, da spingerli spesso a ricorrere al Pretore. Però ella era una donna privilegiata, tanto che si meritava il titolo di “signora”.
Era di un genere elevato, come, a parte la letteratura, Tullia Aragona. Frequentavano la sua casa poeti, letterati, pittori, scultori, ed in genere uomini di sapere. Ella li riceveva con grazia, mescolando parole spagnole e siciliane con un sapore delizioso. E poi era bella; gli occhi grandi, le sopracciglia folte, la bocca rossa e carnosa che invitava i baci, aggiungevano nuovo fascino alle grazie della persona. E poi aveva solo ventitré anni. 
Ma era orgogliosa, aveva a modo suo un certo onore, e guai ad offenderla, si rivoltava, e spariva la distinzione; l’Andalusa insorgeva col suo sangue moresco, e diventava terribile e feroce. 
Quanto a Miguela poteva nascondere una diecina di anni, perché, nonostante i suoi cinquanta suonati, era ben conservata. Aveva i capelli rossi e gli occhi azzurri, la pelle fina, e il corpo ben portante. Non era né bella né brutta, un viso che non diceva nulla; ma era molto scaltra e prudente. Ella aveva un’amicizia con un certo Geronimo Colloca, che si faceva chiamare il Re della “Bocceria”, ossia del macello (da boucherie) ed era amico, nientemeno, del vicerè duca di Medinaceli; la qualcosa lo rendeva assai temuto. 
Quella sera stessa la bella Mariquita era rientrata di buon umore. Era andata allo spettacolo insieme a Geronimo, bene ammantata così da nascondere il viso, per non cadere in contravvenzione. Un bando vietava alle donne come lei di frequentare i luoghi pubblici. Invero, trovandosi alla spalla di Geronimo, ella poteva ridersi della contravvenzione; i mastri di “Sciurta” o i maestri di piazza o quelli di mondezza o i conestabili non avrebbero ardito arrestare Mariquita, ma ella non voleva approfittarne. Aveva trovato un buon posto nello spazio riservato ai pedoni, e per difendersi dalle dita pruriginose di qualcuno, s’era messo dietro lo stesso Geronimo. 
Mariquita dunque era di buon umore; lo spettacolo con le sue rappresentazioni, coi suoi cavalieri, i suoi duelli, l’aveva eccitata, ed essa aveva manifestato la gioia con piccole grida. Entrando, e gittando la mantiglia alla serva esclamava: 
- Che spettacolo, Miguela! che spettacolo! E poi… Avresti dovuto vederlo! Oh come era bello!
Se ne andò nella sua stanza. 
Non poteva immaginarsi una camera come quella dentro una casa di aspetto così meschino; pur non essendo tappezzata, aveva tutte le caratteristiche di una buona casa borghese, con le sue pareti tinte di color verdino allietato da un fregio color rosso antico; il letto di ferro dorato ma dentro l’alcova, coi cortinaggi di seta rossa, e di seta era la coltre, e ricamate di seta erano le lenzuola. Un inginocchiatoio con un Cristo e una Madonna, innanzi ai quali pendeva una lampada, quattro quadretti di santi, l’acquasantiera con un ramo d’olivo, uno specchio intagliato, e non privo di gusto, davano alla camera un aspetto assai decoroso. 
Mariquita si spogliò dopo aver fatto le sue orazioni e si coricò sempre meditabonda. Le parole di Miguela le sonavano nell’orecchio. Certo, se avesse detta una parola, Miguela si sarebbe fatta in quattro per portarle in casa Galvano. Perché non glielo aveva detto? Perché mentre era bramosa di vederlo, di parlargli, provava una ritrosia, una vergogna, un pudore alla idea di essergli vicina. Avrebbe voluto poter essere non d’altri che di lui; portargli intatta la sua persona, come intatto era l’animo suo e non poteva. Era questa la ragione della sua vergogna. 
I suoi pensieri senza volerlo, si sospingevano indietro negli anni, e le rappresentavano il passato. 
Ella si vedeva a Siviglia; l’ombra della Firalda si proiettava sulla sua casa e sul suo cuore. Aveva sedici anni, ed era un fiore ancor chiuso, che spandeva intorno a sé la fragranza delle cose intatte. Passava i giorni tra la sua bella cattedrale e la casa, ignara dell’amore e cantava, cantava con voce di flauto. 
Poi aveva conosciuto Frascuelo. Era stato in chiesa; egli la guardava con desiderio, ma lei non se n’accorgeva; uscendo, egli aveva dato l’acqua benedetta alla madre di lei, che aveva detto: – Molto compìto quel caballero! – E allora ella lo aveva guardato arrossendo. Le era parso di amarlo. Poi una notte egli se l’era portata via col suo cavallo. 
Per sei mesi era vissuta fra le ebbrezze della passione; poi aveva incominciato a riflettere che non aveva fatto bene ad abbandonare la casa paterna. Intanto era nato un figlio, e allora Frascuelo, alla sua volta, l’aveva abbandonata. 
Ella era ritornata a quella casa che aveva lasciata; sua madre al vederla comparire pallida e poveramente vestita, si era commossa e l’avrebbe accolta come il figlio prodigo, ma il padre, no. 
- Va via! non c’è casa per le svergognate come te! Va via! 
- Sì, andrò via! 
Il bimbo era morto; ella era rimasta sola, in balia del caso…
Una picchiata lunga e precipitosa. 
- È lui – disse Miguela, alzandosi e andando a tirare il saliscendi. 
Entrò Geronimo Colloca.


Luigi Natoli: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560. 
L'ultimo romanzo scritto dall'autore, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1938 e fedelmente ricostruito in questo volume. 
Pagine 477 - Prezzo di copertina € 21,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia).
Disponibile su tutti gli store online e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: Palermo nel 1560. Tratto da: Il capitan Terrore.

La città di Palermo in quel tempo non era quale diventò circa mezzo secolo dopo. Ancora serbava presso a poco la forma dei tempi normanni, di una città dentro un’altra. La più antica, circondata da mura, è ancora visibile; le due strade che la percorrevano a destra e a sinistra e costeggiavano le mura esistono; sono a destra le vie Biscottai, G.M. Puglia, Giuseppe d’Alessi; comprendevano il monastero della Martorana, e per la via degli Schioppettieri giungevano a S. Antonino; a sinistra la via dell’Incoronazione, la via Celso, la salita Castellana, il vicolo S. Antonio, dove si congiungeva con l’altra. Queste due strade comprendevano la città antica. Sorsero di poi altre parti della città, che presero nome di Albergheria, Kalsa a destra; e di Seralcadia, Conceria e Loggia a sinistra; dall’una parte e dall’altra, fra la città antica e i nuovi quartieri, nelle bassure, si riconosceva il letto di due fiumicelli, l’uno, a destra, era quello detto dai greci Kemonia e dagli arabi Ainzar, tradotto in Cannizzaro, e nel tempo del presente racconto era asciutto e petroso, con poche case, divenuto dopo “strada dei Tedeschi”; poi via Castro; l’altro, a sinistra, era stato il fluviolo, che dalla palude del Papireto scendeva giù per il Macello e per la Conceria, ma era anch’esso disseccato, e vi sorgevano già edifici come la Panneria (oggi Monte di Pietà) palazzi e case signorili. 
La via principale, detta dai Normanni via Marmorea, ma che pel popolo si chiamò Cassaro (dall’arabo Kars, il castello) e cominciava dove sorse il Palazzo Reale, presso a poco la via Vittorio Emanuele giungeva alla parrocchia di S. Antonio, ed era chiusa da mura, sotto le quali si apriva la porta dei Patitelli, già mezzo diruta; di là dalla porta si stendeva la città verso il mare. Anche qui erano magnifici palazzi, e si apriva la vasta Piazza Marina col palazzo dei Chiaramonte, che a quel tempo non apparteneva al Sant’Offizio, il quale abitava invece il Castello a mare. E oltre ai palazzi, c’erano chiese e conventi. Di chiese ne sorgevano per altro dappertutto, come la Cattedrale, S. Agostino, S. Domenico e S. Francesco, e così monasteri, come il Salvatore, il Cancelliere, la Martorana, S. Caterina, la Pietà, le Vergini, dovunque c’era un terreno adatto se ne trovavano. 
Ma fra tutte le strade la più notevole era quella del Cassaro. Era acciottolata, e aveva i marciapiedi di mattoni; le case non oltrepassavano il terzo piano, e i prospetti erano quasi uguali, con i medesimi ornati; cosicchè parevano da un capo all’altro un palazzo solo. Non v’erano i Quattro Canti, non essendosi ancora tagliata la via Maqueda. Non vi era la magnifica fonte Pretoria; e la piazza del Palazzo pretorio o senatorio era molto più vasta; a questo Palazzo si accedeva da una porta a mezzogiorno, ora murata, innanzi alla quale erano due statue antiche, di cui una, salvata per miracolo, è conservata in una sala del Palazzo stesso. 
Galvano abitava in un vicolo della città antica, quasi rimpetto al monastero dell’Origlione, che aveva parecchie strade intorno; da una, si andava al Salvatore, da un’altra si scendeva al conservatorio di Saladino, presso la porta di Bosuè (l’antica Base es Sudan) oramai cadente, che non serviva a nessuno, di fronte v’era la via che ora si dice del Protonotaro, e poi altri vicoli che s’intrecciavano come in un labirinto. Fra Ludovico invece stava di casa a S. Agata la Guilla, presso la Commenda. 
C’erano dunque tutte le possibilità di appostare Galvano e sparire per una delle vie e viuzze che s’aprivano dinnanzi all’assassino, il quale poteva ritrovarsi nel Cassaro, anche prima che accorresse gente per aiutare il caduto. 


Luigi Natoli: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560. 
L'ultimo romanzo scritto dall'autore, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1938 e fedelmente ricostruito in questo volume. 
Pagine 477 - Prezzo di copertina € 21,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia).
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Luigi Natoli: Il Carnevale a Palermo nel 1560. Tratto da: Il capitan Terrore.

Quel giorno era l’ultimo giovedì di carnevale, e la città era in festa più degli altri anni, perché Sua Eccellenza il Vicerè, che era il duca di Medinaceli, maritava le due figlie, e già si erano avuti cinque giorni di festeggiamenti; quel pomeriggio doveva aver luogo in Piazza Marina il grandioso spettacolo della caccia intrecciata con una rappresentazione e con una giostra. 
Allora la fantasia e il tripudio si sbizzarrivano oltre che con maschere isolate, con vere mascherate complesse, raffiguranti avvenimenti storici. Una si componeva di quattro o cinque personaggi forniti di una scala e un tamburo. Dove pareva loro che fosse il caso, si fermavano, e al rullo del tamburo, appoggiavano la scala a una finestra a cui si affacciassero donne ridenti e un uomo si arrampicava. Che dico un uomo? una specie d’uomo coperto da una finta faccia rossa come un gambero cotto, con certe labbra da asino, grossi zigomi anch’essi animaleschi, coperto il capo da un elmo o da qualcosa che arieggiava l’elmo impennacchiato di fiori di canna, armato di una spada di legno, il quale braveggiava strepitando buffonescamente e facendo sbellicar dalle risa la folla che lo seguiva e le persone affacciate. A un tratto precipitava senza però farsi nulla di male, perché gli altri compari gli tenevano una coperta sotto. E qui nuove risa, nuovi schiamazzi e gettito di pezzetti di carta tagliata minutamente, che dicevano “pittiddi”, forse dal francese “petit”, e chiamati ora coriandoli. 
Quella maschera aveva un’origine storica, della quale si era perduto il significato: doveva rappresentare il vecchio Bernardo Cabrera che dava l’assalto allo Steri per impadronirsi della giovane e bella vedova regina Bianca, della quale si era innamorato. Ora si chiamava la mascherata del “Maestro di campo”, come dire del Generale. Si sa che la regina Bianca, sorpresa nella notte dagli armati di Bernardo, fuggì seminuda, e che Bernardo trovando vuoto il letto, si arrabbiò ma poi involtandosi nelle coperte ancor tiepide, esclamò: – “Non importa che la pernice sia fuggita, il nido è ancora caldo”.
Il popolo s’era vendicato, mettendolo in burletta, ma nel corso di un secolo e mezzo la memoria del fatto si era contaminata. 
In altro punto, dove era una piazza levavano da terra un castello di legno dipinto a conci, con merli, tra i quali apparivano schierati Mori o Turchi, armati di spade e lance, che, gridando, le agitavano al sole. Contro di loro erano Cristiani. La folla degli spettatori, enorme e fluttuante, aspettava schiamazzando. Era il “gioco del Castello”, che forse rievocava i fasti della conquista normanna, forse la presa di Palermo o d’altra città, verità storica alteratasi romanticamente, o intrecciatasi con altre imprese. Cominciava col mandare gli ambasciatori, seguiva con le varie fasi del combattimento; e finiva con la presa e col trionfo dei Cristiani e con un balletto generale. 
Una carrozza saliva pel Cassaro. Chi immagina le carrozze d’allora simili a quelle che si vedevano un trent’anni fa, o come quelle che fanno pompa di sé nel Museo nostro, s’inganna. Erano grandi come queste, a forma di casse aperte ai lati, con sedili. Non avevano molti ornamenti, solo una frangia di seta in cima allo sportello; non vetri, non fanali, non molle; il cocchiere sedeva su una gualdrappa ornata dello stemma della padrona. Dico padrona perché in quel tempo le carrozze, erano adoperate soltanto dalle signore. 
La carrozza dunque saliva pel Cassaro lentamente tra la folla delle maschere che facevano un chiasso tale che il cocchiere era costretto a frenare i cavalli che con le orecchie affilate, nitrendo, intridevano di spuma il freno. Accanto alla carrozza cavalcava un gentiluomo giovane e bello, il cui mantello era così lungo ed ampio da coprire il cavallo. Egli scambiava delle parole con colei che stava dentro la carrozza e che era una giovane donna avvolta anch’essa in un manto scuro col cappuccio da cui era coperto il suo capo, ma non sì che il volto grazioso e vivace non ne apparisse interamente. Si chiamava donna Laura Serra, e il cavaliere, don Galvano di Valverde. 
Egli l’accompagnò dinnanzi il portone di don Cola Bologna, che era in un vicolo (allora si diceva “strada”) corrispondente a quello detto di Castelnuovo; e lì, sceso da cavallo, e aiutata anche lei a discendere, salutatala con un inchino cerimonioso, risalì in arcione, e tornò indietro. Il Cassaro (allora si chiamava così, perché nel 1560 non era stato ancora prolungato, e giungeva a Sant’Antonio) era gremito di gente, per lo più mascherata, che faceva un chiasso assordante. Le maschere si prendevano libertà non consentite in tempi ordinari e forse risalenti agli antichi saturnali; e venivano a frotte. 
Le oche, vestite di bianco con due sottane, aprivano gli enormi becchi innanzi agli altri, come se volessero ingoiarli; e quelli arretravano ridendo. Una “mamma Lucia” andava correndo, e fingeva di somministrare con un grosso mestolo una minestra ipotetica da un pignattone; in realtà cacciava sotto il naso di chi incontrava la polvere contenuta nel mestolone per farli starnutare. Le maschere si succedevano; erano per lo più caricature della vita contemporanea come il Dottore con un berrettone, l’Astrologo col cappello altissimo a punta, i Mori… Ma tutte erano d’accordo nel fare un baccano straordinario; alcune osavano perfino montare in groppa ai cavalieri che incontravano, o fermare una lettiga, una carrozza, sberrettandosi poi e facendo smorfie. 
Galvano procedeva e spronava, ma il cavallo era più giudizioso di lui; nitriva, e con la testa respingeva di qua e di là i pedoni. Tutti erano allegri pel vino bevuto, ma molti erano addirittura ubriachi; qualcuno si fermava innanzi al cavallo con le gambe larghe, e intonava una canzone; qualche altro si adirava e inveiva contro cavallo e cavaliere: il nobile animale scansava l’uno e l’altro, e i meno ubriachi li tiravano da parte. Ma Galvano non pareva cosciente del pericolo. Aveva dinanzi agli occhi l’immagine deliziosa di donna Laura, del suo sorriso, che le scavava due fossette, e scopriva appena gli incisivi bianchi come perle piccoli, adorabili. E gli occhi? Corvini con riflessi di oro, che quando parlava, si accendevano e sfolgoravano; e suscitavano nel cuore una commozione, un languore, un annullamento della volontà, per cui l’uomo pareva di essersi fuso con lei, di non pensare che con lei, di non respirare che la stessa aria di lei. Lei! sempre lei!


Luigi Natoli: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560. 
L'ultimo romanzo scritto dall'autore, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1938 e fedelmente ricostruito in questo volume. 
Pagine 477 - Prezzo di copertina € 21,00
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Luigi Natoli: Il vulcano alzava su Lipari un pino gigantesco di fuoco... Tratto da: Il capitan Terrore.

Galvano si prefiggeva di allontanarsi da Palermo come se volesse andare a Napoli, poi deviare, costeggiare le isole Eolie, avviarsi lungo le coste della penisola, dove era facile nascondersi tra gli scoscendimenti delle rocce, per spiccare poi il volo contro il “Fano”, quando questo, come era costume dei pirati di fare si avvicinasse alle terre per predare. Il combattimento sarebbe stato feroce, ma Galvano non dubitava della vittoria. 
Ma, oltrepassate Alicudi e Filicudi, nella notte si offerse uno spettacolo straordinario: l’orizzonte era in fiamme, il vulcano alzava su Lipari un pino gigantesco di fuoco tra le nuvole rosse, e involgeva la città e i monti e tutto intorno in quel suo immenso manto di fiamme. Era un quadro raccapricciante e grandioso nel tempo stesso. 
Lo “Sparviero” si mosse; lo spettacolo si faceva preciso; si scorgeva la popolazione fuggire; parevano formiche sorprese da un pericolo. Nel fondo rosso dell’incendio gli uomini si staccavano nereggianti. La lava scendeva tra i boati, rovesciandosi dal pino come una pioggia, che investiva tutto quel che incontrava. Gli alberi sentendo il calore dapprima fremevano, poi si accartocciavano tremando, infine al contatto della lava ardevano e sparivano. Così i vigneti. Tutto un fianco del monte s’era mutato in una vasta fiamma. 
Ma gli abitanti facevano pietà, via via che lo “Sparviero” avvicinandosi permetteva di scorgerli meglio. 
Sorpresi nel sonno da un tremore della terra, e balzati dal letto, avevano visto rosseggiare intorno, ed erano fuggiti dalle case; ora vedevano spaventati quel rovesciarsi di lapilli, e le fiamme divoratrici, che scoperchiavano, bruciavano, annientavano i miserabili casolari. 
Ora Galvano udiva le grida, i pianti della povera gente. Pochi restavano inebetiti a guardare la pioggia, come se non capissero il pericolo che li minacciava, o preferirebbero immolarsi con le case e con le terre. Perché vivere? Colpiti, rimanevano vittime del fuoco. I più fuggivano verso la spiaggia, si gettavano nelle barche, le sopraccaricavano; e accadeva che una barca si capovolgesse e quelli che avevano creduto di salvarsi, naufragavano; spettacolo più raccapricciante di folle egoismo, coloro che avevano occupato una navicella, ne vietavano agli altri l’accesso, e pestavano loro le mani, respingendoli nell’acqua. 
Galvano si tenne al largo, non per mancanza di cuore, ma perché temeva che avvicinandosi, la galera fosse presa da una folla stragrande e minacciasse di affondare, ma non si rifiutò di porgere un aiuto a quei naufraghi che poteva trasportare in una vicina isoletta. 
Impiegò questo tragitto buona parte della notte. 
Ah! il giorno dopo quale spettacolo di desolazione! Pezzi di tavole infrante, suppellettili galleggianti, una madia, che aveva visto per più anni le braccia nude delle massaie intridervi il buon pane fresco; e ora, come una navicella nuda, galleggiava in balìa dell’acqua quasi curando quelle braccia; eccole lì poco discoste, larghe sul busto tumefatto di una giovane: ella aveva i capelli sciolti che erravano intorno al capo come una medusa. Era una annegata e pareva che chiedesse al monte fumante e terribile la grazia di una sepoltura. 
Galvano incontrò i ricoverati che non avevano voluto essere trasportati in altre isole, e sperando di poter ritornare presto, vollero restare a bordo. Essi erano ventiquattro, fra i quali un giovinetto di quattordici anni...


Luigi Natoli: Il capitan Terrore. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560. 
L'ultimo romanzo scritto dall'autore, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1938 e fedelmente ricostruito in questo volume. 
Pagine 477 - Prezzo di copertina € 21,00
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