giovedì 30 gennaio 2020

Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli: tutti i volumi ad oggi pubblicati da I Buoni Cugini editori

L'elenco, ricostruito in base alle pubblicazioni dell'autore mentre era ancora in vita, è relativo a quanto pubblicato ad oggi da I Buoni Cugini editori e... "Se non è immodestia dirlo, coloro che mi hanno seguito attraverso i diciotto o venti romanzi, da me pubblicati su questo giornale, sanno per prova che un certo interesse so trovarlo.


Luigi Natoli"

1907 - Calvello il bastardo - grande romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo di fine Settecento, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1907 e con la casa Editrice La Gutemberg nel 1930 riveduto e corretto dall'autore. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1908 - I Cavalieri della Stella - romanzo storico siciliano, ambientato nella tormentata Messina del 1600, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1908. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1910 - Il Paggio della regina Bianca - romanzo storico, ambientato nella Palermo del 1400, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1910 e con la casa Editrice La Gutemberg nel 1921. Pubblicato da I Buoni Cugini editori. 
1911 - Gli Ultimi Saraceni - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1100 al tempo di Guglielmo I e Matteo Bonello, pubblicato unicamente in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1911/1912. Pubblicato per la prima volta in unico volume da I Buoni Cugini editori 
1914 - Cagliostro e le sue avventure - romanzo storico, dove protagonista p il grande taumaturgo palermitano Giuseppe Balsamo, in arte Conte di Cagliostro, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1914. Pubblicato da I Buoni Cugini editori. 
1914 - Alla guerra! - romanzo storico ambientato nella Francia e nel Belgio del 1914, all'inizio della prima guerra mondiale, pubblicato unicamente in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1914/1915. Pubblicato per la prima volta in unico volume da I Buoni Cugini editori 
1920 - La dama tragica - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo di fine '500, al tempo di Marco Antonio Colonna, dove protagonista è la bellissima donna Eufrosina Corbera. Pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1920/1921 e con la casa Editrice La Gutemberg nel 1930. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1921 - Latini e catalani vol I - Mastro Bertuchello - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1300, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1921 e con la casa Editrice La Gutemberg nel 1925. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1922 - Latini e catalani vol. II - Il Tesoro dei Ventimiglia - romanzo storico siciliano, pubblicato nella Sicilia del 1300, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1922 e con la casa Editrice La Gutemberg nel 1925. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1924 - Squarcialupo - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1517, dove protagonista è Giovan Luca Squarcialupo. Pubblicato unicamente in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1924. Pubblicato per la prima volta in unico volume da I Buoni Cugini editori 
1926 - I mille e un duelli del bel Torralba - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo di fine '700, pubblicato unicamente in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1926. Pubblicato per la prima volta in unico volume da I Buoni Cugini editori 
1927 - La vecchia dell'aceto - pubblicato in appendice al Giornale di Sicilia da luglio a dicembre del 1927. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1929 - L'abate Meli - romanzo storico siciliano, dove protagonista è Giovanni Meli detto l'abate, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1929. Pubblicato da I Buoni Cugini editori in un volume che comprende Giovanni Meli: studio critico (1883) e a Musa siciliana (1922) nella parte relativa alle poesie del Meli, con traduzione in italiano a fronte a cura di Francesco Zaffuto. Prefazione di Francesco Zaffuto.
1930 - Braccio di Ferro Avventure di un carbonaro - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1820, pubblicato con la casa Editrice La Gutemberg nel 1930. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1931 - I morti tornano... - romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837, pubblicato sul Giornale di Sicilia nel 1931. Pubblicato da I Buoni Cugini editori con prefazione di Massimo Maugeri 
1932 - Gli Schiavi - romanzo storico siciliano, ambientato nella Sicilia sotto la dominazione romana, al tempo delle guerre servili. Pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1932 e con la casa Editrice Sonzogno nel 1936. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 
1932 - Ferrazzano - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1700, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1932/1933. Pubblicato da I Buoni Cugini editori con prefazione di Rosario Palazzolo. 
1936 - Fioravante e Rizzeri - romanzo ambientato nella Palermo del 1920, dove protagonista è un "oprante" e la sua "opera dei pupi"; pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1936/1937. Pubblicato da I Buoni Cugini editori con prefazione dello stesso autore. 
1938 - Il Capitan Terrore - romanzo storico siciliano, ambientato nella Palermo del 1560, pubblicato in appendice sul Giornale di Sicilia nel 1938. Pubblicato da I Buoni Cugini editori. 
Nelle biografie ufficiali di Luigi Natoli viene riportato:
Chi l'uccise? - breve romanzo storico siciliano, di cui al momento non abbiamo trovato traccia sul Giornale di Sicilia o presso altri editori. Risulta pubblicato dopo la morte dello scrittore dalla casa editrice La Madonnina nel 1951. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 

IL TEATRO
Le opere teatrali di Luigi Natoli sono state pubblicate da I Buoni Cugini editori in due volumi: Cappa di Piombo che raccoglie tutte le opere inedite in italiano ad eccezione della prima (Il conte di Geraci, Cappa di Piombo, L'ironia della Gloria, Quannu curri la sditta e Il numero 570) e Suruzza! che raccoglie tutte le opere inedite in dialetto siciliano (Suruzza! L'abate Lanza, L'umbra chi luci, Quattru cani supra un ossu) con testo in italiano a fronte e note esplicative. I testi sono stati copiati dai manoscritti dell'autore e la maggior parte di loro non sono datati. 

LE LEGGENDE
1892 - La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue (titolo originale dell'opera Storie e Leggende ed. Pedone Lauriel) che oltre a riprodurre fedelmente la raccolta originale comprende la leggenda La signora di Carini (pubblicata nel Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910) e narra la storia della famosa baronessa secondo gli studi di Giuseppe Pitrè e il trattato storico Un poemetto siciliano del secolo XVI (ed. 1910 estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze); uno studio letterario e storico del famoso poemetto della Baronessa di Carini. Pubblicato da I Buoni Cugini editori 

GUIDE TURISTICHE
1891 - Guida di Palermo e suoi dintorni 1891 - La guida turistica scritta da Luigi Natoli per l'editore Pedone-Lauriel nel 1891 in occasione dell'Esposizione Nazionale. Il volumetto è fedelmente riprodotto dalla parte iniziale dove sono elencati tutti i servizi a disposizione del turista con i relativi prezzi, fino alle pubblicità dell'epoca a fine volume e il pieghevole della cartina di Palermo nel 1891 ad opera de I Buoni Cugini editori. 

TRATTATI STORICI E STORIOGRAFICI
1927 - Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici. Il volume pubblicato ad opera de I Buoni Cugini editori comprende la fedele riproduzione degli scritti: Introduzione storica da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" (1935), La rivoluzione siciliana nel 1860 - narrazione (1910), Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (1938) I più piccoli garibaldini del 1860 (1931)  Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (1927) 

Tutte le copertine sono opera di Niccolò Pizzorno
I volumi sono disponibili presso La Feltrinelli libri e musica. 
On line su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita.
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 28 gennaio 2020

Luigi Natoli: L'addio ai soldati alla stazione. Tratto da: Alla guerra!

Alla stazione del Nord c’era una folla enorme per salutare i soldati partenti, che stipavano le vetture, pavesate di palme e festoni di quercia e d’alloro; ed eran dappertutto le stesse scene di saluti sommessi, sussurrati fra un bacio e una raccomandazione; come se ognuno avesse timore di far sentire agli altri il proprio dolore. Qualche volta due sguardi vicini s’incontravano; l’uno vedeva nell’altro il proprio dolore silenzioso, dissimulato sotto un ostentato sorriso di baldanza.
Si sentiva il soffocato singulto di tutti quei cuori oppressi dall’angoscia e dallo sforzo di non tradirsi; ma giù alla coda del treno, alcuni carrozzoni di terza classe e da bestiame, risonavano di canti, di risa, di schiamazzi.
Erano pieni di soldati della provincia, che non avevano lì i parenti, e parevan presi dalla esaltazione della guerra. Stipati in quei carrozzoni, con gli zaini fra i piedi, sopra i sedili, sulle reticelle, coi fucili fra le gambe, le giberne sul ventre, si abbandonavano all’impeto della giovinezza obbliosa.
Essi non sapevano dove andavano; sapevano che andavano contro i tedeschi; i tedeschi!... Non avevano mai veduti gli elmetti col chiodo lucente, non avevano ricevuto nessuna ingiuria, né patito alcuna violenza dai tedeschi; ma da quando avevan cominciato a balbettar parola, avevano imparato a odiarli: avevano imparato nelle scuole che i tedeschi avevan fatto molto male alla Francia; avevan portato via una parte del territorio, minacciavano sempre di invaderla, come tanti anni innanzi; come nel 1792, come nel 1814, come nel 1870! E bisognava prendere la rivincita; ricacciare i barbari entro le loro antiche sedi, al nord; liberare la Francia. Voci vaghe e confuse, si accomunavano in una sola, più intelligibile e più chiara: che bisogna vendicarsi dai tedeschi, e che si andava a combatterli. Nessuno pensava che, forse, non sarebbe più ritornato. La gioventù non pensa alla morte: ovvero la morte non appare come una probabilità imminente e spaventevole. La guerra destava le immagini imparate a scuola: qualcosa di magnifico, di sublime; come l’espressione di quello che di più puro, di più nobile abbia lo spirito umano; la strage perdeva il suo orrore, e si colorava delle tinte dell’eroismo: 

Rulla il tamburo
marciamo giovanotti
Rataplan!
Sventola il tricolore,
il cannone rimbomba
pim! pam!
Non piangere, Coletta;
quando ritornerò
ti sposerò!...

E tutta la tettoia della stazione tremava al ritornello, come presa anch’essa di eroica tenerezza: 

quando ritornerò
ti sposerò!...

Erano sicuri tutti di ritornare; andavano alla guerra, per prepararsi a quelle nozze con l’immaginaria Coletta: ma forse ognuno aveva la sua Coletta nel villaggio nativo, o al sesto piano del grande casamento del sobborgo; se non che tutte diventavano un’amante sola, che non piangeva, poiché s’andava a combattere contro i tedeschi, per la terra di Francia.
A ogni strofa, seguiva uno scoppio di evviva, di urla, di risa, di motti, che pareva lo scatenarsi di una gioconda tempesta; e sopraffaceva, stordiva le anime dolenti; talvolta grida, risa, canti confondendosi, empivano la tettoia, mescolandosi al soffio delle macchine sotto pressione.
Al segno della partenza gli addii si moltiplicarono; le mani stese dagli sportelli strinsero le mani che si porgevano dal marciapiede; alcuni si aggrappavano sui predellini per dare un ultimo bacio o un’ultima raccomandazione; delle mani commosse inviavano e si scambiavano baci, sventolavano fazzoletti; poi mentre il treno si muoveva lentamente, una voce vincendo la commozione gridò:
- Viva la Francia! 


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico "contemporaneo" ambientato nella Francia della Prima Guerra mondiale.
Unicamente pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914, è raccolto in unico volume nel 2014 (in occasione del centenario della Prima Guerra) ad opera de I Buoni Cugini editori, in un volume di 954 pagine. Il volume è impreziosito dai disegni e dalla copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 31,00
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: Una marcia notturna... Inizio del romanzo Alla guerra!

La pattuglia precedeva di circa cento metri la compagnia d’avanguardia della colonna uscita da Givet; aveva oltrepassato Notre Dame, valicato l’Huille e percorreva lo stradale, diretta a Rochefort.
Era una notte senza stelle. Le nubi coprivano il cielo; nubi grigie, quasi nere, pesanti, dalle quali ogni tanto qualche goccia cadeva sul volto dei soldati.
Per un pezzo marciarono in silenzio, coi fucili capovolti, infilati al braccio per la cinghia, o tenuti su la spalla per la canna. Di tanto in tanto bisbigliavano fra loro. Quando furon lontani dalle case, uno di essi cominciò a canticchiare qualche aria popolare del suo paese nativo; un dolce e tenero sospiro d’amore; forse eco inconsapevole di memorie e ricordi, che gli si ridestavano e affollavano nell’anima vagante verso una casa lontana, fra un gruppo di olmi e di ontani, in una campagna verde e soleggiata. E intanto i piedi andavano al ritmo del passo, appesantito dallo zaino ricolmo, per una strada ignota.
Al bivio della Dogana la pattuglia piegò a destra per Beauraing.
La strada era fiancheggiata di alberi per un buon tratto; e di qua e di là sorgevan colline rocciose, alcune ripide, come tagliate a picco, si protendevano verso lo stradale, e pareva volessero sopraffarlo e schiacciarlo. Sulle colline spesso una massa più nera, informe: forse un vecchio castello.
Nell’ombra notturna alberi, rocce, castelli neri, coi contorni più larghi, si confondevano col nero del cielo, apparivano più mostruosi; spiravano il senso di orrore misterioso dell’infinito.
Non s’udivan rumori, salvo quello della cadenza dei passi, quel canto dolce e malinconico e lo stornire, ogni tanto, delle fronde.
L’ufficiale andava innanzi; con la sciabola sotto il braccio, l’occhio vigile.
Non v’era certamente paura di imbattersi nel nemico; le linee tedesche eran assai lontane; ma gli ulani si spingevano audacemente qua e là, improvvisi e fulminei, spargendo il disordine e il terrore fra le popolazioni.
Eran piccoli drappelli di otto, dieci cavalieri; non si sapeva donde venissero; pareva che la terra li spremesse dal suo grembo. Attraversavano galoppando un borgo, un villaggio, una piccola città indifesa e tranquilla; uccidevano; passavano oltre, messaggeri di distruzione; uno, due cadevano, sotto i colpi dei gendarmi o di pochi territoriali; si abbattevan rovesci, con gli occhi spalancati al cielo, sulla lancia insanguinata; e i gendarmi toglievan loro l’elmetto, come un trofeo.
Gli altri si dileguavano, correvano altrove, spargevan nuovi terrori; lasciavan altre vittime.
Così per tutta la vasta fronte degli eserciti, fin dal principio della guerra; così anche, ma più raramente, oltre le linee di battaglia.
Quella strada si prestava a tranelli. Dove le rocce si addossavano, l’ombra era così densa e profonda, che non si sarebbe mai potuto vedere, a una certa distanza, chi vi si nascondesse.
L’ufficiale aveva per questo mandato innanzi un soldato, che si teneva a una cinquantina di passi dalla pattuglia, e altri ne aveva mandato ai fianchi, come esploratori. Ma in verità era una precauzione piuttosto formale; lì non c’era nessuna paura neppure degli ulani.
La guerra non era ancora penetrata in quella regione: e se non fosse stato per quella colonna che marciava di notte, nulla avrebbe fatto supporre che una minaccia di distruzione si librasse sopra quelle terre.
La notte sebbene umida e piovosa era tranquilla: le case che si incontravano lungo il cammino dormivano; le fattorie serbavano il loro aspetto consueto: sulle aie, in mezzo ai covoni ammonticchiati, le trebbiatrici aspettavano; dagli stabili vicini allo stradale s’udiva talvolta il respiro largo e pieno dei bovi. Poi, a un tratto, qualche gallo destato al rumor dei passi insoliti, gittava il suo canto, al quale da lontano rispondeva via via il canto di altri galli. Quando il drappello rasentava una fattoria, qualche cane si spingeva verso il drappello, da prima annusando, brontolando, al rumore dei passi, latrando furiosamente col muso contro i ferri, al vedere i soldati. 
Il comando serbava un grande silenzio sulle mosse delle truppe, per paura di indiscrezioni: i soldati non sapevan mai dove eran diretti: gli ufficiali inferiori sapevano il nome dei grandi alti più vicini che si sarebbero trovati sulla direttiva. Rochefort era il primo. Gli ufficiali intelligenti indovinavano in qualche modo qual fosse la meta.
Del resto che cosa importava saperlo prima? Importava raggiungere un dato luogo a una data ora precisa, senza un minuto di più o di meno, importava ubbidire rigidamente, senza discutere, andare innanzi; uccidere, lasciarsi uccidere… Questa era la guerra; e così bisognava farla: così la facevano i tedeschi… Ne convenivano; ma in Francia ufficiali e soldati, invece discutevano e criticavano… Era il loro difetto. Vecchio difetto. Ma questa volta bisognava discutere meno.
Intanto altri soldati, presi dal contagio s’eran messi a canticchiar anche loro. La cadenza dei passi segnava il ritmo. S’erano accordati, senza volerlo, per istinto, in un coro sommesso, che pareva venisse di sotterra; pareva la voce della terra dolente, che presentiva l’orrore del sangue; la voce della madre che accompagna il figlio lontano, sul quale incombe la minaccia della morte; la voce della gran pace umana lacerata dallo scoppio delle granate e dalle punte della baionette: ed era anche la voce del paese nativo coi suoi ricordi, con le sue care e tenere ricordanze: la chiesa, il campanile alto ad aguglia, la piazza con la farmacia e la mairie, l’officina del maniscalco e del carradore, la scuola, e più in là il mulino; il vecchio mulino dalla enorme ruota, su la quale precipitava spumeggiando l’acqua; e più in là, nell’aperta campagna, l’opificio, con gli alti camini fumanti. V’era in quel canto come l’eco del suono delle campane all’alba e alla sera; l’eco del martello picchiante sull’incudine; del fischio della sirena…
E tenere visioni si ridestavano in fondo alle anime. Chi è là? una vecchietta rugosa, sotto la cuffia dalle bianche ali delle donne di Normandia, o quella graziosa e singolare delle donne di Arles. Ella caccia con la verghetta le oche, che si dimenano sulle zampe gialle, crocchiando… Mamma Ghita?... No, non è Mamma Ghita, è invece un volto roseo di giovanetta, ombreggiato da un largo cappello di paglia infiorato di rosolacci. Ella ride… Forse no, ora non ride più: domanda al portalettere se ha una cartolina illustrata di lui...
Una commozione di tenero rimpianto penetra in quei cuori, mentre le mani stringono le armi omicide.
- Silenzio! – ordinò l’ufficiale.
Anche lui pensava; la visione aveva uno sfondo diverso; ma il sentimento che destava era forse il medesimo.


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico "contemporaneo" ambientato nella Francia della Prima Guerra mondiale. 
Unicamente pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914, è raccolto in unico volume nel 2014 (in occasione del centenario della Prima Guerra) ad opera de I Buoni Cugini editori, in un volume di 954 pagine. Il volume è impreziosito dai disegni e dalla copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 31,00
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online. 
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Luigi Natoli: donna Eufrosina Corbera. Tratto da: La dama tragica


Era bellissima. Sebbene la moda di quei tempi, con le maniche a sbuffi, col busto serrato, con la gonna larga, togliesse sveltezza e libertà alle forme del corpo ella aveva qualcosa di molle e sottile, come di un candido giglio. I bei capelli castani ondulati e raccolti indietro in trecce, e fermati da un cerchietto d’argento, incorniciavano un volto di pure forme classiche, dolcemente pallido, nel quale gli occhi grandi, neri profondi lucevano in una specie di umidore languido e pieno di mistero e la bocca tumida e corallina pareva aspettasse dolcezze ignote.
La prima cura di donna Eufrosina era di veder se aveva buona cera, indizio di buona salute; la seconda era di farsi bella.
Intanto che ella si guardava nel piccolo specchio, girando il volto da una parte e dall’altra, esaminando le labbra, la lingua, gli occhi; le due schiave preparavano in uno stanzino accanto una ampia tinozza, e la riempivano d’acqua tiepida e di latte e preparavano la pasta di mandorle amare, per ammorbidire la pelle, e l’acqua d’arancio per profumarla, mentre la cameriera disponeva la tavoletta, con gli alberelli per tingere le ciglia, e le cerusse per darsi il bianco; il cinabro per le labbra e per le gote; metteva in ordine i pettini, la cuffietta quadrangolare di velluto, contornata di perle e i cerchietti d’argento per fermare le trecce, le boccole a pendagli di filigrana e perle, e la collana col grosso smeraldo nel mezzo.
Ella parve soddisfatta del primo esame. Una sirena fra le bianche spume delle onde agitate, o Venere seduta nella conchiglia; tale appariva, col busto nudo fuor dell’acqua, con le belle braccia raccolte sui seni perfetti, simili a rosei fiori ancor chiusi. Le due schiave le bagnavan le spalle e petto, e con finissime spugne la stropicciavano, ed ella volgeva ora una spalla, or un fianco, or le braccia; poi si levò in piedi perché le schiave stropicciassero tutte quante le membra; e le due donne, già esperte in quell’ufficio, si affaticarono, con movimenti rapidi e lievi, che producevano in donna Eufrosina dei fremiti lunghi e piacevoli.
E mentre menavan le spugne tutt’intorno, le schiave la adulavano, vantando bellezza di ogni membro, con l’immaginoso linguaggio del loro lontano oriente: il che aggiungeva un altro piacere al primo.
Quel bagno durò più di mezz’ora; ella ne uscì tutta odorosa; e ravvolta in un mantello tiepido. Sedette dinanzi la tavoletta, per lasciarsi pettinare, porgendo intanto ora un piede ora l’altro alle schiave perchè la calzassero, mentre la cameriera le discioglieva i lunghi capelli di un color caldo castano, che la coprivano come un manto.
Durante l’abbigliamento, la cameriera la informava di tutti i pettegolezzi, raccolti nel giorno innanzi e nella serata. Era quella appunto l’ora della cronaca, la quale si occupava di tutto e di tutti.
L’operazione durò quasi un’ora, in capo alla quale la bella dama fu bella e vestita, col busto serrato nella fascetta, il giustacuore di velluto azzurro aperto davanti e allacciato sopra una camicetta bianchissima e finemente ricamata, il cui ampio colletto, ornato di un bel pizzo di Venezia, le cadeva su le spalle e un po’ su le grandi maniche a sbuffi, con risvolti di raso color d’arancio e passamani d’argento; la gonna anch’essa di velluto azzurro, aperta sul davanti, così da lasciar scoperto un largo telo della sottogonna dello stesso raso arancio, ornata di passamani e ricami d’argento.

Ella infatti aveva un sorriso e una parola per tutti e per tutto; accettava le lodi e le volate poetiche di giovani cavalieri non meno esperti a far sonetti petrarcheschi, che a usare le armi; parlava di mode e di spettacoli; stuzzicava, la maldicenza sui piccoli scandali mondani.


Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1600 al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, tra i protagonisti del romanzo. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 24,00 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile on line su Amazon, Ibs e in tutti i siti vendita
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 21 gennaio 2020

Luigi Natoli: L'ingresso di don Pietro (Pitrinu) in casa della fidanzata. Tratto da: Suruzza! e altre opere inedite per il teatro siciliano.

In “Quattro cani supra un ossu”, Luigi Natoli che qui prende il titolo di commediografo  costruisce, in un ambiente della vecchia Palermo, un insieme di personaggi tutti tesi ad approfittare di un ricco vecchietto, don Pietro Scatorcio, che vuole testardamente restare arzillo. C’è chi vuole prosciugare le sue ricchezze dandogli in sposa la giovane figlia, Giulia Filipponi e c’è chi ne vuole approfittare minacciandolo con le possibili punizioni dell’inferno. Il vecchietto  ondeggia, ma nel rondò finale vincerà, con uno Sciatara!, lo stato di fatto. (dalla prefazione di Francesco Zaffuto)

L'ingresso di don Pietro (Pitrinu) in casa di donna Marana, madre di Giulia 
D. Pietro (dalla comune, seguito dal notaro e dal commesso che porta un fascio di carte) Signuri miei tutti! (Si voltano, don Pietro viene innanzi, facendo il disinvolto. Ha circa settant’anni, vestito da giovinotto fidanzato; ridicolo. Va salutando. Il notaro lo segue, salutando anche lui, e il commesso tien dietro il notaro, imitandone i movimenti ridicolosamente) Accussì aspittatu era?... Mi faciti insuperbiri!... Ma ‘a culpa nun è mia. Pigghiativilla cu û  nutaru, ca nun cci vinni cchiù, e cu Nicola ca, è cosa di ririri! s’affruntava e aveva scrupulu a veniri!... (guarda intorno) E la mia cara Giulia unn’è? Ah!... (s’avvicina a lei) Sugnu cca!... Chi aviti, picciridda mia? Siti siddiatedda pirchì vinni tardu?... Nun è culpa mia... Figurativi ca Nicola... (guarda intorno) A propositu, unn’è Nicola? Chi s’arristò fora? (chiama) Nicola!... Nicola, fratuzzu miu, unni sì? (a tutti) Signuri mei, scusatilu; è affruntusu comu una munaceddda... Si capisci. Passa a vita tra casa e chiesa! (chiama) Nicola!... Trasi!... Chi t’haju a veniri a pigghiari iu?... (Nicola si presenta: occhi bassi, e mano sul petto)
D. Marana  (a don Pietro) Don Pietru, lassati stari a Giulia, ora; ca tempu a gudirivilla n’aviti: e favuriti cca; ‘u nutaru dici c’havi premura...
D. Pietro  Subitu... illico illico!... Comu diceva ‘u me maistru... Ma in primis nun si scurdassi i patti. Chi è stu “don Pietru”? Sugnu “Pitrinu” e nient’autru chi “Pitrinu”. A filo di logica, secondo legge io sugnu sô figghiu...

Durante la lettura dei capitoli per il contratto di fidanzamento, don Pietro sottolinea la necessità di scrivere la parola "Amore" al notaio:
Nutaru  (legge) Il detto signor Scatorcio, allo scopo di dimostrare tutto il suo affetto alla signorina Giulia.
D. Pietro (interrompendo) Pirchì affettu? Amuri! Amuri! Usassi paroli proprî, nutaru!... Affettu! Comu si fussi sô patri o sô nannu!... Sono lo sposo, nutaru!... (a tutti) Dico bene? (a Giulia) Dico bene, mia cara Giulia?...
D. Nicola  (scandalezzato) Tu perdi anchi lu ritegnu!... Nun hai pudicizia! Usi vocabuli chi fannu arrussiri, davanti a ragazzi!... Affettu è parola cchiù onesta. Scrivissi affettu, nutaru!...
Nutaru  E bah! Mittemuci puru l’amuri, ca nun fa mali a nuddu!... (corregge e legge) “Il suo amore alla signorina Giulia Filipponi, intende provvedere a tutto il suo corredo (mormorio di approvazione e di maraviglia) che sarà di sua scelta, e degno della sua condizione sociale... Inoltre...

Luigi Natoli: Suruzza! e altre opere inedite per il teatro siciliano con testo in italiano a fronte.
I testi sono copiati dai manoscritti dell'autore. La traduzione in italiano è a cura di Francesco Zaffuto. 
Disegno in copertina: Niccolò Pizzorno. 
Elaborazione grafica copertina: Maria Squatrito.
Prezzo di copertina € 25,00. Il  volume di 725 pagine raccoglie: 
un'ampia introduzione a cura degli editori dove è spiegato al lettore il lavoro di recupero delle opere teatrali di Luigi Natoli, in questo volume tutte inedite. 
Le quattro opere teatrali in dialetto siciliano, due commedie e due drammi: Suruzza! (dramma) L'Abate Lanza (commedia) L'umbra chi luci (dramma) Quattru cani supra un ossu (commedia).
Disponibile on line presso Ibs, Amazon e tutti i siti vendita. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 



giovedì 9 gennaio 2020

Luigi Natoli: L'ultima poesia di Giuseppe Lo Verde. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro


Il padre Nazzareno mostrò il foglio che teneva in mano. Tullio vi gittò uno sguardo, e gli parve di vedere dei versi. Il padre rispose:
- Questi versi egli scrisse sulla parete del carcere; mi pregò di andare a trascriverli, come suo ricordo; e l’ho fatto… E ci ho pianto sopra: volete leggerli?
Tullio prese il foglio e lesse; erano cinque sonetti coi quali il giovine prendeva commiato dalla vita: il suo spirito aveva potuto conservare tanta serenità dinanzi alla morte, da trasformare in fantasmi di bellezza i suoi dolori.
A mano a mano che leggeva, gli occhi di Tullio s’empivano di lagrime. Egli vedeva il martire ventenne, diritto dinanzi alla parete insudiciata forse dalle turpitudini di volgari malfattori, e tracciarvi con mano ferma i suoi ultimi pensieri; tracciarveli con quel puro sangue, che fra breve avrebbe bagnato le zolle del Piano della Consolazione.
Quando ebbe finito di leggere, gli disse:
- Mi consente, padre, che io me li trascriva?
- Fate.
- Grazie! Dio ne la rimeriti.
Poco dopo Tullio se ne andò ripetendo la stessa funzione di questuante per le anime del Purgatorio; rifece la strada; uscì dalla città; andò nella villa di Michele, che l’aspettava febbricitante, e che, al vederlo ritornare, si sentì rinascere. E lì, deposto il sacco, indossati i suoi vestiti da contadino, raccomandato a Michele di farsi vedere, riprese la campagna, verso il nascondiglio.
E per via recitava gli ultimi versi dell’amico, questi:
Bella speme del cor consolatrice,
Dell’eterna clemenza unica figlia,
D’ogni affanno mortal debellatrice,
Bella speme del cuor, chi ti somiglia?
Nei gravi d’anni suoi l’egro infelice
Di te  si pasce, e teco si consiglia,
Per te lo stesso già si fa felice
Né a disperazion l’unghie arroviglia
Per te il passato nell’oblìo s’immerge
Non si cura il presente, e l’avvenire
Segue i voti del core, e il pianto terge.
Lieto ancor io, per te, le mie ritorte
Soffro, illudendo il vigile desire
Che alfin le spezzi libertade o morte(2). 

2) Questo è il III. dei cinque sonetti che il Lo Verde scrisse sulle pareti del carcere, e che furon subito trascritti e diffusi di nascosto. Qualche diarista li riprodusse nelle sue cronache manoscritte. Io l’ho tolto da un quaderno di compiti scolastici del 1822. A. Aristiche ve li copiò. Il quaderno si conserva dal figlio Ernesto. Il Lo Verde quando fu fucilato aveva appena venti anni! Le storie tacciono di questo eroico giovane. (Luigi Natoli)


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1927.
Pagine 344. Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile su Ibs e in tutti i siti vendita online.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Il romanzo è acquistabile con il volume che raccoglie la Trilogia del Risorgimento: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? (prezzo di copertina € 24,00)



Luigi Natoli: Il cimitero dei giustiziati. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro

I confrati si avvicinarono; qualcuno si chinò per toglier le bende a quegli occhi che non vedevan più. Tullio, con le mani tremanti, volle sbendare il suo Giuseppe. Ahimè, quale scempio le palle austriache avevan fatto del mite e poetico giovane! Il colpo di grazia gli aveva sfracellato l’occipite, una palla gli aveva attraversato la gola, un’altra il cuore: pure gli occhi eran rimasti aperti e sereni, e pareva che cercassero ancora nel cielo i sogni fuggiti con l’anima.
Tullio lo baciò singhiozzando, e mormorando parole incomprensibili. Si ritrasse e lasciò che i becchini gittassero quei corpi ancor tiepidi, l’uno su l’altro, sui carri, e li coprissero della ruvida tela. Quando questa lugubre e inumana cerimonia fu compiuta, e i carri si mossero, accompagnati da quattro birri, Tullio li seguì.
Lungo il tragitto, il sangue che scorreva dalle fessure del carro segnava il cammino.
Il cimitero dei giustiziati era dalla parte opposta della città, sul fiume Oreto, a pochi passi dal famoso ponte Ammiraglio, dove, trentotto anni dopo, Garibaldi avrebbe in una bell’alba di maggio vendicate quelle vittime. Non potendo per ragioni facili ad intendersi attraversare la città, i due carri percorsero la strada intorno alle mura, il che triplicava il cammino. Quella strada era allora affatto campestre; appena qualche casetta qua e là; poi orti e mura, e si poteva andar più spediti, e senza sospetto di incontri. 
Per far più presto, i birri montarono sui carri sedendo accanto ai cadaveri, senza provare il menomo ribrezzo; e allora, sferzati i cavalli, i carri si affrettarono. Tullio andò per le strade interne più brevi.
Quando giunse al cimitero, i carri avevano scaricato la sanguinosa soma nella fossa carnaia scavata fin dalla mattina, e se n’erano andati coi birri; nel piccolo cimitero che precedeva la chiesetta non v’erano che gli interratori, che ricoprivan la fossa, e il cappellano, che dritto sulla soglia della chiesa assisteva all’ultima cerimonia.
Ancora oggi quel piccolo cimitero, chiuso da alto muro, coi pochi cipressi vegghianti sulle nude fosse ora dimenticate, desta nell’animo un sentimento di pietà e di raccoglimento, e talvolta anche un brivido di superstizioso terrore. A un angolo, impegnata al muro vi è oggi una piccola piramide, di muratura; allora vi era invece una piramide macabra di teschi umani; teschi di giustiziati, separati empiamente dai corpi, ed esposti a pubblico ammonimento.
Per un cancello si entra nel recinto; dove allora né lapidi, né ricordi eran consentiti; i corpi dei disgraziati che cadevan sotto il rigore estremo della giustizia, vi eran sepolti senza onore di pianto e di cerimonia. Ma la pietà e la superstiziosa divozione del popolo non dimenticava quegli infelici, e largiva elemosine che non facevan mai mancare suffragio di preghiere e di messe. Credeva  e crede ancora il popolino che le anime dei giustiziati abbiano la virtù di rispondere alle preghiere dei devoti, che vanno a visitar le loro tombe, recitando alcune preghiere speciali e offrendo il loro obolo; e questa superstizione ha impedito che sul piccolo cimitero pesasse con l’onta anche  l’abbandono.
Ivi si eran seppelliti i ladri e gli assassini morti sulle forche o di mannaia; con quei nove per la prima volta vi si seppellivano i rei di cospirazione politica. I re di Borbone accomunavano i patriotti con la feccia degli uomini; li accomunavano negli ergastoli e nei cimiteri. Rubare e ammazzare il prossimo, e desiderare la libertà politica e vagheggiare un’idea di bellezza civile e morale, eran per quei re delitti uguali; forse anzi questi erano peggiori di quelli.
Tullio non potè avere l’ultima consolazione di veder seppelliti meno barbaramente i suoi compagni; ma entrò nella chiesetta, piccola e bianca, e stanco e abbattuto dal dolore, si lasciò cadere in ginocchio dinanzi a una sedia. Non c’era nessuno; dalle finestre scendeva una luce smorta, che illuminava foscamente un quadro, nel quale sopra un ampio piatto si vedeva la testa recisa e sanguinante del Battista.
Il Cappellano rientrò con passo lieve nella sacristia, senza guardare il solitario confrate, che pareva immerso nella preghiera. Ma Tullio non pregava: si domandava ora che cosa gli rimaneva a fare. Sperare in una ripresa più gagliarda e più fattiva della cospirazione, era una follia. Quel massacro di nove cittadini, senz’altra colpa che d’essere Carbonari, aveva diffuso nella città un senso di terrore e costretto alla fuga o alla circospezione anche i  più arditi. Per riprendere il lavoro segreto e preparare una nuova sollevazione, occorreva lasciar trascorrere qualche tempo, e illudere il Governo con una apparente quiete… Ma intanto?


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1927.
Pagine 344. Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
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Luigi Natoli: Quel 9 gennaio del 1821. Tratto da: Braccio di ferro avventure di un carbonaro

Le strade erano uno squallore; nei dintorni del Castello e lungo la via del Borgo, a mare, che i condannati dovevano percorrere, per avviarsi al triste campo del loro martirio, le botteghe erano chiuse, chiuse le porte e le finestre; qualche raro viandante passava frettoloso; silenzio ed ombra per tutto. L’ombra era nel cielo e nell’anima. Qua e là un uomo vestito di sacco con voce lugubremente esortava:
- Per l’anima di questi poverelli!…
Da lontano a intervalli gemevano i funesti rintocchi di una campana, poi s’udì un cupo e lento rullar di tamburi. Il doloroso corteo usciva dal Castello.
Innanzi, alcuni birri armati di bastoni e gendarmi con le sciabole sguainate; dietro a loro la compagnia dei confrati con la loro croce, poi i tamburini dei granatieri austriaci, coi tamburi velati a bruno e scordati; un ufficiale coi capelli biondicci e una faccia rincagnata, duro e dispettoso; un drappello di veterani, e indi fra una doppia fila di granatieri, i condannati, uno dietro l’altro, vestiti di una specie di sacco, il capo coperto di un velo nero, le mani legate dietro il dorso, i piedi scalzi. Andava ognuno fra il sacerdote che lo andava confortando, e un gendarme che lo sosteneva e lo guidava.
La strada lunga, lubrica per la pioggia della notte, che aveva qua e là, lasciato pozze fangose, aveva da una parte le case del Borgo, dall’altra il mare livido, che s’infrangeva fra le secche.
Via via che il lugubre corteo procedeva, i pochi passeggeri fuggivano per le strade traverse; qualche bottega ancora aperta s’affrettava a serrare; chi non poteva sottrarsi altrimenti, chiudeva gli occhi per non vedere: ma al suo orecchio giungeva il cupo e lento battere dei tamburi, la voce lamentevole e cadenzata dei sacerdoti, il grido supplice ed esortativo dei confrati che invocavan preghiere per l’anima dei morituri.
Un confrate degli agonizzanti dinanzi la porta di S. Giorgio, sull’arco della quale, dentro una gabbia di ferro, biancheggiavano i teschi di alcuni malandrini, aveva aspettato il passaggio del corteo. I suoi occhi, sfolgorando dietro i fori del cappuccio, interrogavano a uno a uno coloro che andavano a morire, il suo petto ansava sotto il sacco. Pareva che facesse uno sforzo sovrumano per contenersi. Era Tullio.
Riconobbe i suoi compagni: la voce interiore gliene diceva il nome, via via che passavano; i primi erano i due preti, La Villa e Calabrò, già sconsacrati nelle carceri del Castello; poi venivano Pietro Minnelli, Natale Seidita, Domenico  Barucchiere, Giuseppe Candia, e dietro a questi il giovane Lo Verde, pallido, ma franco, col capo eretto, come se oltre la benda i suoi occhi vedessero qualche cosa. Altre milizie austriache e borboniche erano sulla piazza della Consolazione; divise in due ali, l’una di faccia all’altra, perpendicolarmente al muro del Convento, e in modo da lasciare fra loro un largo spazio. Dietro di esse e al principio della piazza eran dei gendarmi a cavallo; più addietro, dalla parte del mare, sulla strada del Molo, i cannoni delle batterie da costa (sparite ora e mutate in magazzini) avevan le bocche rivolte sulla piazza, e i cannonieri stavan con le micce accese, minaccia di un popolo che non c’era!…
Ma ben altro colpì la vista di Tullio e gli gelò il sangue nelle vene. Fra l’una e l’altra schiera di soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime. 
Quando il corteo giunse, a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre lati di un quadrato spazioso.
I condannati furono dai gendarmi spinti innanzi, sino alle panche. La confratria si schierò in capo alla piazza, presso le panchette; Tullio si pose dinanzi. Di là egli era più vicino ai condannati che non avesse supposto; forse la sua voce sarebbe giunta all’orecchio di Giuseppe.
Lo cercò; lo riconobbe: in quel momento i sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai condannati.
Un gran silenzio si distese per la piazza: Tullio udì chiaramente la voce dei preti, che gridavano allontanandosi: – Volgete la mente a Dio!... Dite: o Signore prendi l’anima mia!...
Forse qualcuno dei condannati ripetè le supreme parole; essi stavano immobili, con le mani legate dietro le reni, gli occhi serrati nella benda; ma indovinavano, sentivan già il freddo della morte scendere nel loro sangue.
Lo Verde era sulla panchetta a sinistra; diritto, col capo alto, col suo dolce sorriso. Il pallore della morte vicina non aveva ancor vinto la giovinezza che gli fioriva su le labbra. Tullio guardava con gli occhi sbarrati sotto il cappuccio, ansante, col cuore infranto dal dolore e dalla pietà, coi nervi tremendamente tesi dalla violenza che faceva sopra di sé per frenarsi. Ma quando vide i preti allontanarsi, e i veterani spianare i fucili, non potè contenersi e gridò:
- Addio!... Addio, fratello!...
Grido e singhiozzo e schianto! Ai suoi occhi velati di lagrime parve che il Lo Verde si scuotesse, come se avesse riconosciuto la voce amica; ma in quel punto stesso, all’improvviso balenìo d’una lama, uno scoppio squarciò il silenzio, una nube di fumo empì lo spazio; quei nove corpi si abbatterono per terra, coi petti infranti… Non erano morti! I veterani borbonici li avevano solamente feriti. Bisognò ricaricare le armi, e tirare ancora due volte su quegli sventurati. Fu un assassinio; e non un giudizio. 


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