La principessa ladra. Romanzo storico siciliano


Il romanzo La principessa ladra si svolge a Palermo alla fine del 1700. Nella prima pagina l’autore ne indica la data: Era la metà di dicembre del 1797… Nello stesso periodo storico sono ambientati Calvello il bastardo, I mille e un duelli del bel Torralba, L’abate Meli.
Siamo quindi nel pieno della dominazione borbonica, con il re Ferdinando e la moglie Maria Carolina. In primo piano i banditi, circondati di fascino e mistero; in contrapposizione l’effimera società nobiliare, dedita a feste e divertimenti, che getta sacchi di scudi nel gioco, indifferente alle miserie del popolo.
Al centro la storia controversa del feudo di S. Alessio, di una contea strappata al vero possessore, che passa di mano in mano fino al decisivo testamento: “Lascio la contea di S. Alessio di mia esclusiva proprietà, a mio nipote don Paolo di Santa Croce, per sé e i suoi eredi, con la facoltà di usare il titolo, previe le forme di riconoscimento e investitura secondo il rito feudale in vigore. Il titolo di proprietà si trova nelle scritture qui annesse, del quale si avvalerà per immettersi in possesso del feudo, ancora illegittimamente detenuto dagli eredi del fu barone di S. Teodoro”. E di un titolo nobiliare vantato da chi non è il legittimo proprietario: “Conte! Nella sua carrozza e nella sua portantina avrebbe ora fatto dipingere le sue armi inquartate con quelle dei S. Alessio e sormontate dalla corona di conte”. 

I PERSONAGGI 

Ed eccoli, in ordine di apparizione:
Donna Flora di Canavilla (protagonista femminile del romanzo): Forse per ammirare la bellezza del tramonto o per guardare intorno, una graziosa testa avvolta in una cuffia si affacciò fuori dallo sportello, e dopo un minuto rientrò. Intorno era un alto silenzio, interrotto dal calpestìo di sei animali, dal tintinnìo dei sonagli e dal tremolìo dei vetri; suoni e rumori che si confondevano tutti insieme in un rumor solo, che pareva infastidisse la graziosa signora che si era affacciata allo sportello. Era una giovane di poco più che venti anni, non perfettamente bella, ma avvenente, col suo nasetto petulante, gli occhi grandi e neri, il mento ovale, un grosso neo su la rosea guancia, quasi ad un pollice dell’angolo della bocca rosea e appetitosa come una fragola. Un’aria un po’ impertinente e affascinante.
I capelli pettinati alti, con la «montera» come dicevano i parrucchieri del tempo, e coi lunghi riccioli spioventi dalla tempia intorno al collo, incipriati accuratamente, eran coperti di un’ampia cuffia ornata di trine, e legata sotto il mento da larghe bende, che incorniciavano l’ovale del volto. Il corpo era ravvolto in un largo mantello di panno color cuoio, con dei baveri sovrapposti l’uno all’altro, le mani inguantate trattenevano sul petto i lembi del mantello, come se ella temesse il freddo. Ma freddo non ce n’era; e nella lettiga ci si stava bene. Una pelle di capra nera teneva caldi i piedini irrequieti, e i vetri chiusi non lasciavano penetrare un filo d’aria.
 
Il cavaliere di Santa Croce: La giovane donna non era sola. Sul sedile dinnanzi a lei sedeva un giovane signore, in tenuta da viaggio; con grandi stivali alla scudiera tirati fino alla coscia; un pastrano a baveri, il nicchio o cappello a tre punte disadorno di piume e di galloni. Era un giovane nè bello nè brutto; piuttosto simpatico; bruno di carnagione, un po’ femineo nel viso accuratamente sbarbato. Accanto teneva due pistole e lo spadino dalla impugnatura semplice di ottone dorato.
Che fossero signori si vedeva bene alla finezza dell’aspetto e dei modi.
Il cavaliere di Santa Croce era un uomo di un coraggio straordinario; sotto l’aspetto di un cavaliere servente raffinato e dedicato alle frivolezze del gran mondo, celava un cuore audace e talvolta anche inaccessibile alla prudenza più elementare. La vista dei banditi non lo aveva sgomentato; li aveva affrontati, certo di soccombere; ma sarebbe stato al postutto un bel gesto morire valorosamente come un eroico cavaliere antico, sotto gli occhi e in difesa della dama amata.
Santa Croce amava donna Flora. Aveva da prima contenuto il suo amore nei limiti di una cortesia affettuosa e di una devozione, che aveva qualcosa di più saldo delle convenienze e dei convenzionalismi inerenti alla sua qualità di cavalier servente.
Prima di conoscerlo, donna Flora aveva come servente il duca di Melia; ma un bel giorno lo licenziò.
 
La banda dalla Testa-tagliata: Questa banda non si lascia raggiungere mai. Quando noi crediamo che sia qui, essa invece vi spunta a Messina. Qua apparisce capitanata da Pasquale Bruno inteso Zozza; là invece da Francesco Neglia. E forse nè l’uno nè l’altro sono i capi. Insomma è una banda che piomba improvvisamente, compie le sue imprese; e si dilegua senza lasciar traccia di sé...
 
Il capo della banda dalla Testa-tagliata: Più indietro, in disparte, un uomo a cavallo guardava in silenzio. Il cavaliere, in terra, impotente a moversi, a gridare, agitandosi e sbuffando, seguiva con lo sguardo i banditi, non sapendo che cosa volessero fare, e sospettando che quella gentilezza o generosità brigantesca celasse qualche tranello. Guardava l’uomo a cavallo, che evidentemente era il capo, aspettando che si voltasse per poterlo riconoscere in seguito, se lo lasciavano vivo, come sperava. Alla taglia svelta, al garbo col quale stava in arcione, al gesto breve, imperioso, non sembrava persona volgare, se bene vestisse alla maniera della gente di campagna, con la giacchetta turchina, corta alla vita, e la berretta nera piegata sull’orecchio.
Diritto, in mezzo alla stanza, sotto la luce della lampada, aveva dinanzi a sé il misterioso capo dei banditi, col volto coperto ancora dalla maschera. Era un uomo di statura media, ben tagliato, col petto largo, i fianchi stretti, le gambe nervose. La corta giacchetta di panno turchino coi bottoni di metallo bianco, disegnava bene quel corpo, che aveva solidità e sveltezza, forza e agilità e soprattutto una eleganza disinvolta, che non era certamente da contadino.
Le sue mani e i suoi piedi erano aristocratici.
Sebbene la maschera gli coprisse metà del volto, il mento perfettamente raso e la bocca sottile e ironica avevano qualche cosa, come un segno di superiorità, di finezza.
La duchessa intuì che sotto le vesti e gli atti di un bandito si nascondeva un uomo di natali elevati. Quella maschera, che certamente non portava sempre, serviva per nascondere a lei fattezze forse note. Donna Flora stette un po’ pensierosa; era più che mai persuasa di non trovarsi dinanzi ad un uomo volgare; e che le spoglie del bandito celavano un cavaliere, che forse teneva ancora un piede nella società aristocratica. Dubitava anzi che quegli fosse un vero bandito. L’aggressione, il riscatto potevano bene mascherare qualche altra cosa. Quale?
 
Il capitano Carlo Ciancimino e la compagnia rurale di Monreale: Bisognava trovare il capitano Carlo Ciancimino. I Ciancimino per lunga tradizione erano capitani della compagnia rurale di Monreale, da padre in figlio. Si trasmetteva il bastone del comando, come un diritto di primogenitura; la compagnia aveva perciò preso il nome di Ciancimino come una proprietà di famiglia. Essa e la «compagnia di Vanasco» ossia del capitano Vanasco, erano in quel tempo le più famose nel Val di Mazzara. La loro fama derivava dal valore degli uomini che ne facevano parte, ma bisogna dare alla parola «valore» un significato speciale nel quale quello di «prodezza» non entra per nulla. Tutte le compagnie di armi, cui era affidata la sicurezza delle campagne, infestate di ladri e di banditi, erano composte del fiore dei bricconi; una compagnia dunque valeva di più, quanto più bricconi fossero i compagni e quante più bricconerie commettessero contro la povera gente, che non sapeva difendersi; lasciando per altro ai ladri di compiere le loro gesta indisturbatamente.
Perché una compagnia si mettesse davvero alla caccia di una banda con qualche vantaggio, era necessario lo stimolo di un grosso premio, o, come talvolta avvenne, la minaccia di impiccare capitano e compagni.
Prima che i venti compagni si radunassero, a cavallo, in pieno assetto di guerra, passò qualche ora, forse. La luna era sorta allora, una luce piena, che spandeva per l’umido cielo un dolce chiarore latteo, e illuminava le strade e i colli circostanti così da far nettamente distinguere fino a una considerevole distanza le forme delle cose. Pareva un buon augurio. Il cavaliere di Santa Croce s’era fatto dare un cavallo e uno schioppo anche lui, non volendo lasciare ai soli compagni d’arme i rischi e la gloria di quella spedizione notturna.
La cavalcata si mosse tra la curiosità, gli auguri e i commenti dei curiosi, che non avevano saputo andare a letto prima di vederla partire. Innanzi cavalcavano il capitano e il cavaliere; dietro di essi veniva il lettighiere montato sopra una mula in mezzo ai compagni d’arme. Il chiaro della luna rendeva più facile il cammino. Essi andavano di mezzo trotto in silenzio; ciascuno pensando ai fatti suoi o a quell’incidente; il cavaliere di Santa Croce rinnovava propositi di vendetta e rifaceva piani di guerra; il capitano Ciancimino ripeteva fra sé che quella passeggiata era assolutamente inutile, e che se non si fosse trattato di signori di qualità e del premio, avrebbe mandato a quel paese il notturno interruttore del suo sonno; il lettighiere si angustiava e tremava al pensiero che una schioppettata non gliel’avrebbe levata nessuno; i militi infine facevano il conto di quel che sarebbe toccato a ognuno per quel servizio straordinario.
 
Il Cavaliere di Valdoro: Il cavaliere di Valdoro era un giovane di trenta anni, di bell’aspetto, serio, con un non so che di imperioso nelle linee del volto e di amaro nel sorriso, che però egli addolciva con la eleganza del gesto e la gentilezza della parola. Vestiva con ricercatezza una «giamberga» color pisella, brache dello stesso colore, e sottoveste di seta bianca sparsa di fiorellini. Il candore e la finezza dei pizzi, che gli cadevano dalla bianca cravatta sul petto, e dalle maniche sulle mani delicate; la finezza delle calze di seta, la leggiadria delle fibbie delle scarpette verniciate, e dei ciondoli di filigrana d’oro che gli pendevano dalle tasche della sottoveste; la bellezza della canna, dal pomo finemente cesellato; la cura con cui era annodato il nastro alla estremità del codino, mostravano che era un raffinato.
Egli salutò, secondo la moda dei tempi, inchinandosi, e toccandosi la bocca con la punta del tricorno, poi baciò la mano alle signore, scambiò una stretta col principe di Mongerbino.
Il cavaliere Valdoro, in piedi, con le braccia incrociate, guardava quella tempesta, con un certo disdegno, senza dir nulla: i suoi occhi passavano da un palco all’altro; più volte si erano incontrati con quelli del cavaliere di Santa Croce: e i due uomini si erano guardati con un sentimento quasi di sfida.
 
Monsignor Lopez y Royo: Monsignor Lopez y Royo arcivescovo di Palermo, presidente e capitan generale del regno mandò un segretario del governo a pregare sua eccellenza il signor principe di Pietrarsa e duca di Canavilla di favorire al palazzo arcivescovile, desiderando conferire su cose che riguardavano la sicurezza dello Stato.

Il rappresentante del re voleva naturalmente conoscere i particolari della liberazione della duchessa che, variamente raccontati, passando in bocca in bocca avevano assunto un aspetto così romanzesco e inverosimile, da far perdere il filo alla giustizia. Quando era solo in quell’ampia biblioteca, dove per darsi l’aria d’uomo colto egli trattava gli affari del regno e della diocesi, monsignor Lopez, gratificando la duchessa con un epiteto poco cavalleresco e sacerdotale, anzi sguaiato, esclamava dispettoso:
- Quella... doveva andarsene così lontano! Non poteva accomodarsi in Palermo?...
Monsignor Lopez sapeva tutte queste cose; la sua biblioteca accoglieva un doppio ordine di informatori – non diciamo spie; – quelli che gli riferivano come presidente del regno, cui spettava vigilare la vita pubblica, e quelli che riferivano, come arcivescovo, al quale ora che il Santo Offizio non esisteva più, toccava di vigilare sui costumi.
Monsignor Lopez y Royo, se come arcivescovo era un prelato che governava anime, come Presidente del regno era un rappresentante del re, che non poteva sottrarsi a certi obblighi mondani: cosicché nella sua Conversazione non mancavano le dame, alle quali egli faceva servire galantemente il cioccolato, e i biscotti e i dolci che gli fornivano i monasteri di Palermo; ognuno dei quali aveva una sua «specialità» a cui, più che ad opere di religione, doveva la sua fama. Molto frequentemente le madri badesse si facevano un dovere di offrire a sua eminenza i loro dolci, cosicché spesso queste conversazioni non gli costavano neppure un baiocco.
Egli, da buon mondano, sapeva, senza perdere la sua gravità arcivescovile, trattenere la conversazione con le donne, raccontando barzellette, si capisce sempre lecite ed oneste, almeno nella forma, giacché nella sostanza, piaceva anche a monsignore far della maldicenza d’alcova. E v’erano in quei tempi alla corte di Napoli, dame della regina, tre principesse palermitane, che... facevano furore, e davano largo campo agli aneddoti più piccanti.
Quando il prelato domestico di monsignore gli portò la supplica di Santa Croce, egli stava discorrendo, sorridente e con gli occhi pieni di desiderio, con donna Flora, che era diventata assidua del circolo di sua eminenza.
 
Gli informatori di monsignor Lopez: Era l’ora in cui monsignore riceveva i suoi informatori. Figure losche di mezzi curiali, che, si chiamavano «pagliette»; di abatini azzimati e profumati, che vestivano in abito corto, con la mantellina foderata di seta, frequentatori dei salotti, vere spugne che assorbivano tutti i pettegolezzi dell’aristocrazia e tutte le storielle di alcova; qualche nobilotto mezzo spiantato; antichi familiari del Sant’Uffizio, che non potevano acconciarsi all’idea di lasciar fare alla gente quel che volesse, e si preoccupavano ancora della sorveglianza sui costumi; tutto un esercito di persone, che o per gusto o per abito o per mestiere venivano a portare qualche notizia a sua eccellenza.
Un «padre lettore» cioè un maestrucolo, prete, come eran quasi tutti quelli che insegnavano pubblicamente e privatamente, entrò; e dopo molti inchini e baciamani, portò a monsignore una grave notizia.
- Sono stato nella libreria di don Filippo Perrotta ai Cintorinai, proprio nel momento che gli arrivava una cassa di libri... Ne ho veduto qualcuno... che mi ha scandalizzato...
- Come sarebbe a dire?...
- Vostra Eccellenza immagini che vi ho trovato il Decamerone di Giovanni Boccaccio...
- Oh! oh!... E il padre Gregorio e il padre Barcellona non hanno visitato la cassa in dogana?
Il padre Rosario Gregorio e il padre Antonino Barcellona erano insieme con altri incaricati della revisione dei libri in dogana, per vedere se le casse contenessero le opere proibite comprese negli elenchi dal 1769 in poi; e specialmente francesi, le quali erano tutte quante giacobine, e perciò perniciose pel buon costume e per la fedeltà dei sudditi. Vi avevano in questi ultimi anni compreso anche il Decamerone e qualche poema del Marino; e i revisori esercitavano il loro ufficio con un certo scrupolo; sebbene non sempre riuscissero a impedire il contrabbando.
 
Il principe di Pietrarsa, marito di donna Flora: Era noto infatti che il principe era andato a stabilirsi a Napoli, col pretesto del servizio di corte, per separarsi dalla moglie, alla quale pretendeva essere il solo che dovesse aver facoltà di... slacciare il busto. Poteva permettere e tollerare il cavalier servente o cicisbeo, perché era moda, e non voleva parer ridicolo proibendolo, e perché alla sua volta egli serviva altra dama; ma non intendeva che i cicisbei di sua moglie oltrepassassero certi limiti. Accompagnarla a messa, alle visite, alla Conversazione; darle la mano quando scendeva le scale, o quando entrava o usciva dalla carrozza o dalla portantina; portarle il nuovo romanzo arrivato di Francia; tutto questo, si poteva consentire: ma nec plus ultra.
Ora la duchessa era invece passata oltre; e non una volta sola; e il principe l’aveva lasciata in Palermo, e se ne era andato a Napoli, non stimando più conveniente per lui convivere insieme; nè volendo d’altra parte, star con la spada in mano tutta la vita, per vendicarsi dei torti. E così si erano separati. Se adesso era ritornato, se avea pagato la somma chiesta pel riscatto, non era punto per rappaciarsi e convivere con la moglie. Aveva altre idee.
Non molto innamorato della moglie: Il principe di Pietrarsa non fu molto contento di veder giungere donna Flora a Napoli, e per parecchie ragioni; una che non voleva aver più relazioni con lei; l’altra che era sicuro non esser lei venuta per vederlo, per rimaner con lui, per un risveglio di doveri, come una Maddalena pentita; ma per altre ragioni, probabilmente di interesse, avendola lasciata impelagata nei debiti; la terza, finalmente, che non era poi la men grave, perché egli aveva contratto qualche tenera amicizia che lo consolava della sua vedovanza volontaria; e, per quanto ciò non fosse in quei tempi, e con la corruzione della Corte, una cosa eccezionale e scandalosa, temeva qualche scenata di gelosia, vera o falsa.
Non fece dunque buon viso alla moglie; anzi l’accolse con una certa asprezza, e la invitò a ripartire per Palermo col primo «pachebotto» regio.
 
Il barone di Calavà: Il barone di Calavà non aveva un proprio palazzo in Palermo, vivendo il più dell’anno nelle sue vaste possessioni. Veniva però a passare nella capitale i mesi invernali, che erano i mesi delle feste e dei divertimenti; ai quali il barone, sebbene avesse una settantina d’anni, si abbandonava con impeto giovanile. Abusava della sua costituzione forte e resistente, che per sette o otto mesi dell’anno si riforniva tra le valli e i monti che si stendevano e diramavano da Patti alla punta di Calavà, da Piraino a Basicò.
In Palermo veniva ad abitare un quartiere nel palazzo dei Lancia, dei quali era parente per parte della moglie.
Il barone di Calavà non aveva avuto dal suo matrimonio che una figlia, Maria Letteria; e l’aveva data in moglie al conte di Santa Croce; al terzo parto nel 1765 la contessa era morta. Il terzo nato, che aprendo gli occhi alla luce, aveva chiuso quelli materni, era appunto il cavaliere di Santa Croce. Qualche anno dopo il conte di Santa Croce seguì la moglie nella tomba: i tre figli, una femmina e due maschi, furono cresciuti dal nonno materno, che trasportò sopra di loro la tenerezza che aveva avuto per la figlia.
Ma come se una fatalità fosse pesata sopra il suo sangue, il primo maschio, don Antonio, conte di Santa Croce, e quanto prima anche barone di Calavà, a ventiquattro anni, dopo un anno di matrimonio con una Lancillotto, morì quasi improvvisamente, lasciando un bambino di pochi mesi. La vedova, giovane di appena diciannove anni, dopo due anni di vedovanza passò ad altre nozze: il bambino, per patti convenuti, sarebbe stato con la madre fino ai sei anni; poi sarebbe stato affidato al nonno. Queste nozze erano avvenute nei primi del 1792.
La nipote, donna Costanza, che era la maggiore, educata nel monastero del Salvatore, aveva voluto farsi monaca; e la vocazione le era stata favorita e incoraggiata dal fratello, per ragioni economiche: cosicchè da lei non era più sperabile che discendesse un altro ramo dei Santa Croce – Calavà. L’ultimo, Paolo, il cavaliere, era stato, appena compiuti ventun’anno, ascritto nei Cavalieri di S. Giovanni, o di Malta, i quali professavano qualche voto e non potevano prender moglie.
La stirpe dunque non si sarebbe perpetuata legittimamente che per quel bambino di cinque anni, sul cui capo si radunava la ricchezza ingente di due nobili casate. E si radunava ora, improvvisamente, con la morte del vecchio barone, poichè, se ancora egli viveva, i medici non speravano che ei superasse la crisi, e si aspettavano un nuovo colpo, entro le ventiquatt’ore, che avrebbe spento quell’ultima fiammella di vita.
 
Il vecchio misterioso: Ella guardò. Sulle prime non vide, dinanzi a sé che una tavola, sulla quale stava una lucerna di ottone, a due becchi, accesi; poi accanto a quella tavola vide un vecchio; o meglio, vide un uomo, su le cui spalle si agitava con movimenti ritmici un ammasso villoso, bianco, abbatuffolato in mezzo al quale appena appena si vedeva la linea del naso affilato, cereo, e il luccicare degli occhi, quasi nascosti sotto le folte sopracciglia. Capelli e barba si univano, si confondevano siffattamente che non era possibile vederne i confini: l’orecchia spariva tra l’espandersi invadente della barba e il prolungarsi dei capelli: e quel tanto di naso e di gote che si intravedeva, pareva come se si affacciassero un po’ da un buco praticato nel mezzo di un vello di caprone.
Era quel vecchio dunque che doveva narrarle la storia di un delitto? Era quel vecchio che vegghiava in quella stanzetta quasi nuda, accanto a quella tavola, raccogliendo quello che non c’era?
Ella vide il vecchio, in piedi, con le mani tese nel vuoto, in atto di allontanare qualcuno; poi stringere le pugna ferocemente, e facendo l’atto di vibrare.
Da un angolo, che rimaneva celato allo sguardo, uscì una giovinetta, vestita di nero, con un soggolo bianco. Una suora. Si avvicinò al vecchio, gli prese le mani affettuosamente, lo spinse su la sedia accanto alla tavola. Egli continuò a guardare nel vuoto, con lo sguardo errante, or torvo e feroce, ora doloroso; poi guardò la giovinetta, e allora parve si rasserenasse, e che un raggio di coscienza illuminasse il suo sguardo. Le sue pupille espressero la pietà e l’affetto; trasse a sé le mani della suora e la costrinse a piegarsi su di lui. Donna Flora si sentiva smarrita, non sapeva risolversi e rimaneva lì, sulla soglia, guardando quel vecchio che le tendeva le mani affabilmente; e quella suora ancor giovane, pallida e triste, sul cui volto i patimenti avevano tracciato solchi profondi, ma non avevano cancellato del tutto i segni di una dolce bellezza. Il vecchio, ora, visto di fronte e tutto illuminato le sembra mostruosamente bello, con la folta e lunga capigliatura e la barba lunga e candida come quella d’un Padre Eterno; ma la suora aveva qualche cosa sul volto che le ricordava un altro volto veduto. Dove?...
 
Il giovane Castelmauro: Ella vedeva negli sguardi, nel sorriso, nelle premure e nella timidezza del giovane Castelmauro quale passione gli ardesse nell’animo; e ciò la conturbava, ma d’un turbamento quasi materno, pel quale, mentre sentiva una certa compassione, si mostrava riserbata e fredda. Assiduo corteggiatore di donna Flora: L’impazienza la tormentò per tutto il tempo dell’aspettazione, che fu di circa due ore. Due ore lunghe, irritanti, nervose. Ma quando il servitore le annunziò che il principino di Castelmauro domandava l’onore di baciarle la mano, si rasserenò ed entrò nel salottino contiguo alla sua camera. Castelmauro era visibilmente commosso ed agitato; il suo bel volto di adolescente, al vederla, si colorò di porpora, e gli occhi gli si inumidirono, poi divenne pallido, e poté appena balbettare una parola di complimento; ma il suo sguardo umido, scintillante, esprimeva eloquentemente quello che la parola non sapeva dire.
 
Michele Sparacino: Io ho ai miei servizi un certo Michele Sparacino. Non è propriamente un servo, né un sorvegliante, né un gabelloto, né un impiegato della mia amministrazione; non è nulla, ma tuttavia è un uomo prezioso del quale mi avvalgo; e che mi è devoto. Quest’uomo ha sposato una vedova, che si chiama Maria Crocifissa Consolo; è una messinese, che da un pezzo dimora in Palermo: la vedova aveva già una figlia, Lucia, che ora tocca i quindici anni, ed è una bella e simpatica fanciulla.
La storia di questa fanciulla è singolare; o meglio, rassomiglia a quella di altre fanciulle, che non so se si devono dire disgraziate. Essa è illegittima. La madre l’ebbe da un signore, che la conobbe a Palermo, dove spesso veniva.
 
Maria Crocifissa Consolo: Maria Crocifissa aveva allora venticinque anni e si era sposata a un algozino della regia Gran Corte, che aveva venticinque anni più di lei, ma era forte e sanguigno; e naturalmente, per la differenza dell’età era geloso.
Egli chiudeva a chiave la moglie quando usciva di casa, e non tollerava che ella si affacciasse al balcone. La faceva uscir di rado, sempre con lui, per andare a spasso, e l’accompagnava in chiesa tutte le feste. In una di queste rade uscite la conobbe il barone, che chiamerò per ora Caio.
Il barone era un uomo violento in tutte le manifestazioni dei suoi sentimenti, e non conosceva diritti e ostacoli, né indietreggiava dinanzi al delitto. La gelosa clausura in cui l’algozino teneva la moglie, fu un’esca, un incentivo al desiderio. Tentò in tutti i modi di raggiungere il suo intento, ma invano. Ricorse a un mezzo semplicissimo: una sera che l’algozino per una presa di possesso di terre presso Termini dovette pernottare fuori di casa, il barone fece rapire Maria Crocifissa.
L’algozino al ritorno, non trovata in casa la moglie, n’ebbe un fiero colpo. Corse come un pazzo per tutti i luoghi dove supponeva di poterla trovare, ma invano. Del barone non sospettava, perché non lo aveva mai veduto: di altri neppure, perché non aveva mai veduto ronzare qualcuno intorno alla casa. Pianse, si disperò, cominciò a fantasticare, frugò per ogni luogo dove poteva penetrare, temette disgrazie; per poco non impazzì. Abbandonò la regia Curia, andò vagando per le campagne. Un bel giorno fu trovato morto sullo stradale dei Ciaculli; due colpi di carabina dietro le spalle lo avevano freddato. Non si seppe mai chi l’avesse ucciso, né perché. Cinque anni dopo Maria Crocifissa tornò in Palermo con una bambina. Andò ad abitare in una casa al Capo. Il barone si era stancato di lei; le pagava però un piccolo assegno mensile, per la bambina. Maria Crocifissa vestiva il lutto vedovile, e menava una vita ritirata. Nessuno vide mai frequentata da uomini la casa di lei; quel piccolo assegno, essa andava a riscuoterlo dall’amministratore. Pure ebbe qualche noia. Il capitan giustiziere, riesumato il delitto, e ricollegandolo alla scomparsa di Maria Crocifissa, la fece arrestare, accusandola di aver fatto uccidere il marito. Essa invocò la testimonianza del barone Caio; e il barone Caio mise la giustizia a tacere. Egli poteva infatti assicurare la giustizia, nella maniera più certa, che Maria Crocifissa non entrava per niente nell’uccisione del povero algozino.
 
Donna Francesca Lancillotto: Donna Francesca Lancillotto, vedova di don Antonio di Santa Croce, aveva sposato don Agostino Barleone signore di Callattuvo, dal quale aveva procreato una bambina. Aveva casa nella strada della Loggia. Se le sue prime nozze col conte di Santa Croce erano state combinate dai parenti per ragioni di interesse, le seconde erano nate da amore. Don Agostino era colonnello in un reggimento di fanteria, ed era un bel giovane di poco più di trent’anni; ed aveva promesso che avrebbe avuto pel piccolo Santa Croce, che la moglie gli recava insieme con la dote e con l’amministrazione della ricca eredità, tutte le cure di un vero padre. E aveva mantenuto la promessa.
Era stato già stabilito del resto che il piccolo Goffredo, il quale aveva oramai cinque anni, non doveva rimanere sotto il governo materno che fino al sesto anno; raggiunto questo, la sua educazione doveva essere affidata allo zio, don Paolo di Santa Croce, il quale avrebbe anche avuta l’amministrazione dei beni, fino alla maggiore età di Goffredo.
 
Lucia Consolo: Era una giovinetta di quindici anni, bruna, coi capelli neri, grandi occhi nerissimi e vellutati sotto l’arco delle sopraciglia; bocca tumida e rossa. Forse un po’ pronunziati gli zigomi, e la mascella gagliarda; ma un insieme pieno di attrattive, di ardenze, di inconsapevoli grazie provocanti; simpatico e vigoroso, fiero e sensuale.
Di cui si invaghisce don Paolo di Santa Croce: Si voltò, e ficcò lo sguardo attraverso i quadrati delle due grate. Non poté trattenere un gesto di stupore e un sorriso, alla vista della graziosa figura di Lucia, che egli vedeva per la prima volta. Nella veste nera col fazzoletto bianco appuntato sul seno, il collo nudo, ella era assai più avvenente di prima. La vita claustrale l’aveva sbiancata alquanto. I mesi trascorsi nella compagnia di fanciulle di buone famiglie avvezze a maniere più gentili, imparando qualche cosa vana e superficiale, a leggere il libro di preghiere, a balbettare qualche parola in francese, l’avevano affinata un po’. Santa Croce non poteva fare un confronto tra la ragazza di una volta e quella di ora; ma certo quella che vedeva dinanzi a sé era una fanciulla piena di attrattive. Guardandola bene, le riconosceva nelle linee del volto qualche cosa di energico che ricordava i Calavà; ma l’espressione era un’altra.
 
Ascanio: era la sua idea fissa, tormentosa; ed era la sua aspettazione e la sua speranza. Chi fosse questo Ascanio, Lucia non lo sapeva. Certo non poteva essere il montanaro che lo aveva accompagnato, e che si chiamava Pasquale.
 
Pasquale Bruno: Era “compar Pasquale” quel giovane montanaro che aveva accompagnato il pazzo; e che ogni tanto si annunziava a quel modo. Veniva dagli agrumeti, fischiava; Michele usciva, e se ne andavano insieme pei viottoli e i sentieri che intersecavano le terre dei diversi proprietari. Ma chi fosse quel “compar Pasquale” non sapevano né l’una né l’altra. Alla parlata pareva della provincia di Messina.

Famoso bandito, capo di una temuta banda: Pezzi da forca! è così che si trattano i signori?... Su! slegategli le braccia!... Gli avete servito da mangiare? No?... Furfanti. Capisco che qui non c’è un cuoco adatto per un signore... Vostra eccellenza scusi; questa gente non sa come si trattino i signori; e se qualcuno ha mancato di rispetto, giuro che gli mozzerò le orecchie; per quanto è vero che mi chiamo Pasquale Bruno!...
A questo nome il cavaliere diede un guizzo, come se lo avessero punto con uno spillo; e guardò in volto quel giovane con stupore, collera, curiosità a un tempo. Eccolo, dunque, l’autore di quella lettera famosa; ecco colui che aveva osato inviargli il teschio tolto al castello!... Era questa cattura una vendetta? era la continuazione di quel dono? sapeva dunque il bandito chi era il suo prigioniero? Il volto del bandito non esprimeva alcun sentimento: era calmo, serio, dignitoso.
Divenuto bandito per un delitto passionale: Quella notte donna Flora si sentì così felice, che volle trattenersi a discorrere con Pasquale Bruno, al quale fece servire una cena abbastanza lauta, della quale il figlio dello stalliere di Bavuso non accettò che un pezzo di carne e un po’ di pane, rifiutando il vino che era «traditore». Ella si fece raccontare la storia del bandito e l’ascoltò con interesse. Era una storia di vendetta e d’amore, che l’aveva gittato nella campagna. Tradito dalla donna che amava, aveva ucciso il marito che ella si era scelto: l’aveva ucciso con una pugnalata nel petto, durante una festa. Era stato questo il primo passo. Storia comune a quasi tutti i grandi banditi della Sicilia, il cui primo delitto fu sempre passionale: o per amore o per l’onore. Aveva tentato di vendicare la morte del padre, ma non gli era riuscito; se non l’aveva fatto scontare al conte, gli era perché rispettava in loro il sangue paterno. Ma aveva tolto il teschio del padre dalla gabbia infame.
- Non ho mai ucciso un uomo inerme, né un innocente; se ho ucciso dei soldati, gli è stato soltanto per difendere la mia vita e la mia libertà... E quando ho potuto far del bene alla povera gente, l’ho fatto; e spero che il Signore ne terrà conto... Quando occorre avere una forza, io trovo sempre una banda e anche due: ve ne sono parecchie, disgraziatamente, nell’isola; e vivono di rapine e di violenze. Esse mi conoscono, e hanno per me un rispetto profondo e illimitato. Io ho sdegnato sempre di avere una banda, perché non voglio far male: ma quando ho bisogno di averne una, non ho che da mandare un segnale.
 
Lady Hamilton: Donna Flora era un tipo di bellezza in perfetta antitesi con quella di Emma Lyona, lady Hamilton. Il suo volto non aveva la purezza delle linee classiche, come quello di lady Hamilton, ma era armato di tutti gli incanti; i suoi occhi non avevano l’azzurro dei cieli, ma sotto l’ombra delle folte ciglia avevano le profondità misteriose delle passioni: la sua taglia non aveva la euritmia statuaria antica, ma traspirava il profumo della voluttà, suscitatore di desiderii tormentosi. Pareva dovesse contendere l’impero della bellezza e dell’amore alla bellissima straniera, o per lo meno dividerne il campo. Lady Hamilton parve presentirlo, e una lieve ruga le solcò con rapido guizzo la candida fronte. Lady Hamilton aveva durato fatica, per mettere piede in corte, e diventare l’amica intima, forse troppo intima, della regina. Nei primi tempi aveva trovato contro di sé l’orgoglio disdegnoso di Carolina, che non trovava onorevole, non soltanto per la figlia dei Cesari, ma anche per ogni donna non rotta al vizio, mettersi accanto colei che era diventata lady, per la follia estetica e senile di lord Hamilton. La bellissima Emma Lyona, nata nei trivii della contea di Galles, serva di osteria, raccolta da un ciarlatano, un dottor Graham, che la esponeva nuda in un suo Letto d’Apollo, con strani riti: divenuta amante del pittore Romey, modella, madre di tre figli, poi amante di sir Carlo Greville di Warwik, e finalmente, nel 1791, moglie di lord Hamilton, ambasciatore di Sua Maestà Britannica alla corte di Napoli, aveva nei primi anni trovato dintorno a sé disprezzo e avversioni e porte chiuse: ma lord Acton venne in suo aiuto. Erano inglesi tutti e due; tutti e due venuti da umili natali, dovevano la loro fortuna più che a meriti di intelletto e di cuore, alla bellezza fisica e all’intrigo; tutti e due erano ambiziosi, procaccianti, avventurieri; avidi di piaceri e crudeli. S’intesero. Ciò che lord Hamilton non aveva potuto ottenere con l’autorità della carica, ottenne lord Acton con la sua volontà dominatrice. L’antica modella di Romey, che appena era stata tollerata nei ricevimenti ufficiali, cominciò a frequentare la corte: pensò ella a guadagnarsi l’animo della regina.

 
Giovanni Acton: era venuto per consiglio del principe di Caramanico come ammiraglio, nominato generale, poi ministro, poi lord; bello nella persona, freddo, tenace, astuto, si era insinuato nell’animo di Maria Carolina; e per mostrare la sua gratitudine verso il primo fabbro della sua fortuna, tolto al Caramanico il doppio posto di ministro e di amante della regina, lo aveva fatto allontanare da Napoli: e lo aveva surrogato. La voce pubblica accusava la regina e il suo nuovo favorito di aver fatto morire di veleno il Caramanico, forse per soggezione. Giovanni Acton diventò il dominatore; l’altera Carolina gli si asservì: la passione della donna diede la regina nelle mani dell’astuto inglese; che, creando cospirazioni, imbeccando eserciti di spie, istruendo per mezzo di giudici vili e crudeli processi contro personaggi ragguardevoli per casato e per grado, si rese indispensabile, e apparve come il salvatore del trono. Gli altri ministri non furono che suoi uffiziali: nulla facevano, senza il suo consentimento.

 


Il re Ferdinando di Borbone: Ferdinando si sbarazzava volentieri delle cure del regno, per godersi in santa pace le sue cacce tra Caserta e quella colonia di S. Leucio, da lui fondata; che era il «suo romitorio», e forse anche il suo harem. Al regno bastava la moglie, la quale non soltanto pei capitoli matrimoniali aveva il diritto di far parte dei Consigli della Corona, ma aveva nel sangue la smania dell’impero ereditata dalla madre, e l’irrequietezza riformatrice dei suoi fratelli Giuseppe e Leopoldo; più la passione degli intrighi, dei maneggi segreti, e, come il marito, quella degli amori extra matrimoniali.

Autore di “grandi gesti” dal sapore di commedia: Qualche mese dopo, la guerra, provocata dagli armamenti di Ferdinando, scoppiò. Il campo di S. Germano fu tolto; il re stesso, lanciato un manifesto ai monarchi, col quale annunziava il proposito di restituire Roma al Capo della Chiesa cristiana cattolica, si metteva alla testa dell’esercito che invadeva, senza resistenza, gli Stati già pontifici, diventati territori della repubblica romana.
Naturalmente questo eroismo non era sincero, e l’entusiasmo dell’impresa non era nel suo cuore: l’uno e l’altro erano fabbricazione fittizia di Maria Carolina, ubbriacata dall’illusione di una guerra, che sotto la protezione di lord Nelson riteneva vittoriosa, e doveva seguire il principio delle rivincite dei re e il trionfo della politica austriaca.
Il re aveva dovuto accettare, perché non poteva farne a meno, la sua parte in questa commedia, che doveva tramutarsi in tragedia. Sulle prime Ferdinando se ne trovò contento; l’impresa non gli oppose alcun ostacolo; egli poté entrare da trionfatore a Roma, senza che le sue truppe avessero consumato una cartuccia. Far la guerra in questo modo, diventare il liberatore della sede della cattolicità, restituire il soglio al Pontefice e acquistar fama nel mondo, degna di esser cantata da un nuovo Tasso; rinnovare intorno alla sua fronte di buontempone, l’alloro guerresco di Carlo III suo padre; e mostrare che alla fine non era re per nulla; eran cose troppo belle, e convenienti alla sua natura.
Appassionato di caccia e di pesca: Poco dopo si udirono squillare le trombe; e per tutta la contrada grida di viva il re.
Ferdinando arrivava a cavallo, in costume da caccia, preceduto da due cavalleggieri con le pistole in pugno, dal battistrada armato di sciaboletta, seguito dai principi di Palagonia, Butera, Trabia e Valguarnera, dai suoi gentiluomini di servizio, dal gran cacciatore, da un vero corteo di signori napoletani e siciliani, da un grosso drappello di cavalleggieri, da valletti e da campieri dei vari signori che avevan ville nell’agro palermitano.
Amante della caccia e della pesca, sue occupazioni continue, pochi giorni dopo il suo arrivo a Palermo, per compersarsi dei parchi e dei laghi dei dintorni di Napoli, aveva domandato se vi erano nelle campagne palermitane buone tenute da trasformare in riserve e buone spiagge pescose; ed aveva cominciato un giro da conoscitore esperto, cominciando dalla «piana dei Colli», tra Monte Pellegrino e Monte Gallo, di gran parte della quale, fino allo stagno di Mondello, aveva già fin dal 7 gennaio ordinato l’acquisto e la chiusura, bandendo la caccia e la pesca, e prendendo per sé la casina dei Lombardo, che indi a non molto, trasformata in pagoda cinese, battezzò col nome di Favorita. Poi andò al Parco vecchio; antica riserva dei re normanni e svevi; e anche quella gli piacque e riserbò per sé. Ora era venuta la volta della Bagheria, dove i signori che vi avevan ville, assicuravano abbondanti le quaglie al tempo del passo; e le montagne ricche di conigli.
 
La regina Maria Carolina: Maria Carolina fu infatti conquistata della bellezza e della seduzione di Emma Lyona, che a poco a poco divenne la sua confidente, la sua consigliera, la sua compagna, la sua complice. Proprio in quell’anno 1798 i rapporti fra la regina e l’ambasciatrice si erano tramutati in una amicizia così intima, che correvano per le bocche turpi storie, vere o false che fosse. Emma, disse uno storico serio e d’onesto linguaggio, era bellezza di tutte lascivie.
 
La nobiltà siciliana e le calunnie di spia : Da quattr’anni aveva fatto arrestare e chiudere nelle carceri più orribili il fiore della nobiltà e dell’ingegno; giovani di famiglie principalissime come i Colonna, i Cassano, i Genzano, i De Gennaro, i De Medici; uomini come Mario Pagano, Ignazio Ciaia, Teodoro Monticelli. Il processo affidato a due strumenti di scellerata fama, il principe di Castelcicala e il giudice Vanni, non trovando reità vera, si trascinava in lungaggini inquisitorie per dar corpo di realtà alle calunnie delle spie.
Ma era venuto il tempo di decidere sulla sorte dei prigionieri. Per non parere ingiusti, per non avere taccia di iniquità, il re e la regina stessa avevano ordinato che la Giunta pronunciasse la sua sentenza. Acton aveva fatto di tutto perché la Giunta si convincesse della reità degli accusati, o, anche non convinta, approvasse le feroci proposte del giudice Vanni; ma si era dovuto persuadere che non tutti i membri della Giunta erano disposti a seguirlo in quella crudele iniquità, e che l’amore della giustizia poteva in molti animi più che le minacce o le allettative.
In questa difficile condizione bisognava gittare sulla bilancia un nuovo carico di colpe e di colpevoli, tali da attirare non soltanto il re, scettico nel suo epicureismo, ma gli stessi membri della Giunta disposti a giustizia. Bisognava far apparire necessaria una condanna grave ed esemplare per salutare esempio al popolo, e specialmente alla borghesia; la quale condanna salvando la posizione di lord Acton, ne avrebbe rafforzato l’autorità, lo avrebbe fatto apparire come il salvatore della monarchia.
 
La compagnia di Gioacchino Vanasco: Il mattino dopo un avvenimento inaspettato obbligò i campieri a prendere una risoluzione. Giunse e si fermò a Bagheria la compagnia di Vanasco. La compagnia d’arme di Gioacchino Vanasco, era una delle più famose; capitan Vanasco era uno dei più terribili persecutori degli scorritori di campagna; e a lui si dovevano parecchie strepitose catture. Se la banda di Neglia, la tremenda banda di Neglia era stata distrutta, si doveva a lui.
La compagnia aveva avuto uno scontro con una comitiva di quattro o cinque ladroni; ne aveva ucciso due, ne aveva preso uno, e lo portava a Palermo, legato alla coda di un cavallo, coronato, al solito di foglie verdi. Giungendo a Bagheria i compagni d’arme spararono all’aria i fucili in segno di vittoria, perché tutti avessero a vedere il ladrone. Quelle fucilate richiamarono l’attenzione dei campieri che impallidirono, e, prima ancora che la compagnia si fermasse nel fondaco, pensarono di mettersi al sicuro. Lasciarono incaricato il custode di aver cura dei cavalli, e si allontanarono, perdendosi tra la boscaglia che si stendeva verso la montagna; sarebbero ritornati fra qualche giorno. Avevano risoluto che uno di loro, un giovane di Modica, da pochi mesi datosi alla campagna, perché aveva ucciso un frate, che gli aveva svergognato la sorella, e non era ancor noto nei fasti briganteschi rimarrebbe ai servigi della duchessa; gli altri, per vie diverse e con diverse mete, sarebbero corsi in cerca del misterioso loro capo, per avere istruzioni. Non avendo alcun timore che a donna Flora potessero accadere sinistri, né sospettando punto che ella potesse infingersi, poiché non vedevano alcuna ragione di infingimenti, trovavano esser questa la migliore e la più prudente delle risoluzioni.
 
Monsignor Fabrizio Ruffo: Monsignor Fabrizio Ruffo aveva potuto penetrare in quel conciliabolo di stranieri. Uomo di mondo, sagace, esperto negli intrighi, conoscitore delle donne, aveva trovato la via di rendersi accetto alla regina; il che aveva un po’ destato la gelosia sospettosa di lord Acton. E in quel conciliabolo si era ventilata e caldeggiata l’idea di una spedizione del cardinale da cominciare nelle Calabrie, risalendo su su fino a Napoli.

 

I LUOGHI DEL ROMANZO
 
L’inizio è ambientato in un luogo tristemente famoso per i numerosi agguati fatti dai banditi a danno dei viaggiatori o dei trasportatori di merci.
 
Il passo di Renda: Il passo di Renda era uno dei più pericolosi ad attraversare. La topografia, la solitudine, la impossibilità di aver soccorsi, la trista rinomanza, le leggende che vi correvano intorno, spaventavano i viaggiatori, ricchi o poveri, che eran costretti ad attraversarlo.
Pure il tratto fra Palermo e Partinico era abbastanza frequentato, pel traffico dei vini: e una elementare pratica di governo avrebbe dovuto consigliare di tenervi quasi in permanenza una compagnia d’arme, quella specialmente della vicina Monreale; ma le compagnie d’armi ordinariamente, e per un’abitudine che sembra connaturata in tutte le polizie, non si risolvevano a galoppare per le strade maestre, che quando le aggressioni e le rapine erano consumate, e le bande dei ladri sparite.
I banditi non erano ricchi di convenevoli neppure con le donne: Ella dovette scendere, tremando, presa da nuovi e indefiniti terrori di cose ignote che non osava immaginare. Vide più in là, rantolanti nel proprio sangue, rovesciati per terra, un campiere e il suo cavallo; più oltre immobile nella rigidità della morte un altro campiere; uno dei lettighieri prostrato con la faccia nella polvere, guardato a vista da un bandito, che gli teneva un piede sul dorso; l’altro era rovesciato esangue sotto le zampe delle due mule. Più indietro, in disparte, un uomo a cavallo guardava in silenzio.
Ed è proprio un bandito uno dei principali protagonisti, il cui covo non ha nulla a che vedere con i soliti tuguri o le grotte dove erano nascoste le vittime dei rapitori.
Il covo del bandito: Ella si trovava in una stanza originale; una specie di padiglione, tapezzato di una elegante stoffa di seta chiara, sparsa di mazzolini di fiori azzurri, che fermata a una certa altezza da un festone di legno dorato, si raccoglieva al centro in pieghe fitte e accurate, in modo da formare la volta. Una specie di rosone, formato della stessa stoffa al quale faceva da bottone un disco convesso di legno dorato chiudeva e tratteneva al centro le pieghe. Dal disco scendeva per una catenella una lampada di cristallo e ottone, che diffondeva intorno una dolce luce.
Degli spessi tappeti nei quali predominavano le tinte azzurre erano distesi per terra. Nessun vestigio di porta o di finestre. Un tavolino bianco con dorature, due seggioline, due poltrone col fusto bianco e oro e la tapezzeria uguale a quella delle pareti, un altro tavolinetto tondo su tre piedi, a due piani presso al letto; un braciere di ottone a un angolo, arredavano quel padiglione.
Ella era sopra un letto, ancora vestita, ma coperta di una coltre pesante; il letto era anch’esso originale. Non aveva spalliere; pareva un ampio e soffice sedile, ma i guanciali e le lenzuola erano di tela finissima e orlati di trine.
V’era in tutto un senso di proprietà, un gusto signorile, qualche cosa di raffinato e nel tempo stesso di misterioso, che facevano passare donna Flora da uno stupore all’altro. Qualcosa errava nell’aria, che le procurava un lieve e non sgradito stordimento: un odore vago e non ben distinto, di droghe sconosciute. Capì che dovevano essere profumi posti ad ardere nel braciere.
Ella era sola: ma dov’era? Come era venuta in quel luogo? Chi era il proprietario di quel palazzo; perché evidentemente non poteva trovarsi che in un palazzo.
Non udiva da vicino o lontano alcun rumore; eppure vide sopra una sedia, accuratamente ripiegato, il suo mantello color cuoio e sopra il tavolino la sua grande borsa di seta, dai lunghi nastri. La tappezzeria scendeva liscia, distesa, uniforme su tutte le pareti, percorsa per l’alto a distanze pari, da piegoline che servivano certamente a nascondere le cuciture dei teli. Tutte e quattro le pareti erano uguali. Donde dunque era entrata?
Nella ricerca tormentosa di questi perché gli occhi le si posarono sopra il tavolinetto accanto al letto. V’era un campanello d’argento del quale non si era accorta; se c’era un campanello, ciò voleva significare che vi dovevano essere persone fuori, da poter chiamare. Questa riflessione le fece battere il cuore più fortemente; non soltanto perché le dava la certezza che non era sola, ma anche perché le dava il modo di penetrare il mistero che la circondava.
Tanti sono i luoghi in cui si muovono i personaggi:
 
Monreale: In quel tempo Monreale non era una cittadina pulita e ben messa come oggi. Tranne la strada principale – e non tutta – e qualche altra secondaria più larga, che erano acciottolate, la maggior parte eran di terriccio battuto, che d’inverno si tramutavano in pozze e fanghi, dove i maiali si avvoltolavano voluttuosamente. Le case avevano l’aspetto triste e umile, che contrastava con l’ampiezza del monastero dei Benedettini e con la mole del duomo e col palazzo del Comune. Non v’erano alberi né fontane dentro il paese, sebbene la strada che dai piedi del colle Caputo mena alla città, fosse stata di recente, dalla liberalità dell’arcivescovo Testa, ornata di fonti e culture, ora vergognosamente aride e abbandonate al vandalismo degli ignoranti. Non v’erano lampioni nelle strade e quando il cielo era coperto, bisognava andare col lanternino e con le torce a vento. Ombra, silenzio e fanghi, dunque, e cani inselvatichiti che minacciavano i garretti del cavaliere di Santa Croce e del cocchiere. Essi si erano fermati in mezzo alla piazza, guardando intorno, e cercando nell’ombra un filo di luce, segno che in qualche casa si vegliava, ma invano.

 
La valle della Conca d’Oro: Uscirono dal paese. La campagna biancheggiava sotto la luna, nel grande e vasto silenzio della notte; ma nessuno di quelli avea animo inchinevole a sentire la divina poesia della notte lunare sopra una valle ampia e rigogliosa di piante. E però nessuno si degnava di ammirare il paesaggio; nessuno si voltava a guardare la valle della Conca d’oro, diffusa del tenue chiarore, vaporante giù verso il mare calmo e disteso, nel cui specchio la luna tremolava in una lunga striscia sfolgorante.

 


Il Monte Caputo e il Castellaccio: Era trascorsa oramai più di un’ora e mezza da quando avevano cominciato a cercare: e seguendo quella nuova traccia, si trovavano ora sul monte Caputo, sopra Monreale. In cima vedevano torreggiare il Castellaccio con le sue grandi torri laterali; mole solitaria, posta su quella sommità come per vegghiare su due valli. Pareva che le orme guidassero al Castellaccio: e non era improbabile che i banditi vi si fossero rifuggiati; giacché spesso i ladri ne avevano fatto una base delle loro operazioni, e spesso vi si erano ricoverati i perseguitati dalla giustizia. Ma questa riflessione impensierì il capitano. La mole del Castellaccio gli si ingrandiva dinanzi agli occhi, rivelando tutte le rughe e i solchi del tempo.

Era la prima volta che egli vedeva da presso quell’edificio, sul quale correvano leggende paurose; e credeva, come tutti, che fosse un’antica rocca dei Saraceni. Ora, avvicinandovisi, le favole di incantesimi, di stregonerie, di spiriti, che aveva udito raccontare da fanciullo, ritornavano nella sua memoria, e gli facevano apparire il Castellaccio ammantato in un velo misterioso. Più che il pericolo reale, cui poteva andare incontro, gli occupavano lo spirito quelle storielle superstiziose; ma sentiva troppo amor di sè per dar segno di debolezza.
Si avanzò risolutamente fin sotto le alte massicce mura, e si fermò a guardare: un’ampia breccia faceva da porta e lasciava vedere come una grande sala scoperchiata e ingombra di macerie. La luna vi entrava liberamente e illuminava la parete di fronte, sulla quale si proiettava obliquamente l’ombra della parete laterale. Grandi buchi neri si aprivano qua e là, simili ad enormi orbite vuote, cui ciocche di capperi facevan da sopraciglia. Delle fenditure lunghe e irregolari sembravan rughe mostruose o ferite spaventevoli. Il silenzio scendeva col chiarore lunare, e l’uno e l’altro pareva si scambiassero le sensazioni: ma di tanto in tanto si udiva un fruscio in alto, come di ali, e un’ombra attraversava la parete. Poi s’udì un miagolio. Parevano segni di una vita misteriosa, di esseri sconosciuti, che mettevano nel sangue dei brividi freddi. V’era infatti qualche cosa che agghiacciava in quella rovina solitaria della quale la luna rivelava l’orrore. Guardò intorno con stupore. Le cose che, vedute attraverso la breccia, gli eran sembrate mostruose, ora gli apparivano di proporzioni ridotte, e d’aspetto malinconico.
Un’altra breccia si apriva alla sua sinistra, oltre la quale si vedeva un’altra sala più buia.
Il cavaliere di Santa Croce vi si affacciò.
Qualcosa come un corridoio se ne dilungava. L’ombra vi era più fitta, impenetrabile, profonda come una voragine. Non si vedevano altri usci, fuor di quella nera bocca. Le leggende di pavimenti che s’aprivano e inghiottivano gli audaci o gl’incauti; di grotte che si chiudevano e imprigionavano eternamente coloro che osavano violarne la soglia temuta; tutto il mondo straordinario e terribile delle superstizioni pluteniche, turbava e offuscava quelle menti.
 
Il monastero di S. Martino: Quest’idea di S. Martino le sorrise; ella si domandò se per avventura quell’uomo mascherato che disponeva di un padiglione così elegante, che aveva maniere così raffinate e le mani così fini, fosse uno dei monaci o dei novizi di quel magnifico e regale monastero.

A S. Martino non andavano che i cadetti di famiglie nobilissime; giovani che vi recavano un senso di mondanità raffinata, e a cui, nella solitudine del monastero, si acuivano i desiderii.
Donna Flora si domandava se avea avuto la fortuna o la sfortuna di aver innamorato di sè qualche futuro abate. L’avventura sarebbe stata piccante; se non che c’eran per mezzo quei ventimila scudi, e quel servo dalla lingua mozza, che non avevan niente da vedere coi costumi dei monaci.
 
La “Conversazione” di Cesarò: Alla «Conversazione di Cesarò», come si chiamava il circolo degli aristocratici di Palermo, dal nome del palazzo in cui era accolto, dirimpetto alla chiesa del Salvatore, non si parlava d’altro. Il sequestro aveva fatto passare in seconda linea le artiste dei teatri di S. Cecilia e di S. Lucia, che si disputavano il primato e dividevano gli spettatori: aveva fatto dimenticare i piccoli scandali di palcoscenico, e perfino le vicende politiche, e la minaccia di una invasione francese, che preoccupava non poco i politicanti.
La curiosità e le chiacchere erano alimentate dal mutismo in cui si era chiuso il cavaliere di Santa Croce. Dopo quelle poche e scarse notizie non aveva detto più nulla; e si cominciava a credere che egli sapesse invece ben altre cose; ma nessuno osava domandargliene; del resto egli era stato preso dalla febbre. I maligni dicevano che era febbre di paura; ma chi conosceva il cavaliere respingeva, sdegnato, la supposizione ingiuriosa.
 
Il Real Teatro di Santa Cecilia: Le dame ripresero la loro conversazione, commentando quel che aveano udito e detto, fabbricando mille congetture su quel che sarebbe avvenuto, poi, per quelle inesplicabili associazioni, il discorso cadde sulla prossima opera, che doveva andare in scena il 15 di quel mese di gennaio nel teatro di S. Cecilia: era la Vergine del Sole di Cimarosa, allestita con gran cura dall’impresario, o, come si diceva allora, dal partitario Toti. Quell’opera prima ancora che andasse in prova, aveva sollevato querele, litigi e piccoli scandali.

Cecilia Bolognesi era scritturata come prima donna buffa; ma il capitano di città, principe di Torremuzza, al quale, fra gli altri, spettava anche il compito di assegnare i ruoli e le parti, l’aveva obbligata a sostenere le parti di seconda donna. Prima donna seria era invece Anna Andreozzi, bella e già nota al pubblico di Palermo.
Il R. Teatro di S. Cecilia era stato eretto nel 1693 dall’ «Unione dei musici» cioè dalla fratellanza o società o corporazione che dir si voglia dei «virtuosi di canto», dei «maestri»; in vocaboli più moderni cantanti, maestri e professori d’orchestra; la maggior parte dei quali era fornita dal Conservatorio del Buon Pastore; dall’ospizio cioè che raccoglieva orfani e fanciulli dispersi i quali dal colore del mantello uniforme che indossavano, si chiamavano i «turchini».
L’unione possedeva una chiesetta dedicata a S. Cecilia sua patrona: la chiesetta era angusta, e la città non possedeva un teatro conveniente per l’opera, costretta fino allora nel piccolo teatro del Conservatorio e in quelli dei palazzi privati. I musici diroccarono la chiesa e vi eressero il teatro, che per oltre un secolo vide i più grandi artisti del mondo, e accolse le opere dei più insigni maestri. Rinnovato, abbellito, ingrandito sul finire del secolo XVIII era presso a poco, – salvo le decorazioni, – dell’ampiezza che conservò fino alla sua sparizione.
V’era un altro teatro detto di Travaglini, dove si recitava la commedia; il quale rifatto, occupate le case del marchese di S. Lucia, si chiamò appunto dal nome del marchese, e da quello di Santa Caterina per la prossima chiesa; finché, nel secolo seguente, ricostruito con maggior lusso, e ribattezzato Carolino, tolse di seggio il Santa Cecilia.
Sul cadere del secolo XVIII Santa Cecilia era il teatro regio, aristocratico, principale; il Santa Lucia cominciava a gareggiare, ma rimaneva in seconda linea.
Era quella la grande stagione del Santa Cecilia; cominciava nel dicembre e si protraeva per tutto il carnevale, alternando opere all’«eroica» con opere comiche o di «cappa e spada». «Partitario» della stagione era il signor Andrea Toti, uomo avveduto negli affari, ben veduto dalla nobiltà per la sua arrendevolezza e la sua pieghevolezza. La compagnia aveva due stelle: Anna Andreozzi prima donna seria, e Cecilia Bolognesi, prima donna buffa: aveva un beniamino del pubblico, l’esilarante buffo Giuseppe Trabacchi. E così il partitario faceva affari d’oro.
Ma quella sera prevedeva una nuova burrasca. La prima era già avvenuta, alla prima rappresentazione della Vergine del Sole, per piccole congiure e rivalità fra artiste e pubblico.
 
La Carboniera: era la prigione del magistrato comunale, di giurisdizione del capitano di città, e si trovava sotto il monastero di S. Caterina.
 
Il Castello a mare: Il Castello era la prigione dei nobili o dei rei di Stato; pei primi, le carceri della Vicaria non si ritenevan degni. V’andava la povera gente; e le carceri erano sudice, schifose, piene di turpitudini. Nel Castello vi erano invece stanze adatte pei signori, non prive di comodi. Essi vi potevano anche ricevere dalle famiglie tutto quello che desideravano; godevano la compagnia, talvolta, degli ufficiali e del comandante; e passavano il tempo fra loro, giocando alle carte; potevano passeggiare pei cortili, e pei corridoi. Soltanto pei prigionieri di Stato il Castello era luogo di orrore, ed era preferibile la Vicaria, così schifosa come era. I prigionieri di Stato venivano rinchiusi nelle segrete sotterranee, dette con vocabolo arabo, dammusì, umide, senza luce, vere tombe di viventi.

 
La strada campestre di Boccadifalco: Poco oltre la vigna dei padri Gesuiti, detta comunemente la Vignicella, dove oggi sorge il superbo manicomio, e prima di arrivare al villaggetto di Altarello, era una palazzina solitaria. Sorgeva sullo stradale campestre che conduce a Bocca di Falco e a Baida, fra i muri dei poderi. Era a un sol piano. La facciata di pietra rusticamente intagliata, le due finestre e il balcone sopra il portoncino arcuato, non rendevano difficile riconoscere in essa la palazzina nella quale si recarono di notte la duchessa e il bandito. Egli guardò dinanzi a sé l’ampia distesa degli aranceti che correvano lontano, da una parte fin giù sotto il colle di Baida, dall’altra fino ai Colli, perdendosi tra l’ondeggiar dei vapori; qua e là il verde era interrotto da qualche fabbricato; e sulle chiome degli aranci si levava qualche olmo o un gruppo di cipressi, fra cui il piccolo campanile dei Cappuccini.
 
La locanda di madama Montaigne: La locanda di madama Montaigne, o come dicevano in Palermo, Montagna, si trovava nella via di Porto Salvo; e don Diego abitava nella piazza di S. Domenico. Era il primo albergo che allora si trovasse a Palermo, e da circa trent’anni lo conduceva quella signora, provenzale d’origine, vecchia oramai, e celebre nella città per i suoi belletti. Per alloggiare in quella locanda bisognava essere facoltosi. Madama faceva pagare la camera e il desinare tre o quattro ducati al giorno; somma per quei tempi enorme.
 
Il monastero dello Schiavuzzo: Santa Croce giunse al monastero, che era in festa anch’esso. Nella chiesa avevano improvvisato una cappella all’Immacolata, e le suore l’avevano fatta addobbare di parati di velluto, e circonfondere di lumiere ricche di ceri; e vi avevano fatto celebrare una messa cantata, al suono dell’organo. Allora allora il celebrante aveva dato la benedizione col ricco ostensorio; e le suore del coro con le voci nasali cantavano una laude.

Santa Croce dovette aspettare un poco, prima che Lucia scendesse in parlatorio. Egli s’era messo a guardare gli affreschi che decoravano la volta, quando udì dietro la doppia inferriata una vocetta dire con timidità e imbarazzo:
- Eccellenza...
 
L’alba sulla Conca d’Oro: Dall’alto di un poggio, da cui si dominavano le stradicciuole serpeggianti fra’ giardini e gli orti, l’uomo mascherato, deus ex machina del dramma svoltosi in quella notte, stette a guardare le due lettighe, finché prima l’una, poi l’altra, dileguarono dalla sua vista: poi spronato il cavallo si allontanò alla sua volta, risalendo verso Monreale. Ma invece di entrare nel paese, girò in largo per sentieri quasi perduti fra le rocce e i cespugli, fino a raggiungere la strada che da Monreale conduce a Renda.
Sorgeva allora il sole. Il cielo era terso e sereno, come spesso suole in Palermo nel mese di gennaio; e appena qualche nube, orlata di fuoco, vagava dietro il Capo Zafferano. Tutta la Conca d’Oro era diffusa di un gran velo dorato, nel quale or sì or no fiammeggiavano i vetri delle case sparse fra gli aranceti, e scintillavano le cupole della città che irta di campanili, con la massa gigantesca del palazzo reale, si allungava oltre i giardini, in faccia al mare calmo, disteso, simile a una immensa lastra di acciaio brunito, sulla quale si tien sospesa una torcia accesa. Nello specchio d’acqua presso la rada, le navi inglesi e turche interrompevano con le nere moli il nitore delle acque.
A mano a mano che il sole sorgeva, tutto questo paesaggio si colorava vivacemente: l’uomo misterioso s’era tolta la maschera e si fermò volgendo il viso gagliardo di giovinezza contro il sole, come per berne tutta la forza ristoratrice. Stette un po’ fermo, in silenzio; poi riprese il cammino, salendo l’erta che conduce al Castellaccio; ma tosto coperse il volto con la maschera misteriosa.
 
La villa Butera di Bagheria: Donna Flora giunse a Bagheria poco prima di tre ore di notte. Pareva che alla villa del principe di Butera fosse aspettata; perché non appena le sonagliere delle mule si fecero sentire, il custode aprì il cancello. Barattò qualche parola con uno dei campieri e fece entrare la comitiva.

Ah! quell’ingresso, in quella nobile e magnifica villa, quali ricordi evocò nel fondo della memoria, quali rimpianti, quali desideri!...
 
USI E COSTUMI
 
Il gioco della bassetta: Era uno dei giuochi più favoriti, non ostante i bandi vecchi e nuovi che lo proibivano insieme con altri, così nei circoli aristocratici, come nei ritrovi popolari, perché giuoco «d’azzardo». Ma si sapeva che i bandi restavano lettera morta. Il vicerè Marco Antonio Colonna, che pochi anni innanzi ne aveva promulgato uno severissimo, lasciava poi nel palazzo reale stesso che i signori giocassero alla bassetta, al trenta e quaranta, al faraone, a goffo; e per non esser da meno degli invitati, non trascurava di avvicinarsi al tavolino da giuoco.
La bassetta era il giuoco preferito del mese di dicembre, per le due ricorrenze dell’Immacolata e del Natale; di solito durava fino all’Epifania; ma nei circoli si protraeva ancora fino alla metà di gennaio.
Non si giocava soltanto a bassetta: in altri tavolini, si giocava a goffo e a trenta e quaranta: ma la lunga tavola della bassetta era la più affollata di cavalieri e dame, presi dalla passione del giuoco. Le tre dame trovarono subito posto, e la marchesa gittò due o tre scudi sopra una carta, dicendo:
- Massima.
Teneva banco il conte di Caltanissetta, e dinanzi a lui s’ammucchiava l’oro e l’argento. Su le voci dei giocatori che fissavan le poste, sul chiacchierio, le osservazioni, i commenti, i rammarichi, le risate, i piccoli gridi di gioia, dominava il suono delle monete che si accatastavano sulle carte o dinanzi al banco. A ogni sfogliata di carte il frastuono diventava maggiore, diminuiva nel rimetter delle poste, taceva durante lo sfoglio, riscoppiava di nuovo a giuoco fatto, alternando gli alti e bassi come il vento. Gli uomini vi si accanivano; gittavan sul tavolo pugni di scudi o di doppie d’oro, raddoppiando la posta se perdevano; ma v’era qualche donna che non cedeva agli uomini.
I ricchi candelabri che, posti di qua e di là dal banco, spandevano la luce di ventiquattro candele profumate, illuminavano volti di espressioni diverse ed opposte. Alcuni pareva avessero perduto qualche cosa della loro natura umana, tanto erano pallidi e alterati dalla passione e dalle perdite; altri rallegrati da un sorriso di soddisfazione o anche di voluttà: qualcuno restava impassibile.
 
La prima sera dello spettacolo al Teatro Santa Cecilia: La prima sera dello spettacolo, i partigiani della Bolognesi sorretti dalla cospirazione delle dame, ebbero il sopravvento sulla Andreozzi. Fischi, urli, getto di limoni, le avevano impedito di cantare. Il capitano di città allora, aveva ordinato che si abbassasse la tela, e aveva sospeso le recite. Ma questa misura rigorosa sollevò tanti malumori e lamenti del partitario e della nobiltà, che il signor capitano di città permise la rappresentazione.
Ma anche ora nell’aria c’era odore di tempesta.
Per le strade adiacenti, per la piazza, era uno spettacolo curioso e bello. Una processione di portantine e di carrozze, che andavano, venivano, precedute e fiancheggiate di volanti con le torce accese. Tutte quelle fiamme si agitavano, si incontravano, si intrecciavano, come in una fantasmagoria, e al loro splendore i vetri, gli ori, le vernici delle carrozze, delle portantine, i galloni delle livree mandavano bagliori; e i colori si ravvivavano. Era un formicolio luminoso, che rischiarava i muri delle case, come al riverbero d’un incendio.
Ogni carrozza o portantina si fermava sotto la tettoia; i volanti si schieravano ai lati dello sportello, che un lacchè apriva; un cavaliere porgeva la mano; una dama avvolta in un pesante mantello, col capo bianchissimo, sormontato di piume e pennacchietti, risplendente di gemme, scendeva, attraversava rapidamente il breve spazio, ed entrava nel teatro, alla cui porta, diritti, impalati, col fucile in braccio, stavano due granatieri svizzeri.
La folla dei popolani, che, non potendo penetrare in quell’olimpo di deità, si contentava di ammirare il loro passaggio, era contenuta indietro dalle guardie di polizia, armate di nodosi bastoni. I più saputi dicevano il nome:
- Quello è il principe di Butera. – Ecco la principessa di Valguarnera. – Guarda, guarda! La principessa di Trabia!... – La principessa di Paternò. – Quelli sono il principe e la principessa di Villadorata. – Ecco Geraci, i più grandi signori. – E il principe di Belmonte. – Villafranca. – Niscemi.
Passavan tutti. Al lume delle torce i fermagli delle acconciature, i pendagli delle orecchie, le fibbie delle scarpe scintillavano, fiammeggiavano. Iridi che apparivano e sparivano, tra il fruscio delle sete, lo svolazzare dei pizzi, il morbido candore delle orlature di cigno.
 
Il duello: Un gran parlare per quel duello. Le circostanze che l’avevano provocato e la qualità delle persone ne facevano un avvenimento pubblico. Il cavaliere di Santa Croce effettivamente aveva taciuto alla duchessa quanto gli era accaduto: aveva spiegato il suo pallore e la sua nervosità come un fenomeno fisico improvviso, un subito malore passeggero. Dopo lo spettacolo però era andato alla Conversazione, per consultare i suoi amici, il principe di Villafiorita e il duca della Verdura, esperti in cose cavalleresche per duelli sostenuti, e capaci di attaccar brighe per un nonnulla. Il caso era semplicissimo ed evidente; e i cartelli di sfida furono scritti; uno diretto al principe di Mongerbino, l’altro al cavaliere di Valdoro perché il suo contegno, anzichè di gentiluomo che vuol pacificare, era stato riprovevole di partigianeria. I cartelli di sfida non mancavano delle formule e dei titoli che il grado dello sfidante richiedeva; e i due signori, oltre allo aver fatto da consiglieri, si assunsero volentieri l’incarico di far da padrini al cavaliere di Santa Croce.
I cartelli furono portati subito a Mongerbino e a Valdoro, che anch’essi erano andati alla Conservazione, e stavano giocando. Essi li accolsero come cosa aspettata; risposero che avrebbero pregato due amici per stabilire le condizioni.
Ma a questo punto sorsero quistioni pregiudiziali che arrestarono la rapida soluzione della faccenda. Il cavaliere di Valdoro aveva pregato il conte di Prades; il principe di Mongerbino il duca Lucchesi perchè facessero loro da padrini; se non che il duca Lucchesi sollevò il dubbio se il principe di Mongerbino, appunto perché principe, poteva battersi in duello col cavaliere di Santa Croce, che era un cavaliere, cioè un cadetto! La quistione era importante e grave: nè valse che Mongerbino dichiarasse di passar sopra alla differenza del grado: il duca voleva prima di tutto assodare un punto di così capitale importanza: la qual cosa ritardò il duello non solo, ma appassionò tutta la nobiltà, e destò la curiosità della borghesia, che fin d’allora scimmiottava i signori.
Si cominciò a consultare opere di cavalleria, italiane e straniere, cattoliche e protestanti; si esaminarono gli alberi genealogici, si ricorse al consiglio e al giudizio di un uomo dottissimo nella materia, il vecchio marchese di Villabianca; il quale ammise la esistenza di un diritto, ma si sdegnò che si tirasse in mezzo per un duello, che era cosa riprovevole.
 
Il Carnevale: Si sapeva che erano stati apparecchiati dei carri simbolici dalla nobiltà, le magnifiche e straordinarie «carrozzate» che offrivano uno spettacolo di maraviglie gratuito al popolo, e davano lavoro e guadagno a una folla di artigiani e di artisti.
Pittori, scultori, capimastri, falegnami, tappezzieri, sarti, meccanici, pasticcieri, e non si sa quanti altri, per qualche mese lavoravano per questa o quella casa signorile. Nascostamente in qualche magazzino, sopra un affusto, gli ingegneri attendevano a far costruire la solida ossatura della «carrozzata» secondo un disegno, l’idea del quale era scelta, dopo discussioni, modificazioni, aggiunte, da due o tre amici. Si formava il gruppo di cavalieri e di dame che dovevan prender parte alla carrozzata, ed essi serbavano il segreto sul soggetto, sulla sua estrinsecazione artistica, sui costumi.
Assai spesso queste “carrozzate” erano delle vere opere d’arte; non soltanto per la bellezza del disegno; la ricchezza e l’eleganza dei particolari; ma anche pel soggetto stesso, attinto alla poesia, alla storia, alla mitologia, o a una concezione simbolica, espressa in rappresentazione veramente artistica. La mascherata così, pur riuscendo uno spettacolo giocondo e festoso, assurgeva a qualche cosa di più nobile, ed eccitava la curiosità.
Le carrozzate dovevano uscire il giovedì grasso, ma la pioggia furiosa lo aveva impedito; si aspettò la domenica con timore, ansia e desiderio. La pioggia delle prime ore, aveva fatto disperare tutti; ma dopo mezzodì al veder tornare il sereno, al vedere il sole, la folla s’era riversata per le vie, con una maggiore giocondità. Alla gioia per la festa si aggiungeva la gioia per la bella giornata sorta dopo la tristezza della pioggia. La follìa carnevalesca, contenuta dal mal tempo, prorompeva rumorosa per le strade.
Degli uomini col volto impiastricciato di bianco e di rosso, con strani travestimenti, gridando e facendo smorfie, correvano di qua e di là, urtando, percotendo, sghignazzando. Passavano frotte di pulcinelli, forniti di pentole di latta, colascioni, tamburelli; si fermavano dinnanzi alle botteghe, cantavan qualche filastrocca, dimenandosi e facendo lazzi che provocavano le risa; riscotevano un regalo, e andavano altrove, seguiti da uno strascico di monelli, che gridavano, coperto il volto da maschere di cartone, e sparavano piccole bombe di carta.
A mano a mano cresceva il vocìo. Il Toledo e la via Maqueda si empivano di gente che andava e veniva, e prendeva posto sulle gradinate delle chiese per aspettare il passaggio delle carrozzate: i terrazzini, le finestre delle case s’empivano anch’essi. Nei palazzi le ringhiere delle logge erano ornate di verdure e di drappi; e v’eran disposti a piè sacchetti di confetture, di scatolette e alberelli.
 
Le maschere più famose: Circolavano tra la folla le maschere popolari. Una Mammalucia, con una cuffia enorme, e una faccia lunga, rugosa, nella quale troneggiava un naso adunco enorme, correva di qua e di là, investendo la gente e minacciando con un grande mestolo di legno. Delle oche aprivano e chiudevano un immenso becco quasi volessero inghiottire quanti vedevano; e gracidavano e gridavano, svolazzando nelle bianche sottane di cui eran vestite. Ma chiasso maggiore faceva un Pappiribella. Era un giovane mascherato con uno strano vestito di colori vivaci e stridenti, che si arrampicava sopra una scala a pioli, tenuta diritta da due giovani robusti e impiastricciati ridicolosamente; contorcendosi, dimenandosi con urli e sguaiataggini su l’alto della scala, fingeva di precipitar giù per terra, in preda a convulsioni ridicole. Aveva l’arte di cadere senza farsi male; pure c’era chi credeva che si fosse spezzata qualche gamba e accorreva, e allora il briccone si alzava improvvisamente con urlacci, tra le risate della folla, che gli correva dietro.
Sopra le teste, a un tratto, qua e là si allungava con un guizzo una «scaletta». Era un ordegno formato di una serie di regoli incrociati a X, concatenati fra loro per le estremità e mobili, cosicchè stringendo i due capi inferiori, tutti quegli x si chiudevano, si allungavano, formavano una specie di pertica, che giungeva fino alle loggette dei primi piani. In cima v’era un mazzolino, una scatoletta di dolci, un cartoccio di confetti, che lo Scallittaro offriva galantemente alle donne affacciate. La tubiana era la grande mascherata popolare. È inutile cercare l’origine di questo nome come quello di qualche altra maschera; gli etimologi si perderebbero in un mare di congetture ingegnose, senza forse venirne a capo. Era una turbinosa comitiva, nella quale entravano alcuni tipi fissi, ma alla quale si aggregavano altri gruppi di maschere e di mascherate, che ne accrescevano il numero e la baldoria. V’era lo Spagnolo, il Barone, la Mammalucia, l’Ammuccabaddottuli, letteralmente: Inghiottipallottole, il Mastro di campo, il Giardiniere; e poi bautte, lazzari, pulcinelli, la vecchia col fuso, diavoli; tutte maschere popolari, che al suono di grandi tamburi e di zufoli si abbandonavano alla più sfrenata allegria, percorrendo le strade e le piazze, empiendole di romori, di suoni, di canti, di fischi.
Tutta la città pareva presa da un’onda di follia.
 
I Tarioli: «Tarioli» si chiamavano allora le carrozze da nolo, che da qualche dozzina di anni uno speculatore, Antonino Bruno, aveva con suo vantaggio messo in piazza pel servizio del pubblico. La corsa costava un tarì, onde il nome.
 
Un funerale: Il domattina ebbero luogo i funerali nella chiesa della parrocchia di S. Croce, addobbata di drappi neri. Il catafalco fu rizzato in mezzo alla grande navata; alto, tappezzato di velluto nero, in mezzo al quale spiccavano le iscrizioni latine che ricordavano le virtù singolari dell’estinto. Il quale vi era chiamato pio, caritatevole, umano; cittadino illustre; giusto signore; assunto alla gloria celeste. Un centinaio di torce ardevano su l’altare e ai fianchi del catafalco; in cima al quale, stava il cadavere seduto sul seggiolone, con le mani incrociate, con quella smorfia dolorosa e ironica sul volto, che pareva ridesse e di quel rito e di quelle iscrizioni.
La chiesa era affollata di nobili. Trattandosi di personaggio appartenente alla casta, non mancò nessuno. Fuori la via Maqueda per lungo tratto era piena di carrozze e portantine che aspettavano. Gli intervenuti erano vestiti a bruno; ma quel bruno era un pretesto per sfoggiare un nuovo lusso contro il quale invano i vicerè avevano fulminato bandi e prammatiche. Terminata la funzione, la chiesa si vuotò lentamente: carrozze e portantine si avvicinavano a piè della gradinata, una dopo l’altra in ordine, prendevano i loro signori e via; il morto fu riposto in una portantina coperta d’una ricca coltre; dietro fu portato il «tabuto», specie di bara o cassa coperta di velluto a fiorami, con frange, galloni d’oro, ornamenti di bronzo dorato, che si portava dietro il cadavere, in segno di rispetto e per lusso; e così preceduto dal clero, circondato di paggi con le torce accese, seguito dagli amici più intimi, il barone di Calavà fu portato ai Cappuccini. Ma a Porta Nuova il corteo si sciolse, e il morto se ne andò solo coi becchini, coi servitori e col maestro di casa.
 
La parrucca: Le dame parlavano di un piccolo scandalo avvenuto alla corte di Napoli in quei giorni, la notizia del quale era giunta a Palermo per lettera. Una dama di corte si era presentata in palazzo in parrucca: la parrucca, la quale per influsso della moda francese tendeva a sparire per gli uomini, tentava ora, per una sciocca bizzarria, le dame, che pur avevano belle e abbondanti capigliature. Per un’altra bizzarria, ancor più singolare, la parrucca che era per gli uomini segno di moderazione, di fedeltà al sovrano e di religiosità, per le donne invece apparve una innovazione rivoluzionaria. E ne era nato un putiferio; il re aveva fulminato pene; le dame bistrattate avevano pianto; la regina aveva proibito l’accesso alle dame imparruccate. L’incidente era diventato il soggetto di tutte le conversazioni, e aveva anche varcato il mare.
Ora ne parlavano anche le signore, commentando il rigore del re contro una moda innocua, e trovandolo eccessivo e ingiusto. Il regno della moda non apparteneva forse alle donne?
 
La funzione della vigilia dell’Immacolata nella chiesa di S. Francesco: Fra poco il Senato si sarebbe recato in gran pompa, al Vespero solenne nella chiesa di S. Francesco: la piazza della chiesa era già piena di popolo; le tre porte spalancate sfolgoravano della luce di migliaia di candele: dinanzi alla porta maggiore, schierati in due ali, i granatieri contenevano indietro la folla, per lasciare uno spazio sufficiente alle carrozze del Senato.

Canti, suoni, spari di mortaretti e di razzi empivano d’allegria l’aria notturna. A mezzanotte, per la messa, che un privilegio consentiva ai francescani di Palermo di celebrare anche in quella festività, quella animazione, quelle luminarie, quegli spari si sarebbero rinnovati con pari e forse maggiore intensità.
Nei vicoli laterali si fermavano le carrozze e le portantine della nobiltà che entrava in chiesa dalle porte di comodo; e andava a occupare i posti riservati, presso il massiccio ferculo, su cui torreggiava il simulacro argenteo dell’Immacolata, sfolgorante tra centinaia di torce.
Paolo di Santa Croce entrò in chiesa dalla sagrestia, e andò a sedere nelle sedie dietro il banco del Senato, accolto anche qui, specialmente dalle dame, con lieto viso e gentilezze di modi; e fatto bersaglio di curiosità, di domande, di sollecitazioni. Non essendo cominciata la funzione, e intanto che i musici accordavano i loro strumenti e le comitive dei fedeli entravano cantando, la nobiltà discorreva, come in un salotto, di tutte le cose mondane: ma le conversazioni cessarono all’arrivo del Senato. Allora cominciò la funzione, che non aveva nulla di diverso da quella degli altri anni, se non la musica composta dal maestro don Benedetto Baldi, che acquistava in quegli anni grande rinomanza. E la musica e le voci dei virtuosi di canto, fra’ quali ancora perdurava la barbara usanza di procacciar le voci bianche, erano ciò che, sentimento religioso a parte, e la necessità del grado sociale, richiamava la nobiltà a quelle funzioni.
 
Il pellegrinaggio alla Santuzza: Maria Crocifissa aveva persuaso Lucia a fare un «viaggio» alla «Santuzza», a Santa Rosalia, nella sua cappella al Duomo. In quei giorni l’urna argentea che contiene le ossa della leggendaria romita di Monte Pellegrino era posta in mezzo alla navata principale, dinanzi la magnifica abside del Gagini, non ancora distrutta dal vandalismo del Fuga; ed ivi, dall’alba alla sera era un continuo pellegrinaggio di fedeli, molti dei quali vi si recavano a piedi nudi, portando l’offerta di una torcia o qualche ex voto di argento o di cera, in rendimento di grazie per un miracolo ricevuto. E tutti vi si recavano, recitando una coroncina in onore della Verginella, al cui patrocinio la città commetteva se stessa; se non che i signori vi andavano in carrozza; entravano in chiesa seguiti dai servi; s’inginocchiavano sopra cuscini di velluti, pregavano con tutti gli agi del grado e della fortuna; ritornavano a casa soddisfatti d’aver compiuto un loro dovere religioso.

Ora Maria Crocifissa aveva consigliato Lucia a raccomandare la sua maternità alla santa miracolosa, non soltanto per la fede, ma anche perché il «viaggio» l’avrebbero fatto come i signori. Madre e figlia si sarebbero recate al Duomo in carrozza, con due staffieri, in piedi sul predellino di dietro; e tutti in lutto, cavalli e servitori, come i padroni.
Lucia si era un po’ opposta a questi preparativi che le parevano di lusso: ma la madre se n’era scandalezzata: oh che voleva andare in chiesa a piedi, come una popolana qualunque? e affaticarsi, incinta come era? e poi, anche per il lutto!... Forse più per il fastidio della loquacità della madre, che perché fosse convinta, Lucia si era arresa.
Essi si avviarono al Duomo verso quattordici ore d’Italia, ignorando che a quell’ora, quel giorno, il Cassaro, il piano della Cattedrale, la chiesa stessa erano affollati di gente, come mai. Vivendo ritirata in quel vasto palazzo, non frequentato da serventi, da abati, da parrucchieri, esse ignoravano gli avvenimenti quotidiani. Videro le truppe schierate lungo la piazza del palazzo reale e sotto il seminario e l’arcivescovato, dinanzi alla balaustrata della Cattedrale e la porta principale del tempio; e se ne stupirono; ma ecco improvvisamente un clangore di trombe e un frastuono di applausi e di evviva, di grida:
- Il re! il re!...
La carrozza delle due donne fu costretta a fermarsi; la curiosità spinse le loro teste fuori dallo sportello, per guardare. Il re veniva in una carrozza tirata da sei cavalli bianchi dalle lunghe criniere arricciate, coi pennacchi nelle testiere, circondato dalla guardia a cavallo e dai granatieri svizzeri.
Si recava dal Duomo per fare un’offerta a Santa Rosalia.
 
L’ultimo giorno del Festino nel Palazzo Reale: L’ultimo giorno del Festino fu quanto mai più sontuoso per una gran festa data dal re Ferdinando nel palazzo reale. Già quell’anno le feste famose avevano assunto una magnificenza straordinaria per la presenza dei sovrani; la quale aveva eccitato una gara tra la nobiltà, e aveva spremuto le casse del Comune. Corse, spari di fuochi artificiali con decorazioni allegoriche, musiche, cappella reale si erano susseguiti e intrecciati con riviste militari, processioni, grazie concesse dal re, ricevimenti, cantate.
Una cantata straordinaria fecero gli alunni del Buon Pastore, ossia del Collegio di musica, la mattina dell’ultimo giorno, nell’atrio del palazzo reale, con gran soddisfazione del re. Ma né questa, né le pitture che ornavano l’apparato dei fuochi artificiali, né la grandezza del carro trionfale destavano tanti discorsi, quanto quello che si andava sussurrando sulla festa di palazzo.
Veramente quella notte il palazzo reale pareva un olimpo. V’era tutta la nobiltà di Palermo e di Napoli, l’alta magistratura, i generali e i comandanti delle truppe regie e della marina, gli ufficiali della marina inglese e della marina turca: una varietà abbagliante di uniformi, di colori, di ricami d’oro e di argento, che scintillavano alle migliaia di candele accese nelle vaste sale della reggia. Ma più abbaglianti erano le dame, con le spalle e i seni nudi fra’ veli, le vesti di seta dai colori teneri e freschi, coi pennacchietti vaporosi sulle pettinature torreggianti, con le braccia, il collo, il capo splendenti di gioielli.
Nessun caleidoscopio può dare una così rapida e cangiante mescolanza di colori, come quella folla magnifica, che pareva sempre nuova e stupenda, e dava una specie di vertigine. E in mezzo a questo rinnovarsi di colori e di forme e di splendori, era un saettar d’occhi azzurri e neri, avidi o soddisfatti, profondi, dolci, ridenti: di bocche porporine, umide, desiderose; di tenui sorrisi, di risa gioconde; un intrecciarsi di motti, un piegarsi in inchini, un baciar di mani, un sussurrar di dolci parole o un vibrar di frizzi.
Quando la sala fu piena, un’orchestra celata intonò una musica vibrante ed eroica, e allora il sipario si aperse, e apparvero sopra un palco, diritte su piedistalli e circondate di emblemi guerreschi le statue di Ferdinando e di Nelson. Erano vestite alla romana; con la corazza, le gambe e le braccia nude, la clamide appuntata sull’omero, la spada corta. Lo scultore aveva mascherato il moncherino di lord Nelson tra le pieghe della clamide.
 
La narrazione de La principessa ladra è basata sullo stridore degli opposti. Il bello e il brutto, il buono e il cattivo, l’odio e l’amore si rincorrono in ogni pagina, fondendosi in storie avvincenti e dal respiro universale. Tutto scorre fluido e costante verso l’inaspettato finale, degno di uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana.
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L'opera è la trascrizione dell'unico romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Copertina di Niccolò Pizzorno
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