lunedì 31 luglio 2023

Fra Diego La Matina disponibile in ebook al costo di € 6,90

 


Fra Diego La Matina è disponibile in ebook su streetlib.com al link: Fra Diego La Matina - ebook (streetlib.com) e su tutti gli store online al costo di € 6,90.
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Luigi Natoli: Fra' Diego La Matina. Esce il 35° volume della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli edita I Buoni Cugini

Fra' Diego La Matina è uno dei più drammatici romanzi della feconda e inesauribile fantasia di William Galt, pseudonimo, come oramai si sa, nel quale si cela Luigi Natoli. Nel romanzo pagine fosche e pagine commoventi si alternano e si intrecciano sul cupo fondo di quel periodo nefasto per la Sicilia che fu il Seicento. 
La società era allora sotto l'incubo della reazione religiosa; il clero vi spadroneggiava; il sant'Offizio incuteva il terrore dei frequenti roghi; in nome della religione si commettevano delitti inauditi. 
Appunto due uomini di chiesa nel romanzo si trovano di fronte: don Angelo, avido, ipocrita, tiranno della coscienza, capace di tutto e fra Diego, spirito ribelle, difensore dei deboli, violento anche nella pietà. 
Fra questi due si svolgono le vicende dolorose di due donne, Isabella e Cristina: vittime dell'amore, perseguitate da don Angelo. Sono questi i quattro principali personaggi; ma intorno a loro si muove tutto un popolo e tutto un periodo storico: processioni, auto-da-fè, tumulti, rivoluzioni, si succedono in quadri mirabili, quali la potenza descrittiva di William Galt sa dipingere. 
L'interesse che desta questo romanzo è tale, che appena cominciate a leggere le prime pagine, il lettore resta incatenato; palpita, freme, inorridisce, e tuttavia non lascia la lettura.
Ma più che le nostre parole, varrà leggere le prime pagine.

Questo scriveva la casa editrice La Gutemberg nel 1924, presentando il romanzo di Fra Diego La Matina ai suoi lettori. Noi I Buoni Cugini editori, aggiungiamo che solo l'odierna pubblicazione è la fedele trascrizione del testo originale de La Gutemberg, l'unica sulla quale non si è abbattuta la ferocia del revisionismo clericale e censorio di tutte le pubblicazioni seguenti fino ai nostri giorni, volte ad ammorbidire i giudizi dell'Autore sul Sant'Offizio e su quanto in Sicilia nel 1600: la chiesa era superstiziosa, avida, e soprattutto lontana dal ministero di carità e amore verso il prossimo. La ritorsione fu la messa all'indice del libri proibiti per i suoi romanzi, ma Luigi Natoli non rinnegò mai la sua opera neanche dinanzi al prete inviato dalla Curia poco prima della morte; infatti, a quest'ultimo che prometteva la riabilitazione delle sue opere, a patto del ripudio del romanzo di Fra Diego La Matina, rispondeva di riferire ai suoi superiori che "La storia non si può ritrattare o coprire con un velo, e un tale potere non l'ho nè io nè il papa". 

Copertina di Niccolò Pizzorno. Pagine 536
Prezzo di copertina € 24,00

Il volume è disponibile: 
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

venerdì 14 luglio 2023

Luigi Natoli: Il Festino della Palermo ottocentesca. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

Corrado intanto gironzolava per tutti quei vicoli a lui noti, guardando con infantile compiacimento la luminaria in onore della “Santuzza”. Centinaia di lampioncini di carta colorata, penduli da festoni di verdi fronde distesi pel largo dei vicoli, un dopo l’altro formavano, visti da lontano, come dei soffitti luminosi. Sui muri delle case imbiancate di fresco ignoti pittori avevano dipinto in rosso e turchino delle colonne e dei vasi mostruosi con dei fiori inverosimili; e dei chiodi appaiati infissi lungo il contorno reggevano piccole lampadine di terra cotta, che spandevano intorno con la luce rossastra il sito dell’olio da ardere. Ogni edicola di santi era illuminata con candele di cera, e ornata di parati di carta; qua e là una tavola era stata trasformata in altare, coperta di un pezzo di stoffa rossa, e di una tovaglia, e su fra candele e mazzi di fiori freschi che tramandavano l’acuto odore della gaggia e del gelsomino, un quadro rappresentante Santa Rosalia, coronata di rose, col rocchetto di pellegrina e il crocifisso e il teschio in mano; ovvero un gruppo di cartapesta raffigurante Santa Rosalia e il “saponaro” vestito da cacciatore, inginocchiato ai piedi della “Santuzza”. Qua e là dinanzi le bettole, dinanzi le case, lunghe tavole e banchi, e boccali e bicchieri, e vino scintillante nei bicchieri, sparso sulle tavole, fragrante e spumoso; e piatti nei quali nuotavano nella salsa di pomodoro galletti o chiocciole; e montagne di mandorle, ancora chiuse nel mallo verde; e polpi bolliti, dai lunghi tentacoli bruni; e da ogni parte una folla che mangiava, beveva, cantava, annegava nella baldoria le tristezze della vita e della povertà; dimenticando anche che per quell’ora di gioia aveva portato la roba al Monte di Pietà. Ma bisognava onorare la “Santa”. La “Santa” per eccellenza è la gentile e poetica romita del monte Ercta, o Pellegrino; la figlia di Sinibaldo, discendente di Carlo Magno, nel cui nome si confondono i nomi della bellezza e del candore: Rosa et lilia, rose e gigli; la taumaturga che proteggeva la sua città natale dai più tremendi flagelli: fame, peste, terremoto e fuoco.
La stessa luminaria più ricca era nelle strade che quell’anno avrebbe percorso la processione dell’urna argentea contenente le miracolose reliquie della vergine romita. Uscendo sul Cassaro o Toledo, lo spettacolo era veramente maraviglioso, e quale nessuna immaginazione potrebbe raffigurare. Le due strade Toledo e Nuova, erano due torrenti di fuoco, due incendii. Per tutta la loro lunghezza eran fiancheggiate da assi di legno intagliate e dipinte maestrevolmente a forma di colonne con vasi, di pilastri, obelischi, statue; dette con unico nome “piramidi”; sulle quali si innalzavano archi di trionfo; e piramidi e archi tempestati di lampadine che seguivano, commentavano, brillavano il disegno, diffondendo intorno una luce viva e uguale. Ai balconi delle case lampioni, candele, lampadari, candelabri; e giù per le strade una folla straordinaria lieta, contenta, ma tranquilla, composta, senza nessuna di quelle clamorose dimostrazioni di gioia che son proprie dei popoli meridionali. Si udivano chiaramente le voci dei venditori ambulanti di semi di zucca e fave tostate, di chiocciole, di acqua e fumetto, biscotti e leccornie. Si aspettava la discesa del “Carro”, il famoso carro trionfale, che era la maraviglia delle maraviglie. Ed esso si vedeva da lontano, torreggiante sulla strada, tremolante nel suo lento avanzarsi, tutto splendente di lumi e di ori e di fiori. Aveva la forma di una barca, su quattro ruote, tirata da cinquanta mule bardate e montate da palafrenieri vestiti alla spagnuola; sulla nave si ergeva una specie di tempietto di stile corinzio, coronato di nubi, circondato di angeli nudi, e su, in alto, così in alto da oltrepassar quasi i tetti dei palazzi, si librava, come in atto di spiccare il volo pel cielo, il simulacro della vergine romita, con le vesti svolazzanti. Giù nei gradini del tempietto i musici sonavano a perdifiato: a ogni fermata del carro si cantava la frottola, specie di lauda in onore della vergine, che veniva composta ogni anno da un poeta ufficiale.
Per tre giorni di seguito il carro attraversava la città. Saliva nel pomeriggio del primo giorno del Festino, l’11 di luglio, da Porta Felice e si fermava al piano del palazzo reale. Ridiscendeva la sera dopo, tutto illuminato, ed era lo spettacolo più grandioso della festa, dopo il vespro solenne nel Duomo; certo il più attraente e caratteristico. Le altre parti della festa, come le corse dei berberi, lo sparo dei fuochi artificiali, la processione, il trasporto delle “bare” e dei “cilii”, eran sì splendide e magnifiche, ma non avevano quella grandiosità inesprimibile del Carro, e dell’illuminazione del Duomo. Eran tre anni che Corrado non vedeva quelle feste così caratteristiche della sua città; e per quanto i suoi nuovi sentimenti gli facessero rimpiangere con certo dolore il folle sciupìo di tante migliaia di scudi, quando la miseria, l’ignoranza, l’abbrutimento asservivano la popolazione, pure non sapeva frenare le dolci commozioni che quegli spettacoli suscitavano nel suo cuore, col destarvi le memorie della sua fanciullezza e la dolcezza amara dei dolori che avevano annebbiata la sua gioventù.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento. L'opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913. 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 


Luigi Natoli: Il Festino del 15 luglio 1820. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

 
La sera del 15 luglio 1820, la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a Palermo una folla di isolani e stranieri. Quella sera la luminaria fiammeggiava più delle sere precedenti. Pareva che le lampadine infisse lungo i contorni e i disegni delle “piramidi” avessero una specie di allegrezza luminosa. Le “piramidi” erano assi di legno, ritagliate a foggia di colonne, con vasi, od obelischi, e dipinte a colori, che si piantavan diritte lungo i marciapiedi, per tutta la lunghezza della strada, pieni di lampadine a olio. Con esse, con le lampade colorate pensole dai festoni, distesi pel largo della strada, o attaccate alle ringhiere dei balconi, la via Toledo prendeva un aspetto fantastico: vista da una delle estremità, sembrava sommersa nel fuoco. In fondo alla via, sul limite della piazza Marina, torreggiava in un nembo di luce e d’oro il “Carro”, sul quale tra nuvole di bambagia spiccava il simulacro di Santa Rosalia. 
Quella sera la folla era maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire. Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti, canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero. 
Tutta la via Toledo formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro e rosso. E allora gridavano:
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse:
-  Viva la Costituzione!
Parve il razzo aspettato per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine; migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più pura. Il giorno innanzi, 14, con la  feluca di padron Catalano era arrivata da Napoli la grande notizia della rivoluzione, e aveva prodotto un senso di lieto stupore, destando liete speranze. Rivoluzione? Proprio? Se ne domandavano i particolari, che passando di bocca in bocca s’ingrandivano, prendendo proporzioni e atteggiamenti eroici. I nomi dei due ufficiali Morelli e Silvati, che la notte di S. Tebaldo, alla testa di uno squadrone di cavalleria, avevano gridato, a Nola, la costituzione di Spagna, furono circonfusi di gloria, con quelli del colonnello De Concillis e del prete Minichini. Tutti carbonari! La loro marcia su Avellino, la sollevazione di quel presidio, la formazione di un corpo d’esercito costituzionale che si trascinava dietro il popolo: la rapidità con la quale la rivoluzione si diffondeva, sembravan miracoli. E il re? Quel traditore di re Ferdinando? Aveva cominciato dallo spedire il generale Guglielmo Pepe contro i costituzionali; senza sapere che Pepe era carbonaro anche lui! Ed ecco Pepe alla testa dei costituzionali entrare in Napoli, e il re concedere e giurare la costituzione! Una rivoluzione compiuta senza spargimento di sangue! Non aveva finito di parlare che dalla strada salì un grido confuso, come di un impeto di vento che s’avvicini e cresca di forza, rotto e dominato con frequenza di raffiche di applausi ed evviva. Tullio disse allora: 
- La dimostrazione! Venite! 
Si affacciò al balcone, tirandosi dietro la fidanzata, la suocera, e lo stesso signor Anselmo curioso, ma pavido. Uno spettacolo magnifico si offerse ai loro occhi. Dalla strada Toledo veniva un vero esercito di sotto-ufficiali, e soldati e cittadini a braccetto, con la coccarda tricolore sul vestito. Venivano preceduti da un ufficiale, gridando:
- Viva la Sicilia! Viva la costituzione! Viva l’indipendenza!
Al loro passare le confratie, e le corporazioni artigiane che si recavano al Duomo per prendere parte alla processione di Santa Rosalia, sollevavano ed agitavano gli stendardi, i gonfaloni; e dalle finestre, dai balconi, dai marciapiedi, la folla univa il suo grido a quello dei dimostranti; le donne sventolavano i fazzoletti, gli uomini battevano le mani e agitavano i cappelli; tutti accesi dallo stesso entusiasmo. Ordinato, solenne, grandioso, fra lo scintillare delle lampade e dei lampioni, il corteo procedeva verso il palazzo reale. Pareva celebrasse il trionfo dopo una lunga guerra, e assaporasse i frutti di una vittoria tanto più grande e strepitosa, quanto improvvisa. Nessuno dubitava che la Sicilia riavesse il suo parlamento, da parecchi anni soppresso con la frode; e che le nuove libertà darebbero al regno novello splendore.
Quando la dimostrazione passò sotto il balcone del signor Anselmo, Rosalia e la mamma, trasportate dall’entusiasmo generale, si misero a sventolare anch’esse i fazzoletti, con gli occhi umidi di commozione e Tullio si diede a gridare:
- Viva l’indipendenza!
La testa del corteo aveva appena oltrepassato i Quattro Canti quando improvvisamente si arrestava; e quel movimento ripercosso nella fila di dietro produsse un ondeggiamento, un rigurgito improvviso, grida di minaccia e di spavento di cui quelli che venivano dietro, non sapevano il perché. Parve che diffondessero uno sgomento, un terrore, come se un esercito terribile fosse piombato su la folla inerme...


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820. L'opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 342 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia.
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