venerdì 21 settembre 2018

Luigi Natoli: Don Galeazzo de Gotho. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina.

Il fratello di donna Laura de Gotho e Fiordimonte, baronessa del Gibiso, era davvero un bel giovane; e se Cassandra Abate l’aveva rassomigliato al generoso cavaliere di Cappadocia non aveva torto. Se non che era un S. Giorgio raffinato.
Pei giovani signori di Messina, egli era il Petronio arbiter elegantiarum, dal quale prendevano norma. Sotto un’apparente disinvoltura e un’aria di noncuranza, un occhio attento poteva scoprire le cure scrupolose di un uomo che ha una specie di culto per la propria persona e al quale piace di piacere agli altri. La sua camicia, il suo colletto, i manichini erano di una bianchezza abbagliante, ornati di pizzi finissimi; il taglio del suo giubboncello era irreprensibile; l’armonia fra i colori della stoffa e quelli dei passamani, dei nastri, della sciarpa era una rivelazione di buon gusto; i bottoni, il cinturino e l’elsa della spada erano dei capolavori di finitezza e ricchezza. Egli sapeva dare una bella piega all’ampia tesa del cappello, sapeva gittarsi, con un bel gesto, il mantello su la spalla, raccoglierlo col braccio, così da comporre pieghe larghe e ondeggianti; aveva una maniera di gestire sobria, con una grazia naturale, che lasciavano vedere la perfezione quasi feminea delle mani, lunghe, sottili, con le unghie rosee; e sapeva, fermandosi, prender degli atteggiamenti che lasciavano vedere tutta l’eleganza della sua taglia, che congiungeva la flessibilità di un corpo femmineo, con la gagliardia di un corpo al quale non erano estranei gli esercizi più vigorosamente virili.
Non era alto; di media statura, ma ben tagliato; spalle e petto ampii, i fianchi stretti, le gambe muscolose; bruno di capelli e di colorito, con occhi neri e acuti, e nell’aspetto una specie di fierezza piena di nobiltà, quasi il segno di uno spirito consapevole della propria superiorità ma senza ostentazione, e senza gravità; congiunto anzi con una gentile giocondità nel sorriso, e con la franca cortesia dei modi, che addolciva la rigidità dei cerimoniali spagnoli da cui era regolata la vita anche nell’intimo della famiglia.
Ma Galeazzo de Gotho aveva altre qualità che lo ingrandivano agli occhi di tutti. Era di un coraggio e di un’audacia che giungevano fin quasi alla temerità; ed era generoso e leale fino a dimenticarsi.
Si narrava di grandi pericoli affrontati con un sangue freddo che sgominava i suoi avversari; ai quali pericoli non era del resto estraneo il nome di qualche bella e nobile signora, ciò che dava a essi un carattere avventuroso e destava sospiri d’invidia e malcelate gelosie.
Quel che piaceva di più in Galeazzo era quella sua noncuranza per tutto ciò che gli capitava, come fossero le cose più naturali del mondo; e quel non parlarne mai, e di sviare il discorso, ogni volta che qualcuno ve lo tirava.
Salvo dunque chi le aveva prese, o chi, non osando rischiare la pelle serbava dentro il proprio rancore, tutti volevano bene a Galeazzo de Gotho; ma in nessuno questo affetto giungeva fino quasi all’adorazione come in Antonello Pirruccio, agli occhi del quale il Signore aveva adunate tutte le qualità del perfetto cavaliere in Galeazzo.
V’erano anche due altre persone che lo amavano profondamente: l’illustrissimo signor don Tommaso, suo padre, e donna Laura, sua sorella. Tra il loro amore e quello di Antonello Pirruccio era questa differenza; che Antonello si esaltava per ogni avventura del suo bel cugino, e batteva le mani con ammirazione a ogni bel gesto, e don Tommaso e donna Laura invece trepidavano.
E Galeazzo era, o sembrava felice. Bello, forte, coraggioso, valoroso, amato dalle donne, amato dal padre, con un amico devoto, in verità pareva che il dolore non osasse avvicinarglisi, o che non avesse il tempo e il modo di pensare ai dolori della vita. La sua giornata era divisa con una regolarità, che egli non aveva prestabilita, ma che si era venuta formando dal tenore stesso della sua vita. Tutte le mattine egli faceva una lunga cavalcata, obbligando il cavallo a superare ostacoli, saltar fossi, e non aver paura di spari; al ritorno dopo una sobria colazione, andava All’Accademia della Stella, dove si esercitava nella scherma con gli altri cavalieri, o attendeva alle altre incombenze impostegli dalla sua condizione. A mezzodì, secondo l’uso, desinava, poi, riposato per un paio d’ore, usciva a passeggio, andava a far visite di dovere, riservando le altre, le più gradite e le più avventurose, la notte, dopo cena.


Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 26,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.

Luigi Natoli: Don Gregorio Fiordimonte, barone di Gibiso. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina

Don Gregorio uscì dalla casa di Clara Stella profondamente turbato. Quella rivelazione, il sapere che avrebbe avuto un erede, che la sua razza non sarebbe morta con lui, gli faceva ancor più apparire grave e odiosa la grande sua dimora, nella quale invano aveva aspettato un figlio; gli rendeva ancor più odiosa quella moglie infeconda, che pur eravi signora, e che non avrebbe certamente tollerato in casa un bastardo. Come mai aveva tollerato per tanti anni quelle nozze? E per qual destino le aveva contratte? Attraversò la strada del Dromo(3) per alcuni vicoli entrò in quella dell’Uccellatore(4) e passò nella piazza del Duomo. Poteva essere un’ora di notte;(5) una magnifica luna illuminava la vasta piazza, e la facciata del Duomo, così chiaramente, che si distinguevano gli intagli del magnifico portale. L’acqua della grande fontana del Montorsoli scendeva nella vasca dalle bocche dei delfini, con un mormorio dolce e sereno; e nel candore lunare quel popolo di mostri, di naiadi e di deità sopra il quale trionfava Orione, il favoleggiato fondatore di Messina, biancheggiava fantasticamente. Già tutta la piazza, con la massa del Duomo, torreggiata dai due campanili coi palazzi alti e silenziosi, con la chiesa di S. Lorenzo e le sei strade che si dilungavano quali nell’ombra, quali tutte luminose, aveva qualcosa di fantastico nella sua solennità; ma don Gregorio non aveva un cervello poetico, e tanto meno in quella sera si sentiva disposto ad ammirare quel quadro suggestivo. Entrò per la strada nuova o d’Austria(6) che conduceva diritta al palazzo reale, più per un’abitudine che per un divisamento. Egli era di fatto uno degli intimi dell’illustre signor don Luigi de l’Hoyo y Maeda, cavaliere di S. Giacomo e stratigò della nobile città e del distretto di Messina per sua maestà Carlo III; e ogni sera, prima di rincasare, andava a riverirlo e a discorrere delle cose cittadine, che in quei tempi specialmente, volgevano assai gravi.
Don Gregorio sebbene patrizio, era dei più tenaci avversari del partito cittadino, e teneva per lo stratigò e pel popolo, cioè pel partito regio, le cui mire e i cui sforzi eran di diminuire a poco a poco fino a distruggerli, tutti i privilegi in virtù dei quali Messina si reggeva a repubblica, pur riconoscendo nel re il suo signore. Difensori tenaci di quei privilegi erano i nobili e gran parte della borghesia e della maestranza più alta: difenderli, infatti, significava conservare il potere; giacché gli ordinamenti erano tali, che in verità il governo della città e dei borghi, o, come si diceva, del Costretto, era una oligarchia temperata.
La politica della monarchia spagnuola aveva accresciuto dapprima la libertà, le immunità e i privilegi della città, per alimentarne l’antagonismo con Palermo, carezzandone le antiche aspirazioni, a farsi capitale dell’Isola, e per scavare sempre più l’abisso fra le due grandi città; poi si era spaventata di aver quasi creato uno stato dentro lo stato, e aveva iniziato un lavoro sordo, prudente e lento per distruggere ogni prerogativa. Nel 1671, anno in cui incomincia la presente storia, strumento di questa politica era appunto l’illustrissimo don Luigi de l’Hoyo y Maeda, che giunto in Messina in un periodo di turbolenze, e con un fondo segreto di cinquantamila scudi per raggiungere l’intento, si era posto all’opera con una furberia da maestro.
Non v’era altro mezzo più sicuro per colpire le libertà e i privilegi del comune, che quello di abbattere il partito che ne era il geloso conservatore e difensore: e non v’era mezzo più efficace per abbatter la nobiltà, che quello di rappresentarla come la tiranna del popolo; e di far balenare agli occhi delle classi meno agiate il miraggio di maggiori vantaggi e una nuova era di felicità dal ristabilimento dell’autorità e del governo regio. L’avversario da combattere era potente. Aveva per sè la ricchezza, la cultura, la tradizione; vagheggiava anche – ma non palesemente – ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indipendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze.
Andava a casa sua, per cominciare a mettere in esecuzione il suo piano. Percorreva la via dei Banchi, o dei Mercanti, come si chiamava, che per diciotto porte comunicava con la marina. L’aria fresca che vi penetrava dallo Stretto, andava calmando a poco a poco la tensione dei suoi nervi; sì che, avvicinandosi a casa, ripigliava il suo aspetto freddo e tagliente.
Egli entrò nel momento che donna Laura e Cassandra Abate recitavano le litanie; l’aspetto delle due donne inginocchiate, in pio atteggiamento, lo conturbò un poco, e specialmente la vista di donna Laura, sul cui volto l’entrare del marito aveva diffuso una espressione di dolore e quasi di sgomento.
Forse in quel momento don Gregorio rivedeva in essa la fanciulla di quindici anni, che dieci anni prima aveva tolto ai trastulli, e aveva stretta fra le sue braccia, timida e tremante come una agnella strappata all’ovile materno.
Un lieve corrugar della fronte rivelava lo sforzo che egli faceva per non tradire il suo turbamento, che del resto fu passeggiero.
- Ho bisogno di parlarvi – disse alla moglie. 


Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908. 
Pagine 956 -  Prezzo di copertina € 26,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: Messina e la festa di S. Giacomo - Tratto da I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina

Per antica consuetudine, il 25 di luglio, festa di S. Giacomo Apostolo, si apriva in Messina una gran fiera, che durava fino al 15 agosto, giorno dell’Assunta, e festa solenne della città. La franchigia, che per privilegi reali, godeva Messina in quei giorni, faceva accorrere mercadanti, industriali, artefici da ogni parte, allettati dalla esenzione di dogane e di dazi, e di una folla straordinaria di compratori adescati dall’idea del risparmio e della bontà delle compere. La franchigia si estendeva anche alla esportazione dei drappi di seta, fiorentissima e rinomata industria in Messina; onde i mercatanti d’Italia venivano a farvi larghe provviste, per l’eccellenza dei tessuti e il vantaggio dell’acquisto. Per questo la fiera di Messina era diventata famosa e aveva acquistata importanza di grande avvenimento cittadino, al quale la città partecipava in forma ufficiale e con la massima pompa.
La mattina del 25 luglio si apriva solennemente la fiera, con una grande cavalcata, in testa alla quale procedeva un giovinetto di famiglia nobilissima, regalmente vestito, montato sul più bel cavallo che si trovasse, riccamente bardato. Agitava egli nelle mani uno stendardo, segno della conceduta franchigia. Dietro a lui seguivano i Cavalieri della Stella, nella loro più ricca divisa, accompagnati dai valletti, poi i senatori, nelle loro ricche toghe, gli ufficiali della città, le milizie.
Era uno spettacolo magnifico per la ricchezza d’ori e di sete, per numero di intervenuti, per grandiosità d’insieme, che per le vie principali, donde sarebbe passata la cavalcata, traeva il popolo avido di svaghi e di divertimenti, e orgoglioso della sua ricchezza e dei suoi privilegi. A questo, che era lo spettacolo iniziale seguivan poi altri pubblici divertimenti, fino a che non giungevano i memorabili giorni delle feste dell’Assunta, le più grandiose che si celebrassero nell’isola, rivali, per singolarità e dovizia del famoso “festino” di S. Rosalia in Palermo. E feste pubbliche, alternandosi con le private, e i ricevimenti nei palazzi signorili con le serenate a mare, in quelle notti estive bellissime del Bosforo d’Italia, tenevan la città in una febbrile agitazione, eccitavan desideri, la gittavano nel mare dei piaceri, tra i quali pareva annegassero i travagli della vita e le asprezze della povertà del regno.
Naturalmente la fiera, le previsioni sulle mercanzie e sul traffico, le feste, le novità dell’anno, i preparativi di nuovi vestiti, il divisar trattenimenti o svaghi, tutto ciò formava ogni anno il soggetto delle conversazioni di ogni casa patrizia o popolana, sebbene quell’anno corressero tristi previsioni da quindici giorni innanzi. Ma Cassandra Abate non si curava di queste previsioni, e non pensava che alle feste. E perché infatti era uscita in quei giorni dal monastero, se non per godersi la cavalcata, la fiera e le feste dell’Assunta? E di più era quella la prima volta che ella vi assisteva. 


Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 26,00
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mercoledì 19 settembre 2018

Luigi Natoli: L'accademia dei Cavalieri. Tratto da: I Cavalieri della Stella.


L'accademia della Stella di cui egli faceva parte, e aspirava ad esser capo, o, come si chiamava, Principe, era una compagnia o congregazione o scuola, o tutto questo insieme, di cento cavalieri, di nobiltà antica e indiscutibile, che face­van professioni d'armi allo scopo di for­nire eccellenti militi nella perpetua guer­ra contro i barbareschi: una specie di or­dine militare – in origine – non dissi­mile nello scopo fondamentale da quello dei cavalieri di S. Giovanni e di S. Stefa­no; ma senza alcun carattere monastico o voto minore; uguale alla Congregazio­ne d'arme, che s'era istituita in Palermo nel secolo XVI.
Posta sotto la protezione dei Re Ma­gi, aveva assunto come insegna la Stella miracolosa apparsa ai tre re d'Oriente, in­castrandola nella Croce di Malta: d'onde il nome di Accademia della Stella.
Col volger del tempo, pareva aver di­menticato il suo scopo originario; e non mandava più i suoi cavalieri a dar la cac­cia alle navi mussulmane; ma continuava con uno sfarzo, con una magnificenza tutta spagnola, a dar mostra di sè nella bravura de’ suoi cavalieri nelle grandi occasioni religiose o civili. L'insediamento del nuovo Senato, l'apertura della fiera, la festa dell'Assun­ta, l'arrivo o la partenza del vicerè, la pre­sa di possesso di un nuovo arcivescovo, le feste per la nascita di qualche principe reale, o di qualche matrimonio regio, o dell'incoronazione del re, e in generale tutti i grandi avvenimenti celebrati con pompa ufficiale, erano altrettante occa­sioni, perché i cavalieri della Stella faces­sero la loro sontuosa cavalcata, o cele­brassero una giostra, vaghissima per no­vità di giuochi, d'imprese, di divise, di colpi.
Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.


Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00
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Luigi Natoli: Il conte di Cagliostro e la festa di San Gennaro


Non v’è spettacolo che possa para­gonarsi a questo che offre il popolo di Napoli in tale occasione. Non è una folla d’uomini e donne ragionevoli; è una folla di ossessi o pazzi; una folla ubriaca di fede, che passa dalle preghiere più ardenti e suppliche­voli alle invettive più veementi e vitu­perose contro il santo. Occhi spalancati, bocche anelanti, braccia nude agi­tate in alto, pianti e grida. Tutte le pa­role più tenere di quel pittoresco lin­guaggio, tutte le ingiurie più iraconde per ogni minuto di ritardo: una feb­bre tempestosa e terribile... Sull’altare maggiore, fra migliaia di candele acce­se, fra il salmodiare del coro, il suono dell’organo, il fumo dell’incenso, il cardinale arcivescovo teneva l’ampolla in cui, nel VI secolo, fu raccolto il sangue del santo vescovo di Napoli, decapitato a Pozzuoli. E tutti gli occhi son fissi su quell’ampolla con una folle aspettazione... A un tratto la massa nerastra e densa comincia a moversi, a gorgogliare; si scioglie, si colora... E allora un urlo formidabile pare che voglia rovesciare la chiesa; le campane squillano, il cannone da S. Elmo annuncia alla città il miracolo, sparano mortaretti; tutta Napoli è percorsa da un impeto cieco e forsen­nato di fede... Io non ho mai visto nulla di simile, in nessuna parte del mondo. In nessuna parte la fede religiosa ha ruggiti come in questo popolo.



Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Copertina di Niccolò Pizzorno 


martedì 18 settembre 2018

Luigi Natoli: L'amore impossibile tra Venezia Palizzi e Franceschello Ventimiglia. Tratto da: Il tesoro dei Ventimiglia

Entrò  nella chiesa; ma appena varcata la soglia, si sentì un tuffo di sangue al cuore. Ritti accanto alla pila dell’acqua benedetta, in modo da guardare chi entrava nella chiesa, stavano due giovani, avvolti nei mantelli, ma a capo scoperto. Sebbene Venezia, la notte innanzi, non avesse potuto vederli in volto, pure li riconobbe alla taglia; e non ebbe nessun dubbio, che il più giovane dei due, fosse proprio quello che s’era fermato ad ammirarla, quando gli vide le guance colorarsi di fiamma e poi impallidire, e lo vide tuffar le dita nell’acqua benedetta, e porgerla, con un inchino, alle tre fanciulle. - Ah! È desso! È desso! – le gridò il cuore battendole con violenza frequenza nel petto. Come dubitarne? Negli occhi gli aveva letto la stessa eloquente ammirazione, che avevano avute le parole: e che fosse un cavaliere, oltre che alla grazia avuta del gesto, si vedeva dall’atteggiamento, non servile, ma deferente del suo compagno, più maturo d’anni, più robusto e di più grave aspetto. Nel toccargli le dita la mano di Venezia tremò, e il sangue che le salì al viso, le offuscò la vista. Commossa andò con le sue sorelle a sedere sui banchi di quercia scolpita, che erano nella cappella del Crocifisso; e appena seduta, stringendosi a Isabella mormorò: - È lui!... Isabella, a cui Venezia aveva già fatto le prime confidenze, guardò il giovane, che ora volgeva a loro la faccia.
Franceschello Ventimiglia era allora nel primo fiore della giovinezza; di mezzana statura, ma ben fatto, e aggraziato nella persona; di volto bruno pallido, coi capelli neri, gli occhi grandi, un insieme gentile e forte a un tempo, al quale le sventure avevan dato un non so che di grave e malinconico, pieno di fascino. La nobiltà del sangue gli si leggeva nella finezza dei tratti, nell’aria, in quella naturale alterezza, che non s’impara a nessuna scuola, e che le ricchezze non bastano a dare. Egli pareva fatto per innamorare, e se era prode, come aveva mostrato la notte innanzi, poteva bene incarnare il tipo di cavaliere fatato che veniva d’oltremare a rapire la bella fanciulla del castello incantato. Non senza contrasti Franceschello aveva potuto superare l’opposizione di Pirruccio, che stimava non imprudenza, ma follia, andare a esporsi sotto gli occhi dei Chiaramonte e dei Palizzi. - Chi vuoi che mi conosca? – aveva risposto. – Io ero fanciulletto, quando lasciai Palermo, vissi nel castello di Geraci, poi, dopo l’assassinio di mio padre (che benedetta sia la sua memoria!) in prigione; poi in esilio… non ho più prima d’ora, messo piede in Palermo… chi lo sa chi sono io? Soltanto tu, Niccoloso e suo padre, tre persone che non lo diranno certamente. Io posso andare e venire anche dallo Steri, con un nome posticcio, senza che nessuno sospetti l’esser mio… 
Né Franceschello né Venezia quella domenica ascoltarono la messa; eran troppo distratti e troppo felici. Si erano intesi e non avevan bisogno di confessarsi quello che i loro occhi avevano già rivelato. Quando la messa finì, Franceschello voleva correre a ridare l’acqua benedetta alle dame; ma Pirruccio lo trattenne con violenza: - Per Iddio! – mormorò fra i denti con collera, – non vi lascio commettere la seconda! Volete proprio che i servi se ne accorgano e vadano a raccontare a messer Matteo? Franceschello dovette cedere, e contentarsi di veder passare Venezia trepidante e rossa di pudore e di piacere. Avrebbe voluto seguirla, ma Pirruccio vinse anche questa volta. Che bisogno c’era di esporsi? Sapeva chi era e dove abitava. 
- Ma non so quale sia il suo nome… 
- Non ve lo dirà per la strada. Non potremo saperlo che dal sagrestano. Aspettami, domanderò io. E andò a domandarglielo. 
- Non sono le figlie di messer Matteo Palizzi quelle fanciulle? 
- Sì, proprio …
- Dicevo bene… da tanto tempo che non le vedevo, ero un po’ incerto. Si son fatte belle!... specialmente quella bionda, la più alta… 
- Ah, madonna Venezia? … 
- Appunto… 
- Avete ragione… Franceschello aspettava con impazienza; quando seppe il nome della fanciulla, lo ripetè quattro o cinque volte; e nessun nome gli parve più bello….
A Franceschello non pareva l’ora di restar solo. Voleva rivedere Venezia, e supponendo che essa si sarebbe affacciata di là, dove per la prima volta si erano veduti, se ne andò su la spiaggia, e aspettò con gli occhi fissi alla finestra. Aspettando  pensava. Era venuto a Palermo con Pirruccio per avere quel tesoro, involato probabilmente da Lorenzo Lupo, che certamente gli apparteneva e per ritirare con sé Maddalena, di cui Pirruccio le aveva parlato, se fosse stata ritrovata o rintracciata. Eran venuti di sera, alla locanda di Simone; lasciati i cavalli, Franceschello aveva voluto fare un giro per la città, e per non imbattersi nella sciurta, e parlar più liberamente avevan percorso le vie più deserte. Il caso o il destino lo aveva spinto sotto quelle finestre. Ora ripensandoci, diceva a sé stesso che tutto era destinato da Dio, e che la ricerca del tesoro non era stata che il motivo apparente: ma il fine occulto e vero predestinato da Dio era la conoscenza di quella cara fanciulla. Poteva egli opporsi alla volontà della Provvidenza così manifesta? Doveva amar Venezia, perché era prescritto. Conforto e incoraggiato da questi pensieri, aspettò, sicuro che la stessa forza misteriosa che ispirava lui ispirerebbe Venezia ad affacciarsi. Ed ecco la finestra schiudersi, e sullo sfondo scuro apparire la fanciulla, illuminata da un raggio di sole, che parve trapassare la nuvolaglia per circonfonderla del suo splendore. Franceschello restò estatico a contemplarla. Ella sorrise. Sparve un istante, ritornò con una rosa in mano, si sporse alquanto e gittò il fiore. Franceschello lo colse a volo; lo baciò, Venezia col viso di porpora fuggì dentro; ed egli aspettò invano che ricomparisse. In sua vece apparve il volto curioso e sospettoso di mamma Rosa, che guardato di qua e di là, fissò gli occhi interrogativi sopra di lui. Allora egli si allontanò lentamente, col cuore gonfio di gioia, stringendo quella rosa con una ebbrezza maggiore di quella che avrebbe provato se avesse ritrovato il suo tesoro….



Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol 2) 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1925.
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venerdì 14 settembre 2018

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano

 
Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Ove si narrano le gesta di Guglielmo I e di messer Matteo Bonello.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911, e raccolta per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori.
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Luigi Natoli: Il giudizio di Dio. Tratto da: Gli ultimi saraceni.


- Il re! Il re!...
La piazza fremette, come un campo di spighe, quando vi passa un'ala di vento; le teste ondeggiarono, voltandosi, guar­dando su il loggiato del palazzo reale, sul cui parapetto di pietra leggiadramente in­tagliato era stato disteso un drappo di seta ricamato.
Il palazzo reale, o castello regio, o, come ancora si chiamava volgarmente, il Cassaro, offriva allora, dalla parte della città, un aspetto assai diverso da quello che gli diedero bestialmente i viceré spagnoli dal Secolo XVI in poi.
Nel 1159, sebbene dai due Ruggeri, il conte e il re, avesse subito  modificazioni tali da distinguervisi il Castello dal pa­lazzo, palatium, serbava nelle sue linee generali l'aspetto massiccio e formidabile di rocca. Aveva alle estremità due torri, una detta Pisana, ed è ancora in piedi, con le sue arcate, la sua torricella laterale – è quella stessa su cui si trova la Specola; l'altra, all'estremità opposta, dominando il burrone sotto il quale scorreva il fiumicello di Kemonia, detta Greca; ora scomparsa, ma pure non difficilmente riconoscibile. Fra l'una e l'altra torre si stendeva come una specie di cortina merlata, con portici, costruita o trasformata o rabellita da Rug­gero II, e si chiamava la Gioaria. Coloro che han veduto il sipario del teatro Mas­simo, dipinto dallo Sciuti, sapiente rico­struttore di ambienti, possono formarsi un'idea di quello che fosse il palazzo regio.
Nel 1159 il re, Guglielmo I faceva costruire un'altra torre, detta Chirimbi, la quale però non modificava il prospetto principale dell’edificio. 
Dinanzi al quale, presso a poco là dove è il monumento a Filippo V si levava altra torre, forse avanzo di fortificazioni romane, che dal colore dei mattoni, di cui era fab­bricata, era detta Torre Rossa. Sorgeva i­solata, presso le mura che partendo dalla torre Greca, correvano a levante, sul ciglio del burrone, signoreggiando la bassura, verdeggiante di orti e di vigne, fra cui scorreva il Kemonia o Cannizzaro. Poco discosto dalla Torre Rossa, di fronte alla Gioaria si levava allora un altro edificio, anch’esso circondato di portici, con un vasto cortile o recinto, lastricato: forse antica basilica o curia dei pretori di Roma, che il popolo chiamava volgarmente il Pissoto, e i dotti Aula regia, e più tardi, caduta in abbandono, ridotta cava di pietre e di colonne invasa dalle erbe, passò nelle memorie col nome di Sala Verde. Una parte di questo edificio si trova anch’essa ritratta nel sipario dello Sciuti, a sinistra dello spettatore. 
Fra la Gioaria e il portico del Pissoto rimaneva uno spazio sufficiente, come una piazza di cui i due edifici formavano due lati; un altro, il meridionale era formato dalle mura; l’ultimo del tempio di S. Maria de Pietà, antico tempio romano o romaico, che durò intatto, finchè nel 1648, al cardinal Trivulzio non venne in capo di abbatterlo per dar luogo a un bastione da minacciare il popolo. (Che il diavol lo riposi pel doppio sacrilegio, cotesto barbaro settentrionale!)
È necessario indugiarsi un poco, per la intelligenza degli avvenimenti su particolari topografici; giacchè difficilmente ci si può formare un’idea di quel che fosse la parte superiore della città di Palermo nel secolo XII, occupata oggi da Villa Bonanno, dallo stereobato del palazzo reale, dalle caserme, dalla Prefettura e dal Seminario Arcivescovile. Allora formava un quartiere distinto dal resto della città, e chiuso da mura, che da una parte dominavano la palude del Papireto, e girando dietro al castello regio, piegando a mezzodì, scendevano lungo il Kemonia, fino all’altezza della Caserma della Trinità o Distretto Militare, donde, piegando nuovamente in linea quasi retta, correvano fino al Papireto, passando dinanzi al Campanile del Duomo, che probabilmente era una delle torri che munivano queste mura. 
Il vasto recinto si chiamava con voce greca Galca: era sparso di chiese, percorso di strade, rallegrato di vigne e di giardini. Dalla Torre Pisana si partivano due stra­de, una percorreva presso a poco lo stesso asse della moderna via Vittorio Emanuele, e si chiamava As Simat, la fila, o latiniz­zando questo nome, la Semità del Cassaro. Tagliava in due dall'alto in basso la Galca, e, per una porta, si congiungeva al resto della Simat o ruga marmorea, che attraversava la città antica, in linea quasi letta, ed è oggi la via Vittorio Emanuele, l'altra strada percorreva invece la linea delle mura occi­dentali e settentrionali, passava dinanzi la chiesetta della Maddalena, ancor esistente dentro la Caserma dei carabinieri, la chiesa di S. Paolo, e scendeva giù, fino alla torre del Campanile del Duomo, passava dietro la cappella dell'Incoronazione, e finiva in una altra strada che si arrestava alla porta di S. Agata nel fiume del Papireto, o, arabicamente wadi, donde Guidda. Questa strada si chiamava Ruga magna Coperta, perchè era in fondo un lungo por­tico, murato da una parte, e illuminato da ampie finestre.
Due altre strade principali tagliavano la Semita, la ruga del Pissoto, o ruga Mag­giore che passava tra l'edificio dell'Aula regia e la chiesa di S. Costantino, (che an­cora sorvive presso a poco nell'antico sito), e si prolunga fra la caserma dei carabi­nieri e la caserma S. Giacomo ora Calatafimi; e la ruga di S. Nicolò dei Poveri, che costeggiava gli edifici romani, di cui si son trovate le vestigia, e passava tra la Prefet­tura e il Seminario arcivescovile, dove prendeva il nome di Ruga di S. Barbara. Questa strada, ora chiusa da un cancello, è ancora visibile.
Oltre gli edifici ricordati via via, e le chiese nominate, v'eran altre chiese nella Galca; v'era la chiesa di S. Maria dell'Itria, forse tra la Torre Rossa e S. Costantino; la chiesa di S. Maria la Mazara e quella di S. Giacomo, nell'area della caserma Calatafimi; la chiesa di S. Barbara Soprana, e più giù quella di S. Teodoro, con un o­spizio, e un bello e vasto viridario o giar­dino. Queste due chiese sparirono con la fabbrica del nuovo arcivescovato e del se­minario tridentino. Un'altra strada princi­pale, infine, quasi parallela alla Semita del Cassaro, correva lungo le mura meridio­nali; e poichè essa dominava il burrone del Kemonia, ed era, per così dire, una specie di lungo terrazzo o boulevard, prendeva nome di Sera, che in arabo significa ap­punto strada sulle mura o terrazzo o bou­levard. Questo Sera prendeva vari nomi, secondo gli edifici che costeggiava. Nella Galca, si chiamava Sera di S. Costantino. Oltre la Galca, correndo via per le antiche muraglie della città antica si chiamava successivamente Sera della Casa del Saraceno, Sera della porta di Sudan, Sera della casa del conte di Marsico, Sera delle case di Martorano.
Sbozzata così la topografia della Galca, riesce più facile immaginare dove e quanto fosse ampia la piazza nella quale si era raccolta la folla, per assistere alla pubblica decisione di una lite giuridica, per la qua­le, non essendovi altri elementi di prova, le due parti invocavano l'intervento della volontà divina, con una di quelle forme giudiziali in uso tra i franchi e introdotte dai principi normanni nella legislazione si­ciliana: il giudizio di Dio.
Attraverso i capitoli e le consuetudini delle città, i capitoli o le Assise dei re di Sicilia, si può indagare in quali circostan­ze e in quali forme si consentisse di ricor­rere al giudizio di Dio; nè dispiacerà al lettore di farvi una scorsa rapidissima, per avere un criterio di ciò che si sarebbe svolto al cospetto della folla e del re. 
Quando, come si è detto, non v’eran altre prove per accertare la colpa di cui qualcuno era accusato, si ricorse dapprima al giuramento, dato in forma solenne dal presunto reo, e, in tempi forse in cui il giuramento era tenuto veramente sacro, bastava esso a purgare – come si diceva – il reo. Ma col tempo i giudici divennero un po' increduli, e pretesero che testimoni ossia compurgatori, condividessero col reo la responsabilità del giuramento; la qual cosa non fece che aumentare il numero degli spergiuri, senza far fare un passo in là alla giustizia... tal quale come avviene oggi nei processi criminali.
Allora si ricorse all'intervento soprannaturale. Dio non può permettere che chi è innocente soccomba. Egli dunque manifesterà il vero; sottoporre un presunto reo a una prova straordinaria, e dall'effetto, dal modo come è sostenuta, dedurne la manifestazione del giudizio di Dio, parve metodo sicuro e infallibile.
I giudizi di Dio furono di due specie: purgazioni e duelli. Le purgazioni consistevano nel subire una prova insensata e atroce, come quella dell'acqua bollente, quelle del ferro arroventato o dell’acqua ghiaccia, o del pane e cacio. Un documento curioso, riprodotto da monsignor Di Giovanni in un'opera De divinis siculorum offici e poi dal Gregorio, contiene il rito da seguire in queste prove di purgazione; alle quali non soltanto era sottoposto l’imputato, ma, potevan anche essere obbligati i testimoni. Il duello invece, era più adoperato fra' nobili, ma meno anche da borghesi; sia fra le due parti in causa, accusatore e accusato, sia fra l'uno dei due e un testimonio. La legge consentiva che uno o tutti e due i contendenti si facessero rappresentare da un campione. L’età dei combattenti o dei campioni, il giorno, il luogo, le armi, le forme, il rito del duello erano minutamente prescritti.
Le leggi nostre prescrivevano anche i casi in cui era ammesso il giudizio di Dio per duello; si possono desumere dalle consuetudini della città di Trapani. Erano i delitti di lesa maestà, gli attentati alla vita del re, la falsificazione della moneta, l’omicidio, il furto, la rapina, e in generale qualunque altro delitto che, secondo i riti ordinari della giustizia, avrebbe comportato la pena di morte o l’amputazione di qualche membro. 


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 novembre 1911 e raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

lunedì 10 settembre 2018

Luigi Natoli: La chiesa dell'Annunziata e la lapide a Giovan Luca Squarcialupo.

La chiesa dell’Annunziata era stata eretta da pochi anni sulle rovine di un’altra chiesa distrutta nel secolo XIV; e accanto ad altra, dello stesso titolo, appartenente a confrati, che però l’avevano abbandonata, e avevano trasportato il loro archivio, il sagramento, i vasi, tutto insomma nella nuova; che esiste tutt’ora, nella sua graziosa forma originale, accanto all’edifizio del Conservatorio di Musica, dentro il quale si trovano il portico e gli avanzi della chiesa dei confrati. Allora questo portico e la chiesa abbandonata comunicavano con la nuova. 
Il La Lumia seguito da qualche altro, afferma che la chiesa nella quale si svolsero gli avvenimenti che qui si narrano, era quella dei confrati ora diventata refettorio del Collegio di Musica, e sul muro esterno di esso fece apporre una lapide commemorativa. Ma poiché la nuova chiesa esistiva già, gli storici, se quella vecchia esisteva ancora, non avrebbero distinto le due chiese accanto, con un aggettivo, la chiesa nuova e la chiesa vecchia? Invece dicono semplicemente chiesa dell’Annunziata. Dunque ce n’era una ed è l’attuale. La lapide dovrebbe essere spostata o corretta. 


Luigi Natoli: Squarcialupo
Nella versione originale pubblicata per la prima ed unica volta a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924. Pubblicato per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Luigi Natoli: 8 settembre 1517 - L'attentato a Giovan Luca Squarcialupo. Tratto da: Squarcialupo

Quando Giovan Luca Squarcialupo giunse alla chiesa dell'Annunziata, trovò piena di gente non solo la navata destra, ma anche la parte superiore della navata di mezzo. Gli fecero largo per farlo passare co’ suoi amici; ma si richiusero dinanzi ai popolani, che rimasero accalcati nella parte inferiore della navata di mezzo. Dorotea non potè penetrare; si rannicchiò in un canto, presso la pila dell’acqua benedetta cercando di vedere dove fosse Giovan Luca.
Egli si era avvicinato all’altare maggiore, dove erano i nobili invitati al convegno. Vi era Guglielmo Ventimiglia, Pompilio Imperatore, Francesco e Cola Bologna, Alfonso Saladino, Pietro d’Afflitto, Giovanni Antonio Postella, Girolamo Imbonetta e altri signori, che egli ravvisò a uno a uno. Rivoltosi a Guglielmo Ventimiglia:
- Magnifici signori, il luogotenente generale questa notte è fuggito; e questa fuga non si spiega, quando egli avrebbe dovuto ratificare i nostri accordi. Se io non avessi a cuore la pace della città mi asterrei da ogni trattativa; ma noi dobbiamo con o senza l’approvazione di lui, fondare la pace degli animi sul buon governo e sulla libertà.
- Ascoltiamo la santa messa – disse Guglielmo Ventimiglia – il Signore Iddio e la Santa Vergine ci ispireranno. Prendiamo posto.
Uscì la messa.
Guglielmo si messe in prima fila, e accanto a lui volle Squarcialupo: di qua e di là Cristoforo Di Benedetto e Alfonso La Rosa. Dietro a loro si posero i nobili: Pompilio Imperatore era dietro a Squarcialupo; Nicola Bologna dietro a Cristofaro Di Benedetto, Pietro d’Afflitto dietro ad Alfonso La Rosa; gli altri fiancheggiavano e seguivano. Tutti stavano in ginocchio divotamente. Cominciò la messa: nel gran silenzio diffuso per la chiesa s’udiva il biascicare del celebrante, ora più alto, ora più basso e le risposte del sagrestano, più argentine e chiare.
Ma quel silenzio avea qualche cosa di cupo, di misterioso: c’era nell’aria il senso di una aspettazione pavida e irrequieta; in quei volti che pregavano qualche cosa di duro, che contrastava con la luce mistica di un raggio di sole che penetrando da una finestra illuminava il Cristo sull’altare.
- Sanctus: sanctus sanctus Deus Sabahot, invocò il sacerdote; fra squilli di campanello; e l’invocazione fu ripetuta con un mormorio sommesso e quasi trepidante.
Ora il frate si apprestava alla consacrazione, chiuso sull’altare, compreso dell’alto mistero che si compiva; il campanello squillò un’altra volta; egli lentamente sollevò l’ostia. Allora Guglielmo Ventimiglia alzò le braccia, e nel silenzio gridò:
- Dio ci assista!...
Tre uomini balzarono in piedi, tre lame balenarono; tre gridi ferirono l’aria; un gran clamore come lo scoppio improvviso d’un uragano, scosse la chiesa: il frate lasciò cadere l’ostia, si voltò…..


Luigi Natoli: Squarcialupo
Nella versione originale pubblicata per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924. Editato per la prima ed unica volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 684 - Prezzo di copertina € 24,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Nella foto: La chiesa dell'Annunziata, in via Squarcialupo (pressi piazza XIII vittime) distrutta dai bombardamenti del 1943


martedì 4 settembre 2018

Luigi Natoli: Latini e Catalani - grande romanzo storico siciliano


Mastro Bertuchello e Il tesoro dei Ventimiglia sono rispettivamente il primo e il secondo volume del grande romanzo storico siciliano Latini e Catalani che Luigi Natoli, dopo avere pubblicato in appendice al Giornale di Sicilia tra 1921 e il ’22, diede successivamente alle stampe con La Gutemberg Editrice in nuove edizioni rivedute e corrette negli anni 1925 e ‘26. Nei due volumi, che possono leggersi separatamente senza che il secondo renda necessaria la lettura del primo, il grande romanziere palermitano descrive in modo impeccabile l’epoca oscura e controversa del medioevo siciliano, con specifica attenzione ai fatti storici e alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie isolane dei Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo detenuto dalla corona Aragonese oramai debole e pronta a spegnersi. A fare da sfondo al romanzo è una Palermo ancora splendida nelle sue vestigia arabo-normanne, ricca di etnie, tradizioni, e cultura dove regna anche una grande miseria materiale e morale afflitta da pregiudizi e da una confusa identità politico/popolare.
Luigi Natoli: Latini e Catalani. 
Volume 1 - Mastro Bertuchello - Prezzo di copertina € 22,00
Volume 2 - Il tesoro dei Ventimiglia - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibili in libreria e in tutti i siti di vendita online. Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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Luigi Natoli: Matteo Palizzi e il suo odio verso il popolo - Tratto da: Il Tesoro dei Ventimiglia

- Ora sarà quel di prima! – disse con amaro disprezzo Matteo. – Popolo! Dite una folla inconsapevole, mutabile, che si volta là dove la spinge il vento; che oggi ti segue, ti esalta, si fa uccidere per te; domani ti abbandona, ti vitupera, ti uccide. Non ve ne fidate... Non v’è che un mezzo di tenerlo soggetto e devoto: la paura. E la paura la incutono le armi. Circondatevi di milizie, di quelle che non conoscono la pietà, e tenetele come una minaccia sospesa sul popolo, e questo non si arrischierà mai di tentare qualche cosa contro di voi... E dategli pane; anzi fategli capire che voi solo potete dargli pane, perché non si allontani da voi. Il popolo è un cane: il cane non si mantiene sottomesso e fedele che con lo staffile e col pane. Ma non lo saziate: alimentategli la speranza di ottener di più, perché vi segua... Io ho errato: ho mostrato troppo dispregio e nel tempo stesso troppa debolezza. L’ho abbandonato a sé stesso. Non ne ho diffidato abbastanza. Domatelo senza che egli trovi ragione e mezzi per ribellarsi, ma diffidatene sempre, e abbiate sempre pronte le armi per rompergli le zanne...
Tacque un poco e riprese:
- Io l’odio questo popolo, che sparse il sangue dei miei figli; che saccheggiò, bruciò la mia casa; che mi cacciò come un lupo; che perseguitò i miei amici; e vorrei colpirlo con la mia vendetta... Ma mi serve. Deve essere lo strumento della mia rivincita. Io lo scaglierò addosso ai miei nemici, come una muta di cani sul cinghiale.
Parlando i suoi occhi si accendevano di fiamme d’odio che davano al suo volto una espressione feroce e spaventevole.
- Non ne ho dimenticato nessuno.
Nuovo silenzio. I due Chiaramonte lo guardavano, con ammirazione sommessa, come soggiogati da quella volontà imperiosa.
- Forse la peste ne avrà sottratto qualcuno, non dei maggiori, che salvo il duca Giovanni, sono ancora vivi; ma dei minori. Non vanno trascurati neppur questi: l’andare a caccia al lupo  non significa che si debba lasciar la donnola nel pollaio!... Vive ancora quel mercante, quel messer Puccio Cannata, che era uno dei partigiani del duca?
- Se è quel medesimo che ha il banco in Loggia, e un fondaco di panni fiorentini, sì. È lui, anzi, che fornisce la nostra casa. È un mercante onesto, – disse Federigo.
- È un gaglioffo... E quel pedante che insegnava nelle scuole del comune a San Domenico? Mastro Bertuchello...
- Insegna ancora grammatica...
Era un servo di Francesco Ventimiglia; nemico fierissimo vostro e mio... Bisogna cacciarlo via dalla scuola, per lo meno!
I Chiaramonte si strinsero nelle spalle.


Luigi Natoli: Il Tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2)
Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile il libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20%  se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Dove si narra l'arrivo di un grande personaggio. Tratto da: Il Tesoro dei Ventimiglia

Sull’imbrunire di quella stessa sera, due galere entravano a vele spiegate nel porto di Palermo, appena in tempo, per non rimaner fuori. Non avevano infatti gittati ancora gli ormeggi, che la catena chiudeva l’imboccatura del porto.
Sul lido una comitiva di cavalieri e di servi aspettava che qualcuno sbarcasse. 
Lo avevano visto nel cassero della nave, lo avevano salutato con grandi segni di allegrezza, e ora parlavan fra loro, nell’aspettazione, comunicandosi impressioni e commenti.
Finalmente, buttata una lunga asse dal fianco della galera alla spiaggia, l’aspettato scese a terra, abbracciò e baciò alcuni di quei cavalieri, strinse la mano cordialmente ad altri; poi tutti inforcarono i cavalli, che i servi tenevan per la briglia, e s’avviarono, lasciando che i servi scaricassero i bauli. La strada da percorrere non era lunga: lo sprone, che dalla chiesetta della Catena, dove le galere s’erano attraccate, costeggiava la vasta piazza marittima, o Marina, e in fondo al quale torreggiava la mole del palazzo dei Chiaramonte, non ancora terminato.
L’arrivo di quel personaggio empiva così di gioia quelli che erano andati a riceverlo, che il volto di lui pallido e fosco, si illuminava a quando a quando di un sorriso. La cavalcata entrò nel palazzo chiaramontano, che per antonomasia era già indicato col nome di “Steri” (osterium).
Allora l’ingresso non era quello sconcio portone che vi fu aperto quando il nobile palazzo cadde in mano degli Inquisitori del Sant’Officio, e che ancora si vede. L’ingresso era nel lato meridionale, dalla parte della Dogana; e forse dove sono ora quegli ignobili antri in servizio di questa amministrazione. Aveva dinanzi un vasto piano, che da un lato era chiuso dalla Chiesa di S. Antonio e da vigne, dall’altro dalle mura del vecchio quartiere della Kalsa, ancora esistenti sebbene qua e là rotte da strade appena tracciate. La scala ascendeva da un ampio vestibolo, che metteva nella corte, per un’ampia arcata. La corte era a doppio ordine di portici, che durano ancora, ma non tutte le ali erano terminate; nè era ancora decorato di dipinti il soffitto del grande salone del piano superiore.
La comitiva, scavalcata e date le redini ai valletti accorsi, entrò in una vasta sala a pianterreno, le cui finestre davano nel portico. Aveva le pareti coperte di armature e di armi, disposte in bell’ordine; di bandiere, di arazzi che portavano in mezzo lo scudo del Chiaramonte, rosso con tre monti d’argento. Una grande tavola coperta d’una candida tovaglia era nel mezzo della sala: e sopra vi luccicavano vasi, boccali, coppe, piatti, tutto d’argento: e su grandi piatti montagne di paste e confetture e uccellame odoroso di spezierie. Quando tutti furono entrati, i valletti portarono i bacili d’argento e diedero l’acqua alle mani, poi servirono in tavola. Il sommesso bisbiglio delle prime portate si tramutò a poco a poco in un chiacchierio sonoro e confuso, sul quale però sebbene la voce non fosse più alta, dominava quella del personaggio.
E ben si conveniva a Matteo Palizzi, che dopo otto anni d’esilio e una condanna di fuor bando, ritornava in Sicilia, a malgrado della condanna; gesto che agli amici, ai vecchi partigiani, ai Chiaramonte suoi parenti pareva audace. Messer Matteo però non aveva giocato d’audacia; né senza la protezione della regina Elisabetta si sarebbe mosso da Pisa.
Tornava solo: Damiano o per travagli o per malattie che segretamente lo logoravano, e gli accrescevano i dolori e la collera dell’esilio, era morto in Pisa. Quella morte privava Matteo di un consigliere esperto e astuto, di una guida sicura e prudente, e accresceva il suo odio contro il baronaggio catalano, e segnatamente Blasco Alagona; al quale attribuiva la sua disgrazia, e addebitava la morte del fratello.
Le accoglienze e le testimonianze di affetto e di devozione lo rinfrancavano, e accendevano nei suoi occhi lampi di soddisfazione.
Ora lo investivano di domande. In Palermo erano giunte scarse e scarne notizie del suo arrivo a Messina: quale era la verità? Gli si era impedito veramente lo sbarco? Sì, era vero. La regina Elisabetta col piccolo re Ludovico e con Orlando d’Aragona, un bastardo del re Federico, era a Messina, e sapeva del suo arrivo. Segretamente però: perché il bastardo del re non era del partito della regina…


Luigi Natoli: Il Tesoro dei Ventimiglia (Latini e Catalani vol. 2)
Prezzo di copertina € 22,00
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