giovedì 26 gennaio 2017

Luigi Natoli: Fioravante conquista la Durlindana - Tratto da: Fioravante e Rizzeri



Il capo dei saraceni si fermò dinnanzi ai suoi, e disse con superba arroganza:
- Cavaliere, di che paese tu sei?
- Io sono del reame di Francia.
- E come ti chiami?
- Guerrino.
- Dove meni cotesta damigella?
- A casa di suo padre.
- Per mia fè, che tu non la menerai più oltre, chè mi piace, e la voglio per me; e poiché tu sei un bel cavaliere, ti vo’ risparmiare la morte. Lasciala dunque, e vattene via!
- Sembra che tu abbia la morte ai tuoi comandi! Ora io ho promesso di condurla a suo padre, e prima che tu l’abbia, devi provare la mia spada.
- Tu osi? Non sai che questa mia spada si chiama Durlindana?
- La mia si chiama Gioiosa.
Subito i due cavaliere ingaggiarono il combattimento, e i colpi risonarono sulle armature con stridere di ferracci. Fioravante ebbe il capo intronato da un fiero colpo del saraceno; per converso, raccomandatosi a Dio, gli menò con la spada, e gli strappò il cimiero e gli altri adornamenti. Fu un aspro battere e ribattere; gli scudi erano ridotti in pezzi, il sangue affiorava al saraceno, da due ferite ed egli, stanco, prese a dire:
- Cavaliere, non so chi tu sia, ma puoi vantarti di aver resistito a questa spada; però non potrai vivere; chè ove tu mi vincessi, i miei ti verrebbero addosso. Cedimi dunque la damigella che non potrai difendere.
- S’io ti sono vincitore, che mi importa di quelli che ti seguiranno? Non varranno, chè la mia fede è maggiore della tua. Ma perché, se tu sei gentil cavaliere, assalisci coloro che vanno per la loro via? Lasciami andare con la mia compagna, e non combattere contro ragione.
- Io sono signore di questo paese, e chi entra nel mio paese ha da fare la mia volontà.
- E tu come ti chiami?
- Io ho nome Finaù, e son figlio di re Galerano; per questo rendimi la donna, e vatti con Maometto!
- Ora vedrai come te la renderò.
E Fioravante strinse la spada, e si lanciò contro Finaù e lo ferì, e poi gli ruppe la visiera e forse l’avrebbe steso morto, se non fosse intervenuto il caso. Il sipario si abbassò, chè il primo atto era terminato.
Fioravante strinse la spada, e si lanciò contro Finaù e lo ferì, e poi gli ruppe la visiera e forse l’avrebbe steso morto, se non fosse intervenuto il caso. Il sipario si abbassò, chè il primo atto era terminato.
Il secondo cominciò nella corte di re Galerano, che aveva fatto un sogno, nel quale gli era apparso un lioncello e un leone, che sbranato Finaù e molti altri, ne venivano contro di lui. Perciò chiedeva alla sua corte consiglio. I cortigiani furono d’accordo nel riconoscere che grave era il caso, e che conveniva di correre in armi alla campagna. Così fecero. Mutò la scena, e si vide Fioravante che aveva prostrato due saraceni, e Finaù ridotto a mal partito. Allora si gittarono in corpo sopra Fioravante, lo presero e lo legarono.
La damigella, che era rimasta in disparte, pregando, fu dal furibondo Finaù rovesciata in mezzo alla strada: se non che, un saraceno gli osservò che v’era in più in là un casolare mezzo diruto, dove avrebbero condotto Fioravante, e Finaù avrebbe fatto la sua volontà. E così fecero. Fioravante fu legato a una colonna e percosso con verghe mentre Uliana in ginocchio pregava. E qui terminava il secondo atto.
Nel terzo ecco Rizzeri. Egli giunge nella baracca, e incontra i due saraceni uccisi e quel terzo che prima era fuggito, inginocchiato su di essi piangendo; il quale, interrogato se avesse visto un cavaliere con la sopravveste verde, si levò e gridando: - “Traditore famiglio, tu porterai la morte pel tuo signore!” – gli corse incontro e lo battè sopra lo scudo. Rizzeri disse:
- Compagno, vuoi tu morire?
Ma quello gli tornò addosso più inferocito, e allora Rizzeri con un colpo di spada gli distaccò il capo dal busto; indi, riprese l’andare. Ma si accorse che per terra erano molti pezzi d’arme e la cavezza del cavallo di Fioravante.
- Qui v’è stata battaglia. Che ne sarà di Fioravante?
In questa, trovandosi vicino al casolare, udì una voce raccomandarsi a Dio. Rabbrividì.
- Questa è la voce di Fioravante!
Allora con un salto entrò nel casolare, e il primo in cui s’incontrò fu Finaù, e lo passò da una parte all’altra, poi uccise due altri saraceni, e gli altri fuggirono. Allora sciolse e liberò Fioravante, l’abbracciò, e conobbe Uliana, che ringraziò Dio d’averla tratta da un grande pericolo. Presero le armature di Fioravante, il quale tolse a Finaù la Durlindana, e voleva darla a Rizzeri, ma questi non la volle, e accettò Gioiosa; e avendo saputo che Fioravante si faceva chiamare Guerrino, mutò nome anche lui, e disse di chiamarsi Buon Servo.
 
 
 
Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri
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Luigi Natoli: I pupi di don Calcedonio - Tratto da: Fioravante e Rizzeri


Potevano essere le diciotto ore, e bisognava terminare di agghindare il pupo che giaceva in un canto, poi disporre ogni cosa e prepararsi per la serata. Passò in rassegna gli attori disposti in fila per ordine e appesi con tre fili di ferro da una parte e dall’altra. Essi stavano immobili, con quei visi lucidi, con gli occhi aperti, fissi in un punto che non vedevano, stretti nelle armature, che mandavano nell’ombra bagliori. Il silenzio avvolgeva tutto quel popolo, sul quale le mani di don Calcedonio passavano per correggere qua una piega, là un gesto.
Egli viveva in mezzo a quel popolo di legno e di mantello non solo perché gli dava il pane, ma perchè vi s’era foggiato un mondo morale a sé, gli stessi sentimenti, le stesse abitudini, quasi lo stesso linguaggio. I paladini rivivevano in lui: Orlando, Rinaldo, Carlo Magno, Fioravante, Rizzeri, il marchese Oliveri, Ricciardetto, e via via dicendo, erano per lui creature viventi, e nel cuor suo accoglieva tutto quanto quei paladini avevano di eroico, di generoso, di nobilmente umano. Quando era sul palcoscenico, e reggeva i fili dei pupi, e li faceva movere coi gesti misurati e sempre gli stessi, e parlava con la voce alterata, non era più lui, ma l’eroe che aveva in pugno. I colpi di spada, che percotevano le teste di legno, erano veri; si meravigliava di non vedere il sangue correre, e una volta mise nella marionetta una piccola vescichetta piena di sangue, che a un colpo colava con una realtà illusiva per lui e per il minuscolo pubblico, che montava in visibilio. Ma un personaggio non poteva soffrire: Gano di Maganza. Il traditore! Gli riusciva ripugnante, e metteva ogni sforzo perché apparisse ancora più laido.
Quando ebbe finito di aggiustare ogni cosa, calò il sipario (rappresentava una scena cavalleresca) scese dal palcoscenico; e s’avviò a casa. Non era lontana; una casa povera in un vicolo che non vedeva il sole.



Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri.
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giovedì 19 gennaio 2017

Luigi Natoli: La battaglia di Auvelais.. - Tratto da: Alla guerra!


Entrarono in Auvelais.
Ah la povera gente, il giorno innanzi così tranquilla tra le due sponde della Sambra, coi suoi quartieri alti a sinistra, il suo ponte, con le sue officine dagli alti camini, segno del lavoro pacifico che supera i confini delle razze! Quale spettacolo di devastazione!... Il combattimento vi infieriva con tutti i suoi orrori. Le truppe francesi vi si difendevano accanitamente; resistendo alle forze tedesche che soverchiavano da ogni parte.
Sul ponte, sulla strada maestra i cannoni e le mitragliatrici fulminavano con una rabbia forsennata, e spazzavano la via dalle case, dalle officine, trasformate in fortezze, in trincee, dalle barricate costruite in fretta, i fantaccini seminavano la morte tra le file dei tedeschi, che tentavano forzare il passo. Ma i tedeschi avevano messo in azione i loro obici pesanti. Qualcuno era già caduto, aveva sfondato il tetto di qualche casa, scoppiando con un tremendo fragore; rovinando, e incendiando. No. Non si era sicuri ad Auvelais. Molti, raccogliendo quel che potevano, abbandonavano le case e si avviavano per la strada di Esau e Chatelet, per ricoverare a Charleroi, dove si credevano sicuri: erano donne, bambini, vecchi, curvi sotto fardelli; coi grembiuli pieni e sorretti dalle braccia larghe e tenaci. Qualche bimbetto trasportava il suo tesoro; un pulcinella o un cavalluccio di legno; un vecchio aveva posto ogni sua ricchezza in una valigia, e la trasportava in una carrozzella da bimbi; era la carrozzella dove aveva portato a spasso la sua nipotina, or morta da qualche mese; l’aveva serbata per memoria, ora se ne serviva per portar via la sua roba; una fanciulla non recava fra le mani che un testo di garofani e una gabbia con un canarino; erano i suoi amori…
Da ogni strada venivano fuggiaschi, s’univano con gli altri, si guardavano scuotendo il capo con una espressione di profondo dolore, senza dir nulla. Che potevan dire? Avevan tutti lo stesso pensiero, la stessa angoscia. Qualcuno piangeva: ma i più avevano gli occhi aridi; il cervello intontito dal fragore incessante delle artiglierie, dagli scoppi degli obici, dal rovinio delle case. A un tratto si tiravan da parte. Un cacciatore a cavallo passava di galoppo, come un guizzo. Dove andava? perché?.... Ovvero due soldati dell’ambulanza portavano un ferito in una barella, o in una carretta. Quanti feriti! quanti! venivano dalle linee del fuoco. Alcuni gemevano fieramente, o con piccoli singulti; altri non davan segno di vita. Accanto a qualche barella, si vedeva un soldato, con la stola e il cappello da prete. Un “richiamato” che lasciava il fucile per compiere il suo ministero religioso di curato.
E intanto a ogni passo masserizie per terra, frammenti di stoviglie e di vetri infranti, macerie; qua e là porte spalancate; dei gatti fuggiaschi disorientati, fuggenti, col pelo arruffato, gli occhi chiari e sbarrati.
Bisognava affrettarsi a uscire da Auvelais, intanto che le truppe si battevano. Lungo la strada era una processione di feriti e di fuggiaschi; uno spettacolo miserando, di bende insanguinate, di braccia sospese al collo, di barelle scoperte, nelle quali i feriti gemevano; di vecchi che andavan curvi, dolorandosi a ogni passo; di povere donne che parevano impazzite dal dolore e dallo spavento.
Lo stradale che menava a Chatelet, correva quasi parallelamente alla Sambra, fra poggi di scorie ferrigne e colline boschive; qua e là era ombreggiato da filari di olmi, che spandevano un po’ d’ombra, piccoli intervalli refrigeranti, sparsi nella strada saettata dal sole meridiano; sotto i quali si riposavano un istante i più stanchi, posando i fardelli sui muriccioli o sotto gli alberi; e seguendo con occhi attoniti e sgomenti il passaggio di quelli che sopravvenivano, nella miseria angosciosa dei quali vedevano la propria. 
Ma la guerra li costringeva a lasciare anche quei brevi riposi: le cannonate si avvicinavano; qualche cannonata fendeva le cime degli alberi, scoppiava oltre i margini della strada. Bisognava guadagnar presto Chatelet, ove si diceva che fossero i francesi.
Le cannonate rombavano sempre più forti una dopo l’altra, senza interruzione; e le fucilate parevano corse di carri fragorosi sopra ciottoli appuntiti: per le fronde passavano ogni tanto dei fremiti, o dei fruscii violenti come se anche gli alberi fossero percossi dai brividi della paura che urlava nell’aria.
 
 
Luigi Natoli: Alla guerra!
Il romanzo di Luigi Natoli ambientato nella Francia del 1914, agli inizi della prima guerra mondiale.
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 31,00 - Sconto 15%
Nella foto: il monumento ai caduti ad Auvelais.
 
 

lunedì 16 gennaio 2017

Luigi Natoli: Il giudizio di Dio. (tratto da Gli ultimi saraceni).


Una lite giuridica, per la qua­le, non essendovi altri elementi di prova, le due parti invocavano l'intervento della volontà divina, con una di quelle forme giudiziali in uso tra i franchi e introdotte dai principi normanni nella legislazione si­ciliana: il giudizio di Dio.
Attraverso i capitoli e le consuetudini delle città, i capitoli o le Assise dei re di Sicilia, si può indagare in quali circostan­ze e in quali forme si consentisse di ricor­rere al giudizio di Dio; nè dispiacerà al lettore di farvi una scorsa rapidissima, per avere un criterio di ciò che si sarebbe svolto al cospetto della folla e del re.
Quando, come si è detto, non v’eran altre prove per accertare la colpa di cui qualcuno era accusato, si ricorse dapprima al giuramento, dato in forma solenne dal presunto reo, e, in tempi forse in cui il giuramento era tenuto veramente sacro, bastava esso a purgare – come si diceva – il reo. Ma col tempo i giudici divennero un po' increduli, e pretesero che testimoni ossia compurgatori, condividessero col reo la responsabilità del giuramento; la qual cosa non fece che aumentare il numero degli spergiuri, senza far fare un passo in là alla giustizia... tal quale come avviene oggi nei processi criminali.
Allora si ricorse all'intervento soprannaturale. Dio non può permettere che chi è innocente soccomba. Egli dunque manifesterà il vero; sottoporre un presunto reo a una prova straordinaria, e dall'effetto, dal modo come è sostenuta, dedurne la manifestazione del giudizio di Dio, parve metodo sicuro e infallibile.
I giudizi di Dio furono di due specie: purgazioni e duelli. Le purgazioni consistevano nel subire una prova insensata e atroce, come quella dell'acqua bollente, quelle del ferro arroventato o dell’acqua ghiaccia, o del pane e cacio. Un documento curioso, riprodotto da monsignor Di Giovanni in un'opera De divinis siculorum offici e poi dal Gregorio, contiene il rito da seguire in queste prove di purgazione; alle quali non soltanto era sottoposto l’imputato, ma, potevan anche essere obbligati i testimoni. Il duello invece, era più adoperato fra' nobili, ma meno anche da borghesi; sia fra le due parti in causa, accusatore e accusato, sia fra l'uno dei due e un testimonio. La legge consentiva che uno o tutti e due i contendenti si facessero rappresentare da un campione. L’età dei combattenti o dei campioni, il giorno, il luogo, le armi, le forme, il rito del duello erano minutamente prescritti.
Le leggi nostre prescrivevano anche i casi in cui era ammesso il giudizio di Dio per duello; si possono desumere dalle consuetudini della città di Trapani. Erano i delitti di lesa maestà, gli attentati alla vita del re, la falsificazione della moneta, l’omicidio, il furto, la rapina, e in generale qualunque altro delitto che, secondo i riti ordinari della giustizia, avrebbe comportato la pena di morte o l’amputazione di qualche membro.
Questa volta la curiosità e l’aspettazione dei cittadini di Palermo erano eccitate e legittimate dal fatto che accusatore era il Gaito Pietro, eunuco, camerario del re Guglielmo, e già Almirante della flotta siciliana all’impresa di Al Madhiah, malamente condotta tra il luglio e il settembre di quell’anno; l’accusato era un giovane cavaliere Orsello di Godrano, uno dei militi che avevan preso parte a quella campagna...
 
Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.
Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%

Luigi Natoli: Il re Guglielmo I (tratto da Gli ultimi Saraceni).


Si vedeva così raramente, che tutte le volte che appariva in pubblico destava la curiosità del popolo. Egli stava sempre chiuso nel suo palazzo, e dicevano che passasse il più della giornata, sdraiato all’orientale sopra cuscini fra le donne del Tiraz. Il re Guglielmo era giovane ancora; aveva nel 1159, trentanove anni: somigliava molto al padre, Ruggero. I cronisti contemporanei ne lasciarono un ritratto che si riconobbe esatto, quando scoperchiata la tomba del re, in Monreale, nel 1811, se ne vide il cadavere ancora intatto. Era di alta statura, corpulento; bello e maschio di volto, sebbene la fronte un po’ stretta, ma l’espressione un po’ acre e repulsiva; i capelli lunghi e la barba folta e rotonda di color biondo traente al rossiccio. Vestiva il camice bianco, percorso intorno intorno da un fregio. Il fianco aveva cinto da un cingolo di cuoio e metallo, al quale era attaccata la spada; indosso aveva una specie di dalmatica tutta d’un colore, ornata di una larga striscia ricamata. In capo un berretto, specie di cuffia, che aveva qualcosa di orientale.
Guglielmo era un buon conoscitore di donne: rassomigliava da questo lato al pa­dre, il re Ruggero, che aveva subito il fasci­no della vita voluttuosa dei musulmani, e non contento delle quattro mogli prese suc­cessivamente, s'era fatto un harem, sfidan­do i rimproveri, gli scrupoli e l'orrore del clero. In questo aveva superato il padre, il re Ruggiero di cui aveva subito il fascino in altre qualità dello spirito. Nell'avarizia, per esempio, e nella ferocia dei castighi. Gli restava di gran lunga inferiore nell'attività maravigliosa, nel fine senso politico, nella opportuna e sapiente prudenza e nella magnanimità, quando era necessaria: qualità che avevan fatto di lui il più grande monarca e statista del suo tempo.
Ama­va troppo la voluttà, per aver tempo di oc­cuparsi dello Stato.
 
 
 
Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.
Pubblicato per la prima ed unica volta a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911. Raccolto in unico volume da I Buoni Cugini editori e pubblicato per la prima volta in libro a giugno del 2015.
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%

venerdì 13 gennaio 2017

Luigi Natoli: I reali di Francia. Tratto da: Fioravante e Rizzeri


Che narrano i “Reali di Francia” infatti?
Narrano la storia come da Costantino imperatore romano derivasse per naturale discendenza tutti i principi illustri che governarono la Francia da quell’epoca fino a Carlo Magno, e con loro i valorosi che li accompagnarono e che ne furono il più bello ornamento. Orlando, che è il maggiore eroe, e diventò l’immagine del valore, della cortesia e della fede, che riassume il sentimento nazionale francese, nasce per i “Reali” in Italia, e in una grotta in Sutri, dove lo partorì Berta moglie di Milone conte di Anglante, e sorella di Carlo Magno, fuggendo l’ira di costui. Così egli è italiano non soltanto per discendenza, ma anche per nascita; italiano e cittadino romano. E l’orifiamma, la gloriosa insegna che si trasmette da re a re, e che evidentemente è il vessillo, in cui Costantino fece scrivere le famose parole “In hoc signo vinces”, e che forma il centro della storia, è pur esso italiano.
Fioravante e Rizzeri sono come Buovo d’Antona e come Orlando una parte dei “Reali”, e, come quelli, la più popolare. Non è il caso di investigare se Andrea da Barberino abbia attinto ad altri poemi, di cui era ricca la Marca Trivigiana e di cui si servivano i cantafavole nelle piazze; chi ha la pazienza di leggere lo studio che precede il “Fioravante”, nella Collezione dei testi di lingua, e gli studi sulla Epopea francese e sull’ “Orlando” di Pietro Raina, e i maggiori scrittori della storia letteraria d’Italia, può farlo; per noi il romanzo di Andrea da Barberino è tutto; noi non facciamo dell’erudizione; prendiamo quello che con tanta grazia e ingenuità narra lo scrittore toscano; e se di una cosa ci maravigliamo, è appunto che esso non sia letto oggi più dei romanzi gialli.
Io lo lessi giovanotto e ricordo che non potevo, se non difficilmente tralasciare la lettura; lo rilessi ora, e provai il medesimo diletto al racconto delle avventure subite e affrontate da Fioravante e da Rizzeri suo compagno e maestro, primo paladino di Francia e uomo senza macchia e senza paura. Comincia Fioravante con una monelleria, che lo spinge a lasciare il tetto paterno del re Fiorello; e di là si partono le sue avventure. Liberazione di giovanette, uccisione di nemici della fede, perdita di armatura rubatagli da un ladrone, prigioniero del re di Scondia, innamoramento con Drusolina, il suo valore come incognito e via via quello che gli succede da re, le persecuzioni di sua madre Biancadoro, che voleva dargli moglie, le avventure di Drusolina, che sola abbandonata, dà alla luce due gemelli, uno dei quali le viene rubato, e il duello dei due fratelli che non si conoscono, tutto ciò frammezzato di tanti episodi forma il romanzo, che spira un senso di giustizia e solleva gli animi nelle regioni del sogno. I nomi delle contrade non si sa dove trovarli, le distanze di parecchie migliaia di chilometri si percorrono in un tempo irrisorio, gli eserciti sono così innumerevoli da superare il numero degli abitanti delle città che li armano... Che importa? Siamo nelle sfere del sogno, nel quale ci piace navigare...
Tratto da: Prefazione dell'autore al romanzo, pubblicata nel Giornale di Sicilia del 16 dicembre 1936.
 
 
 
Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri
Pagine 308 - Prezzo di copertina € 19,00 - Sconto 15%
Nella foto il paladino Orlando, esposto al Museo Pitrè di Palermo.

mercoledì 11 gennaio 2017

Luigi Natoli: La setta segreta. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina,



Per la nobiltà messinese, l'avversario da combattere era po­tente. Aveva per sè la ricchezza, la coltu­ra, la tradizione; vagheggiava anche ­– ma non palesemente ­– ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indi­pendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze.
Egli era un affiliato alla Setta, fin da quando Giovanni Alfonso Borrelli, il grande scienziato che insegnava le dot­trine galileiane nello studio di Messina aveva fondata o riordinata questa asso­ciazione segreta; specie di carboneria o di massoneria che aveva finalità politi­che, l'indipendenza dallo straniero e la repubblica.
 
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
Prezzo di copertina € 26,00 - Pagine 954 - Sconto 15%
 
 

martedì 10 gennaio 2017

Alla guerra! Il romanzo di Luigi Natoli ambientato nella Francia della Prima Guerra mondiale.


Alla guerra!
Il romanzo di Luigi Natoli ambientato nella Francia della Prima guerra mondiale.
Pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia da Ottobre del 1914 e per la prima volta in unico volume edito I Buoni Cugini Editori a Ottobre 2014.
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 31,00 - Sconto 15%
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: La contadina e il capitano - Alla guerra!


Si ritrovò nella piazzetta, dinanzi il piccolo caffè dove era entrata seguendo Guy; salì la scaletta interna; entrò nella camera. Guy non c’era.
C’era ancora il cadavere del capitano, col suo profilo tagliente, coi baffi grigi quasi ispidi; disteso sul letto con le mani incrociate; ed era solo, chi poteva in quel momento vegliare un morto? Ella lo guardò con un misto di pietà, di ribrezzo, di curiosità. Sedette a un angolo della camera, sopra una seggiola bassa, e si mise a recitare le preghiere. Se ci fosse stata dell’acqua benedetta nella pila di porcellana appesa al capezzale del letto! Si alzò, guardò: c’era. Tolse allora la frondicella dell’ulivo benedetto, che era infilata di traverso all’anello della piletta; ne immerse le foglie nell’acqua, e spruzzò il volto, le mani, la divisa del morto. E le parve di aver reso un pio e doveroso tributo verso di lui; le parve che il morto dovesse esserne lieto e grato. Ella se ne sentiva più sollevata; posò l’ulivo fra le mani del morto, e ritornò a sedere e a pregare.
Ah quell’ulivo, simbolo di pace e di concordia fra gli uomini, posto dalle mani inconsapevoli di una povera contadina, fra quelle di un ucciso nella tremenda guerra di sterminio, quale profondità di significati attingeva negli abissi del pensiero! La fede ingenua, la pietà umana, si confondevano con la più feroce e spietata ironia. Era il crollare rovinoso di tutte le teorie umanitarie e sentimentali dinanzi alla realtà inesorabile; ed era anche l’eterna aspirazione a una divina armonia; pareva una protesta contro la crudeltà belluina della guerra; il vaticinio o l’augurio che dalle terre bagnate di tanto sangue umano germogliasse l’albero della pace universale…
Betty pregava; ma s’interruppe ad un tratto e tese l’orecchio....
 
Luigi Natoli - Alla guerra!
Prezzo di copertina € 31,00 - Sconto 15% - Pagine 954
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno

Luigi Natoli: La morte del capitano - Alla guerra!


Guy salì da una scaletta interna nella camera che sovrastava alla bottega. Il capitano era disteso sul letto, con le mani incrociate sul petto, e fra le mani la sciabola; così come certe immagini di guerrieri, sui coperchi delle tombe antiche. Ai piedi, il berretto.
Sulla pelle illividita, i baffi e i capelli apparivano più chiari. Nulla di spasmodico, sul volto; ma una calma soffusa da una ineffabile velatura di dolore; e fra le labbra un sottil filo di sangue nerastro, mal forbito, nella fretta di comporre il cadavere. Era stato colpito al cuore. Una palla gliel’aveva spezzato, lì su la giubba si vedeva il piccolo foro bruciacchiato: poche gocce di sangue la macchiavano.
Un prete, che l’aveva benedetto, disse:
- Il capitano è caduto in prima linea, alle 10; mentre incoraggiava i soldati, e intorno a lui son caduti sei soldati. Furono i primi. Dio li accolga nel suo grembo!...
Guy stette un istante immobile e silenzioso dinanzi a quel cadavere; la commozione gli agitava le labbra con un lieve tremolio nervoso. Sotto un aspetto burbero, rude, violento, celava un gran cuore, pieno di tenerezze pei suoi piou-piou. Li mandava in prigione per ogni lieve infrazione alla disciplina, arrabbiandosi, che pareva volesse divorarli; e poi dopo un giorno, andava a trovarli, li copriva di minacce… e li faceva uscire.
I soldati lo amavano. Guy aveva per lui un affetto filiale; ed ecco, la palla tedesca aveva spazzato quel gran cuore! Con l’animo gonfio di cordoglio, Guy si chinò, baciò in fronte il suo capitano, e uscì silenzioso come era entrato. Su la soglia vide Betty. La fanciulla lo aveva seguito; non sapeva bene perché, forse perché in quel gran sconvolgimento del borgo si smarriva e non sapeva dove andare, forse anche perché trovandosi sola, in mezzo a tutte quelle soldatesche, fra quel tumulto d’armi, fra lo scoppiare delle fucilate, le pareva d’esser più sicura, vicina all’ufficiale.

Alla guerra! - il romanzo di Luigi Natoli ambientato nella Francia della prima guerra mondiale.
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Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba


Fabrizio non aveva ancora venti anni; ma pareva ne avesse ventiquattro; alto, ben tagliato, forte, il volto quadrato, il naso leggermente aquilino; gli occhi vivaci e intelligenti; un insieme gradevole, una espressione di franchezza, un po’ sbarazzina; egli riusciva subito simpatico a tutti.
Rodrigo aveva tra anni meno di lui, e gli rassomigliava; però con una espressione meno ardita. Tutti e due vestivano con eleganza; il che, dato il regime paterno, poteva parere miracoloso. Perché il conte di Torralba era rigido, duro e autoritario nel governo della casa, come lo era nell’aspetto, con quel viso arcigno che pareva avesse bandito il sorriso dalle labbra sottili e strette.
Pieno di un esagerato concetto della sua autorità esercitava sulla famiglia un potere più che assoluto, dispotico: al quale aveva assoggettato anche la moglie, che era tutto l’opposto di lui; grassoccia, molle, sorridente, carezzevole, che si sarebbe forse abbandonata alla sua indole affettuosa ed espansiva, se non glielo avesse impedito la soggezione che le metteva il marito. Dal loro matrimonio erano nati cinque figli: don Francesco, che era il primogenito, due femine che erano nel monastero della Pietà, Fabrizio e Rodrigo; ma per il conte non esisteva che un figlio solo: il primogenito, al quale dava un forte assegno mensile, e inoltre appartamentino proprio, servitori, carrozze, piena libertà di rientrare in casa la notte, quando gli piaceva; di far debiti, che il conte pagava. Per lui soltanto la bocca del conte trovava sorrisi e parole affettuose; non già per vero sentimento di tenerezza, ma perché don Francesco era il rappresentante della futura discendenza dei Torralba; era il futuro conte; il ramo privilegiato dell’albero genealogico. Ai cadetti invece non assegnava che una sommerella irrisoria, che non sarebbe bastata neppure per le calze; sulla quale essi dovevano vestirsi decorosamente, pagare il cappellaio, il calzolaio, fornirsi di biancheria e di pizzi, pagare il barbiere, far regali e dar mance: ragione per la quale nelle loro tasche i ragni avrebbero potuto filare le loro reti. Essi dovevano perciò industriarsi, per non sfigurare nella società aristocratica nella quale dovevano – per onore del casato – vivere. E facevano debiti col sarto, col calzolaio, con tutti. E li pagavano quando potevano; né i creditori protestavano. Oltre alla fiducia che avevano nei signori, ritenevano quasi dover loro far figurare i giovani cadetti delle nobili case; e pareva loro un disonorarsi rifiutandosi di vestirli con quella proprietà che conveniva alla condizione di essi. Del resto si rifacevano un po’ sui primogeniti e sui padri.

Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
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Luigi Natoli: I duelli di Fabrizio di Torralba.


Strana vita la sua, che l’obbligava a stare con una spada in pugno. E tuttavia egli riconosceva che non era un attaccabrighe: vivace sì, e insofferente di prepotenze e ingiustizie; e se si batteva gli era appunto per questo. Facendo l’esame della sua vita si trovava già con una ventina di duelli sulla coscienza. Gli ultimi sostenuti a Parigi non avrebbero potuto essere più buffi, salvo uno, con quel capitano Verger che aveva creduto di offrirsi come un successore di Montlimar e aveva suscitato lo sdegno di Rosalia. Fabrizio aveva trovato ingiuriose quelle proposte, il capitano gli aveva detto che non aveva bisogno di lezioni; Fabrizio aveva rimbeccato, ne era corsa una sfida, si erano battuti, il capitano aveva ricevuto un colpo alla testa che lo aveva tenuto per un mese a letto: Fabrizio un colpo al braccio e se l’era cavata in quindici giorni. Ma gli altri duelli? Li passava in rassegna. Una volta si era battuto perché aveva riso al vedere un moscardino con un enorme colletto che gl’imprigionava il mento, e così largo che il capo gli si moveva dentro come la testa di una tartaruga nel guscio. Il moscardino si era fatto rosso come un gambero, lo aveva investito con un “che c’è da ridere imbecille?” al che egli aveva risposto: “rido perché ho trovato uno più imbecille di me”. Il moscardino aveva alzato il bastone a spirale. Fabrizio gli aveva buttato in faccia il vino di un bicchiere, sciupandogli la cravatta, la camicia e il panciotto di seta bianca. E naturalmente si erano battuti. Povero bellimbusto!... ci aveva rimessa un’orecchia, portata via da un colpo di sciabola. Un’altra volta, per un cane. Un signore batteva spietatamente un cane, che non voleva seguirlo perché aveva la testa a una graziosa cagnetta. Egli aveva fermato il braccio di quel signore, dicendogli: – “Oibò! Non è da animo gentile battere così le bestie!” – Quel signore gli si era voltato rabbiosamente: egli, col suo sorriso beffardo, si era scusato: – “non sapevo che foste idrofobo”. – Quello a sentirsi preso per cane lo aveva sfidato lì per lì. Si erano battuti; e Fabrizio lo aveva ferito nella mano, perché si ricordasse di non picchiare più le bestie a quel modo inumano. Un altro duello aveva avuto per difendere un commediante che non godeva le simpatie di una parte del pubblico della Comedie Francaise. Uno spettatore lo interrompeva durante la recita con sghignazzamenti e rifacendogli caricatamente il verso. Fabrizio gli aveva osservato puntamente che non c’era carità a tormentare quel pover’uomo, e quello a rispondergli che se non gli piaceva se ne andasse. Fabrizio aveva ribadito: – “Me ne andrò con voi, signore, per avere il piacere d’insegnarvi la buona creanza”. L’altro, fattosi più arrogante, s’era subito alzato per dare uno schiaffo, che era rimasto in aria perché Fabrizio, più lesto, gli aveva fermato la mano, ripiegandogli il braccio, e costringendolo a schiaffeggiarsi da sé. Erano stati separati, ma il domani si erano battuti: l’avversario, confuso dal giuoco rapido e insostenibile di Fabrizio, gli aveva voltato le spalle, e il ferro di questo lo aveva colpito in una natica. – È il solo posto dove vi si possa colpire!” – gli aveva detto Fabrizio, andandosene.

Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba
Prezzo di copertina € 24,00 - sconto 15%
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lunedì 2 gennaio 2017

Luigi Natoli: L'Abate Meli


Pagine 725 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%
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Luigi Natoli: L'Abate Meli. Tratto da Musa siciliana.


Tratto nella sua versione integrale da: Musa Siciliana - Casa Editrice Caddeo nel 1922 e pubblicato a seguito del romanzo nel volume L'Abate Meli edito I Buoni Cugini Editori. 

Giovanni Meli, palermitano (1740 – 1818) medico e professore di chimica, vissuto fra dolori familiari e poveramente, ma d’animo integro e sereno. È il massimo poeta dialettale, e nn soltanto della Sicilia, per ricchezza di fantasia, varietà di toni, sentimento della natura, forma pieghevole a tutte le sfumature del pensiero, efficacia di rappresentazione, freschezza di colorito; per un certo senso di arguta, e talvolta maliziosa, bonomia, e profondità di pensiero. Grandissimo lirico e mirabile artista, che i sopracciò della critica moderna, ignoranti del dialetto, non sanno conoscere e apprezzare. La sua produzione è vasta e diversa; la sua fama poggia sulle bucoliche e sulle odi; ma i poemi, i poemetti, le favole non son meno degni di lui. Le sue poesie sono state tradotte in latino, in italiano, in francese, in inglese, in tedesco. Se ne son fatte molte edizioni; la più recente è quella dell’avv. E. Alfano, che comprende tutte le cose inedite. L’Alfano è un ricercatore innamorato di tutto ciò che riguarda il gran poeta; ed è un benemerito degli studi siciliani. Attendiamo il lavoro promessoci da G.A. Cesareo, che, poeta, critico, e siciliano, è il meglio capace di intendere e fare intendere il Meli. I saggi pubblicati ne sono prova.
 
 
Alla presentazione seguono alcune poesie di Giovanni Meli scelte da Luigi Natoli e da lui stesso commentate, esattamente come nel saggio letterario Musa Siciliana, pubblicato con la casa editrice Caddeo nel 1922

Luigi Natoli: L'Abate Meli
Pagine 725 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%
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Luigi Natoli: L'abate Meli. Studio Critico.

Pubblicato per la prima volta dalla casa editrice del Giornale Il Tempo nel 1883; pubblicato a seguito del romanzo nel volume: L'abate Meli nella edizione I Buoni Cugini Editori.
  
Se qualcuno avesse voglia di scrivere una biografia melica, troverebbe innanzi a sé un numero considerevole di critici e letterati abbastanza conosciuti che fan testimonianza di quanto studio sia meritevole questo nostro poeta. Ma si accorgerebbe ancora che nessuno di tanti critici ha pensato di esaminare il Meli da quel lato onde è meritamente grande: chè ognuno o partendosi da preconcetti, o rimanendo a la esteriorità de le poesie, o togliendo a esaminare alcuna de le doti de la forma, non è penetrato a scoprire quel che ci sia sotto al sorriso bacchico di questo nuovo pagano, e donde provenga questo sorriso.
Lo stesso De Sanctis, ne la sua conferenza guarda il Meli ne la sola Fata Galanti, componimento giovanile che manca di quella maturità filosofica, o meglio scientifica, che domina le Bucoliche e le Odi.
Ma per conoscere il Meli non basta nemmeno leggere tutte le poesie; Egli non ci rivela che una parte di sé stesso. Si vuol leggere anche le lettere in parte inedite, i numerosi manoscritti, il suo lavoro scientifico su la Natura, tutti quei pezzi di carta, che paiono insignificanti, ma che contengono un pensiero, un’idea, una parola del grande poeta, pensiero, idea, parola che illustrano, che finiscono quanto si contiene nelle poesie.
Tutto questo tesoro di documenti esiste ne la Biblioteca Comunale di Palermo in diciotto volumi, eredità preziosa, che ci narra tutta la vita del Meli; vita che pare un sorriso perpetuo ed è una lotta sanguinosa.
Lo studio critico che io affido per le stampe si ingegna di presentare il Meli dal suo vero aspetto; e perché quel che verrò dicendo non paia gratuita affermazione, ho illustrato il mio lavoro con l’aiuto dei manoscritti. E qui, poiché mi si potrebbero muovere degli appunti, m’affretto a dichiarare che io non ho inteso né di scrivere una vita, né di illustrare i tempi del poeta; ma semplicemente e puramente di esaminare nel modo più completo donde e come proceda l’arte sua, perché egli indipendentemente dal suo genio poetico sia sempre una grande figura de la nostra istoria letteraria, perché egli sia grande non solo come poeta ma come scienziato.
Forse a tanto non sarò pervenuto; che le molestie e le cure affannose de la mia vita han turbato sovente quella serenità d’animo necessaria al critico; ma ho fede, se non altro, che questo mio studio scuota un po’ i letterati di Sicilia, perché ci arricchiscano e presto di un lavoro più completo e più finito. Lavoro, a cui da un pezzo io avevo messo mano, ma al quale non ho potuto più attendere, costretto come sono a un’arida e pesante fatica che mi dia il pane cotidiano...
 
Luigi Natoli: L'Abate Meli. Studio critico.
tratto dal volume L'abate Meli. Pagine 725 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15%.