Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

“Viva l’Imperatore”
era il modo in cui i nobili siciliani e tutti i sudditi salutavano l’Imperatore Federico II: ed è lui al centro del romanzo, questo grande personaggio che Luigi Natoli ci presenta in tutte le diverse sfaccettature della sua figura.
Il quadro storico è quello delle Crociate al Santo Sepolcro, in Gerusalemme, condotte dall’Imperatore e la continua guerra che il Papa promuove nei confronti di quest’ultimo.
Il romanzo si svolge infatti fra Palermo e Gerusalemme.
“Gregorio IX era nipote di Innocenzo III; e oltre ad essere un fanatico assertore della teoria di Gregorio VII sulla autorità universale del pontificato, rinnovato da Innocenzo, era puntiglioso e rissoso: e s’era messo in testa di soggiogare e umiliare Federico, come Gregorio VII aveva umiliato Arrigo IV. Non si poteva escludere che i Papi avessero, oltre e sopra gli interessi materiali un grande interesse a togliere i Luoghi Santi dalle mani dei Musulmani e di sostenere quell’ombra di regno franco di Gerusalemme, che dalla conquista di Saladino non si era più potuto riavere”.
Poiché i disegni di Federico II cozzavano con gli interessi del Papato, questi era stato scomunicato per ben tre volte
Il pretesto era sempre quello della mancata promessa di andare in Terra Santa a liberare il Sepolcro di Cristo. Al Papa, nipote di Innocenzo III ed educato a quella scuola, non era sfuggito quale minaccia fosse per il dominio temporale la politica unitaria perseguita dall’Imperatore, da mirare a formare dell’Italia, dall’Alpi a Trapani, un grande regno, il quale congiunto con quello di Germania nella persona del monarca, avrebbe costituito un dominio così vasto e potente da far dell’Impero una realtà viva come quella di Carlo Magno. Per impedire l’attuazione del grande disegno di Federico i papi avevano ricorso ad ogni espediente e infine, motivo ideale e santo, avevano strappato al giovane Federico, in compenso della corona imperiale, la promessa di andare in crociata nei Luoghi Santi. Se non vi fosse morto, vi avrebbe logorato le sue forze migliori e scemata la sua potenza.
Questi erano nella loro intima e reale natura le cause della lotta e i moventi della condotta del pontificato. E l’acredine e la violenza dell’inusitato linguaggio di esso nasceva dal non avere dall’uso delle armi spirituali raccolto quegli effetti che ne sperava; né Federico né i suoi sudditi se ne atterrivano. Federico anzi le controbatteva con eguale violenza della parola e quella delle armi più persuasiva, sapeva giocare d’astuzia. I tempi di Canossa erano tramontati.
Nella continua pianificazione di denigrare la figura di Federico II nei confronti del popolo, il papa trovava molta collaborazione nei francescani “I francescani erano venuti da un paio di anni, avevano comprato alcune case e una vigna fuori della città e ne avevano fatto il loro convento; ma erano malvisti dai frati domenicani, che vedevano in essi dei pericolosi concorrenti e dai preti secolari, a cui la professione di povertà del nuovo ordine pareva eresia nociva alla loro avidità di ricchezze. Nuovi venuti, non avevano ancora fatto proseliti siciliani; erano quasi tutti dell’Italia di mezzo e avversi all’Imperatore, la cui lotta contro le pretese della Curia pontificia diventava di giorno in giorno più aspra”  

FEDERICO II

Luigi Natoli descrive Federico II in diversi passi del libro: un uomo dalla mente così aperta da progettare l’Italia unita già nel 1200 e  che per seguire i suoi scopi non teme neppure le scomuniche papali. Anzi.
E chi diceva che era figlio di un beccaio di Iesi, perché Costanza, vecchia, aveva simulato gravidanza, e chi invece che era figlio del diavolo; i più benevoli lo dicevano nato dal sacrilegio perché Costanza era monaca professa. Tutte bugie. Costanza, figlia postuma di Ruggero II era nata nel 1154; non era mai stata monaca professa; era stata maritata ad Arrigo VI lo Svevo nel 1185, quando cioè aveva trentuno anni; Federico era nato nove anni dopo, nel 1194; e perché non vi fossero dubbi sulla legittimità della nascita, al parto avevano presenziato gente della Corte. Cose sapute; ma non importa: i frati mettevano in gito le menzogne, gli scrittori che tenevano pel Papa le consacravano nelle opere; lo stesso Dante abboccò alla monacazione di Costanza
Lo scrittore dà una descrizione fisica del giovane Federico:
Federico non aveva toccato ancora i ventotto anni, era nel fiore della sua giovinezza. Di statura media, di giusta membratura, rosso di carne, un po’ calvo ma biondo di capigliatura che tendeva al rossastro, come quella del padre; raso alla maniera dei Cesari; nel suo volto si alternavano e temperavano a vicenda l’orgoglio, la violenza, la gentilezza e l’umanità; ma sulla fronte gli splendeva come il raggio di una grande idea: e in tutto l’aspetto una maestà che incuteva soggezione e nel tempo stesso una benevolenza che incoraggiava e conquistava.
E del suo abbigliamento. 
Era vestito di una veste lunga color verde, serrata ai fianchi di una cintura color rosso cupo; gli orli della veste e delle larghe maniche erano ornati di un largo gallone d’oro e di seta, e sul petto gli scintillava un fermaglio con un grosso topazio circondato di piccoli smeraldi: le gambe aveva fasciate di candidi lini, stretti da lacciuoli di fil d’oro; e i piedi calzati da stivaletti di seta verde, sul cui dorso erano dipinti due leoni. No, non era il rozzo e fiero erede di quell’Arrigo VI tutto ferro e ferocia; era l’erede di Ruggero e di Guglielmo, che raccoglieva dopo tanti secoli la corona imperiale di Carlo Magno e di Cesare Augusto
Qualcosa sui sistemi “fiscali e tributari” 
L’Imperatore gli aveva fatto grazia ma non gli aveva restituiti i feudi, che aveva venduto come soleva, tutte le volte che ne confiscava. Ciò che succedeva con qualche frequenza pel bisogno di denari, che le brighe col Papa, le ribellioni coi baroni, le discordie in Germania, i comuni riottosi dell’alta Italia faceva sempre più urgenti. Federico coglieva ogni pretesto, e anche per lievi colpe bandiva, imprigionava e confiscava. C’era un esagerato amore per l’Impero della legge, che voleva osservata scrupolosamente, ma c’era anche la necessità ancor più esagerata di accumular denari” 
Come si presentava quando era necessario fare un annuncio al popolo
Federico veniva sotto un baldacchino, fra due file di militi tedeschi e latini, e dietro a lui altri dignitari del regno, e cavalieri e guardie e scudieri. Un corteo abbagliante, magnifico, maestoso, al cui passaggio si levavano da ogni parte le grida di “Viva l’Imperatore”.
Essere la moglie di Federico II non era semplice tanto che Iolanda, a causa della sua gelosia, morì di parto per non essere assistita da un medico.
Nessun uomo infatti poteva, pena la vita, entrare nella camera della regina, neppure i fratelli, neppure il padre, senza averne facoltà da Federico. Egli era diventato geloso più di un arabo: Iolanda era tenuta chiusa nel palazzo, servita da un esercito di ancelle e schiave e circondata da eunuchi che custodivano tutte le porte. Non le mancava nulla: soltanto la libertà
Ma di contro con le donne aveva delle strane abitudini
L’Imperatore viaggiava sempre in bella compagnia, aveva una specie di piccolo harem, che conduceva con sé; belle donne orientali, con le loro ancelle e gli eunuchi per custodirle, le quali viaggiavano in palanchino. Anche esse erano venute a godersi lo spettacolo: qualcuna velata alla maniera musulmana, altre a viso scoperto. Ed erano oggetto di curiosità e malignità
Federico II uomo di grande cultura e promotore della stessa
Gran promotore di studi e di una cultura laica, secondo i tempi, l’Imperatore, aveva quattro anni prima fondato l’Università a Napoli, per farne un centro di luce nel regno; aveva dato nuovo impulso alle famose scuole di medicina di Salerno; chiamato intorno a sé matematici e filosofi; spediva dotti a Tunisi per proporre e farsi sciogliere problemi di scienza. La fama che Michele Scoto ancor giovane aveva levata, e la sua conoscenza dell’arabo e dell’ebraico, indussero Federico a farlo venire in Italia; e il dotto inglese accolse l’invito e si installò a corte, anche per la sua scienza astrologica, della quale l’Imperatore aveva bisogno. Egli, per quanto spregiudicato e moderno, credeva nell’astrologia e consultava spesso i suoi astrologi, dei quali non ci fu mai penuria in corte e meritatamente celebre fra essi maestro de Palermo; e credeva anche nella magia. Contraddizioni spiegabili nei tempi. Coloro che gli stavano intorno dovevano essere dotti e amanti della dottrina. Quelli che si dilettavano di poesia invece se ne stavano nella corte, insieme coi dotti che l’Imperatore teneva sempre con sé, avido com’era di imparare e cultore anche lui di scienze e dell’arte di trovare in rima. Ed esempio stupendo, trovava il tempo di occuparsene e di conversare coi dotti, tra le cure non lievi dei suoi vasti stati, e le brighe con la Chiesa o piuttosto col papa Gregorio che non gli dava tregua; e quelle coi baroni di Germania e di Puglia che non volevano sottomettersi all’Impero della legge 
Federico II appassionato di caccia e di falconeria
Federico era appassionato per la caccia, specialmente col falcone. La sua falconeria era la più ricca e la migliore di quante se ne conoscessero, perché egli era un esperto allevatore
Federico II acclamato dal popolo di Palermo
La folla lo seguì per le strade della Galca, acclamandolo; ed egli rispondeva sorridendo, come se in quel popolo, che lo considerava non di sangue tedesco ma normanno, sentisse la forza del suo diritto di principe indipendente. Per pochi giorni la reggia di Palermo riebbe gli antichi splendori; e nel lusso orientale dei mosaici, nelle sale decorate di marmi preziosi, egli si sentì veramente di re del più bel regno d’Europa.

 I PERSONAGGI

Fanno da cornice al grande personaggio di Federico II altri protagonisti, le cui storie si intrecciano fondendosi in un romanzo denso di emozioni e tragiche vicende. La storia di amore tra Rinaldo e Vanna “pure qualche volta i loro occhi s’incontravano e l’uno e l’altra sentivano nelle loro anime sbocciare un sentimento nuovo, tenero e dolce, che dall’intimo salì sulle bocche e si espresse in un sorriso che nessuna lingua potrà mai definire salvo quella tacita e senza vocaboli dell’amore” e la forte personalità di Elena Chiaramonte “Aveva una grande stima di sé; un po’ orgogliosa, pareva insensibile all’amore; pregiava gli uomini valorosi e i bei gesti, anche se crudeli, purchè avessero dell’eroico
Ma ecco i protagonisti del romanzo in ordine di apparizione: 
Messer Paganello di Calatafimi  “Era un bel giovane di ventotto o trent’anni, di larghe spalle e petto ampio, ma i fianchi stretti ed agili. Bruno di carnagione e di capelli, era di schietto tipo italico. Nel volto che pareva intagliato con una scure, nel lampo degli occhi, si rivelava una volontà risoluta e tenace, indice di una coscienza che sapeva quel che voleva e non conosceva ostacoli. La sua famiglia era una delle più note e possenti, per parentadi con alcune delle principali, come i Prefolio, i Mosca, i Rosso, i Chiaramonte; il padre di Messer Paganello era stato giustiziere, cioè capo di tutte le magistrature, del vallo di Mazzara
Messer Gualtiero de Urziliana, barone di Baida (adesso una borgata in provincia di Palermo) “Messer Gualtiero non era più giovane; aveva superato i cinquant’anni e tra i capelli e la barba d’un castano rossiccio, biancheggiavano troppi fili d’argento. Nella sua giovinezza aveva combattuto, specialmente nelle fazioni contro quel barbarico Marckwald che Arrigo VI aveva condotto e lasciato in Sicilia, e che aveva forse, sognato di strappare la corona al piccolo Federico. Messer Gualtiero era di origine normanna e devoto all’Imperatrice Costanza

Madonna Elena Chiaramonte, moglie di Messer GualtieroMadonna Elena discendeva da un ramo dei Chiaramonte, venuti in Sicilia coi Normanni e ben presto diventati numerosi e potenti. Rimasta orfana e a carico di un fratello, anelava ad avere uno stato indipendente, o almeno avere una casa sua, servi suoi, vassalli che ne riconoscessero la signoria e le ubbidissero. Fin da fanciulletta aveva dimostrato un’indole insofferente di soggezione, ambiziosa di impero, autoritaria; una gran forza di volontà e una irremovibilità nelle sue risoluzioni, che confinava con la testardaggine. Queste sue qualità morali disponevano di una gran forza, forse la più possente: la beltà. Madonna Elena era bella; e come la sua omonima del mito antico, avrebbe in una gara riportata la palma: giacchè nonostante la naturale fierezza che in certi momenti la rassomigliavano a Pentesilea o a Camilla o a Bradamante, quando voleva, e quando si trovava tra gli umili, sapeva circondarsi delle grazie più seducenti”
Rinaldo del Landro, protagonista del romanzo “Quel giovane, le cui braccia enfiate sotto la manica rivelavano una muscolatura di acciaio, nella espressione del volto la coscienza della propria forza, formava con l’enorme belva un gruppo meraviglioso”
Messer Imberal del Landro
, padre di Rinaldo e signore di Gummarino. “Aveva seguito con fedeltà il re Tancredi, combattendo l’invasore Arrigo VI di Svevia; morto Tancredi aveva posto la sua spada al servizio della vedova regina Sibilla e del piccolo re Guglielmo III; li aveva difesi finchè aveva potuto; ma quando la regina, il reuccio, lusingati con patti onorevoli, caddero in potere dell’Imperatore, che violò i patti e poi barbaramente distrusse tutta l’infelice famiglia reale, il prode cavaliere era sfuggito per miracolo all’insidia tesa dall’Imperatore Arrigo VI. I beni gli erano stati confiscati e su di lui pesava il bando come fellone. Riebbe il suo feudo di Gummarino dopo circa sei anni di vita povera e raminga. Egli mi aveva vietato di cercarlo, temendo per il figlio Rinaldo, che voleva sottratto alla vendetta dei Chiaramonte”
Isidora del Landro, sorella di Messer Imberal “Damigella Isidora era una spera di sole, tanto la sua bellezza abbagliava: ed era tenera e pia. Tutti, fin dal primo giorno le vollero bene, ed il castello non parve più solo né triste. Io stesso cantavo le più liete e graziose canzoni e raccontavo le più attraenti storie per ingannare il tempo. Ahimè! Questa pace non doveva durare lungamente!”
Ughetto Chiaramonte, padre di Elena “Uno ve n’era tra questi il più superbo e il più prepotente; messer Ughetto Chiaramonte, signore del Castello di Cristia.”
Vanna, protagonista femminile del romanzo, “Rinaldo che aveva conservato una confusa memoria della fanciulla, rimase attonito dinanzi alla meravigliosa bellezza di Vanna. Gli tornarono alla mente le parole di Stefano su Isidora: era una spera di sole. Sebbene il sole della spiaggia avesse dorato un po’ il suo volto, la carnagione aveva quel dolce pallore caratteristico delle donne di Sicilia; e i capelli neri e ondulati le chiudevano il viso, come una cornice d’ebano. Le linee e le proporzioni del volto avevano la finezza e l’armonia statuaria di una Ninfa greca: di profilo ella pareva un cammeo siracusano. Il corpo aveva ancora le grazie efebiche dell’adolescenza, e le mani e i piedi sottili rivelavano la gentilezza del sangue”
Madonna Eufemia degli Empuriis “E sedette di nuovo al suo posto, col capo chino sul petto e dentro di sé diceva – Rinaldo, se tu fossi qui, tu solo intenderesti quello che ti sacrifico e con quale supplizio!”

I LUOGHI DEL ROMANZO

Palermo nel Sec. XIII …”Nel secolo XIII perdurava ancora, in Palermo specialmente, la toponomastica araba, sebbene ormai i Saraceni ridotti a poche decine di migliaia, fossero stati allontanati dall’isola e concentrati da quattro anni a Lucera, e in Palermo non si vedesse che gli schiavi e qualche musulmano che esercitava industrie, e on aveva preso parte alla insurrezione, tuttavia molte strade si chiamavano ancora col nome arabo, divenuto popolare. Questi Sera erano strade sulle mura; oggi si direbbe boulevards, ma nel duecento non si sapeva come tradurre il vocabolo arabo; e la tradizione di circa quattro secoli ne prolungava l’uso. Il Sera del Kes, ossia della calce, corrispondeva a quel tratto della odierna via del Gelso che va dalla Chiesa dei Tre Re sin quasi allo sbocco della via Maqueda. Da questo punto e forse dalla porta degli Schiavi che si apriva dove ora è la discesa di Santa Marina, fino alla piazzetta delle Vergini prendeva il nome di Sera della porta della Salute (basa as Safa) e, più in giù, di S. Antonio, dove andava a finire. Dalla parte superiore, cioè dalla attuale chiesa dei Tre Re in su, si chiamava Sera di S. Agata. Siccome questa lunga strada era una delle principalissime della città antica, chiusa ancora e distinta dai borghi e dalla città nuova, vi sorgevano molti e nobili palazzi, dei quali qualche avanzo trecentesco è ancora visibile tra le brutte e volgari case che ne presero il posto
Il Cassaro
: “Le strade di Palermo offrivano allora uno spettacolo variopinto. La strada, che il popolo chiamava Cassaro e che ufficialmente era detta Ruga Marmorea perché lastricata di marmi massicci, era di qua e di là fiancheggiata di palazzi turriti e di portici, sotto i quali erano botteghe di stoffe e qualche taverna, non lurida, tana affumicata, ma ornata di marmi e di pitture. Per la strada e sotto i portici si aggirava una folla varia e cosmopolita. La gente di razza greca si conosceva al vestito oltre che al volto: gli uomini barbuti, con una specie di casco in capo con lunghe vesti, e sopravvesti, larghe cinture con stole ricamate, le donne con manti fermati al cinto da larghe stole; con velo cadente su le spalle, fermato sul capo da un diadema d’argento o di metallo dorato. Là ebrei, con in capo un piccolo turbante, una tunicella sopra una lunga veste; là un saraceno, bruno col mantello bianco; più in qua un cavaliere teutonico, con la sopravveste scura, la croce rossa sul petto; cavalieri italiani col vestito a gheroni. Il Duomo, con le sue torri celle svelte e ricche di colonne e di finestre con le sue grandi arcate, le sue absidi ad archi intersecantisi di tufo e di lava; al cospetto di quelle chiese con le cupole dorate alla maniera musulmana, o rosse che parevano ardenti, e i muri rivestiti di marmi e di mosaici d’oro. Questo era un paradiso che inebriava gli occhi. E quali profumi esalavano quelle vigne, quei giardini che si alternavano con le case, coi palmizi alti e molli e i pini odorosi aperti come ampi ombrelli. Lo spettacolo mutava solo che mutassero cammino: le corporazioni delle arti e dei mestieri avevano ciascuna la propria contrada. Questa via era fiancheggiata da botteghe di cambiatori, coi banchi e le bilance; quell’altra non aveva che fucine di fabbri ferrai e l’altra era di merciai o di profumieri o di oliandoli. Un’altra da spadai e balestrieri: qui erano materassai, lì maccheroni, più giù fabbricanti di piatti. Uscendo dalle mura del Sera al Kes, nell’avvallamento del Papireto, la scena mutava aspetto; la palude con le ripe folte di papiri e di canne, tra le quali svolazzavano uccelli di palude, cui dei cacciatori con falchi e sparvieri davano la caccia: dei mulini da franger canne zuccherifere o grano sorgevano lungo il fiumicello che scaricava le acque della palude a mare. Sulla via opposta altri quartieri, quello di Siralcadi più alto, quello della Conceria più giù: case alte e basse, torri di palazzi e campanili di chiese, e palmizi e pini, e orti, come fosse un’altra città. E ancora più giù un quartiere pieno di traffico, di logge, di mercanti, di marinai; indi il porto col castello alla bocca per difenderlo. La reggia di Palermo, prima sedes corona regi set regni caput, come si legge nella lapide sotto il portico della Cattedrale, era così splendida e magnifica da non essere superata che dai palazzi di Cordova e di Costantinopoli. 

Il Castello di Baida, residenza di Messer Gualtiero de Urziliana – “Nel castello di Baida si era in gran faccende, per preparare la roba al barone che doveva partire per recarsi al Parlamento, convocato dall’Imperatore in Capua alla fine di Novembre di quell’anno 1227..”

Il Duomo di Monreale
..”Ma quando madonna Elena entrò nel Duomo e vide sfolgorare gli ori dei mosaici tra le colonne, e splendere i marmi variopinti, rimase come rapita, non sapendo se era in terra o in cielo, che le sembrò un pezzo di paradiso piovuto sul dorso di quel colle. Se tanta bellezza era a poche miglia dalla città, come un riflesso di questa, che cosa non avrebbe essa veduto in Palermo, che era la sede regia?

Il Palazzo Reale, sede regia di Federico II…”Quando madonna Elena dopo essersi abbigliata convenientemente si recò al palazzo regio col marito, non potè trattenere la sua meraviglia al cospetto dell’ampia mole, che uscendo da una traversa della ruga del Pissotto le si parò dinanzi agli occhi. A sinistra presso l’aula regia, sorgeva una torre di mattoni, simile a una rossa sentinella avanzata, per custodire il passo e vigilare l’aula, e dove spesso i re tenevano parlamento. In fondo era il palazzo. 
Due torri di grandezza mai vista sorgevano alle due estremità: una delle quali dominava il burrone del Kemonia, girando da mezzogiorno a ponente per seguire la roccia su cui era edificata. Non grandi finestre; ma feritoie, per quattro piani, rompevano il grigio caldo della muraglia costruita da enormi conci squadrati; alti merli rincorrevano lungo il fastigio assai semplice. Era la torre Greca. L’altra torre, alla estremità opposta, era di forma quadrangolare, alta e massiccia, coronata da merli; soprapposta a una specie di bastione merlato, simili a quelli che fiancheggiano il castello della Zisa; sormontata da cupolette, che si intravedevano tra i merli. Feritoie e finestre, alcune di esse bifore, si aprivano in vari piani, fra le ogive ricorrenti sulla facciata. Era la torre Pisana. Fra le due torri correva un doppio ordine di portici, con svelte colonne, sulle quali si voltavano le ogive. Ma i portici erano spezzati nel mezzo, dalle Absidi alla chiesa di S. Pietro, che si avanzavano sulla linea dei portici, che si avanzavano con le loro ogive intersecantisi, come quelle della Chiesa di S. Spirito e del Duomo, e le fine strette che lasciavano intravedere il luccicore dei mosaici.Ma la meraviglia di madonna Elena si accrebbe entrando nel palazzo. La vista della Corte sul doppio portico, con la fontana nel mezzo protetta da una cupola sorretta da otto graziose colonne, con la grande scala, ornata di leoni marmorei; i marmi e i mosaici che splendevano sulle pareti del portico superiore, le colonne svelte, i capitelli antichi decorati di dorature; tutto questo per madonna Elena era cosa neppure immaginabile.
La sala grande, ove l’Imperatore sedeva, era rivestita di marmi bianchi incorniciati in fasce di mosaico a disegni geometrici; e ornata di aquile sveve e scudi normanni e rosoni di porfido e di granito e di intarsi marmorei. Per tutto il giro della sala correva un ordine di colonne di cipollino, che formavano come un corridoio aperto o come delle navate minori; alle quali si appoggiava il soffitto ad alveoli, dipinto in celeste con arabeschi bianchi e rossi e d’oro. Le volte degli archi e i pennacchi erano rivestiti di mosaici che rappresentavano scene cavalleresche e cacce; arceri e cavalieri, leoni e cinghiali e cervi, cani, fra palmizi ed alberi pieni di pomi, con una festa di colori e di oro che abbagliava. Fra le ultime arcate pendevano tappeti e arazzi di seta vaghissimi, e più in alto ondeggiavano lievemente stendardi bianchi con l’aquila imperiale nel mezzo.
L’altra sala pareva un piccolo tempio; nella luce diffusa dolcemente dalle finestre aperte in una cupola azzurra e stellata come un cielo di primavera, madonna non vide che un barbaglio di oro e di colori. L’Imperatore era lì, seduto sotto un padiglione di seta sparso di piccole aquile, accarezzando un bel vetro, che guardava con gli occhi dorati i nuovi venuti. Intorno a lui erano altri cavalieri, ma la dama non ebbe occhi che per l’Imperatore”

Il Quartiere dell’Albergheria, dove abitava Vanna con il suo protettore, prete Matteo “Il mattino dopo, quando gli parve l’ora si recò all’Albergheria dove prete Matteo aveva preso alloggio in casa di un altro prete, di rito greco, prete Demetrio, che godeva di un piccolo benefizio nella chiesa di S. Nicolò de Cuba. Questa chiesa sorgeva nella ruga dell’Albergheria in prossimità del mercato che allora serbava, come molte contrade e quartieri, il suo nome arabo di Segebaralat, ossia il mercato di Baralat, che era un villaggio presso la Rocca, donde venivano ortolani e fruttaioli e che anche oggi, con lieve mutazione, serba l’antico nome nella piazza di Ballarò. Poco lontano dalla chiesa greca, ne fu eretta una di rito latino – come si soleva fare – che si chiamò appunto San Nicolò dei Latini ed è l’attuale parrocchia dello stesso nome”. 

Il Convento della Martorana, “Allora il monastero fondato da trentadue anni, era piccolo, allogato nelle case dei fondatori Goffredo e Luisa Martorana, da cui ebbe il nome delle quali case esiste un portico dietro la chiesa dell’Ammiraglio. Aveva una chiesetta propria: e non fu che due secoli e più dopo che ingranditosi, si aggregò quella quella dell’ammiraglioche prese il nome col quale è intesa anche ora di chiesa della Martorana….La badessa li tenne per circa un’ora, accavallando interrogazioni per soddisfare la sua curiosità e facendo le lodi del monastero, che se era il terzo sorto in Palermo, non era meno ricco di quelli del Salvatore e del Cancelliere, che i Martorana, gloria alle anime loro, l’avevano ben dotato”.

Il Crocefisso della Cattedrale  Federico Chiaramonte era signore di Sutera e aveva anche una casa in Palermo; nella quale anzi era venuto ad abitare da quasi un decennio, per la devozione verso un grande Crocefisso in legno, mandatogli con molte reliquie dal suo venerabile fratello, frate Atanasio, patriarca di Alessandria. Crocifisso mirabile, scolpito nientemeno che da quel discepolo di Gesù, Nicodemo, che lo seppellì: ma la testa era stata miracolosamente scolpita da un angelo, di notte, non essendo Nicodemo riuscito e disperando di riuscire a dare l’immagine divina del Maestro. Questo, che si legge nella lettera del patriarca Atanasio, rendeva preziosissimo il Crocifisso: tanto che molti anni dopo Manfredi Chiaramonte, primo conte di Modica, non credette degno di accoglierlo nella casa di un privato e nel 1309 lo pose in una sua Cappella nella Chiesa di S. Nicolò della Kalsa, e due anni dopo lo trasportò e lo donò alla Cattedrale, dove si trova ancora, e dove ogni venerdì viene scoperto ai devoti

 USI E COSTUMI

 La cassata siciliana: Volle anche da parte sua contribuire a quel desinare, e domandata licenza andò nella città antica, che aveva preso il nome di Cassato, dove erano botteghe di leccornie. L’arte culinaria raggiunse in Sicilia l’eccellenza, tanto che da qui i Romani dell’Impero traevano i migliori cuochi; e c’era dunque una tradizione, che probabilmente insegnò agli arabi a manipolare alcuni manicaretti, pervenuti fino a noi con nome arabo. L’abbondanza poi dello zucchero, per la vasta coltivazione che si faceva delle canne zuccherifere, rendeva comuni e popolari le golosità; e perciò v’erano, come oggi, delle botteghe dove si spacciavano. La cassata, la cobaita, la nostra mostarda hanno una veneranda antichità, e con esse altri dolciumi, che hanno nome di origine latina. Rinaldo andò a comprare il dolce caratteristico siciliano che è la cassata, allora più semplice, da di cui erano principali elementi, come oggi, la ricotta e la pasta dolce a forma di tegame


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo al tempo di Federico II. L'opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1925. 
Pagine 527 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Per informazioni e ordini contattateci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 oppure al cell. del responsabile vendite dott. Ivo Tiberio Ginevra 3457416697
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.  

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