sabato 30 dicembre 2017

Buon Anno da... Luigi Natoli.

Comincia un nuovo anno. Ogni cuore lo saluta come l'incominciamento di una vita nuova; e spera che non soffrirà i dolori dell'anno scorso. Questo augura a sé e agli altri. Un proverbio dice: Anno nuovo, vita nuova.
Ma che vuol dire questa vita nuova?
Vuol dire che tu devi esaminare quello che hai fatto durante l'anno scorso; devi riconoscere i tuoi mancamenti; proporti di correggerti, e mantenere saldamente i tuoi propositi.
Sei stato ozioso? Lavora: la prima nobiltà dell'uomo è il lavoro; la prima medicina dell'anima è il lavoro. Chi lavora con zelo e con assiduità non ha il tempo di contrarre cattive abitudini. La zappa adoperata sempre non prende ruggine.
Hai sciupato tempo? Rifatti con maggiore assiduità, del tempo che hai perduto.
Sei stato negligente? Devi essere diligente. Hai disubbidito? Devi essere ubbidiente. Hai nutrito rancore, ti sei inimicato contro qualcuno? Devi amarlo.
E così tu potrai dire veramente di cominciare una vita nuova.
Buon Anno.
 
Luigi Natoli

giovedì 28 dicembre 2017

Luigi Natoli: I "malvizzi". Tratto da: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.


- Ah! sono merli? disse qual­cuno del partito cittadino tradizionale. e noi siamo “malvizzi”(tordi).
E anche questo nome diventò un sim­bolo, un segno, una bandiera; e malvizzi furono i cittadini dell'ordine senatorio, i nobili, i mercanti, il clero, i frati, parte delle maestranze. La divisione ebbe così i suoi nomi: la città si spartì tra Merli e Malvizzi, gli uni considerando gli altri come traditori; le piazze, le strade, le case, i conventi me­desimi e le chiese, si tramutarono in un campo sul quale le due fazioni scendeva­no coi rimproveri, le ingiurie, le minacce, le persecuzioni. Il Senato imprigionava i Merli; lo stratigò perseguitava i Malvizzi: don Luigi de l'Hoyo, sicuro oramai di avere oltre al presidio dei castelli la parte più manesca della cittadinanza, gittava la maschera. 
L'ultimo di quei segreti convegni av­venne la notte del 29 marzo. Che cosa disse lo stratigò? Che cosa promise? Pri­ma di ritirarsi nella reggia egli diede un labaro nero, da una parte del quale era un Cristo crocifisso, dall'altra la Vergine: quelle due immagini, significazione di pace, di concordia, di carità eran segno di guerra, d'odio, di distruzione.
La mattina del 30, sul far del sole, una gran folla, con quella bandiera alla testa, invase le vie principali, gridando: “Viva Maria, viva il re di Spagna, morte ai traditori!”. Un nuovo esercito veniva ad aggiun­gersi alla folla dei “Merli”; erano i pezzen­ti, che lo stratigò malignamente aveva fatto uscire dal Ser­raglio, specie di ospizio di mendicità, dove stavan rinchiusi non certo volenterosa­mente: erano un migliaio di miserabili, quali storpiati dalla natura, quali defor­mati da malattie; molti serrativi per vaga­bondaggio: una vera corte di miracoli, luri­da, avida, feroce, piena di tutti i rancori, di tutte le brame, di tutte le ferocie annidantesi nel fondo oscuro della bestia umana. Uscivano tumultuando, urlando in una ebbrezza di luce e di aria che molti­plicava le loro torbide passioni. Il rumo­re delle grucce e dei bastoni, l'agitar dei moncherini aumentava l'orrore e il ri­brezzo che destava quell'esercito di re­spinti dalla natura.
- Viva il re di Spagna! morte ai tra­ditori!... – urlavano raucamente con bocche contraffatte e con volti segnati da mali orribili, annusando nell'aria l'odore delle rapine e delle violenze.
- Viva il re di Spagna! viva Maria!...
- Alla casa di Silvestro Fenga! alla casa di Silvestro Fenga!...
Silvestro Fenga era uno dei senatori, che godeva fama di grande ricchezza: poté salvar sé da quella furia del popolo, non la casa. Fu la prima a essere sac­cheggiata e data alle fiamme, e di essa non rimasero, scrisse un testimonio “né meno li vestigi ov’erano li solai, e s'udiva una gran puzzura di zolfo e pareva abissasse l'aria”. Nell'orgia del saccheggio e mentre le fiamme crepitavano un'altra voce gridò: 
-  All'Albergaria!...
Chi l'aveva detto? Queste voci parto­no da una folla, come dal fondo perduto di una voragine. Nessuno vede la bocca che la pronuncia; ma tutti l'odono e la sentono rifluire nelle loro bocche; e il pensie­ro di uno si tramuta a un tratto in pensie­ro di tutti, tutte le volontà diventano una volontà sola, formidabile, terribile, gigantesca!...
L'Albergaria era una prigione che sorgeva nel quartiere dello stesso nome; e racchiudeva i delinquenti popolari, gen­te avvezza al delitto. Quale contributo di forze non avreb­be portato all'opera di devastazione? In breve i cancelli di legno furono spezzati, bruciati, i registri arsi, i carcerati liberi. Lì presso era la casa di Antonio Bottone, altro senatore; fu assalita, deva­stata, saccheggiata; non vi rimase un chiodo. Il furore pazzo e incendiario aveva invaso la folla; una dopo l'altra le ca­se dei senatori cadevano sotto l'impeto di quell'esercito scarmigliato, simile a un torrente contenuto, al quale improvvisa­mente tolgono le cateratte, e rovina con fracasso, e nella sua rovina trascinando ogni cosa...

Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Prezzo di copertina € 26,00 - Pagine 954
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Luigi Natoli: I merli. Tratto da: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.


Quel torrente impetuoso di folla affamata si versò nel­la via dei Banchi, per recarsi al palazzo del Senato: innanzi a tutti il Martines agi­tando la spada. Il gridìo, il rumore delle botteghe che si chiudevano precipitosa­mente, il fuggi fuggi delle donne, chiama­rono altri sulla strada. Un cavalier Spatafora, sdegnato di quelle grida di morte, af­frontò la folla briaca, rimproverandola. Il Martines rispose tracotante, il cavaliere snudò la spada, ma qualche arrabbiato gli fu addosso, lo ferì di coltello alla nuca. Fu il primo sangue versato nella guerra civile, e forse sgomentò gli sciagurati che lo versavano. Al cadere dello Spatafora, si arrestarono, si sbandarono.
Il pericolo dell'aggressione convocò i senatori, e intorno ai senatori i loro par­tigiani: deliberarono di ricorrere allo stratigò e chiedere energicamente giusti­zia; ma lo stratigò ne era in cuore arcicontento. Si mostrò addolorato, perfino sdegnato; promise di punire lo scellerato Martines; mandò anzi guardie e birri, che, naturalmente non lo trovarono; e lo bandì con tutte le forme: ma sapeva già che il Martines era al sicuro nel forte di Gonzaga, e sottomano scriveva alla corte per implorarne clemenza.
Era questo il prologo della tragedia che doveva insanguinare Messina, e doveva preparar la caduta di tutte le sue li­bertà municipali: il sangue sparso e la impunità del reo, dividevano la città: alle due fazioni il degno stratigò si affrettava a dare un nome.
Il Senato comprese che non era più tempo di infingimenti, e che bisognava guerreggiare apertamente con­tro la plebe sollevata e istigata e contro lo stratigò che se ne era fatto il tribuno; chiamò sotto le armi i Cavalieri della Stella, ordinò le milizie cittadine con le maestranze e la borghesia fedeli alle isti­tuzioni della città e nemiche di Spagna; la setta dal canto suo si moltiplicò; tutti i suoi adepti formarono ronde, posti di guardia, avvisatori: la città parve in stato di guerra; e parve che l'autorità dello stratigò fosse annullata. Dei corrieri par­tivano ogni giorno per Palermo, spediti dal Senato; ma altri ne partivano spediti dallo stratigò, che non se ne stava con le mani alla cintola.
Ogni notte, in una casa remota del quartiere di S. Giacomo, l'illustrissimo signor don Luigi de l'Hoyo s'abboccava con i più avventati popolani; e tutti i suoi discorsi finivano a un modo, che i mali della città derivavano dal potere del Se­nato, e che non c'era altro rimedio che mettersi del tutto sotto la potestà del re.
- Il re è il vero padre dei sudditi, per volere di Dio; ma come mai voi, che siete suoi figli, vi sottraete alle sue cure paterne? Il Senato usurpa il potere legitti­mo del re!... 
Bisognava strappargli quel potere, stabilire il buon governo, aprire i ma­gazzini di frumento al popolo, dargli pa­ne e felicità: ma bisognava anche essere costanti e fedeli nella devozione al re e ai suoi ministri. Vedevano il suo stemma? Aveva per insegna un merlo, simbolo della costanza, che quando becca una cosa, non se la lascia sfuggire: essi dove­vano essere appunto come i merli.
- E noi siamo merli! gridavano quegli ardenti.
Il nome del nero uccello dal forte becco, parve il segno, la bandiera, il mot­to d'ordine della fazione popolare, che, per una di quelle anomalie non rare nel­la storia, era anche la fazione che mina­va le istituzioni patrie, per asservirsi al­l'assolutismo regio. Il nome uscì da quei conventicoli; si diffuse tra le plebi, tra gli artigiani, gli impiegati regi, qualche nobile, i gesuiti, i vagabondi; esser merlo significò essere nemico dell'oligarchia del Senato, parti­giano del governo regio; e pareva titolo d'onore.


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: la rivolta contro il Senato di Messina. Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.


Dal 23 di marzo infatti la città di Messina era in preda a fiere convulsioni, che avevano avuto tristi episodi di sangue. La fame da una parte, le istigazioni dello stratigò dall'altra, avevano scatena­to il popolo contro la borghesia e il patri­ziato. Una sommossa era scoppiata, non contro il governo regio, ma caso nuovo, sollecitata e capitanata  dallo stesso rap­presentante del governo contro i rappre­sentanti legittimi della cittadinanza. Era ciò che don Luigi de l'Hoyo aveva da un pezzo tentato, e che final­mente gli riusciva. Ed era appunto ciò di cui egli, a modo suo, andava informando con corrieri speciali l'illustrissimo ed ec­cellentissimo signor don Claudio Lamorald, vi­ceré di Sicilia.
Il raccolto era stato nell'estate prece­dente scarso quanto mai, e la insipienza dei governanti, accresciuta dai pregiudi­zi economici e anche dalla privata ingordigia di qualche ufficiale dello Stato, ave­va gittata l'isola negli orrori della carestia. Se nelle maggiori città, con provve­dimenti rovinosi, i municipi, anche ridu­cendo il peso e la quantità del pane, giun­gevano a non far morire di fame le popo­lazioni; nell'interno dell'isola, nelle terre demaniali e feudali non restava alle po­polazioni esauste che nutrirsi di erbe ra­cimolate per le montagne.
L'inverno coi suoi rigori trovava l'i­sola in tali condizioni: a liberarsi dalle quali gli abitanti delle provincie non tro­vavano altro scampo che di accorrere nella città. Un bando del Viceré, che allontana­va dalla sola città di Palermo ben cin­quantamila provinciali, e li mandava a morir di fame tra’ monti, o a darsi al la­droneccio e all'assassinio, può dare una pallida idea di quel che fosse in quei giorni lo stato dell'isola.
Messina, per quanto ricca di com­merci, non si trovava meglio. Il frumento mancava e mancava il pane. Fin dal settembre il Senato se ne preoccupava, e dava incarichi di provve­dere, e sollecitava aiuti dal Viceré: ma sen­za frutto. Non mancarono coloro che al Vicerè fecero presente i pericoli in cui si incorre­va per la eccitazione del popolo ammise­rito; ora era il castellano del forte Gonza­ga che gli scriveva scarseggiar da otto giorni il pane, e la plebe assalire e depre­dare i forni; ora il castellano del forte del Salentore avvertiva che la rivolta minac­ciava la città.
La città era ridotta al punto da dover forse numerare le anime e dividere il pa­ne a tanto per testa, e con bigliettini, o polizze.
Uno squallore, un'ansia paurosa di mali peggiori, un turbamento profondo degli spiriti, avevano mutato l'aspetto della città. Due che s'incontravano, si fermavano, fermavano altri; si formavano crocchi, si scambiavan querele, si propa­lavano notizie più o meno vere, si formu­lavano accuse più o meno fondate; si pronunciavano bieche parole, si ventila­vano oscure minacce. Ogni giorno che trascorreva, era una nuova voce insidio­sa, un nuovo affaccendarsi di gente; altri propositi, altre minacce: gli animi si eccitavano, si infrangevano i freni della legge; i furti, i ricatti, i ferimenti aumen­tavano; aumentava la rilasciatezza delle autorità, cresceva la insolente baldanza dei pescatori nel torbido.
L'illustrissimo signor don Luigi de l'Hoyo, fingevasi addolorato di questa miseria; ah! come piangeva al racconto dei dolori e dei tormenti della fame!... Aveva aperto il palazzo a quanti ricorre­vano a lui, e a tutti dava buone parole. 
- È una disgrazia figliuoli; ma bi­sogna rassegnarsi e fidare sulla Provvidenza Divina: io farei di tutto per darvi pane... saprei dove trovarlo il frumento... Ma!... Ma posso io usurpare il potere del Senato? Posso in coscienza far qualche cosa contro i privilegi e le prerogative di que­sta città? Ditelo voi!... Si direbbe... Che cosa non si direbbe?... Deve pensarci il Sena­to; io lo aiuterò, non dubitate...
- Eh! – sclamava qualcuno; – i senatori ce l'hanno il pane, in casa; non soffrono la fame loro!... 
- Lo so, lo so; rispondeva don Luigi de l'Hoyo con un sospiro; nei lo­ro magazzini il frumento non manca di certo. Ma è cosa tutta di loro... Possono anche venderlo, mandarlo via... Sono pa­droni di farlo. Chi volete che glielo impedisca?...
- Ladri! ladri! Affamatori!... – urla­vano ferocemente e disperatamente i più miserabili.
- Zitti! zitti! cos'è questo? Non sta bene. Sperate in Dio e nella Santa Vergi­ne della Lettera (e don Luigi si scap­pellava e s'inginocchiava). Sperate che tocchino loro il cuore e li illu­minino...
Da questi discorsi, che si ripetevano con la stessa untuosità, penetrava nell'a­nima della plebe il convincimento che affamatori della città fossero i senatori.
“Pubblici ladroni qualificati” li an­davano chiamando i familiari dello stra­tigò; e l'ingiuria raccolta dallo stesso stratigò veniva comunicata in un lungo memoriale al Viceré, come una verità di fatto. Lo stratigò aveva dopo la sconfitta patita il 25 di luglio del 1671, composta una sua società segreta, una specie di setta da contrapporre alla setta dei patrizi e del­l'alta borghesia; l'aveva composta di po­polani maneschi e capaci di ogni disor­dine; alcuni dei quali, però, dal Senato che aveva sventato la trama, erano stati carcerati e banditi.
Costoro andavan diffondendo le no­tizie più odiose contro il Senato.
Il Senato, impensierito dalla man­canza di frumento aveva sollecitato il vi­ceré di Napoli ad adempiere all'obbligo fattogli dal privilegio di Carlo V; ma lo stratigò aveva scritto segretamente e per­suaso quel viceré a non mandar nulla. La setta lo seppe, e propalò la notizia: ma il popolo non vi prestò fede. Come mai lo stratigò poteva pensare ad affamare Messina, se raccoglieva i poveri nel pa­lazzo reale e li sfamava del suo? Gli affa­matori, i ladri erano i senatori.
- Ne volete una prova? Vedete un po'; hanno posto il pane in deputazione per guadagnarvi sopra! Cani! 
Mettere il pane in deputazione signifi­cava sottrarlo alla vendita privata, muni­cipalizzarlo, come si direbbe ora: ma allo scopo di dividerlo a tanto a testa, in razioni uguali, che, per la carestia, erano esigue e più che togliere, solleticavano la fame. Ma con questo provvedimento il Senato ne prese un altro. Si valse del diritto di po­ter armare navi e ne armò cinque, munite di artiglierie, sotto il comando di un nobi­le don Francesco Di Giovanni, e di un borghese don Carlo Laganà, per andare in cerca di grano, anche con la forza. E inoltre eresse un fortino alla punta del Fa­ro, per obbligar le navi che attraversava­no lo Stretto, ad abbassar le vele e farsi vi­sitare, se mai trasportassero grano.
I cinque vascelli partirono fra gli au­guri di tutto il popolo, salutati sul porto dalla nobiltà e dal Senato in forma so­lenne, e dai bastioni con salve reali delle artiglierie: ma tutto ciò parve a don Luigi de L'Hoyo, come scrisse al viceré, cosa che sdegnava “l'animo di tutti e quello che più importa, la giustizia di Dio”, per­ché “contro ogni forma di procedura e di dovere”; e perché il Senato aveva as­soldata gente “della più facinorosa del paese” concedendo gradi e titoli; e le ciurme andavano “con pistole e stiletti alla cintura, con manifesto e deplorabile vituperio della giustizia”.
La flotta tornò, dopo aver invano battuto le coste del Tirreno, e atteso inva­no al largo dei caricatori le navi piene di frumento che doveva dar pane a Messina, tornaron vuote, come eran partite; non accolte dal popolo festante, ma dal silenzio disperato di una città affamata. Era il 23 marzo. La moltitudine che si accalcava al porto, aspettando i sacchi, cominciò a brontolare:
- E perché dunque tante spese di armamento, se non hanno saputo porta­re neppure un moggio di frumento?...
Qualcuno alzò la voce più forte, ac­cusò il Senato di tradimento; gli animi della plebaglia si accendevano; un orefi­ce, certo Giuseppe Martines, oriundo spagnuolo, sguainata una spada corta, co­minciò a gridare:
- Serra! Serra!... Morte alla cana­glia dei senatori!... Ammazza!... Am­mazza!...
Il grido trovò facile eco nell'animo della folla esasperata; cento, mille boc­che lo ripeterono con la collera della di­sperazione; cento mani si levarono minacciando.


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina. 
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00
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martedì 12 dicembre 2017

Luigi Natoli: un presepe del 1848. Tratto da: Chi l'uccise?


Padre don Nunzio stava aggiustando gli apparati per trasformare una delle cappelle della parrocchia di san Nicola in grotta per accogliervi il Bambino Gesù, la notte di Natale. Mancavano ancora dieci giorni, ma il sedici dicembre cominciava la “novena”, e si doveva celebrare innanzi alla cappella trasformata. Il brav’uomo, in sottana nera succinta, aiutava lo scaccino e il seggiolaio a mettere a posto i vari pezzi di sughero dipinto e incollato su armature di legno, che congiunti con apposito disegno, venivano a costruire al sommo dell’altare la grotta, cornice di Dio fatto uomo. 
Ma i collaboratori non lasciavano soddisfatto padre don Nunzio, che dimenticava di trovarsi in chiesa, si lasciava scappare certe esclamazioni, che avrebbero fatto arrossire perfino le seggiole. 
- Ponila più su… non così… più a destra… Che ti pigli un accidente. Più giù… Basta così… E tu, che santo diamine fai costì? Leva quel sughero; non vedi che par che caschi addosso al Bambino?
E qui un’altra mala parola da non potersi scrivere.
- Ora andate a desinare, che è tardi; ma tornate fra due ore. Vi bastano? Stasera tutto ha da essere bello e fatto. Avete sentito quello che hanno fatto a Roma i nostri compatrioti? E c’era il Papa; quel sant’uomo del Papa! Dunque fra due ore. 
Per capire il discorso di padre don Nunzio bisogna sapere che i Siciliani residenti a Roma avevano festeggiato la Consulta creata dal Papa, andando nel corteo con gli altri, inalberando la bandiera tricolore, la sola che si vide a Roma in quella occasione. Questa notizia era stata comunicata ad alcuni amici di Palermo; e padre don Nunzio l’aveva saputa e detta in confidenza ai suoi fidati. E aveva immaginato una cosa spettacolosa: far nascere il Bambino fra un nembo di tricolori; tre colori nella paglia, tre colori nei raggi, tre colori nella coda della stella fatale. Come sarebbe andata non ci pensava: avrebbe però voluto vedere se i poliziotti si sarebbero rischiati di portare le mani sulle cose sante dell’altare.


Luigi Natoli: Chi l'uccise? 
Pagine 146 - Prezzo di copertina € 13,50
Chi l'uccise? fa parte anche del volume i tre romanzi del Risorgimento siciliano: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Pagine 880 - Illustrato da Niccolò Pizzorno. 
Disponibili in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibili dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Nella foto: fazzoletto dedicato a Pio IX esposto al Museo di Storia Patria - Palermo

Luigi Natoli: il caso di coscienza del giudice Cantelli. Tratto da: Chi l'uccise?


Tu sei giudice; non hai avuto in vita tua che una legge; il dovere. Quando la sera ti sei coricato la coscienza non t’ha rimorso; essa è stata veramente dignitosa e netta. Per questo sei stato un uomo nel senso più nobile della parola. Ora tu vorresti rinunziare a questa virtù per appagare un tuo, particolarmente tuo sentimento. Tu non vendicheresti la società offesa, ma te solo. E per vendicare la morte di un uomo, ne uccidi un altro, che con quella morte non c’entra, ma che è colpevole soltanto contro di te. Fai servire la giustizia per coprire la tua sete di vendetta. È questo il tuo dovere? Ma deponi il nome e la coscienza di giudice: non ne sei degno!
 Quando avrai consegnato al boia la testa di Corrado, credi tu di metter pace al tuo cuore? La memoria del tuo omicidio ti sorgerà innanzi, e ti rampognerà d’aver ucciso un innocente. Egli è colpevole dinanzi a te: chi lo nega? ma tanto è più giusta, più santa la tua giustizia, se astraendoti dal tuo caso particolare concluderai come vuole il dovere. E poi, sii logico: vuoi tu condannare due cuori che si amano, giovani, pieni di sogni? E non puoi riparare al malfatto?


Luigi Natoli: Chi l'uccise? 
Pagine 146 - Prezzo di copertina € 13,50
Chi l'uccise? fa parte anche del volume i tre romanzi del Risorgimento siciliano: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Pagine 880 - pagine 880 - Illustrato da Niccolò Pizzorno. 
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Luigi Natoli: La festa dell'Immacolata nel 1848. - Tratto da: Chi l'uccise?


La festa dell’Immacolata quell’anno si presentava, più delle altre volte, con aspetto di una febbrile agitazione. Il cielo era amico; da due giorni aveva smesso il pesante mantello grigio, e si era rivestito del suo abito di seta azzurro, sul quale splendevano le stelle diamantine. 
Per antica concessione data ai frati di S. Francesco di Palermo, la festa dell’Immacolata gode il privilegio di celebrare la messa a mezzanotte, come per Natale. In quella occasione nelle case si giuoca, e si fa un cenone, aspettando la messa; e le strade son piene di popolo. I caffè stanno aperti, e le botteghe dei focacciai spandono l’odore del forno misto col grave oleoso del fritto. 
Allora nella piazzetta dinanzi alla chiesa di S. Francesco, le baracche ostentavano i dolci tradizionali e speciali dell’Isola; che non hanno riscontro nel continente, ed è giocoforza indicare col nome dialettale; la “cubaita” e la “pietrafendola”; la prima composta di semi di sesamo cotti nel miele e profumata; l’altra di bucce di arancia, pistacchio, mandorle tritate e cotte anch’esse nel miele. L’una, di color biondo, si vende a tavolette; l’altra bruna, si vende a rocchi di dodici centimetri, di forma cilindrica, avvolti in carta sfrangiata alle due estremità. Sono durissime, e provocano una dolce salivazione, perciò si vendono anche a pezzetti. Questi due dolciumi, in bella fila, stavano col torrone bianco e verde, e adescavano i fedeli che si recavano alla messa di mezzanotte. 
In casa Montallegro si era stabilito di andare “in viaggio” alla chiesa di S. Francesco, ascoltare la messa e fare un voto alla Madonna, se concedeva una grazia, che si illudevano di avere tutti della stessa specie. Ma il signor Benedetto Montallegro segretamente voleva che Corrado uscisse dal carcere più tardi che mai, e infamato, sicchè sua figlia avesse schifo al solo pensare di essere quasi sul punto di appartenergli; la signora Agostina invece desiderava che si presentasse un nuovo partito vantaggiosissimo, perché “quello lì” piangesse il matrimonio che aveva lasciato; e quanto a Elisa non aveva che un desiderio: dimenticarlo, ma in fondo sentiva di amarlo sempre. 
Uscirono un’ora prima di mezzanotte, e già le strade erano affollate di gente, che con torce accese si recava in chiesa, quali a gruppi, quali isolati. Una confraternita procedeva a due a due, col capo nudo; alcuni confrati scalzi, che compivano il “viaggio” per voto. Recitavano il rosario; il superiore intonava la prima parte dell’avemaria, e tutti gli altri rispondevano in coro l’altra. Più in là due o tre famiglie recitavano lo stesso rosario, e le voci dell’uno e dell’altro si confondevano in un brusio che riempiva la strada, resa più sonora dal silenzio della notte. Nella via buia la luce delle candele a volte si moltiplicava, a volte si eclissava illuminando a balzi le macchie dei volti. Simili alle monacelle crepitanti in un immenso foglio di carta.
I Montallegro camminavano per due, davanti con Elisa la signora Cristina che ciarlava di mille storielle. Ma Elisa non l’ascoltava, che aveva il pensiero distolto da quell’idea di dimenticare, e con gli occhi errava sulla folla, che variava per la via come figure di un caleidoscopio.
Sulla piazzetta la folla era enorme. Dalle tre porte spalancate tre fiumane di gente entravano in chiesa e ne uscivano; e il continuo contrasto fra le due correnti creava intoppi; che non si potevano superare, se non a furia di gomitate. 
Sedettero, ascoltarono la messa; pronunciarono ognuna in segreto il proprio voto. La chiesa era illuminata, ma la “bara” o fercolo dell’Immacolata era un torrente di luce, così fitte erano e disposte per gradi le torcie accese dai fedeli, e ancora tante ne venivano, che i sagrestani non facevano a tempo per raccoglierle. La statua tutta di argento, più grande del vero, splendeva così che pareva che si incendiasse, e aggiungeva nuova luce a quella stragrande delle torcie. E dinanzi a lei si prostravano i fedeli, quali con umile raccoglimento, quali con alte grida, e levando le braccia, scongiuravano la Vergine di qualche soccorso; e presentavano un muto, un tisico, un piagato, denudando le piaghe, che rosseggiavano allo splendore dei lumi. E la Vergine stava con gli occhi rivolti su nell’ombra che si diffondeva nella volta. 
I Montallegro, dopo ascoltata la messa, se ne andarono, ma la signora Cristina restò; aveva vedute alcune sue vicine, e si era stretta a loro, perché disse, aveva molte cose da confidare alla Madonna. In realtà aveva da raccontare loro dell’uomo che aveva veduto.


Luigi Natoli: Chi l'uccise? 
Pagine 146 - Prezzo di copertina € 13,50
Chi l'uccise? fa parte anche del volume i tre romanzi del Risorgimento siciliano: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Pagine 880 - Illustrato da Niccolò Pizzorno. 
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lunedì 4 dicembre 2017

Luigi Natoli: La Baronessa di Carini. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


Egli le aveva fatto una proposta: fuggire, andare a Roma, buttarsi ai piedi del Santo Padre per ottenere la dispensa della parentela, sollecitare il perdono del barone La Grua, sposarsi e vivere felici in quel castello dove il loro amore era nato, e dove essi volevano morire. Ah il sogno di un amore lungo, interminabile, celato agli occhi curiosi, fra il verde della campagna e l’azzurro del cielo, col mare lontano! Oh le dolci albe d’aprile, odorate dai peschi in fiore, oh destarsi in un abbraccio tenero, in un bacio inestinguibile!...
Ella correva dietro al suo sogno, cercandolo tra le nubi dorate che erravano nel cielo; quando un frequente scalpitare di cavalli distolse gli occhi suoi. 
Guardò giù nel piano; un gruppo di cavalieri che ella non distingueva ancor bene, saliva già la collina; uno di essi andava innanzi, incitava il cavallo, come per infondergli lena; il cavallo incurvava la nobile testa sul petto fumante, ed allungava il passo su lo scosceso sentiero che serpeggiava fra le rupi. 
Donna Caterina guardava con sospettosa curiosità; chi potevano essere quei cavalieri? E quale urgenza li pungeva? E che venivano a cercare nel castello? Quando furono più vicini, il cavaliere che andava innanzi levò la testa in su. Donna Caterina trasalì; un fremito ghiacciato serpeggiò per le vene; le gambe le tremarono; stette come inchiodata dal terrore nel balcone. 
Aveva riconosciuto suo padre.

***

Perché ella tremava? Non lo sapeva, al di sopra della cavalcatura le era sembrato di veder sogghignare il volto di frate Arcangelo. Era forse la punizione che giungeva?
I cavalli erano arrivati su la spianata; il signor barone, veduta la figliuola, aveva cacciato gli sproni nei fianchi del cavallo, levando il pugno minaccioso verso di lei. ella vide i cinque cavalieri svoltare l’angolo, e poco dopo sentì risonare i ferri sul selciato della corte. Allora fece uno sforzo, entrò nella sala, e si appoggiò alla spalliera di un seggiolone: in quel momento la porta si aprì con fracasso; il barone don Vincenzo, seguito da un bravaccio, balzò nella sala come l’avvoltoio su la colomba. 
Si fermò innanzi alla figliuola, incrociando fieramente le braccia sul petto, e guardandola quasi per scoprire sul suo volto le tracce degli ultimi baci peccaminosi. 
Ella tremava, pallida, atterrita, non osando levare gli occhi su quelli del padre, sul cui aspetto aveva letto chiaramente la sua condanna. 
Stettero un minuto così, in silenzio, l’uno di faccia all’altra; il bravo, bieco e triste, se ne stava aspettando, su la soglia dell’uscio. Donna Caterina si sentiva venir meno; perché la sala non sprofondava, inghiottendola? Perché non moriva ella in quel punto, per sottrarsi alla vergogna, alla collera, al castigo?


Luigi Natoli: La Baronessa di Carini, leggenda pubblicata nella raccolta "Storie e leggende" nel 1892 con la casa editrice Pedone Lauriel. La stessa raccolta di leggende è oggi riproposta nella sua originalità dalla casa editrice I Buoni Cugini editori in un volume dal titolo "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue".
Per dare completezza agli studi di Luigi Natoli sul "caso" della Baronessa di Carini, gli editori hanno aggiunto al volume originale la leggenda "La signora di Carini" pubblicata dall'autore nel Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910 e lo studio critico "Un poemetto siciliano del secolo XVI" tratto da un "Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III vol. IX.

Luigi Natoli: Donna Laura scese a piedi nudi, nel cuor della notte, giù per una scala segreta... Tratto da: La signora di Carini.


Donna Laura aveva in quel tempo trentasei anni, ma sebbene fosse madre di otto figliuoli, pareva assai più giovane. Don Cesare, il suo primogenito, che aveva quasi venti anni, poteva parere un suo fratello minore. 
Ella era nel pieno splendore di una bellezza giunta a quella maturità piena di seduzioni sapienti che invano si cerca nelle giovani donne. Per quanto la moda le comprimesse il corpo col busto stretto e lungo di vita, e la forma delle braccia sparisse dentro le maniche a sbuffi, pure il collo, la gola, la turgidezza dei seni rivelavano una carnosità, non abbondante, ma colma e piena di sussulti e vibrazioni. I suoi occhi profondi, umidi, avevano il fascino del dolce peccato: il suo sorriso aveva incanti suggestivi di desideri: tutta la sua persona pareva modellata dalle dita divine del piacere. 
Era di casa Lanza. Il padre, don Cesare Lanza primeggiava in Palermo per autorità: era stato quattro volte pretore, aveva sostenuto ambascerie, aveva goduto la fiducia dell’imperatore Carlo V, e ne aveva ricevuto prove. 
Nel 1543 donna Laura, giovanissima, era andata moglie a don Vincenzo la Grua Talamanca, barone di Carini. Il matrimonio era stato fecondo. In undici anni essa gli procreò otto figliuoli, di cui l’ultima contava ora nove anni. Questo potrebbe far supporre che ella amasse il marito; ma nessuno ha avuto mai l’occhio così acuto e penetrante da scendere nelle profondità misteriose del cuore della donna.


Luigi Natoli: La signora di Carini, leggenda pubblicata per la prima volta sul Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it con lo sconto del 20%

Luigi Natoli: 1563, Sabato a 4 di dicembre. Successe il caso della signora di Carini. Tratto da: Un poemetto siciliano del XVI secolo


A nessun componimento della nostra letteratura popolare è toccata la sorte di avere tanti e così diligenti illustratori e imitatori, come a quel tragico poemetto, che corre sotto il nome di Baronessa o Principessa di Carini; al quale l’orrore del fatto, unico forse nella letteratura del popolo, la pietà verso la vittima, il grado e la notorietà dei personaggi e sopra tutto la incomparabile bellezza della forma rappresentativa conferirono una meritata celebrità.
Il fatto tramandato dalla tradizione è questo: un principe di Carini uccise la figlia, perché si amoreggiava celatamente con un giovane; la figlia, fuggita di stanza in stanza, cadendo ferita, appoggiò la mano insanguinata sopra una parete, e vi lasciò una impronta, che nessuna calce potè mai cancellare.
Questo fatto, che forse rientra in quel gruppo di leggende che hanno per fondamento un’impronta maravigliosa, è con certa larghezza svolto in un poemetto, che, correndo frammentario per l’Isola, fu, dopo lunghe pazienti accurate ricerche dell’erudito Salvatore Salomone-Marino, ricomposto a unità. Il poemetto, precisando nomi e circostanze, fu considerato come documento storico, non altrimenti che le “storie” in versi, che tutt’ora, nella commozione prodotta da un grande avvenimento, poeti del popolo van componendo: documento storico non solo perché conserva e tramanda la notizia del fatto, ma anche perchè riflette la qualità e il tono della coscienza popolare di fronte a esso.
E a dargli valore strettamente storico, giovarono le industri ricerche del Salomone-Marino, il quale come potè darci il poema nella sua integrità, o quale, almeno, gli sembrò, così potè illustrarlo di tutte le notizie riferibili tanto al fatto, quanto ai personaggi indicati dalla tradizione e dal poema. E poiché Alessandro D’Ancona e Angelo De Gubernatis, discorrendo della lezione del poema data dal Salamone-Marino, sollevarono dei dubbi sulla sua storicità, l’erudito editore, documentò le sue illustrazioni, e identificò i personaggi dell’orrida tragedia, della quale diede le probabili lontane origini. 
Fra i documenti il più antico, vera testimonianza storica, è la breve notizia del diario di Nicolò Palmerino e Filippo Paruta; notizia troppo semplice e indeterminata, per dar luce all’avvenimento; e che non consente alcuna seria argomentazione in favore dei particolari della leggenda. La notizia dice con esattezza cronologica: “1563, Sabato a 4 di dicembre. Successe il caso della signora di Carini. “Caso” nelle cronache e nella dizione di quei tempi adoperarono i nostri scrittori nel significato di grande e straordinario avvenimento, con uccisione e morte di persone: “Caso di Sciacca” si disse la lotta civile che insanguinò quella città nel secolo XVI; “Caso di Del Carretto” o “di Castronovo” una strepitosa vendetta presa da un conte Del Carretto sopra alcuni di casa Barresi.
Con un errore di data, ma con precisione di nomi, Vincenzo Auria, cavandola da altri manoscritti antichi, riprodusse la notizia: “1563 – Sabato a 4 di dicembre – Fu ammazzata la signora D. Caterina La Grua, signora di Carini” ...


Luigi Natoli: "Un poemetto siciliano del XVI secolo" fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online,
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 



mercoledì 29 novembre 2017

Luigi Natoli: Il numero 570. Scene drammatiche in due atti.



Riproduzione fedele del dattiloscritto con molte correzioni a mano dello scrittore, mai pubblicato e senza data, anche se è da presumere entro il periodo della prima guerra mondiale o subito dopo la fine della stessa. 
Con emozione e orgoglio proponiamo alla collettività  Il numero 570 di Luigi Natoli. La nostra emozione è presto spiegata perché Il numero 570  è un dramma teatrale in due atti assolutamente inedito, mai dato alle stampe sia in forma di libro o libretto, sia in appendice al Giornale di Sicilia, come soleva fare il grande scrittore palermitano. Per noi editori è un'emozione immensa dare la vita a questo manoscritto pubblicandolo, perchè ci fa sentire Luigi Natoli vivo come se oggi fosse in mezzo a noi, come uno scrittore contemporaneo, ma che molto ha da dire e da insegnare. Non a caso, però, oltre a "Emozione" abbiamo usato il termine "Orgoglio", da intendersi come senso di dignità, onore e fierezza di essere italiani. Sono proprio questi i sentimenti che animano ogni pagina, parola e sillaba di queste scene drammatiche. L'Italia della prima guerra mondiale che anela la libertà  delle sue province dall'impero austriaco; la voglia di riscatto del proprio onore che anima un popolo disposto a combattere contro l'oppressore perchè orgoglioso di essere italiano: ecco quanto trasuda da questo breve ma intenso lavoro teatrale del grande patriota Luigi Natoli.
La scena si svolge sul fronte, durante la prima guerra mondiale e contrappone la barbarie degli austriaci alla fierezza dei soldati italiani che sapranno portare pace e giustizia in una terra martoriata dalla guerra, ma è anche la tragedia di un uomo, popolano, che saprà  riacquisire il suo onore perduto sacrificandolo sull'altare della patria e della famiglia.
Un dramma teatrale che ci farà  sentire più uniti e più italiani di sempre.
Completa il libro, l'elogio orazione Milizia eroica recitato da Luigi Natoli in memoria dei prodi del 14° fanteria caduti nel primo anno di guerra.  
Nella foto: Alcune immagini del manoscritto di Luigi Natoli 


Luigi Natoli: Il numero 570. Scene drammatiche in due atti.
Prezzo di copertina € 13,00 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 28 novembre 2017

Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina

Pubblicato per la prima volta in appendice al Giornale di Sicilia dal 26 febbraio 1908 per 153 puntate, dopo diverse edizioni ritorna nella fedelissima riproduzione dell'originale di più di cento anni fa a cura de I Buoni Cugini editori. 
La storia della rivoluzione di Messina che ebbe inizio nel 1672 e fu soffocata nel sangue nel 1679 ad opera del vicerè conte di Santo Stefano, che soppresse la Repubblica di Messina e l’Accademia della Stella, una scuola militare di giovani e valenti cavalieri; ed ancora abolì tutti i privilegi della città, confiscò i suoi beni dichiarandola civilmente morta, fece togliere il capannone, dove si riunivano i cittadini e demolire il Palazzo di città, arando il terreno e cospargendolo di sale affinché non crescesse più nulla.
Così finiva la rivoluzione di Messina che avrebbe potuto conseguire anche l’indipendenza della Sicilia dalla Corona di Spagna e mentre la città dello stretto moriva assassinata, faceva vedere che il colosso spagnolo era con i piedi di creta, segno della sua prossima caduta.
In questi anni di fiera ribellione Luigi Natoli intreccia le vite di personaggi magnifici e immaginari nel rigore di un’attenta ricostruzione storica creando gesta ed eroi che s’imprimono indelebili nella memoria del lettore.
Nella foto: la prima puntata. 


Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 

Luigi Natoli: l'Accademia della Stella. Tratto da: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina



L'Accademia della Stella di cui egli faceva parte, e aspirava ad esser capo, o, come si chiamava, Principe, era una compagnia o congregazione o scuola, o tutto questo insieme, di cento cavalieri, di nobiltà antica e indiscutibile, che face­van professioni d'armi allo scopo di for­nire eccellenti militi nella perpetua guer­ra contro i barbareschi: una specie di or­dine militare – in origine – non dissi­mile nello scopo fondamentale da quello dei cavalieri di S. Giovanni e di S. Stefa­no; ma senza alcun carattere monastico o voto minore; uguale alla Congregazio­ne d'arme, che s'era istituita in Palermo nel secolo XVI.
Posta sotto la protezione dei Re Ma­gi, aveva assunto come insegna la Stella miracolosa apparsa ai tre re d'Oriente, in­castrandola nella Croce di Malta: d'onde il nome di Accademia della Stella.
Col volger del tempo, pareva aver di­menticato il suo scopo originario; e non mandava più i suoi cavalieri a dar la cac­cia alle navi mussulmane; ma continuava con uno sfarzo, con una magnificenza tutta spagnola, a dar mostra di sè nella bravura de’ suoi cavalieri nelle grandi occasioni religiose o civili. L'insediamento del nuovo Senato, l'apertura della fiera, la festa dell'Assun­ta, l'arrivo o la partenza del vicerè, la pre­sa di possesso di un nuovo arcivescovo, le feste per la nascita di qualche principe reale, o di qualche matrimonio regio, o dell'incoronazione del re, e in generale tutti i grandi avvenimenti celebrati con pompa ufficiale, erano altrettante occa­sioni, perché i cavalieri della Stella faces­sero la loro sontuosa cavalcata, o cele­brassero una giostra, vaghissima per no­vità di giuochi, d'imprese, di divise, di colpi.
Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00 
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