lunedì 26 ottobre 2020

Luigi Natoli: Ferrazzano fa spettacolo al palazzo della marchesa di Geraci. Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700.

C’era una grande conversazione in casa della marchesa di Geraci. Il palazzo sorgeva nel Cassaro, dove sorge ancora, sebbene non avesse ancora tutte le sue parti; e non mostrava nella triplice porta e nell’atrio la imponenza della sua mole e l’orgoglio della famiglia. Si capiva benissimo che non si tralasciava l’occasione per frequentare la nobile casa, e i Geraci sfoggiavano fin dallo scalone la loro magnificenza. Fino al Quattrocento i nobili erano solamente conti; il primo nominato marchese fu il magnifico Giovanni Ventimiglia, che da conte di Geraci diventò marchese, e per un secolo si disse in Sicilia semplicemente “il marchese” senza altro per indicare i Ventimiglia. Questo fatto aveva indotto a ritenere la loro nobiltà come la più antica e genuina; e sebbene il feudo fosse elevato a principato, pure tenevano a quel primo titolo.
Le vaste sale erano affollate di dame di tutte le età e di tutte le bellezze. Non dico che vi era anche qualche bruttezza; la quale per altro serviva inconsapevolmente di contrapposto per far meglio risaltare la beltà delle altre; e qualche scheletrica o per converso sferoidale figura, che facevano apprezzare meglio le gentili e giovanili silfidi che popolavano le sale. E la gran maggioranza era di maritate; gli usi del mondo allora non consentivano alle fanciulle di intervenire alle conversazioni e alle feste da ballo. Appena se ne vedeva qualcuna, ma di solito aveva oltrepassato i trenta anni, che in una città e in una classe abituata a vederle spose a sedici ed anche a quattordici anni, significava avere quasi l’età sinodale. Dunque giovani mogli, sul cui volto si leggeva apertamente il desiderio di piacere. E ne avevano il bisogno; maritate dai parenti, senza conoscere il futuro marito, senza amarlo, spesso d’età quattro volte maggiore di quella della sposa, sentivano in cuore una aspirazione a qualche sentimento più dolce, che si tramutava in desiderio, e da questo in voglia. Non diciamo poi delle vedove ancor giovani o per lo meno ancora piacenti, e della moda dei cavalieri serventi.
Si capisce quale poteva essere la conversazione tra le dame e i cavalieri serventi e non serventi, e quale era lo sdolcinato linguaggio in uso fra loro.
La marchesa di Geraci aveva oltrepassato la quarantina ed era bruttina, ma spiritosa, e doveva a questa qualità la corte che le facevano non certo i giovani, che sfarfallavano dove il miele era più fresco e più dolce, ma i più maturi. Ella riceveva con molto garbo; aveva una frase gentile per chiunque le era presentato, sorridente e incoraggiante. Accanto a lei stava la giovane duchessa di Archi, come una tortorella abbandonata, dacchè il marito, un rompicollo, aveva stimato meglio seguire in continente la prima donna del teatro di S. Cecilia, senza dar di sé alcuna notizia. Era bellina, e il sorriso dolcemente malinconico era una leva potente per sollevare i pesi più saldi. La marchesa di Geraci se la teneva vicina appunto per la sua forzata vedovanza, che la rendeva interessante agli occhi di tutti, specialmente degli uomini, che però non osavano farle la corte sotto la vigilanza della marchesa. Appunto per questo, ella aveva per suo servente il cavaliere d’Archirafi, che aveva cinquantacinque anni: le oneste maldicenze erano messe a tacere.
Un’altra stella di prim’ordine era la duchessa di Garsiliato, che splendeva in mezzo ad una corte di gentiluomini. Era veramente bella, alta, slanciata, il volto ovale, nel quale sfolgoravano gli occhi nerissimi, il naso era un poema, diritto con le narici piccole leggermente rosee; la bocca di corallo. Non si poteva dir quanto fosse da attribuire ai segreti della sua toeletta, ma le fattezze incomparabilmente regolari non avevano bisogno dell’aiuto dei cosmetici. Parlava con grazia, un po’ lenta, con lievi gesti del capo, e con un sorriso affascinante. Aveva trentadue anni.
Ma la marchesa di Aidone, una bella donna anche lei, pareva la fragilità in persona; si sarebbe detto che si spezzava in due; ogni più piccolo incidente le cagionava una grande commozione che si manifestava in interiezioni, in “ohimè”, in “oh Dio”, in mani al cuore e simili gesti di una straordinaria sensibilità. Era piccolina e piuttosto magra.
La contessa di San Bartolomeo per converso rideva sempre per qualunque causa, anche se triste; era una cosa superiore alla sua volontà; rideva di nulla, e spesso si domandava perché ridesse. Grassoccia, né alta, né bassa, bianca e rosea, pareva il ritratto della buona salute, e infondeva agli altri la giocondità. Aveva anche lei ventisette anni come la marchesa di Aidone.
La principessa d’Altofonte pareva una regina orgogliosa; era bella, ma le sue fattezze riflettevano l’orgoglio e acquistavano una certa durezza, che respingeva gli animi. Giunonica, s’avvaleva del suo corpo per imporsi, e dovunque passava, accoglieva con un sorriso di protezione gli inchini di chi, forse, valeva più di lei. Non aveva che una adorazione: la plastica e armoniosa bellezza delle sue forme; e quando usciva dal bagno, si guardava tutta nuda nel grande specchio, compiacendosi con se stessa, e domandandosi se v’era alcuna donna che si rassomigliasse a lei. Se fosse vissuta ai tempi delle favole, avrebbe creduto che il sommo Giove l’avesse generata.
Ma a che parlare di tutte quante le dame che rendevano i saloni della marchesa di Geraci simili a olezzanti superbi mazzi di fiori.
V’era da per tutto un cicaleccio frammisto di risatine, di esclamazioni, di domande; un brusìo di mille voci che parlavano a voce moderata ma che tutte insieme facevano un tumulto giocondo. Ma a un tratto corse una voce e si fece un gran silenzio; la marchesa aveva preparato una sorpresa che nessuno si aspettava: la recita d’una farsetta originale, non lunga, con pochissimi personaggi; la marchesa taceva chi era l’autore, ma la incorreggibile imprudenza della baronessa di Santo Stefano aveva rivelato sotto voce che era la stessa marchesa, che si compiaceva di serbare l’anonimo. La malignità sussurrava che la baronessa ne aveva ricevuto l’imbeccata: ma ognuno fingeva di ignorarne l’autore.
V’era nell’ultima sala un palcoscenico velato, e là passarono gli invitati, e presero posto. Durante il pezzo suonato da una orchestra il chiacchierio si fece più vivace. Certo l’idea della marchesa, una commedia in un atto o una farsa, recitata in casa, era una cosa graziosa, specialmente se breve, e se l’autore sapeva trovare un soggetto divertente. Chi erano gli attori? Anche questo rimaneva segreto; non v’era che un attore in città che sapeva divertire il pubblico: Ferrazzano. Ma la baronessa di Santo Stefano non lo sapeva neppur lei, aveva saputo la composizione dell’opera, ma sulla scelta degli attori non sapeva nulla.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il titolo dello spettacolo: era “L’Amor beffato”. Un mormorio ridevole si propagò per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il velario; cominciava lo spettacolo...



Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700.
Il volume è la trascrizione dell'opera originale pubblicata a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, dal 30 ottobre 1932.
Narra di Ferrazzano, comico dell'epoca, maschera del teatro siciliano. Di lui si sa poco. Forse è realmente esistito, e alcune sue storie tramandate dal popolo l'autore le riporta nel romanzo, imbrigliando ad arte il personaggio tra realtà e fantasia.
Copertina di
Niccolò Pizzorno
Prefazione di Rosario Palazzolo (scrittore, attore e regista teatrale)
Pagine 338 - Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Luigi Natoli: Il teatro dei Travaglini (oggi Bellini). Tratto da: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700

Floristella si appoggiò alla parete; era forse pentita di essersi allontanata, ma non si risolveva a tornare indietro. Era di indole puntigliosa, ma si pentiva subito delle sue risoluzioni. Ora guardava dal corridoio buio il quadrato luminoso dell’uscita, come aspettando qualcuno, che venisse dalla piazza aperta dinanzi al teatro. 
Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera, rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti. L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio sul palcoscenico. Il quale era piuttosto angusto; aveva in giro gli stanzini degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina; gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che penzolavano da un lato. 
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile: si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice. Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.
Quindici anni addietro, una sera si era aspettata invano la Consalvi, che recitava da prima donna; si mandò a casa, ma a casa non c’era; si cercò per ogni dove; ma non si trovò. I vicini, interrogati, dissero di averla veduta uscire con un involto sotto il manto; non sapevano però altro, né avevano frugato sotto il manto per vedere che cosa portasse via. Per quella sera il capocomico fu costretto a improvvisare uno spettacolo qualsiasi, rinviando a domani le ricerche; per adesso ne dava comunicazione al Capitano di città. Ma Ferrazzano ritirandosi dopo la recita a casa, fu scosso da un gemito, che pare uscisse di sotto la porta; proiettò la luce della lanterna, e vide un batuffolo di cenci. Si chinò: era qualche cosa vivente; ne svolse i cenci che la coprivano, e gli apparve un volto di bimba, i cui occhi si chiusero alla luce troppo viva che le ferivano. 
- Guarda, guarda! – esclamò a mezza voce, – e che vuol dire questo?

Luigi Natoli: Ferrazzano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700.
Il volume è la trascrizione dell'opera originale pubblicata a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia, dal 30 ottobre 1932
Narra di Ferrazzano, comico dell'epoca, maschera del teatro siciliano. Di lui si sa poco. Forse è realmente esistito, e alcune sue storie tramandate dal popolo l'autore le riporta nel romanzo, imbrigliando ad arte il personaggio tra realtà e fantasia.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Prefazione di Rosario Palazzolo (scrittore, attore e regista teatrale)
Pagine 338 - Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

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giovedì 22 ottobre 2020

Luigi Natoli: Tullio incontra i due cadetti di cavalleria. Tratto da: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820

La gente, che aspettava la processione, non gli badava: qualche amico passando, e dato uno sguardo, barattava una parola, salutava, e tirava innanzi per non essere di troppo; ma due cadetti di cavalleria, che si eran già fermati anch’essi in quei paraggi a poca distanza da Tullio, e avevan sorpreso qualche segno telegrafico delle dita, cominciarono fra loro a ridere e a far delle smorfie canzonatorie, che fecero più volte aggrondar le sopracciglia e arrossir Tullio per la stizza.
Erano allora i cadetti giovani di famiglie civili o signorili, che entravano volontari nella milizia per far carriera. Non eran semplici soldati, ma non eran neppure ufficiali, qualche cosa come gli allievi delle nostre accademie militari. Vagheggini, eleganti, approfittavano della loro condizione privilegiata, ed erano spesso insolenti, prepotenti e rissosi.
Quei due cadetti indossavano una bella uniforme turchina gallonata d’argento, con le piccole falde rivoltate indietro ad angolo, coi calzoni di pelle bianca aderenti alla coscia, e gli stivali alla scudiera lucidi come specchi. Stavano piantati con le gambe larghe, la sinistra sull’elsa della sciabola, l’alto kepy di cuoio, largo di fondo, e stretto di testa, calato sull’orecchio destro, con un’aria brava, provocante, che cominciava a far fremere Tullio Spada, e a mettergli nelle mani un tal pizzicore, che egli dovea fare uno sforzo per raffrenare i suoi nervi, e non farne qualcuna delle sue. Soprattutto lo forzava alla prudenza, il timore di spaventar Rosalia. 
Ma i due cadetti, presero quella prudenza per paura, e divenuti più coraggiosi ed insolenti, si avvicinarono ancor più a Tullio, sghignazzando. Anzi, uno di essi alzati gli occhi al balcone di Rosalia, spinse la sua sguaiataggine sino al punto di rifare un gesto del giovane. 
Non ci volle altro. 
Senza dire una parola, serrando le mascelle, ma con certi occhi che schizzavan vampe, Tullio Spada, si avvicinò ai due cadetti; e buttato via il bastone che gli era di impaccio, li acciuffò pel petto uno da destra, uno da sinistra, squassandoli con così violenta rapidità che quelli non ebbero né il tempo, né il modo di scansare l’assalto e difendersi. 
Rosalia mandò un grido di spavento; al suo grido fecero eco quello di sua madre e suo padre, il signor Anselmo, che stupìto e spaventato si mise a gridare: 
- Tullio! Tullio!...
Quelle grida, gli urli dei cadetti, lo sbatacchìo delle sciabole sul selciato, fecero voltar la gente, che non si era accorta di nulla, tanto il gesto di Tullio era stato subitaneo. Ma alla vista confusa di quei tre corpi che si agitavano scompostamente, non sapendo che fosse, le donne, levando alti strilli, scapparon di qua e di là, gli uomini indietreggiarono, intorno a Tullio ed ai cadetti, si fece largo e apparve allora agli occhi di tutti uno spettacolo così singolare, che la paura si mutò in stupore. 
I due cadetti, rossi in viso, col capo nudo, (che i kepy dopo aver dondolato un po’, eran caduti) con le uniformi sbottonate, sgualcite, facevano sforzi per liberarsi dalle mani di Tullio Spada; ma quelle mani parevan due morse di acciaio, e le braccie due leve possenti che sbattevano i malcapitati in alto, in basso, a destra e a sinistra come due burattini. Sbuffando, sacramentando, non potendo liberarsi da quelle mani indiavolate, i cadetti cercavano di sguainare le sciabole; ma Tullio Spada compì un gesto, che suscitò la meraviglia di tutta la folla. 
Con un gesto, che pareva non gli costasse alcuno sforzo, così acciuffati come li aveva, sollevò i due cadetti in alto, uno a destra, l’altro a sinistra; li sollevò oltre la sua testa; li tenne così un attimo, quasi per godersela a vederli buttar le gambe in aria; e, come fossero stati i piatti di una gran cassa, li battè, uno contro l’altro, una volta, due volte, tre volte…
Pareva battesse due pantofole per spolverarle. La folla dapprima sbalordita alla forza prodigiosa di quei muscoli e di quei nervi, ruppe in grida di entusiasmo, come a uno spettacolo.
- Bene! bravo! forza!... pigliatevi questa, marionette!
Ma ecco una voce gridare: 
- I birri! I birri!
Coi birri, in quei tempi specialmente, era meglio non averci da fare. Tullio Spada diede un ultimo colpo ai cadetti, e, mezzo svenuti per le percosse e per la vergogna, gittatili per terra come due sacchi vuoti, fendè la folla, che lo applaudiva e, infilato il portone della casa della fidanzata, lo chiuse di dentro, per mettersi in salvo, prima che giungessero i birri. 




Luigi Natoli: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820.
Riproduzione fedele dell'opera originale pubblicata in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon, e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Luigi Natoli: Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano... Tratto da: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820

Che folla pel Toledo! E sì, che quell’anno – 1820 – il mese di giugno era in Palermo più arroventato del solito. 
Ma era giorno di festa; e la folla aspettava il passaggio di una processione promossa dai padri Gesuiti in onore di S. Luigi Gonzaga, alla quale prendevano parte tutti i giovanetti delle loro scuole. La processione doveva percorrere la lunga, diritta e bella strada, che dal cinquecento in poi era stata chiamata col nome del vicerè don Garzìa de Toledo e lo serbò fino al 1860, quando le sostituirono quello di Vittorio Emanuele. Era allora la strada principale della città; la via Maqueda che la taglia in croce, bella e lunga ugualmente, non avea che il secondo posto. Le più ricche botteghe, i palazzi più cospicui, le chiese più belle erano – e sono ancora – sulla via Toledo; in essa palpitava la vita della città: ma l’aspetto era allora un po’ diverso da quello d’oggi, perché molte botteghe avevan sulla porta una pensilina, – con voce dialettale “pinnata” – che talvolta era sorretta da pilastrini; e avean la porta divisa in due parti ineguali da una colonna: dalla parte minore sporgea per circa due palmi sul marciapiedi il banco: e pensiline e banchi ingombravano e impedivano alla vista di correr liberamente. In compenso offrivan ombra  e sedili alla folla, nei giorni di festa, e riparo in quelli piovosi. 
Quel giorno sotto le pensiline e sui banchi si assiepava la folla. Era un alternarsi, un sovrapporsi, un confondersi di vesti bianche, rosa, cilestri trasparenti e vaporose; di scialletti di crespo di seta che parevan tessuti di nuvola; di cuffie bianche e di cappelloni di paglia; uno sventolìo di piccoli ventagli d’osso o d’avorio luccicanti di pagliette d’argento; interrotto, frammezzato dalle macchie turchine o verdi o color di foglia secca, che mettevano i vestiti maschili fra quelli donneschi. La stessa folla di colori si vedeva agli sbocchi dei vicoli, lungo la via, su nei balconi; e per tutto era un cicaleccio, un ronzìo confuso, sul quale a quando a quando irrompevano più forti e distinte le grida dei venditori ambulanti d’acqua gelata, di semini di zucca e di fave tostate, di ciliege, o di dolciumi. Quelle grida cadenzate, musicali, metaforiche e gioiose sgorgavano sul ronzìo afoso come freschi zampilli nell’arsura del sole. 
Ai Quattro Canti la folla era più densa, trattenuta dai granatieri, schierati di qua e di là, per lasciar libero il passo alla processione, e sorvegliata dai birri armati di bastone: ma si accalcava intorno ai palchetti rizzati sulle fontane, dai quali i musici avrebbero intonato “la cantata”; e dinanzi al Caffè di Sicilia, dove si faceva un gran sorbire di gremolate e di acquetta d’amarena. 
Tullio Spada, come ogni buon cittadino palermitano amante di feste e di spettacoli, attraversati i Quattro Canti, andò a fermarsi a pochi passi di lì, quasi all’angolo della “Calata dei Musici” che metteva in comunicazione la piazzetta Pretoria con la via Toledo: e si chiamava così, perché vi era il convegno dei professori d’orchestra e dei virtuosi di canto, e, per dirla con una parola moderna, la borsa di lavoro o il sindacato di quei disperati. 
Egli avea tre ragioni di fermarsi in quel luogo: prima di tutto perché i Quattro Canti erano il punto di riunione, di sosta, di ritrovo di tutti i cittadini e dei “regnicoli”, ossia dei provinciali che venivano a Palermo; il cuore, e per certi aspetti, anche il cervello della città; poi, perché, essendo un bel giovane elegante, non gli dispiaceva essere ammirato; e infine – questa era la vera ragione principale e più forte – perché di lì guardando un balcone al primo piano d’un palazzo di fronte, poteva vagheggiare Rosalia. 
Rosalia era la sua fidanzata, e stava al balcone aspettandolo. Una simpatica e graziosa fanciulla di sedici o diciassette anni, capelli neri che incorniciavan l’avorio del volto ovale, ed occhi nerissimi, che avevano nella profondità appassionata dello sguardo qualcosa di timido e dolce. 
Oh, che bisogno aveva Tullio di vagheggiarla da lontano, se era la sua promessa sposa? Gli è che allora in Palermo, e peggio ancora nel resto della Sicilia, pareva una cosa sconveniente, quasi scandalosa lasciar i fidanzati vedersi da vicino e parlarsi, per qualche ora al giorno...
Quando i genitori della fanciulla erano di buon cuore e di manica larga concedevano al giovane di venire una volta la settimana, per un’oretta, a visitare la promessa sposa, e a dirle, per esempio: - “Come state?” – o – “che bel tempo!” – ovvero: – “Avete bevuto la cioccolata?” e simili cose graziosissime e divertenti. Oggi ce ne meravigliamo e ne ridiamo; ma allora, nella borghesia semplice e patriarcale, prudente e scrupolosa, parevan le cose più naturali e non ne ridevano; ci vivevano tranquilli e felici. 
Quel giorno sebben festivo, non era uno di quelli assegnati per la visita, e Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano, scambiar con lei qualche sorriso, qualche gesto furtivo, e dirsi con gli occhi tutte le parole tenere che le bocche non potevan pronunziare. 

Luigi Natoli: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820.
Riproduzione fedele dell'opera originale pubblicata in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930
Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno
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In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

mercoledì 21 ottobre 2020

Luigi Natoli: Parlamento e Deputazione. Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700

Se il detto che in Sicilia i Vicerè rosicchiavano, in Napoli mangiavano e in Lombardia divoravano era vero, gli è perché in Sicilia non potevano fare tutto quello che volevano. Gl’intrighi, la corruzione procacciavano loro qualche vantaggio, ma erano vincolati sempre dalla legge più che dalle condizioni economiche dell’Isola. I vincoli erano il Parlamento e la Deputazione del Regno, che ne era l’espressione e ne curava l’esecuzione di quanto quello deliberava. 
Il Parlamento di tre bracci, l’ecclesiastico, il militare e il demaniale, era cagione d’orgoglio pei Siciliani. Giuseppe Toppoli scrivendo alla corte di Madrid una relazione sullo stato della Sicilia per incarico del duca d’Ossuna, potè dire con vanto che “tra li principati e le monarchie” non restavano che “questi due Parlamenti, cioè quello di Londra e quello di Sicilia, che conservavano il loro diritto.” Questo diritto era principalmente di valutare e di stabilire, secondo le possibilità del Regno, le imposte, che andavano in parte al Re, in parte a benefizio del Regno per la difesa e le vie di comunicazione, e in parte, ma piccola, per assegni alle persone. Il Re e per lui i Vicerè non avevano in diritto facoltà di imporre; potevano chiedere una somma, ma stava al Parlamento di deliberarla e anche diminuirla, e anche negarla. Questa somma che prendeva il nome aragonese di “donativo” divisa in “tande” (o quote) si riscuoteva in un certo numero di anni; ma alle volte si aggiungeva un donativo straordinario, e il peso maggiore estingueva le risorse del Regno. 
Poiché i Vicerè dimoravano per alcuni mesi a Messina e a Catania, il Parlamento non ebbe una sede stabile; solo nell’ultimo cinquantennio del secolo XVI fissò la sua sede in Palermo. Però nei due secoli 1500 e 1700 s’adunò in Palermo settantasette volte, in Messina diciassette e solamente due in Catania. E neppure ebbe dapprima un termine, e solo sul cadere del ‘500 si adunò ogni tre anni, salvo il caso di Parlamenti straordinari che potevano riunirsi secondo il bisogno. Ed i tre bracci che lo componevano non si adunavano tutti insieme e nel medesimo luogo che nella seduta inaugurale, che si faceva coll’intervento del Vicerè e con un discorso, diciamo così, della corona pronunziato dal Protonotaro del Regno. 
Non furono sempre lisce le sedute del Parlamento; spesso accadevano liti fra i membri d’una medesima classe. Per esempio, quello sollevato dall’arcivescovo di Messina nel 1556, che pretendeva di sedere al primo posto, contro quello di Palermo, e che i suoi rappresentanti conservassero lo stesso diritto. La quistione fu lunga. Al fine si deliberò che il primo posto toccava all’Arcivescovo di Palermo, ma che i rappresentanti occupassero il posto dei rappresentati. 
Dal Parlamento era tratta la Deputazione del Regno, tre deputati per ogni braccio, che nel suo massimo sviluppo furono quattro, ed ebbe costituzione stabile e leggi proprie. 
Essa non solo curava la esatta osservanza delle leggi votate dal Parlamento, ma poteva anche opporsi al Vicerè e al Parlamento stesso, quando violavano o menomavano alcuna delle leggi o delle immunità giurate. 
Perché, nonostante che Scipione de Castro ammonisse il Vicerè Colonna che “si guardasse bene dal fare Deputati persone testarde, catoniane, popolari, perché steriano sempre alle mani con lui”, i conflitti sorgevano e quasi sempre col trionfo della Deputazione. Rimase celebre quello scoppiato nel 1610 fra il Vicerè Villena e i deputati conte di Comiso e marchese di Limina. Questi furono arrestati, perché non avevano sottoscritto un mandato di sessantamila scudi in favore del Vicerè, che questi richiedeva, dopo averli formalmente rifiutati nell’atto stesso che venivano votati. Il Giardina pubblicò or non è molto i documenti relativi alla quistione, che finì con la scarcerazione degli arrestati e con danno morale del Vicerè. 
E quell’altro avvenuto fra il Vicerè duca di Albadelista e il marchese delle Favare, il duca di S. Giovanni e il barone di Siculiana, per il quale il marchese fu confinato ad Agosta, e vi morì in un accesso di collera. E non si dice il conflitto tra il Vicerè Infantado e l’arcivescovo De Leòn Càrdena che aveva riferito alla Corte omnia maledicta sul conto del Vicerè;  e quello contro il Sant’Offizio, dove egli mandò una compagnia di soldati spagnoli, per castigare un nunzio che aveva opposto resistenza a un ufficiale della Gran Corte. 

Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700. Opera inedita, costruita e fedelmente copiata dal manoscritto dell’autore privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche i più frivoli.
Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 283 – Prezzo di copertina € 20,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)


La Collana dedicata alle Opere di Luigi Natoli edita I Buoni Cugini editori è disponibile alla Feltrinelli libri e musica di Palermo



 

Luigi Natoli: Antonio Veneziano. Tratto da: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560

Il terzo, che, senza preoccuparsi della ferita, apriva con aria di padrone di casa un grande stipo intagliato, e ne traeva un fiaschetto di terracotta smaltata, era l’antitesi degli altri due cavalieri. Era un uomo di circa trentasette anni, di statura mezzana, snello, nerissimo di capelli e con la barbetta appuntita; ulivigno di carnagione; col naso aquilino e gli occhi vivacissimi e mobili; una espressione arguta, qualcosa di geniale nel volto; una grande irrequietezza nei gesti. Era il signor Antonio Veneziano, uomo di vasta cultura, dotto nelle lingue classiche e nell’ebraico, umanista degno del bel secolo, e sopra tutto poeta di vena ricca, varia, feconda e faconda, salutato dai contemporanei come principe dei poeti “nazionali” ossia siciliani, e nuovo Petrarca; spirito bizzarro, insofferente, caustico, audace, caro e ricercato per la sua conversazione, per la sua dottrina e per le sue avventure. Da pochi giorni era stato riscattato dalla schiavitù.


Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore. L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour, Palermo)

Luigi Natoli: Donna Felice Orsini. Tratto da: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1560.

Donna Felice Orsini era sui quaranta, e se non bellissima, aveva un aspetto gradevole, e una dignità di modi o di parola, non disgiunta da un certa grazia, che la rendevano ancor più simpatica. V’era nella sua persona e nei suoi atti quella compostezza che appare nelle statue delle antiche matrone romane.
La sua conversazione alla quale spesso prendeva parte anche il marito, era perciò frequentata volentieri dalle dame di Palermo. Da vera matrona romana, abituata alle grandi corti pontificie, aveva portato nella sua dimora, e nel suo ufficio semiregale, qualche cosa di quei gusti intellettuali: cosicchè non mancavan mai in quelle conversazioni uomini virtuosi nelle arti e nelle lettere E vi sonava il liuto don Mario Cangialosi, giudicato il più valente sonator di liuto che fosse in quei dì in tutta Italia; vi recitavan versi siciliani, toscani e spagnoli Argisto Giuffredi, il barone di Montemaggiore, il cavaliere Tomaso Ballo; don Bartolomeo Bonanno, don Geronimo e don Vincenzo di Giovanni, don Geronimo Branci, altri letterati, e qualche volta Antonio Veneziano, che era spirito troppo libero per piegarsi a usi di corte. V’era stato da qualche giorno introdotto un pittore poeta d’umore bizzarro e così strano che divertiva dame e cavalieri, e lo stesso Marcantonio Colonna ci si spassava. Era Francesco Potenzano.

Donna Eufrosina fu accolta in quella società, con benevolenza da donna Felice Orsini, con ammirazione dai cavalieri, con simpatia dalle dame.
Su le prime ella provò una certa soggezione. Vissuta nella prima giovinezza in monastero; entrata nell’austera solitudine della casa del suocero: costretta nell’ombra dalla morte della suocera, non aveva altra pratica del mondo che quella piccola corte, che s’adunava in sua casa, e della quale ella era il centro. E questa corte, a lei, che usciva dalla solitudine, pareva una gran cosa.
Ora invece si trovava d’un tratto in una società più vasta; fra dame di nobiltà e ricchezza maggiore della sua. Grandi nomi, che avevano scritto pagine nella storia del regno. Ventimiglia, Lanza, Moncada, Branciforti, Del Carretto, Valguarnera, Calvello, Filingeri, Aragona, Bologna, La Grua; grandi stati che occupavan mezza isola. I Corbera erano anche essi vecchia nobiltà, ma non da stare a paro dei Ventimiglia o dei Branciforti; e il loro feudo del Misilindino spariva dinanzi a quelli dei Branciforti, che avevan principati, duchee, marchesati e contee. Quanto a lei veniva da una famiglia di cadetti, che si rinobilitavano con la toga.
E centro di quella nuova società nella quale essa entrava, era una dama di antichissima famiglia e delle più illustri di Roma; moglie di un uomo pari di nobiltà, e di gran fama, che in Sicilia faceva le veci del re, e aveva onori e prerogative sovrane.
Ma donna Eufrosina possedeva la ricchezza maggiore che una donna possa desiderare, e che tutte le darne le invidiavano: aveva la bellezza, una bellezza piena di seduzioni che il giorno dopo, nella stessa corte, le procurò un trono, diverso da quello della Viceregina, ma non meno dominatore.
Così la terza volta che ella andò alla conversazione della Viceregina, aveva già ripreso il dominio di sè, e aveva cominciato a dar saggi del suo spirito colto e versatile; di quella cultura superficiale che basta a render più piacevoli i frivoli discorsi delle dame; e di quella versatilità dilettantesca, sufficiente a dare diversi atteggiamenti allo spirito e ad affinarne il gusto.

Luigi Natoli: La dama tragica. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo nel 1560, al tempo del vicerè Marco Antonio Colonna, di donna Eufrosina Corbera e della loro storia d’amore.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 604 – Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)


lunedì 5 ottobre 2020

Luigi Natoli: I fratelli Palizzi. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)

Nel 1322 Matteo aveva circa vent’anni. Di statura media, bruno, pallido in volto, neri i capelli e gli occhi; non era brutto, ma aveva nello sguardo freddo e tagliente come la lama di un pugnale qualche cosa che agghiacciava il sangue e annullava la volontà. Tutti i lineamenti del suo volto, dal naso lievemente aquilino, al taglio della bocca, dall’ampiezza della mascella alla durezza del mento prominente, dalla convessità della fronte alla ruga che s’insolcava diritta e profonda fra le sopraciglia folte e nere, rivelavano una volontà tenace, una grande ambizione di dominare, violenza, simulazione e insensibilità di cuore. V’era qualche cosa di felino e di volpino.
Tutto volpe era invece Damiano, anche negli occhi gialli. Egli aveva quattro anni più di Matteo, sul quale aveva, più che per l’età, acquistato un certo ascendente con la sottigliezza dei suoi suggerimenti, con la ricchezza degli espedienti che la sua mente feconda sapeva trovare per trarsi d’impaccio, con la perfidia tenebrosa de’ suoi disegni. Era anche lui ambizioso, ma non soltanto per sé, anche per Matteo, pel quale aveva una certa tenerezza.
Nicolò non aveva lasciato loro altre ricchezze che la fama: poche terre che non rendevan molto; e che non consentivano a Matteo di sfoggiare come i Chiaramonte, i Ventimiglia, messer Matteo Sclafani, e quei signori catalani, che venuti poveri in Sicilia, s’andavano arricchendo delle terre tolte con la frode, coi tradimenti, colle concessioni regie, agli antichi signori indigeni.
Matteo aveva però trovato nella Corte una protettrice: la regina Eleonora.
La regina Eleonora, moglie di Federigo, era ancora giovane; nasceva di casa Angiò, e veniva da una corte galante; quel giovane freddo, cupo, energico, gli occhi del quale avevano sinistri bagliori, non le destò nessuna avversione: anzi le parve un frutto strano e di sapor nuovo. E fu lei che lo ammise fra i familiari di corte e lo diede compagno all’Infante Pietro; ciò che le dava occasione di vederselo sempre accanto.
Quando l’Infante era ancor fanciullo e Matteo era un giovinetto, ella li confondeva nella stessa carezza: ma le sue mani si indugiavano di più, e con un piacere diverso, sul capo del giovane Palizzi. Pareva che ella aspettasse che il giovinetto crescesse ancora un po’. Il frutto era ancor troppo acerbo. Con gli anni il desiderio si fece in lei più intenso: nel 1322 Eleonora aveva trentanove anni circa: ed era ancor bella.
Verso la metà di luglio di quell’anno, un pomeriggio, i due fratelli Palizzi se ne stavano in una sala del loro palazzo degli Schiavi. Messer Damiano, in piedi, s’appoggiava a una tavola di quercia, con le braccia conserte; Matteo passeggiava, più fosco del solito: di quando in quando si fermava dinanzi al fratello…
Damiano esercitava sopra di lui un grande e assoluto ascendente. Quel prete modesto all’aspetto, pieghevole, untuoso che non d’altro apparentemente si occupava se non del suo ministero, gli si rivelava, quando erano soli, superbo e ambizioso, con una forza di volontà, una grande fiducia di sé, una sicurezza indiscutibile nella riuscita.
Matteo lo ammirava e l’ascoltava: ma questa volta gli era entrata nel sangue la febbre del puntiglio. Era ancor troppo giovane per saper frenare e guidare i suoi istinti.
 

Luigi Natoli: Latini e Catalani – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli anni 1925 e 1926.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Mastro Bertuchello – Pagine 575 – Prezzo di copertina € 22,00
Il Tesoro dei Ventimiglia – Pagine 525 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, su Amazon Prime e al venditore I Buoni Cugini e in tutti i siti vendita online.
In libreria a Palermo: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)

Luigi Natoli: Madonna Margherita Consolo. Tratto da: Mastro Bertuchello (Latini e Catalani vol. 1)

Una mattina, ascoltando messa nella chiesa di S. Maria Maddalena, alla Galca, messer Francesco vide entrare una giovinetta assai bella, e con certi occhi che trapassavan come dardi il cuore di chi la mirava. Era accompagnata da una vecchia, la nutrice forse o la nonna, ché poteva essere l’una o l’altra. Mastro Bertuchello che era un ragionatore conseguenziario, assicurava che quell’incontro fu la causa prima della quale, per filo di logica, dipesero tutti gli avvenimenti successivi. Che bisogno aveva il conte, allora giovane e avido di piaceri, innamorarsi sul serio di quella giovane? Bella, sì, lo era: ma anche le altre donne di cui egli si era incapricciato eran belle, e tuttavia messer Francesco non si era perduto dietro a loro. Prendeva e lasciava. Quella volta, no. Madonna Margherita Consolo non fu così facile a cedere: era una fanciulla modesta e riserbata; arrossiva quando vedeva il conte, e il suo volto si illuminava d’un sorriso di gioia: ma non osava neppure parlargli dalla finestra. Il conte perdette il giudizio. Diede qualche colpo di spada per sbarazzarsi di qualche competitore: e una notte entrò violentemente dalla finestra nella camera della fanciulla, e non ne uscì che all’alba. Voi crederete che soddisfatta la voglia e il puntiglio messer Francesco fosse votato alla ricerca di qualche altro fiore? Nossignori! Quella fanciulla che pareva timida e vergognosa, doveva possedere qualche incantesimo; e avvenne la cosa più illogica per le abitudini del conte, quella cioè di rimaner fedele a madonna Margherita, fino al punto di toglierla con sé, in una sua casa, e convivere con lei, come fossero stati marito e moglie. Questo avvenne intorno al 1312. Io non ero ancora nato; e questi fatti mi vennero raccontati dai più vecchi.
Nacque un primo figlio, al quale madonna Margherita volle che fosse posto il nome del padre, vezzeggiandolo in Franceschello. Il conte aveva già toccato i trent’anni, l’età in cui gli affetti cominciano a diventar più saldi; quel figlio fu la sua gioia e il suo orgoglio; ma la bella Margherita gliene regalò un secondo, e si chiamò Aldoino, e poi un terzo, Manuele... il conte si vide crescere intorno una famiglia, che appunto perché illegale, lo circondava di carezze e di cure.
Certo la stirpe dei Ventimiglia non si sarebbe estinta; ma i conti di Geraci, i signori feudali sarebbero cessati con lui. Madonna Margherita non era nobile: e re Federigo, il quale vagheggiava pel suo favorito un gran maritaggio, non era disposto a riconoscere quella figliolanza.

La maledizione di Madonna Margherita
Madonna Margherita si avviò verso casa col cuore tempestato da cento passioni diverse. Le ultime parole del saggio che leggeva negli astri, sebbene enigmatiche, le aprivano l’anima a speranze e a scoramenti, ma quella vendetta, quel sangue, le gelavano il sangue. Da chi sarebbe venuta la vendetta? Chi sarebbe stata la vittima? Lei? Non importava, purchè Madonna Costanza non godesse delle nozze; purchè Franceschello cingesse la corona di conte! Volle passare dinanzi alla casa di messer Francesco: attraverso una finestra vide un lume; pensò che lì forse era la camera nuziale, e che in quel momento Costanza offriva la bella e fresca bocca giovanile ai baci di messer Francesco; e allora alzò i pugni minacciosi verso la finestra, gridando:
- Che il tuo grembo sia maledetto come un terreno sterile; che le tue gioie si tramutino in pianto! Sposa di maggio, non godrai del cortinaggio!


Luigi Natoli: Latini e Catalani – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli anni 1925 e 1926.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Mastro Bertuchello – Pagine 575 – Prezzo di copertina € 22,00
Il Tesoro dei Ventimiglia – Pagine 525 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, su Amazon Prime e al venditore I Buoni Cugini e in tutti i siti vendita online.
In libreria a Palermo: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)