lunedì 29 aprile 2019

Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

Questo volume è la fedele riproduzione della raccolta "Storie e leggende" pubblicata da Luigi Natoli nel 1892 con la casa editrice Pedone Lauriel. 
Il lavoro è ben illustrato dall'autore nell'Avvertenza iniziale: 
Per non turbare la narrazione, e per non schiacciare il lettore sotto il peso di una spaventevole erudizione, ho soppresso in questo libro ogni e qualsiasi nota.
Per coloro però che volessero sapere donde ho tratto la materia di queste novelle storiche o leggendarie che siano, noto qui le fonti alle quali, con maggiore o minore larghezza, secondo lo svolgimento drammatico, ho attinto.
Il Piede del Crocifisso ho desunto in parte da una monografia di Vincenzo Auria (Il vero e originale ritratto di Cristo N.S. in croce – Palermo 1669) e in parte da una tradizione orale.
Le Gesta di Galeazzo, dalla Sicilia Ricercata di Antonino Mongitore (Palermo 1742).
Un Eroe, oltre che dal citato libro del Mongitore, dalle storie del Sabellico (Deca III, libr. 9) del Cepio (Rebus Venetis libro II) del Maurolico (Sicaniarum Rorum, lib. V, VII).
Fuga d’amore, l’Esodo, il Caso di Sciacca ho tratto dalle Storie Siciliane di Isidoro La Lumia (v. I quattro Vicari, gli Ebrei in Sicilia – La Sicilia sotto Carlo V, nei vol. II e III – Palermo 1883).
Per I Santapau, sebbene le ricerche fatte da ch. Signor A. Flandina nell’Archivio e pubblicate nell’Archivio Storico Siciliano (anno III, fascicolo IV, Palermo 1679) modifichino lo svolgimento di quel tragico fatto, ho voluto seguire invece la cronachetta manoscritta, raccolta dal Villabianca nei suoi Opuscoli che si conservano alla Comunale, la quale mi è parsa più poetica.
Nella leggenda della Baronessa di Carini ho seguito lo stupendo poema popolare edito dal dotto S. Salamone Marino (Palermo 1873 – V ediz.) quantunque l’acuta opinione ultimamente espressa dall’illustre G. Pitrè (vedi la nuova edizione dei Canti Popolari Siciliani Palermo C. Clausen edit. 1891) sia degna di considerazione.
Ed è a proposito dell'acuta opinione dell'illustre G. Pitrè che noi editori siamo intervenuti, aggiungendo al volume la novella "La signora di Carini", pubblicata da Luigi Natoli sul Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910, che narra "il caso" secondo la teoria del Pitrè. 
E poiché figura centrale della raccolta è appunto la Baronessa di Carini abbiamo aggiunto, oltre alle novelle, Un poemetto siciliano del XVI secolo, trascrizione di un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX  Palermo 1910. In questo piccolo saggio, Luigi Natoli studia il "caso" della Baronessa sia da un punto di vista storico che da un punto di vista letterario, dando ampia spiegazione alle origini e alla composizione del famosissimo poemetto della Baronessa di Carini. Infine, a conclusione di tutti gli studi che l'autore fece sul "caso" abbiamo inserito "Storia della Baronessa di Carini" tratto da Musa Siciliana di Luigi Natoli, opera pubblicata con la casa editrice Caddeo nel 1922. 
Per migliore analisi del lettore, ad ogni leggenda è stato affiancato il contesto storico, tratto da Storia di Sicilia dalla Preistoria al Fascismo di Luigi Natoli(Ciuni 1935). 
Un volume prezioso dunque, che non può mancare ai collezionisti di opere del grande scrittore e storiografo palermitano. 

Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Prezzo di copertina € 21,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso Librerie Feltrinelli

martedì 16 aprile 2019

Luigi Natoli: Rolando. Tratto da: Alla guerra!

Guy cercava Rolando: domandava ai soldati della sua compagnia se l’avessero veduto.
Il sergente, che, ferito a una gamba, si avviava sorretto da due soldati verso l’ambulanza, gli disse:
- Sì, signor tenente; il poveretto è malamente ferito: forse lo troverà morto... È appoggiato a un albero, laggiù... a destra....
Addolorato da quella notizia, visti due porta-feriti con una barella, li chiamò:
- Venite; c’è un ferito grave...
Trovarono Rolando che si lamentava con mugolii bassi e lunghi, come un cagnolino, pallido, gli occhi umidi di lagrime, l’espressione di sgomento. A vederlo intriso di sangue, Guy si sentì stringere il cuore, ed sclamò:
- Ah povero ragazzo! Lo prevedevo!...
E dando alla voce un tono sorridente e incoraggiante, aggiunse:
- Su, animo!... Non son ferite gravi!...
Rolando sorrise pallidamente. I militi della Croce Rossa lo sollevarono, lo adagiarono su la barella, lo trasportarono via. Guy lo accompagnò, tenendosegli a fianco, e di quando in quando gli rivolgeva qualche parola di conforto, alla quale Rolando rispondeva con lievi sorrisi.
Quando giunse alla prima ambulanza per la medicatura più urgente, tra’ soldati si sparse la voce che Maisonbrulèe era stato ferito gravemente; e fu uno stupore, un dolore. Come? Quel povero ragazzo? Ah! ma gli doveva finir così; era troppo audace. Cercavano tutti di vederlo, chi gli si poteva avvicinare, gli rivolgeva una parola affettuosa, con una voce piena di tenerezza. Bravo Maisonbrulèe! Gli era nulla, venti, trenta giorni di cura, e poi nuovamente al fuoco. Pim! pam! Vero?
E allora un lampo illuminava gli occhi di Rolando, e le sue labbra sorridevano men tristemente. Ma quando i soldati si voltavano scotevano il capo. No, non l’avrebbe scampata! Peccato! Era così allegro, così nuovo in tutte le sue cose, così semplice!... Nessuno in quel momento osava dire “sciocco”: invece tutti conchiudevano:
- Che coraggio!... La sua audacia l’ha ucciso!...
E il compianto accompagnò il carro automobile, che lo trasportò a Suippes.
- Bisogna amputargli subito le gambe – aveva detto il medico.
- Tutte e due?
- Tutte e due, povero figlio! E speriamo che viva.
Guy si sentì un rimescolio nel sangue, che gli distese un’ombra sugli occhi; e volle accompagnare il ferito a Suippes. Pensava a quella povera madama Maisonbrulèe, e per associazione, pensò anche alla sua mamma, e poi a tutte le mamme orbate dei figli, a quella guerra imposta al Belgio e alla Francia dalla pazzia di un uomo, dalla barbarie d’una casta, dall’interesse dei capitalisti; a quell’assassinio di una nazione, premeditato lungamente, tentato improvvisamente e con ferocia selvaggia e primitiva.
Intanto la notizia si diffondeva. Maisonbrulèe è stato gravemente ferito! e dovunque destava lo stesso dolore. Quel ragazzo era diventato famoso e gli volevan bene tutti: anche quelli che non lo conoscevano e che avevano sentito raccontare le sue prodezze e le sue semplicità. Si domandava dove, come e quando fosse stato ferito; ma si sapeva ben poco; qualcuno disse che era stato raccolto sul campo, più innanzi di tutti gli altri caduti. Guy diede qualche particolare: narrò come fosse stato salvato, magnificò l’eroismo di Rolando; e allora, nella eccitazione degli animi il giovane assurse in una figurazione quasi leggendaria, e quando giunse a Suippes la fama lo aveva già preceduto.
La barella fu tolta con grande precauzione dalla vettura, e trasportata nella sala operatoria. Michaud che vi si trovava non fu meno stupito e addolorato di vedere Rolando in quelle condizioni. Volle sapere come fosse andata. Guy dovette ancora una volta narrare l’episodio che lo riguardava; e allora tutti, medici, infermieri, ufficiali circondarono la barella, e il maggiore medico, guardando di fra gli occhiali quel fanciullone pallido e sorridente, gli gridò commosso:
- Bravo, figlio! La patria ti benedirà.
Gli occhi di Rolando scintillarono, il suo volto si colorò di una fiamma improvvisa; fece un gesto col capo, come se avesse voluto sollevarsi, ma non potendo, levò il capo e gridò:
- Viva la Francia!
E svenne.
Dopo circa un’ora egli era adagiato sul letto di una sala. Egli? No, il suo troncone. Gli avevano amputate tutte e due le gambe. Betty gli stava al capezzale; Michaud si era fermato ai piedi del letto, guardandolo con un vivo interesse. Più tardi venne il colonnello a visitare il ferito. Voleva rimproverarlo di aver disubbidito; ma al vederlo così pallido e sereno, con la spalla e un braccio e il capo bendato, non osò; strinse le labbra per non mostrar la sua commozione, e rimase un po’ in silenzio, senza poter dire nulla; e finalmente non disse altro che:
- Ebbene, ragazzo mio, come è andata?
- Lo vedete mio colonnello!... – rispose Rolando.



Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale.
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia del 1914. Raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori.
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 31,00
Sconto del 25% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso Librerie Feltrinelli - Palermo

Luigi Natoli: La distruzione della Cattedrale di Reims. Tratto da: Alla guerra!

Il 124. e il 125., incorporati nella stessa divisione, si trovavano alle Argonne, tra S. Menehould e Clermont; essi dunque dovevano percorrere lo stesso itinerario, almeno fino al comando della Divisione.
Ma Michaud aveva voluto prima di andare al campo, fermarsi un giorno a Reims per compiere un pellegrinaggio di cordoglio alla cattedrale. Tutti i giornali del mondo, tutti gli uomini colti, tutte le associazioni letterarie e artistiche avevano protestato contro quel selvaggio bombardamento; salvo i dotti tedeschi, che approvavano l’opera nefanda e barbarica dello stato maggiore; il Kaiser, che fingeva di spargere qualche lagrima di coccodrillo; e i generali bombardatori, che cinicamente affermavano nessun monumento d’arte, nessuna creazione di genio, per quanto unica, gloriosa, veneranda, valevano l’ultimo fantaccino tedesco. Le polemiche sorte per giustificare lo scempio, le descrizioni della grande rovina, tenevan viva la fiamma dello sdegno in tutta la Francia; e avevano spinto Michaud a quel viaggio. Egli vi si recava col cuore stesso col quale i primi pellegrini si recavano al sepolcro di Cristo caduto in potere dei musulmani; con pietà religiosa, odio pei profanatori, desiderio di vendetta.
- Barbari i turchi? Non è vero. Se voi mi dite che essi fanno la guerra da selvaggi, scannando i vecchi, violando e ammazzando le donne, infilzando i fanciulli con le baionette e con le scimitarre, uccidendo in massa gli inermi, mutilando i feriti, bruciando i villaggi e le città, cose tutte che fanno orrore alle genti civili; io vi domando se i tedeschi nel Belgio e in Francia non han commesso le medesime scelleratezze, e anche peggio!... Ma i Turchi, quando espugnaron Costantinopoli non bruciarono Santa Sofia, perdio!... E i tedeschi invece hanno bombardato e distrutto Louvain, Malines, la cattedrale di Reims. Capite?... La cattedrale di Reims, vuol dire un miracolo d’arte!... Sì, un miracolo. Guardate: prima ancora che il Rinascimento traesse dalla tomba la bellezza antica; prima ancora di Donatello, gli ignoti scultori che decorarono la cattedrale di Reims, avevano dato ai loro santi di marmo, la grazia ellenica! Come? dove l’attinsero? dov’erano i modelli? Chi insegnò loro a drappeggiare le figure con tanta nobiltà e con tanta verità di pieghe, e con tanta trasparenza del corpo?... Non c’è in tutta la statuaria del medioevo in Francia, in Europa, nulla che rassomigli o che abbia una parentela con quelle statue. La parentela è con la statuaria greca. Forse quegli ignoti artefici possedevano alcune di quelle leggiadre terrecotte, raccolte ora ne’ musei? Avevano in Grecia nutriti gli occhi con le reliquie di quella statuaria? Attingevano nel loro spirito?... Chi lo sa?... Son venuto più volte in Reims per godimento mio; e sempre mi son fermato lunghe ore in contemplazione dinanzi le statue dei tre portali, che mi paiono fra le più belle... V’è da imparare anche oggi... E i barbari del 1914 hanno lanciato con pazza voluttà su questi fiori dell’arte nostra, che non eran più nostri ora, ma appartenevano al mondo... Non hanno distrutto soltanto una nostra gloria, ma una gloria del genio dell’uomo!...
Così, per tutto il viaggio, Michaud, ora descrivendo, ora esaltandosi; alternando le notizie storiche sulla fabbrica della cattedrale con quelle sulla fioritura architettonica ogivale germogliata nell’Ile de France tra il XII e il XIII secolo, e diffusa da ignoti e misteriosi maestri per tutta l’Europa, e chiamata, non si sapeva perché, gotica; tenne vivo il discorso, e finì con l’attirare e interessare Guy, distogliendolo dai suoi pensieri.
Ma quando sceso dal treno, inoltratosi nella città, cominciò a vedere gli effetti del bombardamento, Michaud ammutolì. Qua e là case crollate, o ridotte mucchi informi di macerie annerite dagli incendi; altre traforate da mille buchi, senza tetto, coi travi di ferro contorti: il palazzo di città pareva un immenso crivello; quello della sottoprefettura era raso al suolo.
Via via che si avvicinava alla piazza, Michaud si faceva più pallido e sgomento; il suo cuore pulsava violentemente con un ritmo più celere: che cosa avrebbe trovato? Quali devastazioni nella cattedrale? Si fermò allo sbocco come arrestato da una forza maggiore, stropicciandosi gli occhi per veder più chiaro. A prima vista gli sembrò che l’edificio non ne avesse sofferto gran che; la sua mole torreggiava ancora; ma quando, lentamente, cominciò ad avvicinarsi, la rovina gli si andò svelando. Qualche cosa mancava dietro la chiesa... Sì; uno dei campanili. Era crollato sotto le bombe!... E l’abside? Era solcata da profonde ferite; alcuni contrafforti erano stati portati via, massi enormi, che avevano resistito per secoli a tutte le tempeste, giacevan per terra. Le navate non avevan più il bel tetto di legno, dalle travi di quercia scolpite; ma le pareti nereggianti rivelavano l’incendio distruttore.
Ahimè! il maraviglioso edificio non era che una carcassa vuota!...
Michaud si sentiva soffocare; non diceva una parola, non poteva; girava intorno allo scempio, guardando con gli occhi spalancati in uno sbalordimento angoscioso, fermandosi dove maggiori erano i guasti: guglie e pinnacoli atterrati o mozzati, pezzi di trine marmoree divelti, statue decapitate o monche, cornici spezzate a mezzo, rosoni sforacchiati, colonne stroncate a mezzo; una devastazione orrenda, una rovina!...
Michaud corse al portico: ah le belle statue, quelle delle quali aveva parlato con tanto entusiasmo, in quali miserande condizioni eran ridotte! Quasi tutte scheggiate, deformate dallo scoppio delle granate, mutilate!... Quel bianco popolo di Santi, immobili, con gli occhi spenti, pareva mostrasse le ferite aperte dai barbari!
Michaud si sentì empire gli occhi di lagrime. Nessuna scena di pietà gli aveva strappato una lagrima, chè aveva saputo dominare i suoi nervi, e difenderli con quell’abito scettico e mordace sul quale aveva ritemprato il suo spirito: ma dinanzi a quella immane rovina, l’artista ferito ebbe il sopravvento sull’uomo.
Guy, che lo seguiva, guardava anch’esso con doloroso stupore; non piangeva certamente, perché la sua commozione non aveva radici così profonde come quella dell’artista, ma ne provava sdegno, e di tanto in tanto, si lasciava sfuggire qualche vivace esclamazione di collera.
- Andiamo! andiamo! – disse Michaud con voce che rivelava l’interno affranto – andiamo! È una vista che non si può sopportare!... No! no!... Quale infamia! quale infamia!...
E tuttavia guardava. Ah le belle vetrate istoriate donde pioveva nelle navi una luce blanda e piena di dolce mistero! Tutte infrante! Perchè? per quale insania? per qual furore di matta bestialità?
- Ve lo dico io perché! – sclamava rispondendo a sé stesso; – perché quei miserabili non hanno nulla di così bello, nella loro Prussia goffa e beota; non hanno nulla che possa anche venir dietro, come una ancella dietro la padrona, ai miracoli architettonici delle Fiandre e della nostra bella Francia... I loro cervelli di barbari inferiori e invidiosi non possono tollerar la bellezza altrui... Distruggono perché nulla rimanga che mostri al paragone la loro inferiorità estetica; distruggono perché ogni segno della grandezza e della gloria degli altri sia cancellato!... Ma perdio! Ogni guglia spuntata, ogni pietra strappata, ogni statua mozza griderà nei secoli contro la barbarie di questo popolo che vanta la sua cultura superiore!... Ogni ferita di questo sacro e venerando edificio smentirà terribilmente la leggenda della superiorità spirituale dei boches... Eh no! non bisogna restaurarla, quando che sia, non bisogna restaurarla la cattedrale, come non bisogna restaurare, reintegrare alcuno dei monumenti devastati dalla supercultura tedesca... Bisogna che essi rimangano così, nella loro spaventevole rovina, accusatori perenni della più grande barbarie... Perché né i pacifici borghesi fucilati, né le vergini vilipese, né i fanciulli baionettati possono uscire dal sepolcro, e gridar vendetta;... la vita riprodurrà nuove forme: i fiori cresceranno sopra le fosse; del delitto contro gli uomini, della ferocia sanguinaria non rimarrà alcuna traccia... ma queste pietre frantumate, queste immagini decapitate, e che stendono i moncherini, queste trine di marmo spezzate, tutto ciò che non si rifà, che non si rinnova, che rimane rudere, con l’impronta della devastazione, del sacrilegio, tutto ciò grida e griderà nei secoli contro la barbarie; ed è l’unico segno, dal quale si possono anche arguire le stragi e le scelleratezze compiute... E bisogna che questi ruderi rimangano tali, perché duri nel sangue l’odio e la maledizione non si spenga sulle labbra!...
Parlava con voce veemente, quasi con enfasi, infiammato dallo sdegno; e la sua piccola persona pareva s’ingrandisse. Guy lo guardava con curiosità e ammirazione, perché lo scultore gli si rivelava sotto un aspetto nuovo. Altri, venuti forse come loro a visitare e a rammaricarsi dinanzi la rovina, si fermarono accanto a quel milite della Croce Rossa, che parlava con parole così iraconde; assentivano con gesti del capo; mormoravano:
- Che barbarie!... Prendersela con la casa di Dio!...
- E osa invocarlo ogni istante, Dio, quel brigante!...
- Eh! ma il suo Dio, non è il nostro, non è quello dei cristiani; è un vecchio dio, probabilmente uno di quelli delle antiche orde senza legge che erravano nelle foreste teutoniche!...
Sulla porta di mezzo v’era un picchetto di soldati francesi, attraverso la porta si vedevano altre rovine; l’arco dell’abside strappato; una gran buca nella volta, massi rotolati sul pavimento, frantumi marmorei; gli alti steli della navata di mezzo anneriti dal fumo, e per terra mucchi neri, e fra le pietre, rimasugli della travatura, pezzi di confessionali, le tracce raccapriccianti dell’incendio. Un caporale narrava i particolari del bombardamento. Era cominciato il venerdì sera, 18; ed era continuato il sabato. Le bombe piovevano, scoppiavano, frantumavano. Una forò l’abside; una buca immensa. Il fuoco si accese ad alcune impalcature che servivano per restauri; si comunicò alle travi; una trave, cadendo sulla paglia che era distesa per terra, dentro la chiesa, vi diede fuoco. E allora bruciò tutto!...
- E c’eran più di cento feriti, sopra la paglia; e tutti tedeschi... ma non li abbiamo fatti arrostire, come avrebbero fatto quei banditi, se si fossero trovati al nostro posto, e se i feriti fossero stati francesi!... Oh no!... Li abbiamo salvati fino all’ultimo, cacciandoci in mezzo alle fiamme e al fumo, mentre le bombe sibilavano, cadevano, scoppiavano... Ah! vi so dire che non era una cosa piacevole!...
Qualcuno domandò:
- Non c’era dunque la bandiera della Croce Rossa?
- Come no? Ce n’era una, sulla torre più alta, che si sarebbe veduta a cento chilometri... I boches avevano piantato le batterie a Nogent l’Abesse, a otto chilometri, e vedevan bene la cattedrale; ma che cosa è la bandiera della Croce Rossa per loro? Che cosa rispettano?...

La voce dei giornalai, che gridavano le notizie più recenti, lo distolse da quella occupazione. Comprò il Petit Journal. Conteneva la smentita del generalissimo Joffre alle affermazioni mendaci con le quali lo stato maggiore tedesco aveva tentato di giustificare il bombardamento della cattedrale di Reims avvenuto otto o nove giorni innanzi.
Quella lettura rinnovò la collera e il dolore dell’artista. Giustificare? o forse si potevano giustificare le distruzioni di Louvain, di Malines, di Reims? Non forse il furore medesimo della distruzione, l’accanimento contro ogni opera d’arte, ogni monumento di bellezza e di storia, dimostravano con evidenza il partito preso di distruggere, e solamente per distruggere? Ah la bella cattedrale, con le sue torri, coi suoi portali, con le sue statue dalle pure linee, con le sue trine di marmo delicate e trasparenti, con le sue grandi rose e le grandi finestre dai vetri colorati!... Come si erano accaniti gli obici e i mortai tedeschi, contro quella mirabile opera, forse la più bella chiesa ogivale
del mondo! V’era stato nei loro colpi l’astio invidioso di chi, non potendo rubare e trasportar via il maraviglioso monumento, lo distrugge, perché non lo abbiano gli altri. Era lo stesso livore, la stessa invidia cieca e selvaggia che aveva atterrato in Fiandra tutto quanto vi era di glorioso per bellezza d’arte e per memorie cittadine.
Col ferro e col fuoco! Così, come lo avevano fatto i loro antichi progenitori, quando coperti di pelle, orridi d’aspetto e d’istinti, calavan giù dalle Alpi, o scendevan lungo le valli del Rodano, in Italia o nelle Gallie. Anzi peggio. Non avevano forse quei barbari antichi risparmiato Milano, vinti dalla bellezza dei monumenti latini? Non si erano arrestati dinanzi alla maestà e alla magnificenza di Roma? Ma i loro discendenti?... Perdio! bisognava confessare che la cultura tedesca, quella sopracultura di cui tanto si vantavano per affermare la loro superiorità sugli altri popoli del mondo, produceva questo miracolo, di renderli più bestiali dei loro progenitori!...
- Selvaggi!... selvaggi!... Ah no! non è vero che essi abbiano senso d’arte! Saranno un popolo di pedanti scrittori di estetica, ma un popolo che senta la bellezza, no! perdio! Non la sentono neppure i loro esteti!... Selvaggi!... selvaggi!
Rinnovava i suoi sdegni, la sua collera, il suo odio…


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914, allo scoppio della Prima Guerra mondiale. 
Nell'unica versione originale, pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. Raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori e arricchito dalle illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 31,00
Sconto del 25% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica. 

Luigi Natoli descrive la Parigi del 1914. Tratto da: Alla guerra!

Era notte; i fanali accesi, le strade piene di gente e di veicoli; di venditori ambulanti e di guardie di città; all’angolo del boulevard de Courcelles presero posto in un omnibus, senza alcuna scelta, che li condusse sul lungo Senna del Louvre, dove scesero per fare un po’ di strada a piedi, lungo il fiume, senza badare al via vai. Come se un comune istinto li avesse condotti, si avviarono pel ponte delle arti, come se qualcosa li spingesse verso quel quartiere latino, dove trascorsero la loro prima giovinezza; ma si fermarono un po’ a contemplare la città che si distendeva alle due rive, sotto il cielo cupo della notte.
Le lampade elettriche diffondevano sul lungo Senna la loro luce pallida, sotto la quale formicolava la gente. I palazzi si dilungavano, inondati dalla luce chiara e violenta da vicino, più incerta da lontano; via via che essi fuggivano dallo sguardo pareva si avvolgessero in una specie di vapore opaco, nel quale le lampade più lontane apparivano come stelle offuscate da un’alona. L’acqua appariva nera, fra i muraglioni; ma le lampade vi si rispecchiavano con lunghi zig-zag, interrotti di quando in quando dalla massa bruna di una barca.
Dinanzi, come in uno scenario, si succedevano l’un dopo l’altro i ponti; sui quali vigilavano le lampade in fila; e l’acqua ne rifrangeva il riflesso ondulante come un serpe di fuoco, e tutto il grembo della Senna pareva agitato da migliaia di serpi fiammeggianti, in file ordinate, le une dopo le altre. Gente, carrozze, qualche automobile, omnibus, passavano sui ponti; l’acqua pareva percorsa da riverberi di fosca luce, nei quali si intravedevano le ombre nere dei pedoni che andavan lungo i parapetti.
Da una riva e dall’altra dei ponti giungeva il rumore della vita; ma giù, il fiume scorreva silenzioso; le barche, non facevan rumore, e l’ansare delle macchine dei battelli a vapore si sperdeva sulla superficie del fiume. Soltanto contro i piloni, un dolce gorgoglìo pareva la voce della Senna, che dicesse:
- Io vado.
Andava da secoli, da centinaia di secoli per la stessa strada, con lo stesso silenzio solenne, e aveva veduto ai suoi fianchi trasformarsi via via le povere case di fango delle prime genti raccolte intorno all’isoletta, in edifici, in palazzi, che avevano nei fastigi la storia del mondo. Appoggiati coi gomiti al parapetto, Benoist e Michaud guardavano quelle acque che scorrevano sotto i loro sguardi, e ognuno vi attingeva sensazioni diverse, e seguiva un corso di pensieri diversi. Per lo scultore erano sensazioni di colori e di forme, la penetrazione nell’intima vita di ogni cosa che si moveva dinanzi agli occhi suoi, nell’acqua, sulla terra, nel cielo: interpretazione di quell’anima secreta delle cose, che del paesaggio fa qualche cosa di vivente in sé. Per Benoist era l’evocazione della storia.
Due fiumi gli apparivano sacri nella storia della civiltà universale: due fiumi destinati da quella specie di provvidenza che pare dirigga le umane vicende, a essere le sedi della grandezza umana: il Tevere e la Senna; il mondo antico con la concezione maravigliosa del diritto, l’eterna legge dei rapporti della società civile; il mondo cristiano con la concezione di una legge morale che oltrepassa, abolisce quasi, le creazioni artificiose dei riti e dei culti; il mondo moderno con tutte le sue libertà politiche e con la visione netta e precisa dei grandi problemi della storia.
Quali altri grandi fiumi avevan veduto compiersi fra le loro sponde fatti di tanta e così profonda universalità? V’erano sì, sparse pel mondo città illustri: il Gange, l’Eufrate, il Nilo videro svolgersi all’ombra dei loro sacri palmeti meravigliose civiltà; ma non esercitarono nella storia del mondo quell’ufficio augusto e solenne che ebbe il Tevere nell’antichità. La Senna era l’erede del Tevere: Parigi continuava l’universalità civile di Roma.
Benoist passava.
Da quando dal puro sonante latino rampollarono come rivoli freschi le nuove lingue, ecco diffondersi dalla Francia la nuova epopea delle genti latine, e la dolce passione d’amore attingere tra le azzurre piagge della Provenza il nuovo linguaggio: e l’una e l’altro si fan cittadini del mondo latino: mondo di eroismo e di gentilezza, di pietà, di fede, di cortesia: entro il quale Parigi a poco a poco, andava maturando il suo destino, che doveva essere il destino del nuovo mondo. Parigi, città eterna, che sotto l’apparente spensieratezza della vita, serba intatta la fiamma di tutte le rivoluzioni, e non per sé, ma per tutti i popoli; Parigi, l’immenso spirito animatore della vita moderna…
La Senna scorreva, accesa da mille fiamme, che dalle due rive, dai ponti, ne salutavano il passaggio. Andava al mare. Così da secoli, trascinando e seppellendo nell’infinito tutte le cose vecchie, tristi, caduche. Acqua lustrale, nel cui grembo si detersero e si detergono gli errori dei secoli; dove, non potè mai fermare le sue sedi la barbarie, come non le fermò sul Tevere. Il Tevere e la Senna rimasero i sacri fiumi della latinità, e rimarranno; simili a due confini inabolibili, contro i quali invano, da secoli, i barbari hanno urtato.
Ed ecco quel Kaiser, vivente anacronismo ripullulato dalle vecchie cronache leggendarie, dalla loro fosca e selvaggia mitologia, ritentare l’antico sforzo contro quel sentimento profondo di latinità; gittare la violenza delle armi e la crudeltà dei cuori su quanto di puro e di gentile ha eternato lo spirito latino…
Non saran forse a lui quelle acque fatali, quel che furono le onde del mar Rosso al Faraone?...
Certo la vecchia Francia si scoteva; quei ponti, quelle lunghe banchine fiammeggianti avevano un aspetto un po’ diverso; l’effervescenza spumosa era vanita; restava la bevanda con la sua forza intrinseca.
V’era qualche cosa di più grave nella folla: una calma fiduciosa e sicura; un eroismo consapevole; uno spirito di sacrificio sorridente alla certezza della vittoria immancabile. 


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico ambientato nella Francia del 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale. 
Nell'unica versione originale, pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914 e raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. Arricchito dalle illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 31,00
Sconto del 25% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso Librerie Feltrinelli. 

domenica 14 aprile 2019

Il 14 aprile del 1857 nasceva Luigi Natoli


Il 14 aprile del 1857 nasceva il professore, storiografo, romanziere, critico letterario Luigi Natoli. 
Noi Buoni Cugini, che da cinque anni portiamo avanti il progetto di pubblicare tutte le sue opere, offriamo alla Sua memoria la pubblicazione delle Opere Teatrali, la maggior parte delle quali mai pubblicate, divise in due volumi: il primo, Cappa di piombo, appena pubblicato, raccoglie tutte le opere in italiano mentre  Suruzza! di imminente pubblicazione, raccoglierà tutte quelle in dialetto siciliano, con testo in italiano a fronte. Porteremo avanti il nostro progetto affinché gli amanti del professore Luigi Natoli, (che non sono soltanto siciliani, molti collezionisti acquistano i suoi libri da tutta Italia e dalla Francia) possano avere la possibilità di conoscerlo nella sua totalità: dai romanzi alle opere teatrali, dagli scritti storici a quelli letterari, dalle poesie alle guide turistiche, senza dimenticare gli articoli di attualità, storia, tradizione, cultura, fantasia. 
Grazie, professore Natoli, per quello che ha dato e continua a dare, a 162 anni dalla nascita, a tutti i suoi appassionati lettori. – I Buoni Cugini editori.

venerdì 12 aprile 2019

Luigi Natoli: Cappa di Piombo e altre opere inedite per il teatro

Silvano (c.s. imperioso) Tu non farai nulla!... (un istante di pausa, Silvano dominandosi, riprende con amarezza) Cosicché io sarei un vile e un disonorato. Per non essere l’uno o l’altro, avrei dovuto uccidere. (a mano a mano si va infiammando, e la freddezza riserbata cede alla passione) Appostarmi, nascondermi agli occhi di tutti... e aspettando, nella mia casa, nella mia camera, dove ancor vagavano i miei sogni feriti, sanguinanti... Aspettarli, per lunghe ore, con un’arma in pugno, e colpirli alla schiena insieme là, senza misericordia!... (gesti di assentimento feroce di Manlio) E gettarli in pascolo alla curiosità altrui, morti nella loro impudicizia... (pausa) Se avessi fatto questo agli occhi tuoi apparirei un altro: più alto... Un eroe…
Dalla lettura di Il figlio e Cappa di Piombo possiamo affermare con certezza che il primo è un lavoro preparatorio del secondo. Il figlio ha solo quattro personaggi e il principale protagonista è Manlio, figlio di Silvano. Su di lui si snoda tutto il dramma, ma più si procede nella lettura del manoscritto più le correzioni, le cancellature e gli appunti aumentano progressivamente fino alla conclusione dell’opera. Giunti alla fine si capisce con facilità che Natoli non doveva essere soddisfatto del risultato. Noi crediamo che lo scrittore, sicuro di non essere stato incisivo nel suo messaggio, e non volendo scendere nell’ovvietà della commedia siciliana del tempo, abbia modificato l’opera con il colpo di genio di capire l’errore trascrivendola in un dattiloscritto, lasciando inalterata la struttura, i personaggi, e la maggior parte dei dialoghi, ma con la sostanziale differenza di togliere la parte di protagonista al figlio e affidarla a Silvano, il padre. In tal modo, Natoli trova uno stupefacente finale degno della migliore avanguardia teatrale dell’epoca, donandole una sicilianità universale. Basta confrontare le due opere, per rendersi conto delle differenze fra le commedie e di quanto da noi affermato. A rafforzo di questa tesi la frase “Cappa di Piombo” è ripetuta nelle ultime pagine da Silvano, e per tutta la durata dell’opera si ha la reale sensazione di essere avvolti da una “cappa di piombo” che grava su tutto il dramma, in particolare nel terzo atto.


Luigi Natoli: Cappa di piombo e altre opere inedite per il teatro. 
Tutte le opere sono la fedele riproduzione dei manoscritti conservati presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Ad eccezione de Il conte di Geraci e Il numero 570 tutte le altre (Cappa di piombo, L'ironia della gloria, Quannu curri la sditta, non sono mai state pubblicate). 
Prezzo di copertina € 21,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile presso Librerie Feltrinelli
Disponibile su Amazon Prime 

martedì 2 aprile 2019

Luigi Natoli: la verità storica sul Risorgimento siciliano. Tratto da: Rivendicazioni.

Io non mi sarei tanto indugiato a raccogliere prove e testimonianze, e a ristabilire la verità storica, se si fosse trattato di uno scrittorello insignificante; ma poichè le antiche e stolide accuse, spiegabili in tempi di passioni e di gelosie, nei quali pareva non poter affermare i propri meriti verso la Patria, se non avvilendo gli altri (prova ne sia la guerra invereconda di cui fu vittima Giuseppe La Masa) poichè, dico, queste accuse, vengono sempre rimesse in giro, dopo tanto tempo, e tanto lume di critica, e da uomini che, in fatto di storia, sono tenuti meritatamente autorevoli, era doveroso ribatterle.
L’ho fatto con serenità; e, più che servirmi di storici moderni, facendo riudire le voci di quelli che furon testimoni dei fatti, e che il Luzio stesso cita. Se avessi voluto, avrei potuto moltiplicare queste voci; e avrei potuto raccogliere nuove e più dolorose prove di malevoglienze e di ingiurie e di falsità; avrei anche potuto ribattere ingiurie con ingiurie. Ma nè io, nè alcuno degli scrittori siciliani pensarono mai di rilevare gli atti di viltà che fecero giudicare diciannove dei volontari salpati da Quarto, indegni di fregiarsi della medaglia commemorativa. Nè le colpe di costoro, nè la fuga di qualche capitano a bordo di una nave francese, generalizzammo a danno e scherno di tutti; come per la istantanea confusione di pochi picciotti inesperti di guerra, fecero contro tutte le squadriglie, anzi contro tutto il contributo di forze dato dalla Sicilia alla campagna del 1860, come fecero alcuni scrittori del continente.
L’opera delle squadre, le condizioni di Palermo, i fattori del successo, la parte presa dalla città all’alba del 27 maggio, ho già dimostrata. Potrei qui continuare narrando quel che il popolo di Palermo e le squadre fecero in tre giorni di combattimento; e far sapere, a chi non lo sa, o ricordarlo a chi l’ha dimenticato, che tutti gli episodi svoltisi nei vari punti della città, e nei quali i narratori non videro che solamente i legionari di Garibaldi, ebbero il concorso eroico del braccio e del cuore siciliano.
I legionari da soli non avrebbero potuto far nulla. Scrive sul proposito l’Eber:
“La città è troppo grande e i guerrieri che dalla penisola condusse Garibaldi, sono troppo pochi per mandarsi in tutti i punti, e la loro vita è troppo preziosa per esporla, tranne nei momenti di assoluto bisogno. Per la qual cosa sono gli insorti quelli che formano il grosso dei combattenti nella più parte dei luoghi”.
E appresso:
“I giovani Siciliani sembra che provino un gran diletto nello snidare i soldati dalle loro posizioni e lo facevano con una ostinazione di volontà tale da mostrare un talento per la tattica; giovandosi d’ogni destro per girarli e prendere alle spalle le loro posizioni”.
Non vi era un piano prestabilito di attacchi; questi erano suggeriti dal bisogno. Si sapeva di dover respingere i regi, e tenerli lontani dal quartier generale di Garibaldi; si sapeva che bisognava espugnare il Palazzo Reale, sede del nemico. La necessità e l’importanza di questa espugnazione era nella tradizione rivoluzionaria di Palermo. Dal 1647 in poi, tutte le rivoluzioni ebbero questo obbiettivo principale: impadronirsi del Palazzo Reale. Così si fece al 1820, così al 1848; così bisognava fare al 1860; e così tentossi anche nella infausta sommossa del 1866.
Ora il Luzio non crederà che ogni Garibaldino avesse la carta topografica di Palermo in tasca; essi dunque erano guidati dai Palermitani…


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici che riproducono esattamente le edizioni originali. 
Il volume comprende: La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento Italiano - 1931) Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime e presso Librerie Feltrinelli

 -