venerdì 10 maggio 2024

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia (1820): Tre giorni durò la lotta fra il popolo di Palermo e le milizie del re... Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro

Tre giorni durò la lotta fra il popolo di Palermo e le milizie del re; e furon tre giorni d’inferno. Bisognava non soltanto respingere gli assalti dei battaglioni ben armati e della cavalleria, ma anche sloggiarli dai forti del Palazzo Reale e dal Castello a mare, muniti di artiglieria. E s’avea da fare coi reggimenti svizzeri che il Borbone teneva a soldo; gente fiera e ostinata, avvezza a vender la vita, ma a farla pagar cara. Ma il popolo si era sollevato con uno di quegli impeti tremendi, dinanzi ai quali le più salde resistenze s’infrangono. Pareva che tanti secoli di servitù, di soprusi, di ingiustizia, di miseria, si fossero ridestati dalla profondità del passato, erompendo, come dalle viscere della terra le lave ardenti; pareva che quelle squadriglie di popolani e borghesi, confusi insieme dal caso, avessero da far delle vendette di tante generazioni offese. 
Capi improvvisati guidavano gli insorti, che si battevan con ardore e con fede nella vittoria; poiché avevano quella oscura interiore sensazione che questa volta non si trattava di una sommossa pel pane o per la cattiva amministrazione del comune, ma di una rivoluzione donde sarebbe uscito un nuovo assetto del regno. Fra Gioacchino Vaglica, a cavallo, con la tonaca succinta, un crocifisso in una mano, un trombone nell’altra, era diventato l’eroe della plebe. Intrepido, infaticabile, si slanciava dove maggiore era il pericolo, e la plebe infiammata dall’esempio e dalla croce di quel rozzo e feroce Pier l’eremita armato, si gittava animosa allo sbaraglio. Tullio era diventato l’eroe delle maestranze. Una prova della sua forza maravigliosa lo aveva ingrandito talmente agli occhi dei conciapelli e dei pescatori, che esse lo avevan acclamato lor capo.
Le maestranze avevano occupato subito i bastioni della cinta, dei quali, per antico diritto, avevan la custodia. Tra essi era importante quello di porta Maqueda, perchè tagliava in due le comunicazioni del Palazzo reale col Castello e col Molo; mentre un altro fortilizio, allungandosi sul braccio dell’antico porto della Cala, ne difendeva l’ingresso insieme col Castello che era dall’altro lato. Ma essendo il Castello in mano della Milizia regia, questo fortilizio detto della Garita, occupato dal popolo batteva ora il Castello co’ suoi tiri. 
Intanto sulla rada si era spiegata in linea di battaglia la flotta napoletana, alcuni vascelli e cannoniere, e tiravano contro i bastioni. Dai bastioni si rispondeva ma i vecchi e arrugginiti cannoni non avevano il tiro lungo. Un pescatore suggerì di portare in batteria un grosso e pesante cannone che era stato chiuso nei magazzini già del bastione del Tuono fin dai tumulti del secolo innanzi. Quattro uomini accorsi non riuscivano a tirarlo su. Tullio allora si fece innanzi: 
- Date a me le corde!
Lo guardarono ironici e canzonatori. Che cosa voleva fare quel giovanottone che aveva l’aria di uno zerbinotto, quando quattro robusti pescatori non bastavano a moverlo? Ma Tullio senza badare ai loro sorrisi beffardi, tolse con uno strattone la corda di mano ai pescatori, e puntando le gambe, tesi i muscoli delle braccia, si trascinò su per la salita il pesante cannone, e andò a collocarlo in batteria. Gli astanti, che s’eran disposti a dargli le baie e a svillaneggiare quel “signorino”, a veder muovere il cannone ammutolirono stupiti, e guardandosi negli occhi confusi e sgomenti: ma quando videro quell’enorme pezzo di bronzo salire la ripida ascesa, ruppero in applausi e in grida frenetiche, e per poco non sollevarono in trionfo sulle loro braccia quel nuovo Sansone. 
Da quel giorno l’ammirazione e il rispetto di quella forza diedero a Tullio tale ascendente su quella gente, che essa lo seguiva dovunque e a qualunque impresa, persuasa che un uomo dotato di quei muscoli e di quei nervi fosse invincibile e capace di compiere le gesta più arrischiate. Altro che paladini di Francia! Orlando, che con un colpo della sua Durlindana aveva tagliato la roccia, potea fargli da scudiero. Così quando Tullio, visto che le artiglierie del bastione non arrivavano ai vascelli, propose di armare delle barche cannoniere ed assalire la flotta, trovò in un baleno barche e cannoni e cuori entusiastici, che non stettero a pensare all’ineguaglianza delle forze e delle armi. E la piccola flottiglia di barche armate, infiltrandosi rapida e leggera tra le cannoniere e i vascelli borbonici, cannoneggiandoli, minacciandoli di incendio, li costrinse a cercar la salvezza nella fuga. 
Dopo tre giorni i regi, battuti da ogni parte, dovettero abbandonar la città. La loro ritirata fu disastrosa: inseguite, assalite, lasciaron per via armi, cavalli e uomini feriti o morti: laceri, scalzi, vinti dalla paura e dalla vergogna quei soldati coi quali il generale Naselli, pentito d’aver favorito il primo movimento popolare, sperava domare la rivolta, si rifugiavano nelle navi. Il generale Naselli era già valorosamente fuggito prima, abbandonando il governo alla Giunta. 
E pericoli ce n’erano. La cacciata delle truppe aveva imbaldanzito il popolo, specialmente la povera plebaglia; e la Giunta, tramutatasi in Governo, e installatasi nell’arcivescovato non aveva l’autorità, e la forza di frenar gli eccessi e mantenere l’ordine nella città armata. Le stesse maestranze che nei passati tumulti avevano esercitato ufficio di polizia, ora parevano invase da uno spirito di ribellione contro i signori. V’era un fermentar d’odio di classe; uno svegliarsi di istinti; un anelare scomposto a vendette. Un migliaio di ladri e di assassini, ai quali gli insorti avevano aperto le prigioni della Vicaria, s’erano mescolati nelle squadre più per compiere vendette e ruberie e trascinarvi gli altri, che per l’indipendenza e la costituzione dell’isola. L’aspetto della città dopo la vittoria era terribile. Qua e là avanzi di barricate; qua e là macchie di sangue, o talvolta qualche cadavere irrigidito in un contorcimento spasmodico. A ogni passo torme di uomini armati, alcuni in maniche di camicia, scalzi, con le gambe nude; le armi più dissimili e più disperate, picche e coltellacci, roncole, spade, schioppi di caccia e fucili d’ordinanza con la baionetta, saettavano funesti bagliori. 


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1820. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia (1820): Indipendenza o morte! Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

La sera del 15 luglio 1820, la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a Palermo una folla di isolani e stranieri. 
Quella sera la folla era maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire. Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti, canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero. 
Tutta la via Toledo formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro e rosso. E allora gridavano: 
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse: 
-  Viva la Costituzione!
Parve il razzo aspettato per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine; migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più pura. 
Intorno a Tullio e al narratore si era formato un grosso capannello, che allargandosi pel sopraggiungere di altra gente, e dei fuggitivi, che volevano sapere almeno perché erano fuggiti, diventava a poco a poco folla. Qualcuno aggiungeva un particolare nuovo, il racconto si moltiplicava; i commenti ne esageravano la portata. V’erano i “bene informati”, quelli che “possono saper la cosa meglio degli altri”, che hanno “confidenze coi pezzi grossi” di cui tacciono il nome, i quali spiegavano gli avvenimenti e predicevano quelli avvenire. Tullio prendeva parte vivissima a questi discorsi, esponendo con calore di un neofita il programma dei Carbonari, e la folla l’udiva volentieri, consentendo e approvando. 
Mentre così parlavano, ecco un rullar festoso di tamburo, e un gridar di mille voci. Tutti si voltaron con ansia e con sospetto; al lume dei lampioncini e delle lampade vedono una nuova folla avanzarsi, preceduta da un popolano che batteva un grosso tamburo, e da un alfiere che levava in alto sopra un bastone come un trofeo un cappello piumato da generale. Era il cappello del generale Church. Una massa di giovani popolani vedendosi sfuggire il collerico irlandese, e non potendo sfogarsi altrimenti, era corsa a devastargli la casa e ad appiccarvi il fuoco; e se ne ritornava adesso portandone in giro il cappello, oggetto di scherni, di lazzi plebei. La folla passò oltre urlando e ridendo; ma gran parte vedendo quella calca ferma intorno a Tullio che gesticolava, lasciato il cappello del Generale, si fermava anch’essa. Qualcuno aveva gridato che non era da sperar presto l’indipendenza; che secondo le notizie di Napoli e le istruzioni date al generale Naselli, ci sarebbe stato un solo Parlamento a Napoli. 
- Noi siamo soltanto una provincia di Napoli!
Queste parole sollevarono urla di protesta e di minacce.
- No! No! Questa costituzione è una truffa! Ribadisce la nostra servitù! Vogliamo l’indipendenza!...
- Il re ci tradisce!  - gridava Tullio – bisogna sventare i suoi disegni. Se noi saremo forti, costanti e unanimi, gli imporremo la costituzione e l’indipendenza, saremo uomini liberi e avremo la nostra dignità, invece di essere provincia di Napoli! È inutile far chiacchiere, ci vogliono i fatti!
- Ha ragione! Ha ragione!
- Noi non eleggeremo nessun deputato pel Parlamento a Napoli. Li eleggeremo per quello del regno di Sicilia!
Altre grida di approvazione risonarono per l’aria. Un frate che fino a quel momento era stato ad ascoltare, levò in alto le mani, e con voce potente, dominando il tumulto, esclamò:
- Ha ragione, nessun deputato per Napoli! Vogliamo l’indipendenza! Figliuoli miei, giuriamo! Giuriamo di essere costanti e forti; o indipendenza, o morte!
Queste parole parvero un motto, un’impresa, un vessillo; nel loro ritmo poetico esprimevano il pensiero e il sentimento comune; la folla le ripetè, le fece sue, le adottò come grido di guerra. Alzando la mano, come per chiamare Dio in testimonio, gridò: 
- Viva fra Gioacchino! viva!... O indipendenza o morte!
Questo giuramento, in quell’ora, fra le lampade che splendevano nei balconi, sulle piramidi, sugli archi, aveva qualcosa di grande e di suggestivo; si ripercosse, volò, si diffuse; agitò gli animi, sollevò entusiasmi e ardori guerreschi. 
Appena si fece un po’ di calma, Tullio riprese:
- Amici miei, l’ora della rivendicazione è suonata; state saldi e non vi lasciate lusingare dalle promesse dei falsi amici vostri, e sopra tutto da quelli che vogliono sì l’indipendenza, ma con la vecchia costituzione del 1812, che è a tutto profitto della nobiltà… Non è più tempo di privilegi. Siamo tutti uguali dinanzi a Dio e alla natura, e dobbiamo esserlo dinanzi alla legge…




Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1820. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia (1820): Per noi siciliani vi è ancora un altro fine da raggiungere, l'indipendenza dell'Isola... Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

 
- Voi siete capitato, o forse siete stato guidato dalla Provvidenza in una “Vendita di Carbonari”, – disse l’uomo mascherato. – “Vendita”, nel nostro linguaggio, significa il luogo delle nostre riunioni. La necessità di tener segreto, agli occhi di tutti ciò che facciamo e diciamo, consiglia l’uso di un linguaggio particolare. 
- Un gergo?
- Sia pure un gergo. Credo dunque, sia stata la Provvidenza che vi ha guidato qui; perché voi sarete un Carbonaro o, come diciamo fra noi, e come avete udito, un “Buon Cugino” dei più validi. La nostra società ha bisogno d’uomini forti e coraggiosi, e soprattutto onesti pel raggiungimento del nostro fine.
-  Qual è questo fine?
- La liberazione degli uomini dalla schiavitù… Che cosa siamo noi? Degli schiavi. Che cosa vogliamo essere? Uomini liberi. Questo è il fine comune di tutti i Buoni Cugini sparsi nel mondo. Per noi Siciliani vi è ancora un altro fine da raggiungere; l’indipendenza dell’isola, la restaurazione della sua autonomia violata, calpestata dal vecchio Borbone traditore. Noi vogliamo la indipendenza e la libertà; indipendenza da Napoli con governo nostro, e costituzione come quella spagnuola. Questo programma, compie l’altro, comune a tutti i Carbonari, che è quello del perfezionamento umano… Andiamo incontro a grandi pericoli, a persecuzioni, a supplizi: la morte sta quasi perennemente sospesa sopra il nostro capo, ma che importa? Essa non può nè deve arrestarci. Siate dei nostri, Tullio Spada: non negate il vostro braccio alla santa causa…
Egli aveva seguito quel discorso con viva attenzione; v’era qualche cosa che gli rimaneva ancora oscura e misteriosa; ma ve n’era qualche altra abbastanza chiara, e che nel suo cuore di Siciliano parlava con l’eloquenza della tradizione e dell’orgoglio ferito: l’indipendenza dell’isola. 
Quand’anche i Carbonari non avessero cospirato che per questo solo, egli si sarebbe tuffato nella cospirazione
- Noi – continuò il Buon Cugino, – siamo alla vigilia di un grande avvenimento. Palermo è piena di “Vendite”; abbiamo “Vendite” a Messina, a Catania, a Siracusa, perfino in piccoli paesi. La verità si fa strada. Su tutto il regno di Napoli le “Vendite” hanno distesa una rete di cospirazioni, se così vi piace chiamare i nostri lavori; l’esercito è con noi. Vi sono “Vendite” a Roma e in tutto lo Stato Pontificio; nel Piemonte, in Lombardia, in Francia… Dappertutto si lavora, contro la tirannia e l’oscurantismo. 
- Ebbene, sì, – disse Tullio Spada, – lavorerò anch’io, accettatemi fra voi. Conducetemi…
- Piano. Non si entra così facilmente nella “Baracca”…
Tullio interrogò con gli occhi: che cosa era questa “Baracca”?
Il Buon Cugino sorrise.
- La “Baracca” è la sala dove si tengono le riunioni. Per entrarci, bisogna compiere alcune formalità. Voi aspetterete bendato nella “ramosa foresta” cioè in una stanza che precede quella delle adunanze. Tutto questo, voi già lo capite, è un linguaggio simbolico. In origine ai tempi di San Tebaldo, nostro principe Gran Maestro, i suoi discepoli, che furono veramente dei carbonai, vivevano nella foresta, e si raccoglievano nelle baracche di legno. Da ciò i vocaboli che noi adoperiamo. Voi dunque aspetterete nella “foresta” dove un altro Buon Cugino, il Maestro di cerimonie, verrà per guidarvi… Vi avverto che sarete costretto a subire prove assai dure. Siete coraggioso?



Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1820. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

lunedì 6 maggio 2024

Luigi Natoli: Maggio. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura generale e nozioni varie.

 
Maggio è il mese dei fiori.
Le siepi, i prati, i giardini, le serre sono piene di fiori di tutte le forme, di tutti i colori. Ma sopra tutti i fiori regna la rosa. Essa è la vera regina, non soltanto pel colore e per la forma, ma anche pel soave profumo.
Il sole si fa più caldo, e si sente l’avvicinarsi dell’estate. Oramai tutti gli alberi dispiegano la loro verde chioma; nei viali cittadini danno l’ombra al viandante; nelle campagne, durante i riposi, la offrono ai contadini e alle loro bestie.
Il cielo è senza nubi, di un bell’azzurro limpido durante il giorno, bruno ma luminoso di stelle scintillanti la notte. L’aria è profumata.
Che ronzii e che affaccendarsi di api di fiore in fiore, per raccogliere il nettare! Intorno alle arnie è un volo continuo di api laboriose; ma vi sono anche dei calabroni e delle vespe, che vorrebbero mangiare a ufo il miele fabbricato dalle api: oziosi parassiti, vogliono nutrirsi del lavoro altrui. Guai però se osano entrare nell’alveare: le api li invischiano, e li murano con la cera in una celletta, dove li lasciano morire di fame.
Nei buchi delle case, sotto i cornicioni o le tegole, tra i rami degli alti alberi, i nidi mandano pigolii festosi. Passeri e rondini volano di qua e di là affaccendati, per portare il cibo ai loro piccoli, che li aspettano coi beccucci spalancati. E con quanto amore la madre li imbecca!
Eppure, ci sono tristanzuoli che si prendono il crudele gusto di rapire i nidi, senza sentir pietà, né dei nidiaci che agitano le alucce e aprono il becco per l’imbeccata, né dei loro genitori che si abbandonano a disperato dolore, perché non trovano più i loro nati.
Lasciate stare i nidi; non distruggete gli uccelletti: essi sono gli amici dell’agricoltore, perché si cibano di bruchi e di vermiciattoli e d’insetti nocivi alle piante.
Nei campi ora il grano è alto, le spighe cominciano a indurire; le fave, i piselli sono pieni di baccelli; negli orti i carciofi, le lattughe, le insalate, gli altri ortaggi sono in pieno rigoglio; sugli alberi le nespole paiono bottoni d’oro, le ciliegie, che piacciono tanto ai fanciulli, rosseggiano; e le fragole, nascoste fra le foglioline, mandano la loro fragranza.
Sono i primi frutti che rallegrano le botteghe nei mercati, e che ti dànno un saporito e sano companatico.
Proverbi di Maggio
Quannu Maju è urtulanu, assai pagghia e pocu granu.
Acqua di Maju, assuppa viddani e signuri quantu nni ’ncontra
Acqua di Maju e ventu di Dicembri, pani pi tuttu l’annu.
Acqua di Maju e d’aprili, furmenta a tri carrini.
A S. Filippu Neri (26 maggio) teniti li levi, (cioè: tieni pronte le tonnare).

Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
L'opera è la fedele trascrizione del volume pubblicato dalle Industrie Riunite editoriali siciliane (Palermo) nel 1925 ed è corredato dalle foto originali del libro. 
La copertina di Niccolò Pizzorno riproduce quella dell'edizione del 1925. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia) 
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour) e presso il punto vendita del Centro Commerciale Conca d'Oro, La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15). 

giovedì 2 maggio 2024

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: La cospirazione di Francesco Paolo Di Blasi per abbattere il governo di Sua Maestà. Tratto da: Calvello il bastardo.

- Giuseppe Teriaca; ebbene?...
- Ecco... Egli è venuto a confessarsi, per prepararsi al santo precetto, e mi ha confessato che fa parte di una cospirazione di scellerati, che vogliono rivoltar la città...
- Eh!...
- È come le dico, eminenza! La ribellione scoppierà venerdì mentre vostra eminenza seguirà l’urna della sacrosanta immagine di Gesù morto... Il piano è scellerato, è sacrilego. Vogliono impadronirsi della sacra persona di vostra eminenza...
- Eh!...
- È così come le dico. Aprire le carceri, abbattere il governo di Sua Maestà, e naturalmente impadronirsi del tesoro pubblico, incendiare i palazzi, commettere ogni sorta di nefandezze. Tutto è pronto: vi son anche, a quanto si dice, delle bande armate pronte a entrare in città, appena le campane suoneranno a stormo... 
- Ma è poi vero tutto questo? – domandò monsignor Lopez stupefatto... 
- Eminenza, quel giovine, contritosi alle mie esortazioni, è pronto a farne piena e intera denunzia...
- Non dico ciò... Ma come mai dunque può ordirsi in Palermo una cospirazione di questo genere, senza che ne trapeli nulla? Che cosa fanno dunque le spie? Che cosa fa il clero?... Conducetemi qui quel giovane. 
- Eminenza, è giù nel cortile, e non aspetta che un suo cenno. Or ora lo chiamerò con sua licenza. 
Uscì e dopo qualche minuto rientrò con un giovane sbarbato, confuso, smarrito, come chi è combattuto fra due rimorsi opposti e in urto. 
Alle esortazioni del parroco, alle interrogazioni dell’arcivescovo, egli confermò quanto aveva confessato.
- E tu fai parte della congiura?
- Eminenza, sì... ma son pentito... 
- Chi ti ha messo a parte della congiura?... 
- L’orefice don Benedetto La Villa... 
- E chi ha ordito ogni cosa?... 
- Non lo so; tengono il segreto, ma il capo è don Francesco Paolo Di Blasi... 
- Don Francesco Paolo Di Blasi? – gridò l’arcivescovo, balzando in piedi, e dando un pugno sul tavolo. 
- Eminenza, sì... Dice che è in carteggio coi giacobini per far la repubblica... 
- E gli altri? gli altri? – domandò l’arcivescovo. 
- Non li conosco tutti; ma so che c’è il capomaestro don Francesco Patricola, don Gioacchino Mercurio, don Saverio Ganci, Peppe Palazzo, Vincenzo la Rosa, Agostino Cavarretta... Ma questi non sono i capi... Ce ne n’è anche altri... 
Glieli diceva intanto che l’arcivescovo li segnava rapidamente in un foglio. Alcuni gli erano noti; erano indiziati di frammassoneria e di giacobinismo, ma non si era avuto fin allora alcun elemento per procedere contro di loro e Stefano Pascale era morto! Raccomandò al giovine traditore di usar prudenza, appurar altre notizie e comunicarle tosto al suo confessore, che gli aveva illuminato la mente; e assicuratolo della sua protezione e della sua benevolenza lo congedò. 
- Quanto a lei, signor parroco, segnalerò il suo nome al governo del nostro real padrone. 
Il prete si inchinò umilmente, ringraziando; e i due spioni scesero dal palazzo arcivescovile, protetti dall’ombra della notte calante. Credevano che così l’ombra dell’oblìo avrebbe ravvolto i loro nomi: ma la storia, come segna i nomi dei generosi alla pubblica estimazione, così registra anche quelli dei Giuda, a loro perpetua infamia. Il prete don Giovanni Lorenzo Pizzi, di questo figliuol di ciabattino, diventato parroco per intrighi, e di Giuseppe Teriaca, vigliacco venditore del sangue dei suoi fratelli, si aggiungono agli altri nella obbrobriosa pagina dell’infamia umana. 
Quasi nel momento che quei due spioni uscivano, entravano precipitosamente nel palazzo il generale Persichelli, comandante generale delle armi in Sicilia, e il brigadiere Jauck, colonello del reggimento estero. Anch’essi avevano una grave comunicazione da fare a sua eminenza il luogotenente. Quella sera sembrava gravida di tremende rivelazioni. Un caporale del reggimento estero, Carlo Schelmes aveva denunziato segretamente al colonnello Jauck, che alcuni caporali del reggimento Calabria e del reggimento estero e alcuni sergenti del regno facevano parte di una vasta cospirazione; e che dovevano insorgere durante la processione del venerdì santo. C’erano i fratelli Giulio e Giovanni Tenaglia, Bernardo Palumbo e Gaetano Carollo caporali, c’erano altri militari. Allo scoppio della rivolta, il duca di Falconara, antico sergente dei fucilieri, sarebbe piombato in Palermo con una banda di villani dei suoi feudi. Era dunque un vulcano spalancato, che minacciava di travolgere e seppellire tra le sue lave infocate ogni cosa. Monsignor Lopez ne fu atterrito; senza por tempo in mezzo, mandò a chiamare il presidente della Gran Corte criminale Paternò Asmundo, l’avvocato fiscale Felice Damiani e il duca di Caccamo capitano giustiziere...
(Nella foto: Monsignor Lopez y Royo)


Luigi Natoli: Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15) Libreria Nike (Via Marchese Ugo 76/78)


Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: La loggia massonica di Francesco Paolo Di Blasi. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

 
Appena uscito Pietro, don Francesco scrisse due o tre biglietti e li spedì a suoi conoscenti. Convocava la loggia. La sera piovosa e fosca favoriva la riunione clandestina. Da qualche tempo, per eludere l’esercito di spie, sguinzagliato dall’arcivescovo per ogni parte, i fratelli non si adunavano più regolarmente il venerdì; ma quando il Venerabile li invitava.
Mercè una ingegnosa organizzazione l’invito poteva precedere di qualche ora l’adunanza. Il Venerabile avvertiva con una parola convenzionale l’oratore, il segretario e il tesoriere; il segretario passava l’avviso ai due sorveglianti; questi alla loro volta correvano ad avvisare i tre o quattro maestri che avevano i gradi più alti, i quali si incaricavano di convocare gli altri maestri, a loro noti; e ognun di essi, subito, l’iniziato, compagno o apprendista che fosse, da lui introdotto. In una o due ore tutti i fratelli erano così invitati. La parola convenzionale data dal Venerabile, si mutava a ogni convocazione.
La notizia gravissima appurata rendeva urgente e necessaria un’adunanza. La Loggia era minacciata. Sebbene i gradi più alti quando si trattava di adunanze plenarie intervenissero con la maschera sul volto, e gli iniziati non li conoscessero, tuttavia il pericolo di qualche sorpresa per le loro persone non era minore. Bisognava provvedere. Stefano Pascale era stato introdotto nella Loggia da Corrado, che lo aveva creduto davvero un emissario dei repubblicani.
Era ancora un semplice “apprendista”, ma aveva la perspicacia di un birro sapiente, e a poco a poco s’andava impadronendo dei segreti ancor vietati ai neofiti. Questi segreti certamente erano nelle mani dell’arcivescovo.
Prima di aprire la porta del tempio, mentre i fratelli s’adunavano a poco a poco nella sala dei passi perduti, don Francesco Paolo Di Blasi si era chiuso con le alte cariche della loggia nella sala di riflessione, in una rapida e grave conferenza. Qualche cosa era trapelata; non si sapeva propriamente di che si doveva trattare, ma si bisbigliava che v’eran gravi cose da discutere, e che un grande pericolo sovrastava alla loggia; onde nei volti, nei passi, nel sommesso interrogarsi quella preoccupazione di un ignoto, del quale ciascuno voleva penetrare il mistero.
Finalmente a tre ore di notte la porta del tempio s’aprì. La sala, tutta nera, era appena illuminata da sette lampade; gli uomini, su quel fondo nero, parevan larve fantastiche. Tutti erano mascherati; un solo non aveva maschera, e si guardava intorno meravigliato di essere il solo col viso scoperto. Era Stefano Pascale. 
Prima di recarsi alla loggia, era andato all’Arcivescovato. Ne era uscito col volto oscurato da una vaga inquietudine; ora se ne stava pallido, ma sforzandosi di celare il suo turbamento.
Tre colpi di martello diffusero per la sala un silenzio grave e profondo. Il Venerabile, con voce solenne e lugubre nel contempo, disse:
- Fratelli carissimi, la santità del tempio è stata profanata. Giuda ha visitata la casa di Salomone, e ha venduto i suoi fratelli. Il nostro segreto è violato; le nostre vite sono alla mercè della tirannide; la nostra causa, la causa dell’umanità, è stata tradita; il traditore è fra noi. Egli si è insinuato nell’anima pura di un nostro fratello; si è fatto credere pieno di entusiasmo per la buona causa; ha chiesto a voi di aprir gli occhi alla luce; ha giurato qui, sotto gli occhi vostri, l’inviolabilità del segreto... E per opera sua quel nostro fratello è proscritto, spogliato, posto a taglione; per la sua delazione il Luogotenente generale è informato dei nostri lavori, e forse in quest’ora stessa sono sguinzagliati contro di noi sgherri e caporali... E pure egli osa venire fra noi; il suo piede sacrilego oltrepassa la soglia sacra; e il suo volto simula, sotto la maschera della fraternità, il tradimento e la perfidia!...
Un mormorio sommesso, ma grave di minaccia percorse le bocche; gli sguardi scintillavano e si incrociavano sotto le maschere nere. Stefano Pascale, pallido, muto, sentiva un freddo sudore bagnargli la fronte, e le gambe tremargli; pure cercava di dominarsi, affettando un sorriso impudente di semplicità e di stupore.
Il Venerabile, dopo un istante di silenzio, riprese:
- Stefano Pascale, avvicinatevi all’ara.
Un silenzio sepolcrale seguì alle parole del Venerabile. L’accusato non aveva osato ribattere; s’era visto perduto. In quel momento tre colpi furono battuti alla porta. Una voce dall’esterno gridò:
- I profani invadono il tempio!...
I due sorveglianti e il “fratello terribile” si avvicinarono alla porta e aprirono.
- La polizia! la polizia!!...
- Impadronitevi del traditore – sclamò il Venerabile, – e coprite il fuoco!...
Un tumulto di voci, un agitarsi di mani, un confondersi di persone seguirono immediatamente a quelle parole: tutti si strinsero attorno a Stefano Pascale; dei pugnali balenarono:
- Traditore! traditore! 
La paura, l’odio, la vendetta si erano impadroniti degli animi. 
Il Venerabile gridò:
- Fratelli, riprendete il dominio del vostro spirito. Salvate il tempio e impadronitevi del traditore... Coprite il fuoco... e aprite la postierla.
A ognuno di questi ordini succedeva un frettoloso affaccendarsi con un febbrile tumulto di gesti e di voci sommesse.
Stefano Pascale, che al grido dell’allarme aveva sentito l’animo aprirglisi alla speranza, s’era trovato circondato, stretto, legato e imbavagliato prima ancora che avesse avuto il tempo di difendersi e di gridare.
Stridendo sui cardini, una porticina, dapprima invisibile, s’era improvvisamente spalancata in una parete. Le sette lampade allora si spensero: il tempio cadde nell’oscurità più fitta, l’orrore della quale era aumentato da un lumicino lontano che si intravedeva nel vano della porticina, simile a un faro in un cielo nero e spaventevole.
- Espiate il delitto! – disse cupamente la voce del Venerabile.
A uno a uno i fratelli, simili a ombre fantastiche, si dileguarono nell’oscurità del cammino misterioso, che si sprofondava come una gola nera e senza fine. Stefano Pascale li seguiva con l’occhio esterrefatto, l’anima sospesa a un’angoscia mortale, tendendo l’orecchio a ogni rumore, attaccandosi al filo debolissimo di una lieve speranza. Udiva dall’altra parte un picchiar imperioso, e tremava, e affrettava col desiderio il sopravvento della sbirraglia da lui avvertita per impadronirsi in un colpo di tutti i fratelli. Ma a ogni ombra che si dileguava nel cammino segreto, il cuore si stringeva. La salvazione non giungeva. Un sudore gelato gli bagnava la fronte... A un tratto si sentì sollevare, trasportare, sprofondare nelle viscere della terra, e udì il cigolio della porticina che si richiudeva sopra di lui...
Un istante dopo la porta del tempio veniva atterrata dai calci dei fucili; una folla di soldati, con la baionetta in canna, si precipitò nella sala, sulla quale le lanterne dei gavarretti gittavano un’onda di luce rossastra.
Inutile e ridicolo furore.
La sala era vuota: l’ara, i seggi, i simboli, le insegne, tutto sparito; rimanevan le pareti nere, insignificanti. 
- Nessuno? non c’è nessuno?... 
Ma intanto che essi sfogavano la loro delusione, scalfendo con le baionette le pareti e spezzando i mattoni col calcio dei fucili, due uomini attraversavano sotto la pioggia il piano della cattedrale, e deponevano sui gradini della statua di S. Rosalia un sacco, dal quale un sottil filo di sangue scendeva e si confondeva con l’acqua.
Mentre questi avvenimenti si svolgevano nella loggia massonica, un altro dramma avveniva nella salita dell’Angelo Custode...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti gli store online.
Disponibili a Palermo presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 e punto vendita Centro Commerciale Conca D'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 76/78), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102)

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: È tempo in verità di snebbiare le menti, è tempo che la luce del vero risplenda... Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

 
- Ecco che cosa può l’ignoranza in cui è tenuta la patria nostra! – osservò amaramente don Francesco – uomini di cuor generoso, di spiriti nuovi, atti ad affrontare e a vincere i pregiudizi sociali, sono sopraffatti dal pregiudizio politico, che rappresenta le nuove idee, i nuovi principii come qualcosa di innaturale, di spaventevole... Eh, giovanotto mio, tutto ciò che è nuovo, e che per conseguenza urta contro il vecchio, è in fondo rivoluzionario; e ciò che è rivoluzionario è giacobino... Voi avete creduto di compiere un atto di riconoscenza verso un uomo che la fortuna ha fatto nascere in un ceto ritenuto inferiore, un atto perfettamente cristiano... ma nel tempo stesso avete combattuto e vinto in voi il pregiudizio anticristiano che vi faceva considerar cotesto giovane come un vostro inferiore; avete cancellato la distanza che la vecchia società ha posto fra padroni e servi, e avete proclamato l’idea della vostra fratellanza.... Che cosa volete di più rivoluzionario nel vostro atto? Ebbene, giovanotto mio, cotesto giacobinismo che vi ha fatto paura, proclama appunto il gran principio che tutti gli uomini sono uguali e sono fratelli...
- E perchè dunque tutte le nazioni insorgono contro la Francia? – oppose Corrado.
- Le nazioni? no. Sono i re, ed è chiaro: sono i padroni che non vogliono perdere il dominio sugli uomini tenuti come schiavi, e che hanno paura di quelle nuove idee proclamate in Francia...
- E perchè i giacobini offendono la Chiesa e perseguitano i sacerdoti?
- Perché i preti, invece di prendere la difesa degli umili, e professar, come sarebbe loro dovere, il grande principio cristiano della fratellanza umana, si son posti a servigio dei padroni, per ribadire le catene della schiavitù. Essa è contro il popolo e contro il precetto di Dio...
- Bisogna andare a Roma, per vedere che cosa è diventato il clero... e perdere la fede! – disse severamente l’abate.
Corrado li ascoltava con stupore e con un certo piacere avido: bandito, posto fuori legge, vittima anche lui di oscure persecuzioni, di pregiudizi e di ingiustizie, intravedeva nelle parole di quegli uomini un mondo ideale nuovo, nel quale certi pensamenti, certe aspirazioni che gli parevano naturali e suggeriti dalla sua singolare condizione si coloravano di una luce nuova.
L’oste se ne era andato fuori, a discorrere col lettighiere, curioso di sapere come s’erano liberati dalla banda; e si persuase, all’inverosimile racconto, che Corrado fosse qualche famoso bandito, temuto e rispettato. Ciò lo rese guardingo, rispettoso, e gli fece stimar prudente di lasciarlo solo coi due signori viaggiatori che evidentemente – a suo vedere – Corrado si lavorava. I quattro commensali, riuniti dal caso si trovavan soli, dunque, e a loro agio, nella solitaria e povera stanza.
- È tempo in verità di snebbiare le menti, – continuò don Francesco accalorandosi; – è tempo che la luce del vero risplenda. Bisogna liberare il popolo dalla schiavitù; che il potere sia restituito alla nazione; che sia chiuso e per sempre il regno dell’ignoranza e della miseria!... Voi avete percorso tutte queste nostre regioni; avete veduto feudi immensi, senza un filo d’erba; abbandonati alla pastura; senza una casa; e di quando in quando un villaggio miserabile, abitato da contadini miserabili, proprietà di un patrizio, che non conosce neppure, che li fa morire di freddo, di fame, di malaria; ma che ogni anno spreme da quelle terre e dal lavoro di quei contadini di che rivestir di oro le sue carrozze, gittare una farina sopra un tavolino da giuoco o sul letto di una cantatrice o di una ballerina! Tutta la nostra isola, un dì fiorente e ricca, ora non è che un vasto campo di sfruttamento nelle mani della nobiltà e del clero. Non ci sono che tre ceti; due ricchi, nobiltà e clero; uno povero, il popolo. La povertà di questo costituisce la ricchezza degli altri, e lo tiene schiavo. Ora bisogna che il popolo abbia la sua parte di ricchezza; e, per averla, deve conquistare i medesimi diritti degli altri due ceti, o deve distruggere quelli in virtù dei quali nobiltà e clero hanno spogliato e assoggettano il popolo. Ecco, che cosa è questo giacobinismo che vi ha fatto paura: è la libertà per tutti, l’uguaglianza di tutti, la fraternità fra tutti. È un delitto? no. È riconoscere in ogni uomo un valore pari a quello di un altro uomo; e non riconoscere altro privilegio se non quello della virtù, dell’ingegno, e del valore. Voi, in coscienza, vi sentite come uomo forse inferiore al primo titolato, allo stesso vicerè? No? E perchè dunque ciò che sentite nella coscienza non deve essere riconosciuto da un diritto?


Luigi Natoli: Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. L’opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
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