venerdì 24 agosto 2018

Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba e le "nerbate" del padre Geronimo - Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba


Gli toccherebbe qualche decina di nerbate? Queste era risoluto a non farsele dare. Intanto aveva fame. Era solito ogni mattina mangiare dei crostini di pane abbrustolito bagnati nel caffè: certo non poteva pretendere che gli preparassero i crostini: ma il caffè, santo Iddio! Lo pretendeva. Se il suo signor padre aveva il gusto di tenerlo chiuso, ebbene, pagasse le spese del trattamento! Si avvicinò alla porta per picchiare; ma proprio in quel momento essa si aprì, e Fabrizio vide presentarsi due ceffi, due di quei facchini carcerieri – che con un sorriso sguaiato gli dissero: 
- Il padre Geronimo la desidera.
Fabrizio intuì che lo aspettava il nerbo. Si piantò sulla soglia vigilando, e rispose: 
- Andate a dirgli che a momenti andrò a trovarlo. 
L’atteggiamento risoluto, e la vigorìa che si rivelava nel gesto, stupirono i due manigoldi, che si guardarono, e poi guardarono Fabrizio, che li vigilava, temendo che quelli lo assalissero di sorpresa: e non s’ingannò. Improvvisamente quelli balzarono nella stanzetta: la sedia piombò con la stessa velocità, uno dei manigoldi mandò un urlo e barcollò con la fronte inondata di sangue; l’altro non aspettò il colpo e fuggì. Fabrizio richiuse la porta, ma si accorse che non c’era catenaccio o altro serrame interno. Allora pensò di sbarrare l’ingresso trascinandovi il tavolino per traverso, e dietro il tavolino, il letto. L’urlo intanto aveva fatto accorrere gli altri prigionieri, tutti giovani, ai quali non pareva vero che un recluso aveva rotta la testa a uno degli accoliti di padre Geronimo.
Il quale giunse, seguito dall’altro manigoldo. Era furibondo e brandiva ferocemente il nerbo. Aprì violentemente la porta, e vista la barricata, si fermò stupito. Dietro di essa stava Fabrizio, che sfasciata la sedia s’era armato di uno dei piedi più lunghi, e stava in atto di difesa.
- Che cos’è questo? – urlò il frate respingendo la barricata.  
- È – rispose Fabrizio – che qui non entrerà nessuno. Se vostra reverenza vuol parlarmi, lo faccia di costì e dopo che avrà mandato via quel brigante!...
- Chi siete voi per comandare qui dentro? Qui comando io!...
- Lei comandi pure; ma nerbate a me non me ne darà. Mandi a dirlo al mio signor padre. Con me, reverendo mio, non si scherza.
Quel linguaggio nuovo e risoluto, l’energia che traluceva negli occhi e gonfiava la salda muscolatura di Fabrizio, se stupivano e aumentavano maggiormente la collera del frate, suscitavano fra i giovani un mormorio di gioia, preludio forse a una sollevazione generale che non attendeva se non una spinta. Padre Geronimo lo intese, capì che ce ne andava di mezzo la sua autorità, e che per mantenere il suo prestigio doveva domare subito quel ribelle…  
Il padre Geronimo scaraventò un calcio sul tavolino, e lo respinse con tale violenza, che anche il letto indietreggiò. Il carceriere vergognandosi e credendosi difeso dal frate, tentò di respingere ancora la debole e informe barricata; ma la mazza di Fabrizio gli piombò sulle mani; e il malcapitato mandò uno strido che non parve umano, e se ne fuggì, invocando:
- Mamma mia! mamma mia!...
Padre Geronimo perse il lume degli occhi, con un balzo rovesciò l’ostacolo, parò col braccio muscoloso il colpo di Fabrizio, e alla sua volta menò una grande nerbata. Non potendo il giovine scansarla con un salto, per la strettezza dello spazio, la rese fiacca e vana, cacciandosi sotto, e abbrancandosi al corpulento frate. E allora la lotta prese un altro aspetto. Il frate più robusto, più grande, più pesante, non potendo adoperare il nerbo, rovesciò Fabrizio, tempestandolo di pugni; ma Fabrizio gli si appese alla lunga barba, e a ogni pugno dava uno strattone che al frate faceva vedere le stelle in pieno giorno:
- Ah figlio di satanasso! Ah canaglia – urlava disperato; aveva le guance e il mento pieni di sangue, e dovette cedere. Si alzò ansante, tastandosi le guance, fremendo, bestemmiando. Anche Fabrizio si rizzò: era pesto, ma per orgoglio, con uno sforzo di volontà non mostrò alcuna debolezza; raccattò la mazza che gli era caduta, e minacciò il frate:
- Senti, padre Geronimo, tu hai visto con chi hai da fare: puoi dunque lasciare da parte il tuo nerbo, se non vuoi che io ti metta in rivoluzione tutta la casa. Se sei ragionevole, potremo intenderci; e sarà meglio per te...
- Io ti mando alla Vicaria! 


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
Pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926 e raccolto in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini editori.
Pagine 460 - prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 


Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba alla Quinta Casa. Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba


Il nome le veniva dall’essere la quinta delle sei case religiose che i padri Gesuiti possedevano in Palermo. Sorgeva presso il Molo ed era adibita ordinariamente agli esercizi spirituali; e vi si andavano a chiudere per un dato periodo di giorni gli uomini che volevano purgarsi l’anima dei peccati, che ricommettevano poi uscendone. Ma cacciati i gesuiti nel 1776, la Casa fu in seguito trasformata in caserma per la cavalleria, e poi in casa di correzione, e munita di grosse inferriate alle finestre. Vasto e massiccio edificio, come ancora si vede, vi si chiudevano i borsaioli, maschi e femine, che si volevano correggere, “i figli dei ladri di cui si volevan fare dei buoni Siciliani, i cattivi soggetti, i bancarottieri, i rapitori di donne, che si lasciavano rapire e infine, per grazia speciale, si accordava ai padri scontenti di confidare i loro figli alla tenera vigilanza del padre Geronimo, cappuccino, e le loro figlie alla materna sollecitudine della signora donna Virginia”. Così si chiamavano i due corpulenti ed atletici personaggi direttori di questo istituto. Essi avevano una potestà illimitata sui loro prigionieri, salvo quella di vita e di morte. 
Per entrarvi non occorreva una sentenza di magistrato; bastava che un padre, che voleva “amorosamente” correggere un figlio di qualche suo amoretto, ottenesse un biglietto dalla presidenza della Gran Corte, che era allora il giureconsulto don Giovanbattista Paternò; col quale biglietto egli cominciava col far prendere e legare il proprio figlio dai birri, che lo conducevano alla Quinta Casa “dove lo si chiudeva sotto chiave, e dove l’autore dei suoi giorni non tardava a raggiungerlo. Lì questi si accordava col padre Geronimo, per far amministrar regolarmente al suo caro figlio venti, trenta o quaranta nerbate la settimana, sopra una parte del corpo che il pudore mi vieta di nominare, colpi dei quali la prima ragione ordinariamente era data sotto gli occhi paterni”.    
Si usciva dalla Quinta Casa a richiesta del padre: vi si poteva stare dieci giorni come un anno; e qualche disgraziato vi stette anche quattro anni, e vi impazzì. 

Si capisce quindi il terrore di Fabrizio, e la voglia di scongiurare il pericolo di una clausura aggravata dalle battiture e per un tempo indeterminato. Egli contava sull’appoggio della principessa Carlotta e del principe di Belmonte. Il conte di Torralba, insensibile alle preghiere dei figli e a quelle della moglie, era sensibilissimo a quelle dei grandi Signori; e i Ventimiglia erano della più antica nobiltà siciliana, e si vantavano dello stesso ceppo dei re normanni. I Torralba non potevano risalire a così antiche e nobili origini; ma il conte era così fanatico del suo albero genealogico, e così infatuato di nobiltà, che riteneva quasi un dovere religioso accogliere le preghiere o soddisfare i desideri degli altri nobili. Fabrizio dunque sperava di placare la collera paterna per mezzo dei suoi amici e protettori.

La stessa sera, sorpreso per la strada Fabrizio fu preso da una mano di birri, legato, gittato in una portantina e trasportato all’orrida casa di correzione…
Lasciato solo e chiuso nella celletta, Fabrizio cominciò a pensare. La lucerna di stagno a un becco spandeva una luce rossastra, che aiutava a fantasticare.
La notte gli parve più lunga del solito; vera notte invernale con raffiche di pioggia che battevano sui vetri della finestra, ululati di vento, improvvisi bagliori di lampi, e il mugghìo del mare agitato, che lo tenevano sveglio, e lo destavano quando si appisolava: ma finalmente apparve il giorno. Fabrizio potè meglio esaminare la sua cella: essa aveva una finestra, alla quale poteva affacciarsi benissimo, salendo sulla sedia. Ciò che egli fece subito.
La finestra era munita di grosse sbarre di ferro incrociate fra le quali il volto poteva spingersi un poco. Per prima cosa egli volle misurare l’altezza, come se ci fosse stata la possibilità di uscirne. Era molto alta. Giù si allungava la strada del Molo che costeggiava il porto, affollato di bastimenti grandi e piccoli e di barche. Vedeva più in là, di fronte a lui la lanterna del Molo, bianca sul piccolo fortilizio, sul quale si scorgevano bene i cannoni che difendevano l’entrata nel porto. Più in fondo, oltre lo specchio d’acqua si prolungava il Capo Zafferano, e dietro, fra le nebbie i monti più lontani del golfo di Termini. Non pioveva più, ma il cielo era nuvoloso, e il sole appariva come una macchia bianca, una specie di nebulosa fra il grigiore delle nubi...



Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
Pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926 e raccolto in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini editori.
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Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba incontra i Ventimiglia al palazzo Belmonte - Tratto da I mille e un duelli del bel Torralba


Esso sorgeva nel Toledo, dirimpetto la piazza Bologni; passato poi ai principi di Pandolfina, fu da questi venduto al barone Riso, ed oggi è inteso con questo nome. Il Marvuglia ne cancellò le vecchie forme, che si possono vedere in una stampa del 1736, e gli diede quelle neo-classiche che conserva tuttavia.   

Quando Fabrizio vi giunse non era l’ora consueta delle conversazioni. Esse cominciavano molto tardi e si protraevano fino alle prime ore mattutine. Ma Fabrizio andava semplicemente a partecipare al principe l’esito del duello, come aveva promesso, e poteva ben presentarsi a quell’ora indebita. Il principe lo accolse con un viso lieto, e le mani stese, dicendo: 
- Non ho bisogno di domandarvi come è andata, dal momento che vi vedo sano e salvo. Vi ringrazio della vostra premura, che mi ha tolto da una grande preoccupazione. Roccasparta gode reputazione di buon schermitore.
Francesco Ventimiglia era uno dei maggiori patrizi di Palermo, che fra non molto avrebbe avuto una pagina principale nella storia della Sicilia; era ritornato la notte innanzi da Napoli. 
In casa Belmonte si giocava forte, e a dispetto dei bandi si giocavano i giuochi proibiti, come in tutte le case nobili. Il principe era stato un giocatore perduto, e aveva subito non poche e non lievi perdite: i viaggi, facendogli nascere l’amore per gli studi sociali, e il matrimonio avevano temperato la sua passione: pure di tanto in tanto cedeva alla tentazione di buttare un mucchio d’oro su una carta. 
Poco dopo il servitore venne ad annunziare che sua eccellenza era lieta di conoscere il cavaliere. La principessa era in un suo salottino tappezzato di stoffa azzurrina fra riquadrature di legno bianco filettato d’oro, con un fregio bianco sparso di ghirlandette e festoni dorati.
- Mia cara – disse il principe – vi presento il cavaliere di Torralba, che qualche ora fa ha regalato due colpi di spada a quel Roccasparta che a Napoli faceva paura ai giovani cavalieri.
La principessa sorrise e porse la mano al giovane, che la baciò commosso, come se quel sorriso fosse stato il premio della sua vittoria.
- Spero, – gli disse la principessa con uno spiccato accento francese, – che vi vedrò nel mio circolo...

- Oh signora, – esclamò il giovane con uno slancio lirico, – mi parrà di trovarmi nel tempio di una dea.  
Carlotta di Belmonte era figlia di un Ventimille di Francia, morto cavaliere d’onore della contessa d’Artois. Il principe di Belmonte nei suoi viaggi per l’Europa la conobbe a Parigi, nei primi anni della rivoluzione, e la sposò. Fu un matrimonio d’amore. Ma avvenuta la catastrofe della monarchia, e cominciate le stragi del 1792, gli sposi, con la contessa di Verac, sorella di Carlotta, scampati per miracolo alla ghigliottina, attraversata la Francia fra mille pericoli, se ne vennero in Italia. Uno scrittore contemporaneo che la conobbe, e dal quale attingiamo questi particolari e molti aneddoti storici che si troveranno nel corso di questo romanzo, dice di non aver mai conosciuto una donna più amabile, un cuore migliore, uno spirito animatore più del suo. Amica intima di Maria Carolina era il rovescio di lady Hamilton. “Questa consigliava il male e i massacri, e, quel che è peggio, vi spingeva un personaggio di tanto merito, come lord Nelson;... la principessa pure sposando come suoi gl’interessi della regina, le consigliava il bene e l’indulgenza”.

La principessa Carlotta volle sapere, se non era la sua una indiscrezione, il perché del duello, e come era proceduto: e Fabrizio raccontò la verità, un po’ festevolmente, pieno della gioia di narrare una sua prodezza a una bella dama che pareva se ne interessasse. E nel racconto dei colpi dati e scansati v’era una spensieratezza un po’ spavalda e così perfettamente giovanile che la principessa ne sorrideva. 
Fabrizio lasciò il palazzo Belmonte incantato dall’accoglienza ricevuta e della conoscenza di quella dama; e tra sé pensava in che modo avrebbe potuto frequentare il suo circolo, se a due ore di notte doveva trovarsi a casa. Ahimè, egli aveva accolto con entusiasmo l’invito, senza pensare a suo padre: l’ingresso nel tempio della dea gli era sbarrato da un mostro irremovibile e spaventevole, che aveva il volto arcigno e duro del conte di Torralba! E pure, dopo aver avuto un duello, egli meritava una maggiore considerazione; doveva essere ritenuto come un uomo; emancipato dall’aio, padrone di sé, libero di andare dove voleva. Così pensava. E un’altra cosa pensava: che probabilmente, anzi certamente in casa della principessa, avrebbe incontrato la sua bella incognita, l’immagine della quale gli stava fitta nel cuore. Ah quale tirannia non esercitava suo padre sovra i suoi cadetti, e come appariva odiosa a Fabrizio, e quali spiriti di ribellione gli agitava nell’animo!


“Quel principe di Belmonte gode di una grande popolarità; specialmente da quando ha fatto elevare l’Accademia degli studi al grado di Università”.



Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
Pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926 e raccolto in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini editori.
Pagine 460 - prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba. Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba


Fabrizio non aveva ancora venti anni; ma pareva ne avesse ventiquattro; alto, ben tagliato, forte, il volto quadrato, il naso leggermente aquilino; gli occhi vivaci e intelligenti; un insieme gradevole, una espressione di franchezza, un po’ sbarazzina; egli riusciva subito simpatico a tutti.

Rodrigo aveva tra anni meno di lui, e gli rassomigliava; però con una espressione meno ardita. Tutti e due vestivano con eleganza; il che, dato il regime paterno, poteva parere miracoloso. Perché il conte di Torralba era rigido, duro e autoritario nel governo della casa, come lo era nell’aspetto, con quel viso arcigno che pareva avesse bandito il sorriso dalle labbra sottili e strette.

Pieno di un esagerato concetto della sua autorità esercitava sulla famiglia un potere più che assoluto, dispotico: al quale aveva assoggettato anche la moglie, che era tutto l’opposto di lui; grassoccia, molle, sorridente, carezzevole, che si sarebbe forse abbandonata alla sua indole affettuosa ed espansiva, se non glielo avesse impedito la soggezione che le metteva il marito. Dal loro matrimonio erano nati cinque figli: don Francesco, che era il primogenito, due femine che erano nel monastero della Pietà, Fabrizio e Rodrigo; ma per il conte non esisteva che un figlio solo: il primogenito, al quale dava un forte assegno mensile, e inoltre appartamentino proprio, servitori, carrozze, piena libertà di rientrare in casa la notte, quando gli piaceva; di far debiti, che il conte pagava. Per lui soltanto la bocca del conte trovava sorrisi e parole affettuose; non già per vero sentimento di tenerezza, ma perché don Francesco era il rappresentante della futura discendenza dei Torralba; era il futuro conte; il ramo privilegiato dell’albero genealogico. Ai cadetti invece non assegnava che una sommerella irrisoria, che non sarebbe bastata neppure per le calze; sulla quale essi dovevano vestirsi decorosamente, pagare il cappellaio, il calzolaio, fornirsi di biancheria e di pizzi, pagare il barbiere, far regali e dar mance: ragione per la quale nelle loro tasche i ragni avrebbero potuto filare le loro reti. Essi dovevano perciò industriarsi, per non sfigurare nella società aristocratica nella quale dovevano – per onore del casato – vivere. E facevano debiti col sarto, col calzolaio, con tutti. E li pagavano quando potevano; né i creditori protestavano. Oltre alla fiducia che avevano nei signori, ritenevano quasi dover loro far figurare i giovani cadetti delle nobili case; e pareva loro un disonorarsi rifiutandosi di vestirli con quella proprietà che conveniva alla condizione di essi. Del resto si rifacevano un po’ sui primogeniti e sui padri. 


Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
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venerdì 3 agosto 2018

Luigi Natoli: Le prime sedute di tipo egiziano. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure


Io volli aprire nei primi dell’anno 1782 una loggia egiziana, in tutta la pompa dei simboli, e operare con la “colomba”, per guadagnare – ora che lo potevo – al mio rito tutti i Liberi Muratori di Strasburgo.
Quella seduta rimase celebre, e qualche gazzettiere, pur esagerando un poco, ne lasciò memoria.
Feci illuminare la sala con candele preparate da me, che diffondevano e alternavano luci diverse, e producevano delle illusioni ottiche: in fondo alla sala feci porre un paravento, e dinanzi a esso il tavolino d’ebano nero. Scelsi poi alcuni fanciulli e alcune fanciulle fra i sette e gli otto anni, che vestiti di bianco e profumati dovevano essere le “colombe”.
Quando la sala fu piena di liberi muratori e di dame affiliate anch’esse, io mi vestii delle insegne che avevo immaginato e fatto eseguire. Tunica di seta nera ornata di geroglifici rossi; cuffia egiziana, con le bande pieghettate di tela d’oro, fermata su la fronte da un cerchio d’oro tempestato di gemme. Un cordone verde smeraldo, seminato di scarabei e di caratteri dipinti di metallo cesellato, scendeva sul petto. Dalla cintura di seta rossa pendeva una larga spada da cavaliere, con l’elsa a forma di croce.
Sotto queste vesti avevo un aspetto venerabile e imponente, e il mio sguardo appariva così terribilmente maestoso, che al mio ingresso corse per tutte le vene un fremito, e si fece un silenzio profondo e religioso.
Due dei miei valletti, vestiti da schiavi egiziani, come sono rappresentati nelle sculture di Tebe, si posero accanto al tavolino d’ebano.
Questo apparato potrebbe sembrarvi in contraddizione coi miei principi di rigenerazione fisica e morale; ma io so per esperienza che niente agisce con così pronta efficacia e con tanta persuasione sulle anime, quanto uno spettacolo straordinario ed illusivo. Gran parte della sua efficacia la chiesa deve appunto alla magnificenza dei suoi riti.
Io vidi che gli spiriti di disponevano già allo straordinario.
Lione fu la città dove io diedi veramente un vigoroso impulso alla massoneria egiziana, e dove gittai le basi per coordinare le varie logge che avevo fondato qua e là, in una grande famiglia; e mettere il mio rito sopra qualunque altro.
Le esperienze compiute qua e là, la forza che io possedevo, l’ascendente che esercitavo, gli stessi errori commessi e dai quali avevo preso insegnamento, tutto ciò mi affidava, ed io vedevo già in via di avverarsi il mio sogno di dominio.
Essere il capo, il condottiero, il profeta, l’agitatore di un vasto e forte esercito reclutato fra le classi più possenti per ricchezza, stato, sapere; poter muovere questo esercito a mio talento, con un sol cenno; non è forse questa una bella e magnifica ambizione per uno spirito intraprendente, capace di compiere grandi cose?
Non mi sarei occupato di massoneria, se non mi ci avessero spinto il Balì signor de Loras, l’ambasciatore di Torino e monsieur de Nean incaricato d’affari di Francia; che mi conoscevano per fama.
Istigato da costoro apersi e inaugurai una loggia di rito egiziano; ma ciò non valse a trattenermi. Napoli non mi attirava. Avevo preso gusto alla vita più libera e più progredita delle grandi città della Germania, Francia, dell’Inghilterra, e l’aspetto dei lazzari seminudi e le immondizie accumulate nelle vie mi ripugnavano.
Fu questa la ragione per la quale non tornai in Spagna. Troppa miseria, troppa superstizione, molto ozio, nessuno spirito di novità. 


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 876 - Prezzo di copertina € 25,00
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Luigi Natoli: Caterina II di Russia - Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.


Caterina II aveva allora cinquanta anni, ma serbava ancora la prima bellezza, il che spiegava la facilità con cui trovava i favoriti. Era grande, bianca, un po’ grassa, ma di aspetto nobile e attraente: i suoi occhi esprimevano a vicenda il capriccio, la sensualità, la ferocia, che formavano il fondo della sua anima di femina; e nel tempo stesso l’acutezza, l’avvedutezza e la volontà di un reggitore di Stato, e la regalità di una sovrana che sa di avere sotto i suoi piedi milioni di schiavi. In quel tempo, come ho detto, suo favorito era il principe di Potemkine, succeduto nelle grazie della matura czarina al gigantesco Orloff, uno degli assassini dello czar Pietro. Chi teneva la segreteria dello stato era il conte Panin; ma chi veramente si occupava della politica interna ed estera, della finanza, della istruzione, di tutto il governo era appunto Caterina II, la quale trovava anche il tempo di occuparsi di letteratura, di tenersi in corrispondenza con Voltaire, con Diderot, con d’Alembert, con tutti i più begli ingegni della Francia; di radunare intorno a sé poeti e scienziati e artisti: di scrivere essa stessa poesie e drammi. Più tardi, dopo la mia partenza, e quando cominciò ad avversare i Liberi Muratori scrisse anche tre commedie, nelle quali io sono il soggetto principale, l’Incantatore siberiano, L’Ingannatore, il Cieco.
Ma nel 1779 essa proteggeva ancora la Massoneria; la proteggeva perché aveva creduto di vedere in essa un contravveleno per distruggere le perniciose influenze della letteratura e della filosofia francese che invadevano la Russia. Questa letteratura suggeriva l’ateismo, la ribellione: la Massoneria invece proclamava la fede in Dio, la ubbidienza alle gerarchie e ai sovrani. La Czarina non vedeva che questa fede e questa obbedienza erano fittizie perché senz’altro fondamento che nelle formule e nei cerimoniali: letti gli statuti, e sembratile convenienti per dirigere bene le classi superiori della società russa, accordò la sua benevolenza ai Liberi Muratori che ne la richiedevano.
Essa si era dichiarata ufficialmente protettrice dell’ordine. In queste buone disposizioni era quando io giunsi a Pietroburgo…


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
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