lunedì 27 giugno 2022

Luigi Natoli: Miracoli, superstizioni, pregiudizi... Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700

Usa anche ora veder portare in casa di un ammalato popolare un’immagine sacra scolpita, alta credo cinquanta centimetri, che rappresenta un’Immacolata o un San Francesco o un Sant’Antonio da Padova o altro santo taumaturgo, allo scopo di guarirlo. Ma ben inteso che l’immagine sia quella tale, di tale confraternita, perché l’Immacolata della confraternita A è più miracolosa di quella della confraternita B. 
Immaginiamo quello che fosse nel Cinque e Seicento, quando la religione era più inquinata da elementi pagani e si credeva più alle virtù delle cose che alla spiritualità che esse rappresentavano. Il credere che un Ecceomo esposto in una via fosse più miracoloso di un altro Ecceomo, come se non figurassero lo stesso Gesù, che la Madonna dipinta in una edicola avesse la facoltà di far grazie più di un’altra Madonna, e il raccogliere dinnanzi a loro più ceri e più lampade che fosse, e lasciare le altre al buio, erano cose comuni che non si giudicavano pregiudizievoli della religione. Certe immagini si credeva che avessero la facoltà di preannunziare un avvenimento, come quella di San Giovanni di Dio dipinta in un quadro e sospesa con una corda al soffitto dell’Ospedale dei frati Benfratelli annunziasse la morte di un degente col voltarsi verso lui. 
Credere ai miracoli nelle invocazioni era una cosa stabilita, e l’intervento di un santo o beato era cosa giurata e divulgata e trasmessa nel tempo, specialmente in caso di malattia o di un disastro. Così si attribuiva all’intervento della patrona Santa Cristina e poi di Santa Rosalia la cessazione del morbo pestilenziale del 1557 e del 1575 e del 1624, e non già alle prescrizioni mediche e igieniche. Quando si scoperse il corpo di Santa Rosalia, si disse che la peste fu di un subito cessata perché la Santuzza mostrasse il suo patrocinio: la peste durò ancora un anno e cessò quando aveva fatto il suo ciclo. 
Spesso una leggenda sognata o ripullulata nel cervello di un isterico, si tramutava in una miracolosa realtà; come avvenne di quella di Sant’Oliva. Un’antica leggenda diceva che trovato in Palermo il corpo della vergine, il sangue sarebbe corso a fiumane: “ pi santa oliva lu sangu a lavina.” Come fu e come non fu, nel Seicento si sparse la notizia che il corpo della santa si trovava sepolto nella via dove si trovava la chiesa di San Michele Arcangelo, e precisamente innanzi alla chiesa stessa. E allora si rovesciò l’armata di picconi e di vanghe, e zappa e scava per lungo, per largo, in basso e non trovò che acqua. Ragione per cui il 15 ottobre del 1606 il cardinale Doria minacciò la scomunica a chi, sapendolo, occultasse o  nascondesse dove era il corpo di Sant’Oliva. 
Che dire dei miracoli? Quanti ne fece San Francesco Borgia in un attimo, non li hanno fatti cento nel corso della loro vita. 
Ma uno spettacolo più stupendo ci tramanda Vincenzo Auria, che lo vide con gli occhi suoi. Nell’inondazione del 1668, tra l’infuriare della piena che trascinava tutto quanto trovava rovinando, vide una statuetta di Santa Rosalia alta un palmo procedere dritta senza deviare o traballare o ondeggiare; segno evidente – dice l’Auria – che la  vergine romita proteggeva la città!
Il 22 gennaro del 1689 vi fu una tempesta di tuoni che mai s’era sentita simile; e dopo acque da non si credere, tanto da allagare le vie e far ricordare le inondazioni del 1557 e del 1667. E dice l’Auria che (e seguo le sue parole) “assalita all’improvviso la Città della giusta ira di Dio, si diè mano al suono delle Campane, implorando da Dio clemenza onde tutto il popolo... piangeva le sue colpe per mitigare lo sdegno di Dio, ed ottenere perdono.”
Altro miracolo. Nel processo per beatificare il padre Girolamo di Palermo, si narra che avendo il padre Firmatura baciata la mano di lui morto, si sentì stringere in modo affettuoso...
(Nella foto: Santa Cristina ai Quattro Canti - Palermo) 


Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700. Opera inedita. 
Argomenti trattati: La città – Il governo – L'amministrazione – Il popolo – Il Sant'Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l'arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Pagine 332 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: Manifestazioni di penitenza. (A proposito di annate aride...) Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700

Ora voglio raccontarvi una delle manifestazioni di penitenza, che avevano luogo quando una sciagura minacciava la città, e per essere più chiari, quando la carestia si affacciava paurosa; il che avveniva più spesso che non si creda. 
Nel 1647 l’annata arida e sconsolata aveva disseccato i frumenti; le provviste del Senato erano consumate; navi cariche non ne venivano; il popolo non trovò altro rimedio che rivolgersi a Dio, con processioni di penitenza. Ho detto il popolo, ma bisogna dire anche il clero. 
Era Vicerè il Los Velez e arcivescovo don Ferdinando Andrata, che decisero di trasportare dalla Cattedrale alla Chiesa di San Giuseppe, il Crocifisso miracolosissimo sopra tutti i Crocifissi, perché dicono e spergiurano che fu scolpito da Nicodemo su Gesù quando lo discesero dalla Croce; e il 3 di maggio, con gran pompa, seguito da tutti i nobili e da mercanti e dal Vicerè, fu portato dai confrati di Piedigrotta, alla sua nuova provvisoria sede. Erano tutti scalzi e coronati di spine. Da allora cominciarono le processioni di penitenza. 
Prima i Carmelitani della Chiesa di Montesanto, che si trascinarono tremila uomini, alcuni lacerandosi con battiture, altri portando grosse croci sul dorso; due si piegavano sotto un legno pesante, che alle estremità dei bracci era reso più pesante da grosse pietre. Un altro era da capo a piedi rivestito di spine: un altro andava colle mani legate a un grande sasso che gli batteva ritmicamente le gambe. 
Poi vennero i Carmelitani della Casa principale a Ballarò, e i loro confrati si battevano colle discipline, e uno di essi si faceva tirare da otto uomini, stando disteso per terra, sopra una scala a pioli. 
I nobili della Compagnia della Pace, dentro da Chiesa di San Giuseppe si trascinarono per terra. Della compagnia dei Maggiordomi, uno andava carponi con basto da mulo addosso. Le prostitute avevano un usbergo d’acciaio: i confrati di San Lorenzo e quelli di Sant’Onofrio si trascinavano in chiesa in ginocchio; e le verginelle, ossia le orfane raccolte in un ospizio, andavano col viso velato. E tutti erano coronati di spine con corde al collo, e si battevano a sangue. 
Ma quelli che furono “riguardati con somma pietà e tenerezza” – dice l’Auria – furono i padri di San Nicolò Tolentino, perché uno di essi aveva il collo stretto in un cilicio e due altri erano così fortemente coronati di spine che “correva molto sangue.” Uno dei confrati aveva nelle carni nude infisse delle tenaglie! E dietro a loro veniva sopra una bara, la Madonna, che versava latte dalle due mammelle scoperte, e un filo ne cadeva sopra un pane tenuto da San Nicolò, e l’altro sopra un mazzo di spine, tenuto da Santa Monica. Quando poi entrò nella chiesa di San Giuseppe, la Madonna, passando dinanzi al Crocifisso, per mezzo di fili, s’inchinò tre volte!!!
E i Cappuccini? Andarono vestiti di sacco nero, con uno innanzi che sonava la tromba lugubremente, che pareva quella del Giudizio finale; e il superiore dei confrati era legato in una grossissima corda tenuta dai congiunti, e dietro a lui veniva la bara con Gesù che scagliava tre fulmini, e San Francesco e la Madonna lo supplicavano di aver pietà! 
Nel mese di marzo del 1688 si fecero le processioni di penitenza, che durarono otto giorni, dal 27 di marzo al 3 di aprile, e vi presero parte dodici conventi, seicento preti, ottanta confraternite e due congregazioni; e i conventi non erano tutti. 
(Nella foto il Crocifisso oggi esposto in Cattedrale)


Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli 1500-1700. Opera inedita.
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Pagine 332 - Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
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mercoledì 22 giugno 2022

Luigi Natoli: Veleno sparso dal Governo? Tratto da: I morti tornano... Romanzo storico siciliano

Egli non affermava che il colera fosse veleno sparso dal Governo, come diceva qualcuno; né che l’avesse mandato il Re per decimare la Sicilia, come sosteneva Giovanni; ma certo quel colera che aveva fatto il giro dell’Europa, e che dall’anno innanzi mieteva Napoli, nessuno capiva che malattia fosse; nemmeno i medici di Parigi, che era tutto dire, ci avevano trovato un rimedio. Era una pestilenza nuova e strana che piombava in Palermo per la prima volta. Del resto non importava approfondire quel mistero; importava salvare la pelle. Veleno? non andrebbero a spargerlo in campagna, dove i contadini farebbero buona guardia, e con due schioppettate ti somministravano il contravveleno. Infezione d’aria? E in campagna si respirava aria pura.
- Quanto a me, – protestò nonna Angelina, – qui sono nata e qui voglio morire. Voi andatevene pure, e Dio vi accompagni e custodisca; ma io, son ottant’anni che vivo fra queste pareti, e ci ho tutti i miei ricordi... E poi, la mia vita è arrivata alla fine; e se è volontà del Signore che io muoia, morirò anche in campagna... andatevene voialtri... 
Allora don Giuseppe dichiarò che non l’avrebbe lasciata sola. Nemmeno lui si moverebbe da Palermo: non poteva disertare l’ufficio. E poi con che cuore vivrebbe lontano, sapendo di lasciare tra i pericoli il suo primogenito, padre don Ciccio, che era obbligato alla parrocchia? Padre don Ciccio combattuto dalla paura del morbo e da quella non meno forte dei disagi, che avrebbe dovuto soffrire, dava ragione debolmente a suo padre. Ma Leopoldo non ebbe esitazioni e scrupoli. Egli partiva con Nenè: tutte quelle erano belle ragioni, ma quando si hanno figli, bisogna metterle da parte. 
- La vita dei figli prima di tutto! – diceva con calore e non confessava che la sua gli premeva, forse, un poco di più; che pensava, rabbrividendo, sè disteso immobile fra quattro ceri. E volgendosi a Giovanni che s’era rimesso a passeggiare, muto, con le labbra incurvate di sdegno e commiserazione, gli domandò:
- E tu perché non dici nulla? 
- Io resto, – rispose duramente, – non fuggo! 
Giovanni pensava dal canto suo, che in fondo, in quel che dicevano i suoi fratelli, c’era una parte di ragione: perché egli era padrone di disporre di sé, ma non degli altri. Certo per le sue idee, per alcune ragioni esagerate, gli pareva una viltà andarsene: ma Rosalia? ma sua madre? ma le sorelle e Pippo? La strada dove abitavano, nel cuore della città, vecchia strada, angusta, fra vecchie case, era nei pianterreni abitata da povera gente, che formicolava nel sudiciume delle lavature e dei rifiuti, gettati sul selciato mal connesso. Se vi penetrava il colera, che strage!... E non risparmiava nessuno; e si moriva orribilmente. Quale spettacolo terrificante la vista di tutti quei morti, agli occhi della famiglia!... Quando non vi fossero altre ragioni, basterebbe questa per consigliare di andarsene altrove. D’altra parte egli non sapeva adattarsi all’idea di mandare lontana la famiglia: una disgrazia, Dio liberi! a qualcuno dei suoi o a lui, come accorrere per soccorsi di medici e di medicine in tempo utile? E quel colera agiva improvviso e subitaneo.


Luigi Natoli: I morti tornano... Romanzo storico siciliano. 
Pagine 384. Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile online su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it
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Luigi Natoli: Si tratta di Colera... Tratto da: I morti tornano... Romanzo storico siciliano

Per la stanza si diffuse un senso di pavido stupore all’annunzio della improvvisa sventura scatenata sulla città: e tutti si strinsero intorno a Giovanni, che, buttando il cappello sopra una seggiola con collera pensosa, aveva portato la notizia.
- Colera? dove? quando? chi glielo aveva detto? Al Borgo da due giorni; e avevano celato la notizia, gli assassini! – Ma era poi vero? In quella stagione le coliche erano frequenti. L’anno innanzi non ne aveva forse patita una don Giuseppe, che Dio ne scampi? – Don Giuseppe, che era rimasto, allibito, si attaccò a questa speranza, e rincalzò che non era possibile con tanti provvedimenti del Magistrato di Salute che il colera fosse entrato in Palermo; dovevano essere voci messe in giro dai soliti mali intenzionati, che, purtroppo! ce n’erano.
- Carbonari! – mormorò padre don Ciccio, che s’era sentito sommuovere il ventre enorme.
Ma Giovanni stizzito gridò:
- Ma che Carbonari! che malintenzionati! che coliche! Si tratta di colera. Due morti al Borgo: due che avevano avuto pratica col capitano dell’ “Archimede”... L’han dichiarato i medici che han fatto l’autopsia, per ordine del Magistrato di Salute. Capite? Volete che i medici, e che medici! si siano ingannati? È colera!... È il regalo che ci ha fatto il Re!...
- Il Re! il Re! – brontolò lamentosamente protestando don Giuseppe – non metterci di mezzo il Re!... Che c’entra lui?
- E che c’entro io? – ribattè Giovanni. – Chi ha ordinato che si togliessero i cordoni sanitari? Chi ha ordinato che si ammettessero in libera pratica i bastimenti di Napoli? Ma per Cristo; piuttosto che morire sul pitale, morremo sulle barricate!
- Vuoi star zitto? – gridò don Giuseppe spaventato. – Che discorsi son codesti? Vuoi tirarci addosso qualche altro guaio con la Polizia?
- E ce ne può essere uno peggiore di questo? Ma non capisci che si vuole la distruzione della Sicilia?Allora la vecchia serva, che era rimasta fin lì a bocca aperta, guardando or l’uno or l’altro, cominciò a picchiarsi le tempie gemendo:
- Amari noi! Amara me!... Madonna del Carmine, aiutateci voi!
Parve che non s’aspettasse altro: gemiti, lamenti, invocazioni fino allora trattenuti irruppero: donna Caterina battendo ad intervalli le palme, dondolando il capo, a ogni battuta ripeteva: - E come faremo? – Le fanciulle mugolavano come cagnolini, nonna Angelina biascicava preghiere; Rosalia guardava pallida e stupita con i grandi occhi che non conoscevano lacrime.
Padre don Ciccio che per la paura e lo sbalordimento era rimasto in mezzo alla stanza, con l’ampio fazzoletto turchino in una mano, e fra le dita dell’altra la presa non annusata, disse con tono cadenzato come fosse stato in chiesa – “A peste Libera nos, Domine!”.
- Schioppettate ci vogliono! – esclamò Giovanni, che passeggiava concitato, – non piagnistei e invocazioni. Schioppettate!...
- Ma finiscila! – urlò più stizzoso don Giuseppe.


Luigi Natoli: I morti tornano... Romanzo storico siciliano. 
Pagine 384. Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno
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mercoledì 15 giugno 2022

Luigi Natoli: L'aceto dei pidocchi. Tratto da: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano.

Quel giorno nella bottega di don Saverio La Monica, essa aveva seguito dapprima con curiosità, poi con meraviglia e con attenzione, il racconto di quell’avvelenamento con l’acqua pei pidocchi; e tornandosene a casa ci ripensava. Quell’acqua che costava tre, quattro grani, aveva una potenza micidiale che poteva spacciare un uomo alla sua insaputa e irreparabilmente. Foschi pensieri le scomponevano e ricomponevano la fitta rete di rughe che le solcavano il viso per ogni verso; e le accendevano tristi lampi negli occhi; la bocca le si moveva, come se biascicasse parole non dette. Ricordava lontane storie di veleni potenti: l’acqua di Teofania d’Adamo; i veleni di Francesca La Sarda, quelli della za’ Chiavedda, che era stata impiccata due anni prima che Giovanna Bonanno nascesse: acque misteriose anch’esse, che facevano morire senza lasciar tracce. Come mai quelle donne si erano lasciate scoprire e prendere? Dovevano essere state imprudenti; se avessero saputo fare le cose bene, avrebbero potuto arricchire. Forse si erano prestate a vendette: e ciò era male. Avrebbero dovuto somministrare i veleni soltanto a fin di bene: c’eran infatti nel mondo tanti imbrogli, tante disonestà, tante condizioni familiari così tristi, che soltanto la morte di uno poteva far cessare, e dar la pace e la tranquillità a molti. Così esse avrebbero commesso un delitto, e almeno dal buon Dio, che vede il cuore, potrebbero essere perdonate... E poi... perché i signori specialmente pagherebbero con fior di denaro un simile servizio; certo si poteva vivere senza stenti, senza bisogno di andare elemosinando, e trascinare una vita miserabile, in una vecchiaia squallida, senza altra prospettiva che la morte in quel canile, priva di aiuto, sola, abbandonata.
Questi pensieri le ruminavano per la mente, anche quando, giunta a casa, si mise a preparare un po’ di minestra d’erbe. Sì, un po’ di quell’acqua terribile mescolata nel brodo, o nel vino... Ma era poi certo che la morte fosse rapida e sicura? Bisognava provare. Su chi? Ecco! Un cane randagio, solito a ricevere i rifiuti di quel povero desco, entrò nella stamberga. La fronte della vecchia si rischiarò: aveva trovato su chi fare l’esperimento.
Il domani andò a comperare da don Saverio La Monica una caraffina d’acqua pei pidocchi. Tre grani; piccola spesa. Tornata a casa prese del pane rinsecchito e lo immollò in un tegamino con acqua, nella quale versò il medicinale. Aspettò che il cane venisse; e quando lo vide entrare, lo accarezzò…


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. Protagonista è Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
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In libreria presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: La farmacia di don Saverio La Monica. Tratto da: La vecchia dell'aceto.

Don Saverio La Monica, aromatario, aveva la sua bottega nella strada della Gioiamia. Aromatario significava, in quel tempo, farmacista. Era un uomo più che maturo, che passava la vita dietro al banco, a pestare, impastare, mescolare, far pillole, cartine di polveri, elettuarî, sciroppi ed emulsioni. Con gli occhiali sul naso, le maniche rimboccate, eseguiva le ricette, barattando una parola con questo, una con quell’altro avventore. E di avventori non ne mancavano, perché in tutto il quartiere del Capo, nessun aromatario godeva tanta buona riputazione, quanto lui, perché aveva la bottega fornita di tutte le medicine prescritte dall’ordinanza del Pretore che rivestiva la carica di proto-medico della città; ma anche perché inventava certe misture efficacissime; e sapeva dare consigli medici.
La bottega si riconosceva la lontano, per il gran mortaio di marmo, posto sopra la soglia su uno sgabello un po’ sporgente in fuori; insegna questa comune a tutte le farmacie del tempo. Ai lati lungo gli stipiti c’erano due tabelle non grandi, rettangolari, in una delle quali un pittore da insegne aveva dipinto il bastone di Esculapio coi due serpenti attorcigliati, e una leggenda latina: Altissimus creavit de terra medicamenta et vir prudens non abhorret ab illis; nell’altra tabella era dipinto Sant’Andrea protettore degli speziali, con la leggenda: Cedite vos, qui consulitis mortabilus artes; vis vestra ex nostraque statque, caditque manu. La stanza, che serviva da bottega, non era molto grande: e aveva uno scaffale in fondo, che occupava tutta la larghezza della parete; in mezzo alla quale in basso era una porticina, donde si passava nel laboratorio.
Altri due scaffali si partivano da quello di fondo, della stessa altezza, ma si arrestavano a metà della stanza. Nello spazio vuoto, da un lato c’era il torchio, indispensabile a ogni aromatario per fabbricare olio di mandorla o di ricino; dalla parte opposta v’erano addossati alla parete alcune sedie molto sudicie e con l’impagliata rotta in qualche punto. Sulla cornice dello scaffale in fondo v’era un quadro che rappresentava la Vergine, dinanzi alla quale ardeva una lampada. Sotto, nel fregio, era dipinto a grandi lettere: Salus Infirmorum, che poteva ben riferirsi alla Vergine come ai medicinali. I quali facevano bella mostra, non di sè, ma dei recipienti in cui erano conservati. Erano vasi smaltati, della stessa grandezza, a vivaci colori, tutti di una forma allungata, che si restringeva dolcemente a metà dell’altezza, per riallargarsi gradatamente alla base; con uno scudo bianco incorniciato di giallo, in mezzo al quale era il nome del medicinale. In dialetto si chiamavano burnii. Nello scaffale laterale, di destra, queste burnie avevano forma di bocce panciute, con un collo breve, ed erano smaltate in bianco e azzurro, col nome del medicinale in nero. Nell’altro scaffale laterale, a sinsitra, erano bocce, bottiglie, boccette di vetro e vasetti bianchi, cilindrici. La ricchezza ed il lusso di una farmacia d’allora erano nei vasi smaltati, ai quali gli antiquari han dato una caccia spoliatrice, approfittando dell’ignoranza dello snobismo dei farmacisti.
Spesso il medicinale non c’era; ma la burnia non mancava. Chi andava per comperare due grani di conserva di rose rosse, poteva leggere sulle bocce e sulle bornie i nomi della Polvere di Guttetta, per guarire la eclampsia dei bambini, del Sebeston, dello sciroppo di vibello, di cicoria, di reobarbaro e di spinapontico; della conserva di fior di persico, del diascordio, dell’elettuario di Giustiniano Imperatore, dell’alckool (sic), fluore, dell’acqua teriacale, della Quarteccia rossa, delle pillole di Lancellotto, e di quelle di tartaro di Bonzo, e delle universali di Becherio; dell’estratto di scilla acoso, della tintura anglicana, del grasso di vipera; dello specifico cefalico Michaele, del sale sedativo di Homberg, dell’impiastro di Simone de Pacello e di quello de Ranis, del trocisco di Aradonis Abbatis, del vitriolo di Marte, e via via dicendo: medicinali nostrani e stranieri; e poi gli olii di mandorla, di lino, di ruta, di scorpione; polveri di assa fetida, agarico: i sief, ossia collirii; e finalmente i veleni, arsenico, laudo liquido, cantaride, ecc.  Insomma la spezieria di don Saverio La Monica non mancava di nulla. Essa era fornita di quanto occorreva pei ricchi e pei poveri, secondo l’ordinanza. Sul banco v’erano le bilancette e i pesi, e la carta tagliata a quadretti per avvolgere le polveri e turare le boccette.
Nella retrobottega, poi, v’erano storte, lambicchi, tubi, matraci, un grande fornello, fornellini portatili, boccioni grandi, recipienti di varia misura di porcellana, di vetro, di rame. Ma dappertutto v’erano le vestigia delle mosche, v’era dell’unto di olii e di pomate; e un odore nauseabondo composto di tanti odori diversi. Non se ne doleva nessuno, perché vi si era avvezzi; e poi, perché don Saverio sapeva con le sue storielle divertire i clienti che erano costretti ad aspettare la manipolazione delle medicine.
Di tanto in tanto qualche medico di passaggio faceva fermare la portantina dinanzi la bottega, e veniva a far quattro chiacchiere con don Saverio, e, chi sa? ad acchiappar qualche cliente: Don Saverio, per questo, si prestava volentieri a procurarne: e i medici gli si mostravano grati mandando i clienti a spedire le ricette da don Saverio alla Gioiamia, che era un aromatario valentissimo. Aveva fatto pratica nella spezieria dell’ospedale, e sostenuto l’esame di abilitazione dinanzi al Nobile e Salutifero Collegio degli Aromatari, magistrato supremo dell’aromataria; e chi volesse vedere il diploma munito di bollo e la licenza di tenere bottega, egli li aveva in due quadretti, appesi di qua e di là sulle pareti.


Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. La storia di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
Copertina di Niccolò Pizzorno
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lunedì 6 giugno 2022

Luigi Natoli: Madonna Elena Chiaramonte... Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

Messer Gualtiero di Urziliana, signore della rocca di Baida, a cinquant’anni aveva una moglie che ne toccava appena venticinque. E naturalmente ne era geloso. Ed essendone geloso, gli riusciva duro lasciarla sola in quel castello, per quanta fiducia egli avesse nei suoi vassalli e nel suo baiulo.
- Sapete come mi chiamo io? Elena, come una mia lontana ava: e sono dei Chiaramonte, ai quali apparteneva Bradamante. Conoscete voi la storia di madonna Elena?
Madonna Elena discendeva da un ramo dei Chiaramonte, venuti in Sicilia coi Normanni e ben presto diventati numerosi e potenti. Rimasta orfana e a carico di un fratello, anelava ad avere uno stato indipendente, o almeno ad avere una casa sua, servi suoi, vassalli che ne riconoscessero la signoria e le ubbidissero. Fin da fanciulletta aveva dimostrato un’indole insofferente di soggezione, ambiziosa d’impero, autoritaria; una gran forza di volontà e una irremovibilità nelle sue risoluzioni, che confinava con la testardaggine. Aveva una grande stima di sé: un po’ orgogliosa: pareva insensibile all’amore; pregiava gli uomini valorosi, e i bei gesti, anche se crudeli, purché avessero dell’eroico, sdegnava le effeminatezze. Messer Simone suo fratello le diceva che avrebbe dovuto nascere uomo. Queste sue qualità morali disponevano di una gran forza, forse la più possente: la beltà. Madonna Elena era bella; e come la sua omonima dal mito antico, avrebbe in una gara riportata la palma: giacché non ostante la naturale fierezza, che in certi momenti la rassomigliavano a Pentesilea o a Camilla o a Bradamante, quando voleva, e quando si trovava fra gli umili, sapeva circondarsi delle grazie più seducenti…


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano ambientato al tempo di Federico II tra Palermo e le crociate in Gerusalemme. 
Pagine 527 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
La Collana dedicata alle Opere di Luigi Natoli (ad oggi 34 volumi) è disponibile: 
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Luigi Natoli: La reazione di Federico II alle persecuzioni del papa. Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano.

Quando però egli pensava queste cose, Federico le aveva già messe in atto, sollevando un tumulto a Roma, per cui il papa era dovuto fuggire a Perugia: ma non bastando ciò, servendosi delle stesse armi del papa, aveva nel tempo stesso indirizzato lettere a tutti i re e principi d’Europa; copia di una delle quali, venuta in Palermo, e diffusa fra’ baroni laici ed ecclesiastici, aveva suscitato l’entusiasmo di messer Gualtiero, che l’aveva voluto leggere a tutti.
Diceva la lettera esser menzogna aver l’Imperatore sospesa la partenza pei Luoghi Santi per frivoli motivi: chiamava Dio testimonio della sua malattia, e assicurava che ben presto, rimesso in salute, avrebbe ripreso le armi per la santa impresa. Ma dopo essersi così giustificato, aggiungeva con mal frenato sdegno, la chiesa di Roma essere accesa di avarizia e di cupidigia; e voler rendere tributarî a imperatori, re e principi; il re Giovanni d’Inghilterra scomunicato, e assolto solo quando si sottopose a tributo: il conte di Tolosa, che ebbe lo Stato colpito d’interdetto e altri principi che soggiacquero alla stessa servitù, ne erano testimonianza. E sorpassando sulla simonia, sull’usura manifesta delle “insaziabili sanguisughe” concludeva: – “Ecco i costumi dei prelati romani, ecco lacci coi quali ai singoli e all’universale cercano estorcere denari, soggiogare i liberi, inquietare i pacifici: in veste di agnelli, lupi rapaci; mandano qua e là legati con facoltà si scomunicare, sospendere, punire, non per seminare la parola di Dio, ma per estorcere denaro, raccogliere e mietere quel che mai han seminato... La Chiesa primitiva fondata in povertà e semplicità, feconda era di Santi: e nessuno può darle altro fondamento fuor che quello posto e stabilito da Gesù; ma poiché i papi non hanno che cupidigia di ricchezze, e sulle ricchezze edificano, è da temere che per le stesse ricchezze la Chiesa rovini”.
Papa Gregorio rispose con una terza scomunica e sciogliendo i sudditi dal Parlamento di fedeltà. Erano le armi usate di circa due secoli; che avevano umiliato Arrigo IV e Giovanni d’Inghilterra, spaventato i Tolosani, fatto tremare re e imperatori; alle quali si aggiungevano le storielle calunniose che francescani e domenicani e guelfi andavano spargendo, e che scrittori di parte papale consacravano nelle loro opere contro Federico.


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano ambientato al tempo di Federico II tra Palermo e le crociate in Gerusalemme. 
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