lunedì 23 luglio 2018

Luigi Natoli: Squarcialupo arbitro della città di Palermo...


Squarcialupo era diventato l’arbitro della città, senza essere rivestito di una carica ufficiale. Non era che uno dei giurati. Uno dei primi atti della sommossa era stato quello di cacciare dal comune il Senato, ed eleggerne uno nuovo, sebbene questo non potesse durare in carica appena un mese; perché ogni anno, il primo di settembre si eleggeva il senato e il capitano di città; e se i senatori potevano essere rieletti, non era detto che sarebbero stati riconfermati tutti e Squarcialupo era stato fra gli eletti: ma pretore era stato scelto Giovanni Ventimiglia. Con tutto ciò il capo vero ed effettivo era Giovan Luca, su cui pesava la responsabilità del nuovo ordine, o meglio del disordine. 
La sommossa s’andava propagando: una dopo l’altra le città demaniali e le grosse terre feudali insorgevano; e questo pareva a Giovan Luca un buon indizio per realizzare il suo sogno. Con una concezione anacronistica, che avrebbe risospinta la Sicilia all’epoca dei comuni, egli vagheggiava una confederazione di piccole repubbliche: e per questo, appena gli giungeva la notizia di una sollevazione, si affrettava a mandare ambasciatori e stringeva patti federali. 
Ma la città intanto era in balìa del popolo, che di quella parola repubblica, della quale Giovan Luca gli aveva parlato, non era arrivato a capire altro che i signori non sarebbero stati più i padroni del governo; che il popolo doveva averci la sua parte; e che non ci dovevan essere più gabelle; e aver pane a buon mercato. E per conto suo vi aggiungeva che bisognava sbarazzare la città di tutti i vecchi partigiani di don Ugo, che erano ritornati per la protezione del duca di Monteleone. Quattro giudici uccisi e due palazzi incendiati non bastavano. E ogni giorno bande di popolo minuto, avido di bottino si davano a scorazzare per la città, a dar la caccia a quelli indicati – spesso per private vendette, – come del partito del vicerè, e a saccheggiare le case. 
Giovan Luca lasciava fare, non trovando modo di impedire quegli eccessi, e non volendo d’altra parte alienarsi il popolo, che era la sua forza. E poi abbassare la potenza degli avversari, spargere il terrore, era per lui una buona arma per raggiungere quella meta che si era prefissa...

Luigi Natoli: Squarcialupo. Per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio 1924. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Nella foto: disegno del pittore Amorelli nel Giornale di Sicilia dell'epoca. 


Luigi Natoli: La rivolta diventa sommossa. - Allo Steri! Allo Steri! - Tratto da: Squarcialupo.


Lo Steri sorgeva lì a pochi passi con la sua massa bruna, le sue belle trifore, le sue decorazioni bicromatiche; e torreggiava nel cielo serotino, sopra le case basse e sparse in giro della vasta piazza. Della gente, curiosi i più, si accodò a quel manipolo, che correva verso lo Steri; la porta del quale, che non era dove è oggi, ma dalla parte che guarda lo spiazzo della Dogana, era serrata. I congiurati cominciarono a gridare: 
- A morte i traditori!
Ma le grida si perdevano nello spazio: alcuni picchiavano fortemente al portone, vi tiravano dei sassi; intanto altra gente accorreva, per la voce che di quel tumulto s’andava diffondendo per la città; e ciò, alimentando le speranze dei congiurati, aumentava i loro sforzi. Allora a una finestra si affacciò il duca di Monteleone, pallido e pauroso. 
- Signori miei...
Il clamore delle voci gli mozzò la parola:
- Vogliamo i traditori! Vogliamo quelli che han fatto morire i Conti! – Non vogliamo vostre chiacchiere...
Il duca accennava con le mani che lo ascoltassero. 
Questo interesse pei conti di Golisano e di Cammarata non era che una trovata per eccitare il popolo che s’andava raccogliendo e che riteneva i due conti come i suoi difensori. Esso non capiva nulla della politica, o la concepiva sotto l’aspetto della diminuzione dei balzelli, del pane a buon mercato e di peso; cose che la cacciata di don Ugo, della quale il conte di Golisano era stato il protagonista, aveva ottenuto; e che dal luogotenente duca di Monteleone gli erano stati ritolti, con l’aggravante dei castighi crudeli, o piuttosto delle vendette che le anime dannate di don Ugo esercitavano largamente e quasi con voluttà. 
E quell’affermazione che il conte di Golisano fosse stato assassinato non mancava dal produrre una effervescenza, dall’eccitare una reazione, dal suscitare un mormorio minaccioso. Qualche grido uscì dalla folla, e fu il colpo di sprone; quelli che erano accorsi per curiosità di spettatori, si tramutarono in attori: 
- Morte ai traditori dei Conti!... Morte!...
Il duca di Monteleone vide il pericolo accrescersi; e siccome qualche sasso volò contro la finestra, si ritrasse per paura d’essere colpito. 
A un tratto squilla alla vicina chiesa della Gancia un tocco. L’avemaria? La gente si scopre per recitare la salutazione angelica: ma a quel tocco ne seguono altri più violenti; e la chiesa della Catena, e la chiesa di san Nicolò della Kalsa, rispondono: e poi altre chiese più lontane. E sulla città passa come un rombo di tempesta lontana. Campane a stormo! Il popolo esce dalle case: gli uomini si armarono; un invito corre di bocca in bocca: 
- Allo Steri! Allo Steri!
L’ombra notturna che già era calata si rompe alle finestre fumose delle torce, che illuminano a sprazzi biechi profili di gente che ha una rivincita da prendere, una vendetta da esercitare. Il tumulto si tramutava in sommossa. Giovan Luca guardò la folla che veniva armata da ogni parte e se ne compiacque.
E già intorno allo Steri ondeggiava ora una folla, che pareva cozzasse contro le mura incrollabili, come i marosi contro gli scogli. Alcuni preso un trave, se ne servivano come di ariete di guerra, e cozzavano contro la porta per sfondarla; e ai colpi sonori si mescolavano gli urli e la minaccia. I di Benedetto, Girolamo Fàssaro, Iacopo Girgenti aizzavano la folla: i più feroci propositi esaltavano gli animi dinanzi alla resistenza della porta. Finalmente essa cedette, e un grand’urlo di trionfo ne salutò lo spalancarsi fragoroso: un torrente furioso si rovesciò nel varco; pareva che tutti avessero fretta di entrare; ognuno cercava di oltrepassare l’altro, per arrivar primo, i portici, la scala s’empirono; tutto il palazzo pareva tremare e gridare. Dov’erano i giudici? Dov’era il luogotenente? Li volevano nelle mani Nicola Cannarella, Tommaso Paternò, Gerardo Bonanno, Priamo Cavozzi, il conte di Adernò, don Giovanni de Luna, Blasco Lanza... tutti odiati mortalmente, perché partigiani di don Ugo, perché si ernao sfogati in rappresaglie e vendette, sotto la protezione del duca di Monteleone, che li secondava. Li cercavano per tutto il palazzo. In uno stanzino appartato scovarono il duca. 
- Eccone uno!... Abbiamo preso don Ettore!...
Egli non offrì nessuna resistenza; si lasciò spingere, trascinare fra le minacce, pallido e tremante. Gli gridavano intorno che era un assassino, che proprio lui aveva scritto al re per far uccidere i conti; che aveva ordinato ai giudici di essere feroci contro la povera gente, che voleva opprimere e distruggere il popolo coi balzelli. Qualcuno gli metteva i pugni sotto il viso: qualche altro gli faceva balenare dinanzi agli occhi la lama di un coltellaccio. Egli vedeva già prossima l’ultima sua ora, e recitava mentalmente le sue orazioni per raccomandar l’anima a Dio. Ma un clamore più alto e uno spettacolo più miserando fermò coloro che lo spingevano: da un’altra sala veniva una folla imbestialita che trascinava due uomini insanguinati: erano i giudici Cannarella e Paternò; li avevano scovati nascosti in una stanza degli uffici, dietro gli scaffali; li avevano tempestati di colpi; una voce aveva gridato: 
- Dalla finestra! Bisogna buttarli dalla finestra!...
E l’orrenda proposta era stata accolta con entusiasmo. Ora li trascinavano al nuovo supplizio; ma quei due non davan segno di coscienza; grondanti di sangue dalle ferite, col capo chino e dondolante sul petto, sarebbero sembrati morti, se un lamentarsi rantoloso con avesse rivelato che vivevano ancora. Nessuno si oppose a quell’atto di inutile crudeltà; e i due corpi furono spinti fuori. Un urlo di trionfo accolse la loro caduta.   
La folla ubriacata dal sangue, corse altrove. Bisognava trovare gli altri giudici, due vittime sole non bastavano: dov’era Gerardo Bonanno? Qualcuno si accorse di un uomo che cercava di appiattarsi, lo rincorse: 
- È Bonanno! – gridò. 
- Bonanno! – È preso! È preso! – ripetè la folla precipitandosi. Il malcapitato s’era travestito per non essere riconosciuto, ma non gli valse: una mazzata gli ruppe il cranio, e lo abbattè. Allora un uomo gli si precipitò addosso, gli fregò le vesti, lo mutilò; e alzando quel miserabile trofeo di carne sanguinante, gridò al cadavere: 
- Va’ ora a disonorare le povere figlie nostre! 

Cercavano, invano, Blasco Lanza, Giovanni de Luna e Priamo Capozzo. Giovanni de Luna, all’avvicinarsi della procella, non aveva voluto lasciarsi prendere in gabbia: era fuggito dallo Steri, a cavallo, e varcata la Porta dei Greci, s’era messo in salvo. Il conte di Adernò s’era allontanato qualche giorno prima; Blasco Lanza era scappato appena saputo che i congiurati erano nella chiesa della Catena. Il popolo gli attribuiva la più parte dei mali, se non tutti, lui consigliere di don Ugo; lui difensore di lui, e accusatore dei conti; lui suggeritore del duca di Monteleone. Frugarono tutto lo Steri, senza trovarlo.
- Deve essere andato a nascondersi a san Domenico!...
Nella chiesa di san Domenico c’era la sepoltura dei Lanza: la folla vi si recò in furia: invase la chiesa e il convento; cercò nella sepoltura: non vi trovò Blasco, ma vi trovò il suo tesoro.
Egli ve lo aveva nascosto fin da quando don Ugo fu cacciato, temendo che il popolo gli saccheggiasse la casa; e credeva di averlo salvato. La folla si gittò su quella ricchezza, avida e selvaggia, contendendosi denari e argenterie a pugni, a morsi, a coltellate. Chi aveva potuto cacciarsi nel potto qualche cosa, fendeva violentemente la calca e fuggiva; ma qualcuno era inseguito, raggiunto da tre, quattro, che lo assalivano come cani rabbiosamente affamati. Per la chiesa, pel chiostro, fuori si moltiplicavano queste lotte spesso per la miserabile preda di una moneta d’argento. In pochi minuti del tesoro non rimase più nulla: ma quelli che non avevano potuto strappar nulla, pensarono che c’era da rivalersi sulla casa.
- Andiamo a casa di Blasco!...
Un urlo accolse la proposta: quella fiumana di gente si riversò impetuosamente nella strada: correvano tutti a gara, per arrivar prima al saccheggio. Sfondata la porta del palazzo, l’onda barbarica ubriacata invase le stanze. Tutto fu strappato, spezzato, portato via, buttato sulla strada; la magnifica biblioteca ereditata in gran parte da Leonardo di Bartolomeo, ricca di codici, e ce n’erano anche di Dante e del Petrarca, parve a quei vandali non contenesse che quella dottrina male adoperata da Blasco a vantaggio dello straniero; e accumulati i libri vi diedero fuoco. Poi, quando videro le fiamme apprendersi alla casa, se ne andarono: e uccisero Priamo Capozzo, e diedero fuoco al palazzo del conte di Adernò: e i rossi bagliori degli incendi illuminarono quella notte di stragi…

Luigi Natoli: Squarcialupo. Per la prima volta in unico libro nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio 1924. 
Pagine 684 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it  

Luigi Natoli: una rivolta senza seguito e la morte di Paolo Caggio. Tratto da: Squarcialupo.


Giovan Luca si rattristò. Certo la confessione di Vincenzo Di Benedetto così spontanea e sincera, lo purgava dall’accusa di tradimento: ma la sua facilità a confidare il giorno e l’ora della rivolta, aveva mandato a monte la sorpresa e compromessa la riuscita. Ah! avere quel frate nelle mani. A ogni modo il dado era tratto: bisognava andare innanzi, alla vittoria o alla morte. Uscendo dalla chiesa, Giovan Luca, levando in alto la spada, gridò: 
- A morte i traditori!... Cittadini, all’armi!
E i compagni ripeterono il grido. Ma nessuno uscì dal Duomo per seguirli, e la gente che si affacciava sulle soglie delle botteghe e delle case, o che andava per le vie, guardava meravigliata, non sapendo che fosse, Vincenzo di Benedetto agitava la spada, gridando, e gli altri con lui, invano: 
- Viva il re! Muoiano i traditori!...
Scesero per la via Marmorea: soli, senza seguito, il popolo guardava e li lasciava passare, senza neppure secondare quel grido. Era una cosa inconcepibile: mastro Iacopo se ne sdegnava: apostrofava gli imbelli, che stavano a vedere, come fossero a uno spettacolo; li sferzava con male parole:
- E che? siete sordi? Che aspettate, che vi impicchino, figli di cani? Siete diventati dunque tante carogne, che non vi sentite fremere il sangue? Il re di Fiandra fa morire i Conti, quei Conti che andavano là per difendervi, e voi ve ne state con le mani alla cintola? Puh! Vili!
Ma nessuno si moveva: quei ventidue cavalieri percorrevano la via Marmorea, gridando, come anime sperdute. Avessero almeno trovato una resistenza! Ma dove erano le milizie spagnole? Dove il luogotenente generale? In verità il duca di Monteleone aveva perduto la testa. Sapendo che i congiurati dovevano calare dalle campagne, non aveva per prima cosa ordinato la chiusura delle porte della città; non aveva chiamato le fanterie spagnole del Castello a mare: si era invece chiuso coi giudici, coi più odiati partigiani di don Ugo, nello Steri: abbandonando così la città a quei ventidue che, ironia! non trovavano seguito e potevano essere schiacciati in mezz’ora. 

I congiurati proseguivano, chiamando il popolo alle armi, quando da una viuzza videro uscire un dabben uomo, archiviario del comune, Paolo Caggio, che al grido e alla vista, spaventato si diede a fuggire. Vincenzo di Benedetto, che ardeva più degli altri di menar le mani, lo rincorse e lo uccise. Povera vittima incolpevole, e inutile, l’archiviario versò il primo sangue, solo perché Vincenzo di Benedetto aveva bisogno di mostrare che non aveva tradito! Ma quel sangue non fomentò le ire: destò compianto; e non diede seguito ai congiurati, che percorsero tutta la via Marmorea, uscendo nel quartiere della Loggia; giunsero fino alla Chiesa della Catena, senza aver altri che li seguisse che un giovinotto novizio dei Dominicani, che doveva esser più tardi il loro storico: Tommaso Fazello. 
Giovan Luca entrò nella chiesa, scoraggiato, avvampando di sdegno contro l’inerzia del popolo; si lasciò cadere sopra un banco, delle lagrime gli rigarono il volto, il suo sogno vaniva: aveva spinto quei suoi compagni alla morte, fidando nel popolo; e il popolo li lasciava soli! Che avevano fatto dunque quei popolani che eran con lui, e che passavano per capipopolo? E mastro Iacopo? Nessuno rispondeva alle querimonie di Giovan Luca si guardavano muti e squallidi e disanimati: lo stesso Piededipapera si grattava il capo, non sapendo fare altro.
Ma poco dopo, superata quella crisi di abbattimento, Giovan Luca si alzò, pareva trasfigurato:
- Signori – disse – abbiamo giurato di andare o alla vittoria o alla morte. La vittoria ci è mancata; andiamo a morire; per la Sicilia e per la libertà! Avanti!...


Luigi Natoli: Squarcialupo. Per la prima volta in unico libro ad opera de I Buoni Cugini editori nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio 1924. 
Pagine 684 - prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Foto: Chiesa S. Maria della Catena




Luigi Natoli: Squarcialupo e la rivolta del 24 luglio 1517. Il tradimento.


E quella era la giornata, finalmente!...
Intanto arrivavano altri cavalieri, e infine Giovan Luca Squarcialupo, che contò i convenuti: erano ventidue. 
- Orsù, – disse: – col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo. 
E la cavalcata si mosse verso la città.   

Entrarono dalla Porta Nuova, come una comitiva di amici; la porta era aperta, i gabellieri al loro posto, tranquilli; nessun indizio di sospetti. Poiché non era ancora l’ora del vespro, Giovan Luca entrò coi compagni nella vicina chiesa di San Giacomo, che era deserta. E là concertarono ancora quale dovesse essere l’opera di ognuno e di tutti. Piombare nel Duomo, con le armi in pugno, sorprendere il duca di Monteleone, impadronirsene, uccidere chi osasse resistere, e i giudici che tanto odii avevano suscitato: insignorirsi del potere, ma non ripetere la sciocchezza commessa l’anno innanzi, quando fu cacciato don Ugo.
Ed ecco il campanone del Duomo sonare a Vespro: e ogni colpo rimbombava nel cuore di ognuno, e farlo balzare. È l’ora. Si scambiano uno sguardo; e taciti, pensosi di quel che fra un istante avverrebbe scendono verso il Duomo. La grande porta è spalancata; il sole illumina il bel prospetto e ravviva la patina dorata distesa dal tempo sulla pietra e sul marmo. Si sente il canto snodarsi lento e solenne; in quel momento, pensano, il luogotenente si è seduto nel soglio. Entrano, corrono verso l’abside maggiore, tra i fedeli stupiti di quella irruzione a mano armata; ma quale delusione! V’erano i canonici, v’era l’arcivescovo; non c’era né il luogotenente generale, né i magistrati, né il senato.
Come? Perché?
Un sagrista, che al vederli entrare armati, s’era messo a gridare: – Sono qui! Sono qui! – cercando di fuggire; raggiunto, spiegò loro che il duca aveva saputo che volevano ammazzarlo, e non era uscito dallo Steri. Questa risposta stupefece tutti: l’aveva saputo? Da chi? c’era un traditore dunque fra loro? Giovan Luca guardò con occhi lampeggianti d’ira i suoi compagni – Chi è il Giuda? – gridò.
Ma tutti protestarono vivacemente e fieramente. Il traditore non era fra loro: essi erano tutti lì pronti a ogni rischio, e Giovan Luca aveva torto ad offenderli. Ma Vincenzo Di Benedetto, fratello di Cristoforo, si diede un pugno sulla testa, e sclamò:
- Ah il gesuato! Il gesuato!... deve essere stato lui!...

Luigi Natoli: Squarcialupo. Per la prima volta in unico volume ad opera della casa editrice I Buoni Cugini nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio 1924. 
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 684 - prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

domenica 15 luglio 2018

Luigi Natoli: Il Festino. Tratto da: Calvello il bastardo.

Corrado intanto gironzolava per tutti quei vicoli a lui noti, guardando con infantile compiacimento la luminaria in onore della “Santuzza”. Centinaia di lampioncini di carta colorata, penduli da festoni di verdi fronde distesi pel largo dei vicoli, un dopo l’altro formavano, visti da lontano, come dei soffitti luminosi. Sui muri delle case imbiancate di fresco ignoti pittori avevano dipinto in rosso e turchino delle colonne e dei vasi mostruosi con dei fiori inverosimili; e dei chiodi appaiati infissi lungo il contorno reggevano piccole lampadine di terra cotta, che spandevano intorno con la luce rossastra il sito dell’olio da ardere. Ogni edicola di santi era illuminata con candele di cera, e ornata di parati di carta; qua e là una tavola era stata trasformata in altare, coperta di un pezzo di stoffa rossa, e di una tovaglia, e su fra candele e mazzi di fiori freschi che tramandavano l’acuto odore della gaggia e del gelsomino, un quadro rappresentante Santa Rosalia, coronata di rose, col rocchetto di pellegrina e il crocifisso e il teschio in mano; ovvero un gruppo di cartapesta raffigurante Santa Rosalia e il “saponaro” vestito da cacciatore, inginocchiato ai piedi della “Santuzza”. Qua e là dinanzi le bettole, dinanzi le case, lunghe tavole e banchi, e boccali e bicchieri, e vino scintillante nei bicchieri, sparso sulle tavole, fragrante e spumoso; e piatti nei quali nuotavano nella salsa di pomodoro galletti o chiocciole; e montagne di mandorle, ancora chiuse nel mallo verde; e polpi bolliti, dai lunghi tentacoli bruni; e da ogni parte una folla che mangiava, beveva, cantava, annegava nella baldoria le tristezze della vita e della povertà; dimenticando anche che per quell’ora di gioia aveva portato la roba al Monte di Pietà. Ma bisognava onorare la “Santa”. La “Santa” per eccellenza è la gentile e poetica romita del monte Ercta, o Pellegrino; la figlia di Sinibaldo, discendente di Carlo Magno, nel cui nome si confondono i nomi della bellezza e del candore: Rosa et lilia, rose e gigli; la taumaturga che proteggeva la sua città natale dai più tremendi flagelli: fame, peste, terremoto e fuoco. 
La stessa luminaria più ricca era nelle strade che quell’anno avrebbe percorso la processione dell’urna argentea contenente le miracolose reliquie della vergine romita. Uscendo sul Cassaro o Toledo, lo spettacolo era veramente maraviglioso, e quale nessuna immaginazione potrebbe raffigurare. Le due strade Toledo e Nuova, erano due torrenti di fuoco, due incendii. Per tutta la loro lunghezza eran fiancheggiate da assi di legno intagliate e dipinte maestrevolmente a forma di colonne con vasi, di pilastri, obelischi, statue; dette con unico nome “piramidi”; sulle quali si innalzavano archi di trionfo; e piramidi e archi tempestati di lampadine che seguivano, commentavano, brillavano il disegno, diffondendo intorno una luce viva e uguale. Ai balconi delle case lampioni, candele, lampadari, candelabri; e giù per le strade una folla straordinaria lieta, contenta, ma tranquilla, composta, senza nessuna di quelle clamorose dimostrazioni di gioia che son proprie dei popoli meridionali. Si udivano chiaramente le voci dei venditori ambulanti di semi di zucca e fave tostate, di chiocciole, di acqua e fumetto, biscotti e leccornie. Si aspettava la discesa del “Carro”, il famoso carro trionfale, che era la maraviglia delle maraviglie. Ed esso si vedeva da lontano, torreggiante sulla strada, tremolante nel suo lento avanzarsi, tutto splendente di lumi e di ori e di fiori. Aveva la forma di una barca, su quattro ruote, tirata da cinquanta mule bardate e montate da palafrenieri vestiti alla spagnuola; sulla nave si ergeva una specie di tempietto di stile corinzio, coronato di nubi, circondato di angeli nudi, e su, in alto, così in alto da oltrepassar quasi i tetti dei palazzi, si librava, come in atto di spiccare il volo pel cielo, il simulacro della vergine romita, con le vesti svolazzanti. Giù nei gradini del tempietto i musici sonavano a perdifiato: a ogni fermata del carro si cantava la frottola, specie di lauda in onore della vergine, che veniva composta ogni anno da un poeta ufficiale.
Per tre giorni di seguito il carro attraversava la città. Saliva nel pomeriggio del primo giorno del Festino, l’11 di luglio, da Porta Felice e si fermava al piano del palazzo reale. Ridiscendeva la sera dopo, tutto illuminato, ed era lo spettacolo più grandioso della festa, dopo il vespro solenne nel Duomo; certo il più attraente e caratteristico. Le altre parti della festa, come le corse dei berberi, lo sparo dei fuochi artificiali, la processione, il trasporto delle “bare” e dei “cilii”, eran sì splendide e magnifiche, ma non avevano quella grandiosità inesprimibile del Carro, e dell’illuminazione del Duomo. Eran tre anni che Corrado non vedeva quelle feste così caratteristiche della sua città; e per quanto i suoi nuovi sentimenti gli facessero rimpiangere con certo dolore il folle sciupìo di tante migliaia di scudi, quando la miseria, l’ignoranza, l’abbrutimento asservivano la popolazione, pure non sapeva frenare le dolci commozioni che quegli spettacoli suscitavano nel suo cuore, col destarvi le memorie della sua fanciullezza e la dolcezza amara dei dolori che avevano annebbiata la sua gioventù.



Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
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venerdì 13 luglio 2018

Luigi Natoli: Il pensiero delle Logge massoniche per la libertà dei popoli. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure


Uscimmo nel giardino, in fondo al quale era una grotta artificiale, così buia che, per penetrarvi fu necessaria una lanterna. Scendemmo per quindici scalini, che mettevano a un sotterraneo, vasta sala rotonda, in mezzo alla quale era una tavola.
I miei amici ne sollevarono il piano, e allora vidi che essa aveva una forma di cassa, la quale conteneva una piccola cassetta di ferro solidamente serrata.
La mia curiosità era vivissima, giacchè i due archivari non mi avevano detto nulla, e m’avevano fatto credere che si trattasse di una scampagnata.
Aperta la cassetta vidi che essa conteneva scritture, tra le quali l’Hermann e il Robert scelsero un manoscritto, simile ai bastardelli di notari o ai messali, su la prima pagina del quale in caratteri grandi si leggeva anche a distanza: “Noi, gran maestro di Templari”.
Stupìto lessi quel che seguiva: era una formula di giuramento terribile, che obbligava i massoni, oltre a tutti gli obblighi di segreto e di rito, a lavorare per la distruzione dei governi dispotici e per la restaurazione della libertà. La formola era scritta col sangue, ed era seguita da undici sottoscrizioni; ma, ciò che accrebbe il mio stupore, fu il vedere per primo l’impronta della mia cifra simbolica.
Io avevo allora adottato per firmare le mie lettere una cifra misteriosa; ma non avevo certamente sottosegnato quel documento, del quale fino allora ignoravo l’esistenza. Hermann mi disse:
- Vi maravigliate di trovare la vostra cifra; ma noi l’abbiamo posta con le nostre, sicuri che non ci può mancare il vostro consentimento. Bisogna che tutti i buoni massoni lascino le astrattezze e le formule vuote, per entrare in un terreno pratico e raggiungere uno scopo. Voi non ignorate in quali condizioni si trovino i popoli, e specialmente il nobile popolo francese e quello d’Italia. Nessuna perfezione sarà possibile, senza dar loro la libertà. Le nostre logge lavorano per questo. Qui vedete le firme di dodici Gran Maestri degli Illuminati della Stretta Osservanza, dei quali voi siete uno. V’è anche Tommaso Ximenes, uno dei più poderosi ordinatori. Il patto che abbiamo stretto ci dà grandi mezzi, perché stringe tutte le logge in un fascio. Noi siamo cento ottanta mila; ognuno di noi versa ogni anno cinque luigi, il che costituisce un fondo di tre milioni e sei cento mila lire all’anno, che servono pel mantenimento dei capi, degli emissari presso le corti, pel mantenimento delle navi, per tutte le spese occorrenti, insomma. Questo denaro è depositato nelle banche di Amsterdam, Rotterdam, Londra, Genova e Venezia. Voi siete uno dei capi. Vi riconosciamo, sebbene si sappia che vi siete staccato dal rito scozzese, per richiamare in vigore l’antico rito di Menfi. Ma ciò non importa. La legge fondamentale è una. Voi dunque siete dei nostri, e noi vi dobbiamo quell’assegno che vi spetta per vivere con decoro ed esercitare l’opera vostra dignitosamente.
Io ascoltai questo discorso, senza risponder nulla. Che cosa potevo dire? Quel libro, quel patto, quelle parole mi aprivano un nuovo orizzonte, aggiungevano qualche cosa al mio concetto di riforma, integravano la mia massoneria egiziana. Confermai la mia sigla. Hermann e Robert mi contarono seicento luigi in oro, come primo assegno, e ritornarono a Francoforte.


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Il gran Cofto. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico.

Mittan segna il principio della mia nuova carriera; a Mittan io divenni il Gran Cofto, il maestro sconosciuto e aspettato dalle varie sette massoniche, come il vendicatore di Iram, il gran maestro del tempio di Salomone. A Mittan eressi la prima loggia del nuovo rito che io avevo elaborato nel mio cervello: il rito egiziano; lì cominciai veramente a far proseliti; lì io diventai l’uomo nuovo.
Se voi mi domandate come io sia diventato così eloquente da trascinare dietro di me coloro che mi udivano, io vi rispondo come risposi ai miei giudici: – “Non lo so”. Non possedendo una grande cultura, né essendomi esercitato mai a comporre discorsi, io stesso provavo una specie di sbalordimento, uscendo da una adunanza, e mi rivolgevo la stessa domanda. Il fatto sta che appena io mi accingevo a parlare, vestito delle mie insegne, nella loggia, fra i triangoli di candele e gli arredi simbolici, in mezzo ai fratelli, mi sentivo invaso da uno spirito nuovo; e i pensieri si accumulavano nel cervello, le parole fluivano nella bocca, la mia volontà si trasfondeva negli altri. E lo stesso fenomeno inesplicabile avveniva quando io comunicavo quella specie di estro profetico o divinatorio, ai ragazzi, che, secondo il mio rito, avevo chiamato pupille o colombe. Io avevo ben sperimentato un potere misterioso sopra Lorenza e qualche altro; costringendoli a confessare quel che volevo e a operare secondo il mio pensiero: ma con le pupille era ben altra cosa.
Esse vedevano ciò che io desideravo in cuor mio che vedessero, ma che io non vedevo. Come avveniva ciò? Anche gli spettatori avevano la sensazione che esseri impalpabili si aggirassero intorno a loro: era realtà? Era illusione? Possedevo io senza saperlo, la virtù eccezionale di evocare gli spiriti dal mondo invisibile?
Ancora non posso darvi una risposta esauriente, perché io stesso non ci vedo chiaro: certo è che non si tratta di un caso singolo ed eccezionale; e che io da allora in poi mi avvalsi di questa operazione maravigliosa, per far proseliti.
Il Gran Cofto aveva qualche cosa del papa: come questo, riceveva l’obolo per poter esercitare il suo ufficio. Io contavo su Parigi, per dare al mio grado tutta la potenza, tutta la ricchezza che erano il mio sogno; e per poter fondare a Parigi questa mia potenza, per potere di là muovere a mia posta quelle migliaia di affiliati al mio rito, che già prendevano posto di combattimento per abbattere o trasformare la vecchia massoneria, era necessario veder quanto di meglio avesse Parigi, prostrato al mio piede



Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 25,00
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Luigi Natoli: Lorenza entra nella Loggia massonica. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.


Cominciai con qualche allusione a destare la curiosità di Lorenza. Sulle prime essa mostrò qualche scrupolo: l’idea di un giuramento, di pratiche che parevano ai suoi occhi una contraffa­zione dei riti religiosi, le riusciva un po’ dura. Ma io la sapevo in verità poco religio­sa; o meglio sapevo che la sua religio­ne, come quella di tutte le donne di Roma e del Regno, era più formale che profondamente intesa. Quando ella aveva ascoltato  messa, e aveva recita­to le sue preghiere la sera e la mattina e s’era confessata a Pasqua, più per forza d’abitudine che per sentimento, credeva di essere buona cristiana cat­tolica. Ai miracoli e ai dogmi credeva per ignoranza e perchè glieli avevano insegnato, ma senza fervore. Del resto la sua morale era elastica, e la cosciente osservanza dei doveri, vacillava in lei al primo urto dei piaceri, per debolezza del suo spirito.
Vinsi dunque facilmente i suoi scrupoli, quando le dissi che v’erano molti cattolici nella loggia e perfino dei preti da messa; e che si sarebbe trovata in una bella e gradita società, dove sarebbe stata onorata.
Contemporaneamente, io persuasi l’abate Granier ad ammettere le donne nell’esercizio della libera muratoria, le logge avrebbero avuto grazia e signorilità dall’intervento di signore; e, pei fini dell’Ordine, la collaborazione delle donne sarebbe stata utilissima. 
Così un mese dopo, nel primo di giugno, Lorenza fu introdotta in Loggia, bendata. 
Ella rispose alle domande, secondo io le avevo suggerito; ma quando fu il momento di giurare, disse che avrebbe prestato il giuramento, purché non si violava la sua religione. L’abate Granier le disse con tono severo: 
- Voi dovete promettere di ubbidire, e non badare a questo; la Massoneria è la base della virtù. 
Allora essa, posando una mano sulla spada del Venerabile giurò; e il Venerabile prese la legaccia dell’ordine, che è una fettuccia sulla quale sono ricamate in oro le parole Unione, Silenzio, Virtù e gliela legò su la gamba sinistra, sopra il ginocchio, ingiungendole di dormir quella notte con la legaccia. 
Nel dover mostrare tutta la gamba – Lorenza aveva le gambe ben fatte – essa arrossì alquanto; ma arrossì di più quando il Venerabile le diede i cinque baci di rito; e quando, condotta in giro per la presentazione, dovette dare e ricevere il bacio di tutti i fratelli. Io credo però che dopo la prima ritrosìa, ella abbia preso gusto al giuoco. 
In tal modo Lorenza entrò nell’ordine massonico, e cominciò a prender parte alle adunanze; e fui io il primo a far affiliare le donne alla massoneria militante e a trasformar le logge in miste. 


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
Pagine 884 - Prezzo di copertina € 25,00
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