sabato 3 novembre 2018

Luigi Natoli: Elogio al soldato italiano. Tratto da: Il numero 570


Oggi è celebrazione di eroismi.
Io non so se sia riverbero di orgogliosa tenerezza paterna; ma quando incontro ufficiali o soldati, feriti o no, che però recano in volto il sigillo della trincea, la loro immagine si ingrandisce agli occhi miei, e prende non so che augusto, sì che mi sento umile dinanzi a loro; e mi domando se noi ricordiamo abbastanza i prodigi che compiono questi nostri soldati, e se crediamo che ognun di noi abbia soluto tutto il suo debito verso di loro, offrendo un picciol obolo alle istituzioni un prò dei mutilati o degli orfani, o alle loro famiglie: mi domando se basta una cartella di rendita o l’offerta di un anellino per concorrere efficacemente alla vittoria; o se non dobbiamo comporre anche noi un’altra milizia di combattenti, per renderci degni di questi eroi, che fan gitto con generoso obblio della vita, in imprese che maraviglieranno i venturi.
Contendere il volo alle aquile, le rupi ai camosci, domare le insidie del mare, son cose cui i nostri eroi ci han reso familiari; e nessuna impresa, per quanto irta di difficoltà; nessun rischio, per quanto la morte vi appaia inevitabile, ci paion così superiori alla possanza dei nostri soldati che essi non debbano trionfarne. Essi hanno cancellato dal vocabolario la parola “impossibile”. Il miracolo è la consuetudine della loro vita, il maraviglioso è l’abito del loro spirito. Non sappiamo se un giorno un Omero, che brancolando fra le tombe e le are sparse lungo le aspre e contese vie di Trento e di Trieste, canterà la nostra Iliade; o se un nuovo Virgilio ne trarrà gli auspici per cantare i destini della terza Roma; ma ben sappiamo che nessuna eroica leggenda apparirà così sovrumana come la realtà vissuta e compiuta dal soldato d’Italia!
Bello e umano soldato, nel cui animo, come in ardente crogiuolo si fondono l’eroico sentimento dell’antico legionario e lo spirito avventuroso del cavaliere medioevale: e di quello ha la fora silenziosa e sicura; di questo la gentilezza e la generosità; e l’una e l’altra animate di quella poesia connaturata nel suo spirito, della quale alimenta i suoi affetti, e gitta i fiori spontanei sopra ogni suo gesto.
- Non è necesario vivere, – dice il nostro soldato – vincere bisogna! Per vincere occorre salire su quell’ardua cima che spaventa a guardarla? Ed egli vi sale: occorre portarvi dei cannoni? Ed ei vi porta i cannoni: bisogna sprofondarsi nella neve? E il contadino dell’arsa Puglia vi sprofonda. Quella cresta di monte è un cratere che vomita lave di ferro e di fuoco e di veleni: bisogna spegnerlo; e il soldato non misura pericolo, non conta i nemici; va, sale su la cresta, vince: la baionetta è folgore nelle sue mani. L’ira lo fa tremendo. Ma se egli vede due mani alzarsi supplichevoli, abbassa il ferro e porge la sua mano al vinto. E al nemico, che pur dianzi aveva puntato su di lui l’arma omicida, o aveva sferrato l’ignobile mazza barbarica, egli, il soldato d’Italia, dà il suo pane, se quegli ha fame; la sua borraccia, se ha sete; se lo carica su le spalle, se è ferito. Poi alla sera, su la cresta superata, su la ridotta espugnata, quando la lune sorge e diffonde la sua luce malinconica sulle vestigia della distruzione, il soldato d’Italia sogna le cose gentili; e dall’anima sua sgorga il sogno, e si effonde nella limpida onda dei suoi canti. E canta. Io so napoletano, e se non canto, moro!...

Ah io non saprò esprimere mai tutto quello che l’ammirazione, la tenerezza, la pietà, il senso dell’eroico, quel non so che di divino, che la nostra stirpe, eternamente giovine, rivela in questa guerra, suscitano nell’anima mia. Vorrei essere uno di questi prodi, dotato di virtù poetica, per narrare la santa gesta, come cantavano i trovieri la gesta di Rolando. Vorrei essere uno di quei valorosi del 14° e del 137° che fin dai primi giorni della guerra hanno scritto pagine di eroica bellezza; e potrei soltanto allora celebrare i vostri morti, o cittadini: La Rocca bello e saldo nelle membra come un antico cavaliere, prode animatore di prodi; e Molinari baldo e gentile, e Isastia fior di giovinezza, e Figliolia ardente nella sua fede, e i Russo, i Boffa, i Rutigliano, i Mele, i Grilli, i Santoro, gli Squattrilli, e i più umili di grado o di natali, gli oscuri di ieri, che la morte incoronò di gloria, e il cui nome incideremo domani nelle tavole di bronzo della nuova Italia. Potrei allora celebrare degnamente i figli di questa terra, che ben a ragione i poeti del Dugento chiamarono la “Magna Capitana”. Essa rinnovella quel titolo, come consacrazione della sua nuova e più vera grandezza. 
La pace a te, uomo di ogni ragione, di ogni razza, d’ogni lingua, d’ogni fede: la pace per tutti. Ma non v’è pace senza giustizia; non v’è giustizia ove il diritto non trionfi su la violenza, la civiltà su la barbarie, l’uguaglianza dei popoli su le egemonie. Non v’è, non vi sarà pace duratura e feconda, finchè la rapina, la libidine, gli incendi, le distruzioni, gli assassini degli innocenti, le scelleratezze saranno celebrati da un popolo briaco di birra e di barbarie, come virtù; e una scienza, disonore del genere umano, darà norma e metodo a ogni crudele e nefanda perversità.
La pace per tutti, sì, ma quando la fiamma del diritto, lampada eterna del vivere civile, diffonderà la sua luce ugualmente su tutti i popoli.
Per questa pace pugnarono e caddero i prodi che onoriamo di lauro; per questa pace pugnano milioni di uomini, sul Trentino, sul Carso, sui mari, uomini oscuri, essi costruiscono il nuovo destino di Roma....


Luigi Natoli: Il numero 570 (scene drammatiche in due atti. Un inedito assoluto di Luigi Natoli tratto da un suo manoscritto. Milizia eroica (orazione recitata il 24 maggio 1917, in memoria dei prodi del 14° fanteria caduti nel primo anno di guerra).


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