Oggi è
celebrazione di eroismi.
Io non
so se sia riverbero di orgogliosa tenerezza paterna; ma quando incontro
ufficiali o soldati, feriti o no, che però recano in volto il sigillo della
trincea, la loro immagine si ingrandisce agli occhi miei, e prende non so che
augusto, sì che mi sento umile dinanzi a loro; e mi domando se noi ricordiamo
abbastanza i prodigi che compiono questi nostri soldati, e se crediamo che
ognun di noi abbia soluto tutto il suo debito verso di loro, offrendo un
picciol obolo alle istituzioni un prò dei mutilati o degli orfani, o alle loro
famiglie: mi domando se basta una cartella di rendita o l’offerta di un
anellino per concorrere efficacemente alla vittoria; o se non dobbiamo comporre
anche noi un’altra milizia di combattenti, per renderci degni di questi eroi,
che fan gitto con generoso obblio della vita, in imprese che maraviglieranno i
venturi.
Contendere
il volo alle aquile, le rupi ai camosci, domare le insidie del mare, son cose
cui i nostri eroi ci han reso familiari; e nessuna impresa, per quanto irta di
difficoltà; nessun rischio, per quanto la morte vi appaia inevitabile, ci paion
così superiori alla possanza dei nostri soldati che essi non debbano
trionfarne. Essi hanno cancellato dal vocabolario la parola “impossibile”. Il
miracolo è la consuetudine della loro vita, il maraviglioso è l’abito del loro
spirito. Non sappiamo se un giorno un Omero, che brancolando fra le tombe e le
are sparse lungo le aspre e contese vie di Trento e di Trieste, canterà la
nostra Iliade; o se un nuovo Virgilio ne trarrà gli auspici per cantare i
destini della terza Roma; ma ben sappiamo che nessuna eroica leggenda apparirà
così sovrumana come la realtà vissuta e compiuta dal soldato d’Italia!
Bello e
umano soldato, nel cui animo, come in ardente crogiuolo si fondono l’eroico sentimento
dell’antico legionario e lo spirito avventuroso del cavaliere medioevale: e di
quello ha la fora silenziosa e sicura; di questo la gentilezza e la generosità;
e l’una e l’altra animate di quella poesia connaturata nel suo spirito, della
quale alimenta i suoi affetti, e gitta i fiori spontanei sopra ogni suo gesto.
- Non è
necesario vivere, – dice il nostro soldato – vincere bisogna! Per vincere
occorre salire su quell’ardua cima che spaventa a guardarla? Ed egli vi sale:
occorre portarvi dei cannoni? Ed ei vi porta i cannoni: bisogna sprofondarsi
nella neve? E il contadino dell’arsa Puglia vi sprofonda. Quella cresta di
monte è un cratere che vomita lave di ferro e di fuoco e di veleni: bisogna
spegnerlo; e il soldato non misura pericolo, non conta i nemici; va, sale su la
cresta, vince: la baionetta è folgore nelle sue mani. L’ira lo fa tremendo. Ma
se egli vede due mani alzarsi supplichevoli, abbassa il ferro e porge la sua
mano al vinto. E al nemico, che pur dianzi aveva puntato su di lui l’arma
omicida, o aveva sferrato l’ignobile mazza barbarica, egli, il soldato
d’Italia, dà il suo pane, se quegli ha fame; la sua borraccia, se ha sete; se
lo carica su le spalle, se è ferito. Poi alla sera, su la cresta superata, su
la ridotta espugnata, quando la lune sorge e diffonde la sua luce malinconica
sulle vestigia della distruzione, il soldato d’Italia sogna le cose gentili; e
dall’anima sua sgorga il sogno, e si effonde nella limpida onda dei suoi canti.
E canta. Io so napoletano, e se non
canto, moro!...
Ah io
non saprò esprimere mai tutto quello che l’ammirazione, la tenerezza, la pietà,
il senso dell’eroico, quel non so che di divino, che la nostra stirpe,
eternamente giovine, rivela in questa guerra, suscitano nell’anima mia. Vorrei
essere uno di questi prodi, dotato di virtù poetica, per narrare la santa
gesta, come cantavano i trovieri la gesta di Rolando. Vorrei essere uno di quei
valorosi del 14° e del 137° che fin dai primi giorni della guerra hanno scritto
pagine di eroica bellezza; e potrei soltanto allora celebrare i vostri morti, o
cittadini: La Rocca bello e saldo nelle membra come un antico cavaliere, prode
animatore di prodi; e Molinari baldo e gentile, e Isastia fior di giovinezza, e
Figliolia ardente nella sua fede, e i Russo, i Boffa, i Rutigliano, i Mele, i
Grilli, i Santoro, gli Squattrilli, e i più umili di grado o di natali, gli
oscuri di ieri, che la morte incoronò di gloria, e il cui nome incideremo
domani nelle tavole di bronzo della nuova Italia. Potrei allora celebrare
degnamente i figli di questa terra, che ben a ragione i poeti del Dugento
chiamarono la “Magna Capitana”. Essa rinnovella quel titolo, come consacrazione
della sua nuova e più vera grandezza.
La pace
a te, uomo di ogni ragione, di ogni razza, d’ogni lingua, d’ogni fede: la pace
per tutti. Ma non v’è pace senza giustizia; non v’è giustizia ove il diritto
non trionfi su la violenza, la civiltà su la barbarie, l’uguaglianza dei popoli
su le egemonie. Non v’è, non vi sarà pace duratura e feconda, finchè la rapina,
la libidine, gli incendi, le distruzioni, gli assassini degli innocenti, le
scelleratezze saranno celebrati da un popolo briaco di birra e di barbarie,
come virtù; e una scienza, disonore del genere umano, darà norma e metodo a
ogni crudele e nefanda perversità.
La pace
per tutti, sì, ma quando la fiamma del diritto, lampada eterna del vivere
civile, diffonderà la sua luce ugualmente su tutti i popoli.
Per questa pace pugnarono e caddero
i prodi che onoriamo di lauro; per questa pace pugnano milioni di uomini, sul
Trentino, sul Carso, sui mari, uomini oscuri, essi costruiscono il nuovo
destino di Roma....
Luigi Natoli: Il numero 570 (scene drammatiche in due atti. Un inedito assoluto di Luigi Natoli tratto da un suo manoscritto. Milizia eroica (orazione recitata il 24 maggio 1917, in memoria dei prodi del 14° fanteria caduti nel primo anno di guerra).
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