venerdì 24 luglio 2020

Luigi Natoli: La rivoluzione del 24 luglio 1517. Allo Steri! Allo Steri! - Tratto da: Squarcialupo.


Lo Steri sorgeva lì a pochi passi con la sua massa bruna, le sue belle trifore, le sue decorazioni bicromatiche; e torreggiava nel cielo serotino, sopra le case basse e sparse in giro della vasta piazza. Della gente, curiosi i più, si accodò a quel manipolo, che correva verso lo Steri; la porta del quale, che non era dove è oggi, ma dalla parte che guarda lo spiazzo della Dogana, era serrata. I congiurati cominciarono a gridare:
- A morte i traditori!
Ma le grida si perdevano nello spazio: alcuni picchiavano fortemente al portone, vi tiravano dei sassi; intanto altra gente accorreva, per la voce che di quel tumulto s’andava diffondendo per la città; e ciò, alimentando le speranze dei congiurati, aumentava i loro sforzi. Allora a una finestra si affacciò il duca di Monteleone, pallido e pauroso.
- Signori miei, non turbate la tranquillità di questa città fedelissima... Dite quel che desiderate; io esporrò al re, nostro Signore, i vostri desideri, con tutto il calore del mio attaccamento alla felicità del regno... Ma rientrate in voi stessi, non offendete la maestà del re... non...
Il clamore delle voci gli mozzò la parola:
- Vogliamo i traditori! Vogliamo quelli che han fatto morire i Conti! – Non vogliamo vostre chiacchiere...
Il duca accennava con le mani che lo ascoltassero.
- I conti sono vivi!... Nessuno li ha fatti morire; essi godono la protezione del re – Ve lo giuro!...
- Non è vero! – Sono stati assassinati!...
Questo interesse pei conti di Golisano e di Cammarata non era che una trovata per eccitare il popolo che s’andava raccogliendo e che riteneva i due conti come i suoi difensori. Esso non capiva nulla della politica, o la concepiva sotto l’aspetto della diminuzione dei balzelli, del pane a buon mercato e di peso; cose che la cacciata di don Ugo, della quale il conte di Golisano era stato il protagonista, aveva ottenuto; e che dal luogotenente duca di Monteleone gli erano stati ritolti, con l’aggravante dei castighi crudeli, o piuttosto delle vendette che le anime dannate di don Ugo esercitavano largamente e quasi con voluttà.
E quell’affermazione che il conte di Golisano fosse stato assassinato non mancava dal produrre una effervescenza, dall’eccitare una reazione, dal suscitare un mormorio minaccioso. Qualche grido uscì dalla folla, e fu il colpo di sprone; quelli che erano accorsi per curiosità di spettatori, si tramutarono in attori:
- Morte ai traditori dei Conti!... Morte!...
Il duca di Monteleone vide il pericolo accrescersi; e siccome qualche sasso volò contro la finestra, si ritrasse per paura d’essere colpito.

A un tratto squilla alla vicina chiesa della Gancia un tocco. L’avemaria? La gente si scopre per recitare la salutazione angelica: ma a quel tocco ne seguono altri più violenti; e la chiesa della Catena, e la chiesa di san Nicolò della Kalsa, rispondono: e poi altre chiese più lontane. E sulla città passa come un rombo di tempesta lontana. Campane a stormo! Il popolo esce dalle case: gli uomini si armarono; un invito corre di bocca in bocca:
- Allo Steri! Allo Steri!
L’ombra notturna che già era calata si rompe alle finestre fumose delle torce, che illuminano a sprazzi biechi profili di gente che ha una rivincita da prendere, una vendetta da esercitare. Il tumulto si tramutava in sommossa. Giovan Luca guardò la folla che veniva armata da ogni parte e se ne compiacque. Mastro Iacopo gli disse:
- Che vi diceva io? La bestia sonnecchiava, ora si è svegliata.
E già intorno allo Steri ondeggiava ora una folla, che pareva cozzasse contro le mura incrollabili, come i marosi contro gli scogli. Alcuni preso un trave, se ne servivano come di ariete di guerra, e cozzavano contro la porta per sfondarla; e ai colpi sonori si mescolavano gli urli e la minaccia. I di Benedetto, Girolamo Fàssaro, Iacopo Girgenti aizzavano la folla: i più feroci propositi esaltavano gli animi dinanzi alla resistenza della porta. Finalmente essa cedette, e un grand’urlo di trionfo ne salutò lo spalancarsi fragoroso: un torrente furioso si rovesciò nel varco; pareva che tutti avessero fretta di entrare; ognuno cercava di oltrepassare l’altro, per arrivar primo, i portici, la scala s’empirono; tutto il palazzo pareva tremare e gridare. Dov’erano i giudici? Dov’era il luogotenente? Li volevano nelle mani Nicola Cannarella, Tommaso Paternò, Gerardo Bonanno, Priamo Cavozzi, il conte di Adernò, don Giovanni de Luna, Blasco Lanza... tutti odiati mortalmente, perché partigiani di don Ugo, perché si ernao sfogati in rappresaglie e vendette, sotto la protezione del duca di Monteleone, che li secondava. Li cercavano per tutto il palazzo. In uno stanzino appartato scovarono il duca.
- Eccone uno!... Abbiamo preso don Ettore!...
Egli non offrì nessuna resistenza; si lasciò spingere, trascinare fra le minacce, pallido e tremante. Gli gridavano intorno che era un assassino, che proprio lui aveva scritto al re per far uccidere i conti; che aveva ordinato ai giudici di essere feroci contro la povera gente, che voleva opprimere e distruggere il popolo coi balzelli. Qualcuno gli metteva i pugni sotto il viso: qualche altro gli faceva balenare dinanzi agli occhi la lama di un coltellaccio. Egli vedeva già prossima l’ultima sua ora, e recitava mentalmente le sue orazioni per raccomandar l’anima a Dio. Ma un clamore più alto e uno spettacolo più miserando fermò coloro che lo spingevano: da un’altra sala veniva una folla imbestialita che trascinava due uomini insanguinati: erano i giudici Cannarella e Paternò; li avevano scovati nascosti in una stanza degli uffici, dietro gli scaffali; li avevano tempestati di colpi; una voce aveva gridato:
- Dalla finestra! Bisogna buttarli dalla finestra!...
E l’orrenda proposta era stata accolta con entusiasmo...



Luigi Natoli: SquarcialupoOpera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.

Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f)

Luigi Natoli: La rivoluzione del 24 luglio 1517. Per la gloriosa santa Cristina, andiamo! - Tratto da: Squarcialupo.

E quella era la giornata, finalmente!...
Intanto arrivavano altri cavalieri, e infine Giovan Luca Squarcialupo, che contò i convenuti: erano ventidue.
- Orsù, – disse: – col nome di Dio e della gloriosa santa Cristina, andiamo.
E la cavalcata si mosse verso la città.
 Entrarono dalla Porta Nuova, come una comitiva di amici; la porta era aperta, i gabellieri al loro posto, tranquilli; nessun indizio di sospetti. Poiché non era ancora l’ora del vespro, Giovan Luca entrò coi compagni nella vicina chiesa di San Giacomo, che era deserta. E là concertarono ancora quale dovesse essere l’opera di ognuno e di tutti. Piombare nel Duomo, con le armi in pugno, sorprendere il duca di Monteleone, impadronirsene, uccidere chi osasse resistere, e i giudici che tanto odii avevano suscitato: insignorirsi del potere, ma non ripetere la sciocchezza commessa l’anno innanzi, quando fu cacciato don Ugo.
Ed ecco il campanone del Duomo sonare a Vespro: e ogni colpo rimbombava nel cuore di ognuno, e farlo balzare. È l’ora. Si scambiano uno sguardo; e taciti, pensosi di quel che fra un istante avverrebbe scendono verso il Duomo. La grande porta è spalancata; il sole illumina il bel prospetto e ravviva la patina dorata distesa dal tempo sulla pietra e sul marmo. Si sente il canto snodarsi lento e solenne; in quel momento, pensano, il luogotenente si è seduto nel soglio. Entrano, corrono verso l’abside maggiore, tra i fedeli stupiti di quella irruzione a mano armata; ma quale delusione! V’erano i canonici, v’era l’arcivescovo; non c’era né il luogotenente generale, né i magistrati, né il senato.
Come? Perché?
Un sagrista, che al vederli entrare armati, s’era messo a gridare: – Sono qui! Sono qui! – cercando di fuggire; raggiunto, spiegò loro che il duca aveva saputo che volevano ammazzarlo, e non era uscito dallo Steri. Questa risposta stupefece tutti: l’aveva saputo? Da chi? c’era un traditore dunque fra loro? Giovan Luca guardò con occhi lampeggianti d’ira i suoi compagni – Chi è il Giuda? – gridò.
Ma tutti protestarono vivacemente e fieramente. Il traditore non era fra loro: essi erano tutti lì pronti a ogni rischio, e Giovan Luca aveva torto ad offenderli.
A ogni modo il dado era tratto: bisognava andare innanzi, alla vittoria o alla morte. Uscendo dalla chiesa, Giovan Luca, levando in alto la spada, gridò:
- A morte i traditori!... Cittadini, all’armi!
E i compagni ripeterono il grido. Ma nessuno uscì dal Duomo per seguirli, e la gente che si affacciava sulle soglie delle botteghe e delle case, o che andava per le vie, guardava meravigliata, non sapendo che fosse, Vincenzo di Benedetto agitava la spada, gridando, e gli altri con lui, invano:
- Viva il re! Muoiano i traditori!...
Scesero per la via Marmorea: soli, senza seguito, il popolo guardava e li lasciava passare, senza neppure secondare quel grido. Era una cosa inconcepibile: mastro Iacopo se ne sdegnava: apostrofava gli imbelli, che stavano a vedere, come fossero a uno spettacolo; li sferzava con male parole:
- E che? siete sordi? Che aspettate, che vi impicchino, figli di cani? Siete diventati dunque tante carogne, che non vi sentite fremere il sangue? Il re di Fiandra fa morire i Conti, quei Conti che andavano là per difendervi, e voi ve ne state con le mani alla cintola? Puh! Vili!
Ma nessuno si moveva: quei ventidue cavalieri percorrevano la via Marmorea, gridando, come anime sperdute. Avessero almeno trovato una resistenza! Ma dove erano le milizie spagnole? Dove il luogotenente generale? In verità il duca di Monteleone aveva perduto la testa. Sapendo che i congiurati dovevano calare dalle campagne, non aveva per prima cosa ordinato la chiusura delle porte della città; non aveva chiamato le fanterie spagnole del Castello a mare: si era invece chiuso coi giudici, coi più odiati partigiani di don Ugo, nello Steri: abbandonando così la città a quei ventidue che, ironia! non trovavano seguito e potevano essere schiacciati in mezz’ora. 
I congiurati proseguivano, chiamando il popolo alle armi, quando da una viuzza videro uscire un dabben uomo, archiviario del comune, Paolo Caggio, che al grido e alla vista, spaventato si diede a fuggire. Vincenzo di Benedetto, che ardeva più degli altri di menar le mani, lo rincorse e lo uccise. Povera vittima incolpevole, e inutile, l’archiviario versò il primo sangue, solo perché Vincenzo di Benedetto aveva bisogno di mostrare che non aveva tradito! Ma quel sangue non fomentò le ire: destò compianto; e non diede seguito ai congiurati, che percorsero tutta la via Marmorea, uscendo nel quartiere della Loggia; giunsero fino alla Chiesa della Catena, senza aver altri che li seguisse che un giovinotto novizio dei Dominicani, che doveva esser più tardi il loro storico: Tommaso Fazello.
Giovan Luca entrò nella chiesa, scoraggiato, avvampando di sdegno contro l’inerzia del popolo; si lasciò cadere sopra un banco, delle lagrime gli rigarono il volto, il suo sogno vaniva: aveva spinto quei suoi compagni alla morte, fidando nel popolo; e il popolo li lasciava soli! Che avevano fatto dunque quei popolani che eran con lui, e che passavano per capipopolo? E mastro Iacopo? Nessuno rispondeva alle querimonie di Giovan Luca si guardavano muti e squallidi e disanimati. Ma poco dopo, superata quella crisi di abbattimento, Giovan Luca si alzò, pareva trasfigurato:
- Signori – disse – abbiamo giurato di andare o alla vittoria o alla morte. La vittoria ci è mancata; andiamo a morire; per la Sicilia e per la libertà! Avanti!...
Uscì pel primo, e quel manipolo lo seguì, ripetendo il suo grido di morte... 


Luigi Natoli: SquarcialupoOpera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, la feltrinelli.it, Amazon prime e tutti i siti vendita online.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour di fronte La Feltrinelli), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f)

Luigi Natoli: La rivoluzione del 24 luglio 1517. I preparativi alla festa di S. Cristina. Tratto da: Squarcialupo.


Era la sera del 22 luglio 1517, antivigilia della festa di Santa Cristina, patrona della città che i Palermitani si affaccendavano a celebrare, come facevano ogni anno, nella maniera più sontuosa imbiancando cioè i muri delle case, e appendendovi festoni di fronde; innalzando per le strade che la processione doveva percorrere archi trionfali, anch’essi di verdi fronde; e preparando coperte e panni e, chi li aveva, arazzi, da stendere sulle finestre, e lanterne e torce resinose per far la luminaria.
Questa era la festa principale, e più solenne per la città; cominciava la vigilia, col Vespro solenne che si cantava nel Duomo, e si svolgeva il giorno della festa, cioè il 24, con la “cappella reale” e la messa cantata, di mattina, e immediatamente dopo la processione. Cappella reale significava che alla funzione religiosa interveniva il vicerè o il luogotenente, come rappresentante del sovrano, in gran pompa; sedeva sul trono e riceveva l’incenso nelle forme prescritte dal cerimoniale. Tanto nell’andare al Vespro solenne, quanto alla messa cantata, l’intervento del vicerè era per se stesso uno spettacolo che attirava la folla: perché egli vi andava con le insegne della carica, con gran seguito di cavalieri e di creati: ed era ricevuto alla porta del Duomo dall’Arcivescovo: e perché andando il vicerè in veste ufficiale, a esercitare un atto di sovranità, ci si recavano anche le alte magistrature del regno, e il Senato, anch’esso in gran pompa.
Il popolo, dunque, faceva i preparativi per addobbare le strade specialmente quelle che la processione avrebbe percorso, secondo prescriveva il bando del Senato. E quell’anno era prescelto il quartiere del Capo, o come si diceva, di Civalcari.
Qua e là, dove c’era gente che o imbiancava, o sul bianco dipingeva certi ornati rossi e turchini, che parevano ai riguardanti bellissimi, si formavano crocchi, che ciaramellavano delle cose più disparate; uno più numeroso se n’era fatto presso la chiesa di Sant’Agostino, dove addobbavano di verdi fronde d’arancio e di palme un arco trionfale; ma un uomo vestito da frate, messosi a parlare ad alta voce sui gradini della chiesa, aveva attirato a sé quel crocchio, che era man mano diventato folla, e pareva che prendesse gusto al discorso del frate.
Il quale era mastro Iacopo, camuffatosi a quel modo per poter percorrere le vie, senza intoppi. Lì s’era fermato e pareva predicasse. Una predica buffa, se faceva ridere. Ora egli continuava a dire:
- Dovete sapere, amici miei, che una vota, saranno cento e cento e cento anni i Cristiani andavano nel paese dei Turchi per togliere loro i Luoghi Santi, dove nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso da quei cani di giudei. E combatti oggi, combatti domani vinsero la battaglia, e liberarono il Santo Sepolcro. E che trovarono!... Tutti gli strumenti della Passione di nostro Signore!... – Dicono: – “questi per non litigare fra noi, dobbiamo portarli al Papa, e penserà lui a dividerli”. Detto fatto: portarono ogni cosa al Papa, il quale composta una bella nota di tutti i regnanti e principi fece la distribuzione e mandò ad ognuno una reliquia, come vi dirò. Voi mi domanderete: E tu come li sai quanti regnanti e principi c’erano in quel tempo? – Io non li sapevo, ma l’ho udito nominare dal padre lettore di San Francesco. Dunque, all’Imperatore mando la Croce; al re di Francia la Corona di spine; al re di Castiglia la colonna dove Gesu fu flagellato; al re di Navarra la Catena, al re d’Inghilterra i tre chiodi; al re d’Ungheria il Martello; al re di Cipro la Scala, al re d’Aragona la lancia; al re di Scozia la spugna, al re di Boemia il velo; al re d’Apollonia la corda; al Delfino di Francia la camicia; al principe di Taranto i trenta denari; al Duca di Scozia la fanara di fuoco; al Duca di Calabria i dati; al Duca di Borgogna il guanto di ferro; al Duca di Bretagna la canna; al Duca di Milano la lanterna; al Duca d’Orleans le tanaglie; al Gran Maestro di Malta la trombetta; al Conte di Armaniaceo il secchio; al Conte di Tusca la borsa. E i flagelli con cui il povero Gesù fu ridotto una piaga dalla testa ai piedi? I flagelli, amici miei, li lasciò al Vicerè di Sicilia; sapendo che voi, come tanti Cristi legati alla colonna, vi lasciate flagellare, senza parlare. Pigliateveli dunque in pace i colpi che vi portano via la pelle a pezzo a pezzo, e bene vi stia!...
La gente che dapprima ascoltava ammirata tutta quella filastrocca, alla fine inaspettata, dalla quale capiva l’arguzia ironica, mormorava, e commentava. Qualcuno diceva:
- Eh! frate mio, hai torto, perché sai bene che a don Ugo gliel'abbiam strappato il flagello...


Luigi Natoli: SquarcialupoOpera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.

Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, la feltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online. 
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133) La Nuova Bancarella (di fronte La Feltrinelli), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), Libreria La Vardera (via N. Turrisi 15)


Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano


Giovan Luca attendeva a preparare i modi e i mezzi per attuare quel suo vecchio disegno di riscossa per cacciare lo straniero, e istituire un governo democratico, come quello che fece la gloria di Pisa. Era l’idea accarezzata fin da quando cominciò a leggere le pagine di Livio, maturatasi col progredire negli studi umanistici, fattasi assillante in quei rivolgimenti, e allo spettacolo delle violenze e delle ladronerie del vicerè don Ugo. Che quelli non fossero tempi di repubblica, che questa repubblica vagheggiata da lui era un anacronismo, sfuggiva alla esaltazione del suo spirito, che lo illudeva di speranze e di sogni eroici. 
- Ebbene, non si può estendere a tutta la Sicilia, e fare del regno una grande Repubblica? Questo è il mio sogno; ma forse voi non ne vedete tutta la bellezza, perchè le vostre idee sono diverse dalle mie, quanto alla forma del governo.

Luigi Natoli: SquarcialupoOpera inedita. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1517, quando Giovan Luca Squarcialupo, patriota, sognò e realizzò anche se per poco, un governo repubblicano. L’opera, mai pubblicata in libro, è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1924.
Pagine 684 – prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal sito www.ibuonicuginieditori.it, la feltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online. 
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venerdì 17 luglio 2020

Luigi Natoli: La piazza Marina nel 1401. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca.


La piazza Marina, così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta.
Le altre case intorno eran piccole dimore, frammezzate da orti e giardini, tra i quali, dalla parte opposta allo Steri, sorgeva nella sua bella architettura ogiva la chiesa di S. Francesco dei Chiovari e accanto a essa si innalzava bruna, massiccia , fiera nei suoi merli, con finestrette simili a feritoie, la torre di Maniace o volgarmente di Manau.
Fra quelle case v’era qualche taverna, sulla cui porta una fronda di alloro rinsecchita serviva d’insegna.
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Un giovinetto s’era fermato con un senso di meraviglia e una certa commozione in mezzo alla piazza, guardando il palazzo chiaramontano.



Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401, quando è appena tramontata la grande epoca chiaramontana. L’opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale pubblicato della casa editrice La Gutemberg nel 1921.

È la presunta storia di Giovannello Chiaramonte, figlio di Andrea, che cerca di risollevare la gloria del suo casato contro il gran giustiziere Bernardo Cabrera, il re Martino e la regina Bianca di Navarra.
Pagine 702 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal sito www.ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online. 
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f), Libreria Sellerio (Via Regina Elena - Mondello)

venerdì 10 luglio 2020

Luigi Natoli: Erice. Tratto da: Gli schiavi.


Erice sorgeva in cima ad un monte isolato sopra Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava oltre la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la conquista della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino di Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali dell’isola (giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio, nel V libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte di Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute; il quale Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il nome. In enzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere, crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato. Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento soldati vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel porto di Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi all’orizzonte, era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si andava colorando in roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte, vedevano spiegarsi e allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed rrido paesaggio. Da una parte l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta in una immensa pozza di calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e più lontano, tra il dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva Lilibeo e la distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube. Oltre Drepano, oltre Lilibeo,  il mare azzurro, senza confine; e le isole, il capo Egitallo, che già si doravano al sopravvenire dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la scena. Altri monti e ancora monti, quali ripidi tagliati a picco sul mare, che qui prendeva una tinta di argento; quali succedentisi l’un dopo l’altro entro terra, come in uno scenario fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le acque putizianese(14); ecco biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria(15); e più lontana ancora la punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e monti or coperti di verde, ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano sotto lo sguardo ammiratore dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde, rivestiva d’oro.
Cleone ed Egle si fermavano di tanto in tanto, ed ammiravano lo spettacolo, sempre nuovo, sempre bello, con un sentimento religioso; e connettevano al levarsi imponente del sole e al risveglio della natura, le credenze negli Dei, di che era piena la loro coscienza. Saliva dagli alberi un pigolìo festoso: gli uccelli si rallegravano e ringraziavano il dio della luce; e dalle erbe agli alberi passava come un fremito, che era anch’esso di ringraziamento, per essere usciti fuor dalle tenebre della notte.
E con loro si fermavano qua e là i pellegrini. E raccontavano. Uno di essi parlava di Venere Ericina.


Luigi Natoli: Gli Schiavi – Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 103 a.c. al tempo della Seconda Guerra Servile. L’opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato con la casa editrice Sonzogno nel 1936. Le note aggiuntive dell’editore sono poste allo scopo di far capire maggiormente al lettore il grande lavoro di ricostruzione del periodo storico del romanzo svolto dall’autore.

Pagine 387 – Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online. 
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15) 

giovedì 9 luglio 2020

Luigi Natoli: Come s'andava ai ricevimenti. Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli (1500-1700)

Quali fossero gli umori che la vanità cittadina ispirava per parere più che non si fosse, si è detto. Vero era che le fogge di vestire differivano da un ceto all’altro; che vi era un vestito pei popolani e un altro per la borghesia e un altro per la nobiltà; e quel che era lecito a un nobile, come il cingere la spada, non lo era a un artigiano. Ma ognuno si sforzava di parere di più, salvo che non fosse medico o magistrato, che avevano abiti propri che non dovevano essere confusi con altri. 
Tuttavia nelle feste pubbliche, come le cavalcate, i ricevimenti, le giostre, si vedevano le diversità e si poteva osservare l’evoluzione del costume segnatamente nelle classi più elevate che seguivano la moda; mentre il popolo più conservatore e tradizionalista non si risolve ad accogliere nuove fogge di vestito, quando era già smesso dagli altri. Per questo noi andremo spigolando tra i nobili i progressi della moda. 
All’arrivo della moglie del Vicerè don Ferrante Gonzaga andarono a incontrarla dodici dame a cavallo sopra belle chinèe, e più belle: erano esse vestite chi di “broccato, chi di tela d’oro e d’argento, con sue scuffie d’oro ben fatte, e suoi berretti in testa...” E poi nel Castello “vi erano altre venti dame vestite come sopra.”
Dunque nell’anno 1537 le dame andavano a cavallo. Non potevano andare in lettiga, perché questa serviva per viaggiare; non in portantina perché non potevano esser vedute; e poi le une e le altre avrebbero occupato abbastanza spazio. Carrozze non ce n’erano. Dunque si andava a ricevimenti a cavallo. Già il secolo cominciò con l’ingresso della regina Giovanna fuggita da Napoli innanzi ai Francesi invasori. Ella fu ricevuta dalle dame e dal Vicerè a cavallo, ma non c’era un cavallo per lei, ed ella sedette in groppa di costui, tale e quale una contadina. Ma questo non era l’uso del tempo. 
Al tempo di don Juan de Vega, cioè nel 1540, vi erano già tre carrozze; e le dame continuarono ad andare ai ricevimenti e alle feste a cavallo. Chi vuol sapere il nome delle trentotto dame che andarono alle nozze della figlia del Vicerè, legga il diario del La Rosa, pubblicato dal Di Marzo nella sua Biblioteca storica e letteraria; ma farà piacere incontrare nomi che ancora sorvivono, quali i Settimo, i De Gregorio, i Bologna, i Moncada, gli Alliata.

Luigi Natoli: Palermo al tempo degli Spagnoli – Opera inedita, costruita e fedelmente copiata dal manoscritto dell’autore privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche i più frivoli.
Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Pagine 283 – Prezzo di copertina € 20,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti) Libreria La Vardera (Via N. Turrisi), Libreria Sellerio (Viale Regina Elena - Mondello)

Luigi Natoli: Il vestire. Tratto da: Palermo al tempo degli Spagnoli.

Chi vuol vedere come vestivano cavalieri e dame, vada al Museo e guardi qualche ritratto e le lapidi sepolcrali. Vedrà vestiti di dame colle maniche a sbuffi, interrotti da cinti d’oro col petto rigido, la vita or corta, poi più lunga terminata in punta, in capo una cuffia che era una reticella d’oro, che raccoglieva i capelli ben pettinati a trecce, con berretti come quelli che dicono alla Raffaello o alla spagnuola, guarnite di piume morbide a guisa di grossi ciuffi. Col volgere del tempo le vesti si allargarono, si usò il guardinfante, e i colletti inamidati e increspati, si usò anche il cappello, più o meno a larghe falde. 
E gli uomini per circa centotrent’anni o giù di lì portarono i corpetti aderenti, le brache corte e gonfie, la mantellina, le calze lunghe, le scarpe a punta tonda. In guerra, in campagna, quando pioveva, gli uomini usavano i lunghi mantelli e gli stivali alti fino alla coscia, per lo più di cuoio naturale. In testa dal berretto si passò al cappello. Un quadro dipinto dal Fondulli di Cremona, che si trova nella chiesa del Collegio di S. Rocco, ha, nella predella, effigiati Marco Antonio Colonna e donna Felice Orsini, sua moglie, e dietro a loro da una parte gli uomini e dall’altra le donne. Marco Antonio Colonna è vestito di bianco, colla mantellina nera; donna Felice di velluto nero, così parmi; le dame e i gentiluomini di vari colori. Si può dire che quello è un campionario di figurini del 1578.
Questi figurini mutavano coi tempi; nella seconda metà del 600 il costume è interamente mutato; il giubetto era più lungo, le brache giungevano al ginocchio, il cappello era a grandi tese, gli stivali si portavano ripiegati in giù.

Palermo al tempo degli SpagnoliOpera inedita, costruita e fedelmente copiata dal manoscritto dell’autore privo di data. È lo studio critico e documentato di due secoli di storia della città di Palermo mirabilmente analizzata da Luigi Natoli con una visione del tutto contemporanea senza trascurar nulla, compresi i particolari, anche i più frivoli.
Argomenti trattati:
La città – Il governo – L’amministrazione – Il popolo – Il Sant’Offizio – Il clero e le confraternite – La giurisdizione e l’arbitrio – Le maestranze – Le rivolte – Le armi e gli armati – Le scuole e i maestri – La stampa – Gli usi e costumi delle famiglie – La vita fastosa – La pietà cittadina – Teatri e feste – I divertimenti cavallereschi e le giostre spettacolose – Banditi, stradari e duelli.
Pagine 283 – Prezzo di copertina € 20,00
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Sciuti (Via Sciuti) Libreria La Vardera (Via N. Turrisi), Libreria Sellerio (Viale Regina Elena - Mondello)

Luigi Natoli: Il "cristiano" nella Palermo di fine '700. Tratto da: Calvello il bastardo


Zi’ Francesco era uno di quegli uomini che nel quartiere dell’Albergaria godevano riputazione di coraggio e di valore.
Da questa specie di uomini, per degenerazione lenta e profonda nacque la mafia odierna, che è sopraffazione, ricatto e malandrinaggio. In quei tempi non si dicevano mafiosi, vocabolo nato e adottato in tempi più vicini, come assicurano gli studiosi. Si dicevano “cristiani”; cioè uomini nel vero senso della parola, uomini di fegato e di silenzio.
Il “cristiano” portava in una tasca il rosario, nell’altra il coltello; riconosceva e rispettava le classi sociali più elevate; aveva pei “galantuomini” – cioè per i patrizi – e pei “signori” – cioè per la borghesia – una vera sottomissione, negli atti e nelle parole, ma niente servile, la quale si tramutava poi in una tacita protezione che egli estendeva sulle loro persone e sui loro averi; e nessuno o ladro o malvivente osava commettere un delitto contro coloro che si sapevano protetti da qualche “cristiano”.
I maggiori, gli arcifanfani, diventavano capi del popolo nelle sommosse, esercitavano ufficio di arbitri e di pacieri tra il loro ceto, componendo questioni, risolvendo dubbi, e i loro responsi erano ascoltati e ubbiditi con un rispetto maggiore di quello che si rendeva ai precetti della religione e della legge.
Zi’ Francesco era uno di questi “cristiani” maggiori; e nell’Albergheria godeva di una grande autorità. Egli poteva lasciar andare le sue donne, dovunque; poteva lasciare aperta la sua casa, era sicuro che nessuno avrebbe osato commettere non diciamo una violenza, ma anche la più lieve scortesia. Una taverna all’angolo della discesa del Banditore era il suo ufficio, il suo confessionile, il suo tribunale. La sera, dopo il lavoro, vi si recava; sedeva a una tavola, e riceveva i suoi amici; ascoltava la cronaca del quartiere, le lagnanze di questo o di quello; dava giudizi. Qualche volta, in una stanza appartata, due uomini, armati di coltello di uguale misura, “la paranza”, dinanzi a testimoni e allo zi’ Francesco, si battevano per definire una questione che non si era potuta risolvere amichevolmente. Spesso, nel cuor della notte, approfittando dell’oscurità, un cadavere o un moribondo era depositato dietro i gradini di una chiesa, o in un canto di strada, lontano; e il mistero avvolgeva il delitto.
L’Albergaria era il quartiere che accoglieva gli uomini più maneschi e più rissosi; espertissimi nella scherma di coltello, nella quale si esercitavano secondo le norme di una vera e propria arte; e ubbidientissimi a un certo lor codice di cavalleria, che non compativa la prepotenza sopra i deboli e gli inermi, il delitto a tradimento o a sorpresa, lo spionaggio, l’intromissione della giustizia. Uomini nei quali il sentimento dell’onore e del valore individuale era certo esagerato e anche in parte fuorviato da pregiudizi sociali; ma nei quali era pure in fondo una grande dirittura, e una generosità a volte anche magnanima. Fra loro si professavano scambievolmente un grande rispetto. Non riconoscevan gradi, nè conferivano comandi; ma sentivano una ammirazione più rispettosa verso coloro che più si erano segnalati per atti di valore e per grandezza d’animo, e mostravan verso di loro una sottomissione, che non aveva però nulla di servile o di viltà. Era il tacito omaggio professato dalla forza all’eroismo; così come noi lo professiamo verso i grandi poeti e i grandi artisti, e in generale verso i geni.



Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi.

L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour) Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), La Libreria di La Vardera s.a.s. (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Sellerio (viale regina Elena, Mondello)

Luigi Natoli: La duchessa di Falconara. Tratto da: Calvello il bastardo


La signora duchessa stava nel suo abbigliatoio, seduta dinanzi allo specchio, avvolta in un ampio accappatoio di mussola bianca, sparso di fiorellini rosa. Di qua e di là due cameriere, reggevano dei vassoi d’argento carichi di boccette d’odori, vasetti di pomate, ferri, forcine, spazzole, armature di fil di ferro, riccioli finti; scatole di cipria, pennellini da dipingere ciglia e nei. Monsù, dietro alla signora, con le agili sapieni mani volgeva e svolgeva le chiome, prendendo dai vassoi quel che gli occorreva per costruire quella pettinatura, mirabile ma difficile edificio, che richiedeva un buon paio di ore di lavoro. Intanto faceva la cronaca del giorno. Più in là, seduto sopra una elegante seggiola, con l’occhialetto in mano, il signor cavaliere Gallego, dei principi di Militello, onorato delle funzioni di cavalier servente della nobile dama.
La duchessa di Falconara non era più giovane; i maldicenti che la conoscevano da un pezzo, assicuravano che essa avvicinavasi alla cinquantina. Ne aveva infatti quarantasette: ma ci voleva uno sforzo di immaginazione per riconoscere tanta maturità nel volto ancor fresco e roseo e nella vivacità dello sguardo e del gesto; tanto più che l’arte sapiente di Monsù sapeva cancellare le lievi ingiurie del tempo agli angoli degli occhi, e qualche capello bianco spariva sotto il niveo strato della cipria.
Era bella, col suo piccolo naso lievemente curvo, gli occhi grandi, neri, acuti, un carattere di alterigia e di volontà nell’insieme del volto. Non ostante l’espressione di dolcezza e di tranquillità che ella cercava di dare al suo sorriso e al suo sguardo, segno di una intima soddisfazione, c’era talvolta in essi una durezza, o per lo meno una insensibilità, che faceva dubitare se quell’animo fosse capace di tenerezza o di compassione.
La sua casa, del resto, rivelava il culto quasi esclusivo della persona; il lusso, la profusione, la inutilità di mille nonnulla indicavano la ricchezza, il gusto e il godimento estetico della dama. Un gusto e un godimento di raffinata, che delle dolcezze di una vita artificiosa ha fatto lo scopo della vita stessa.
In quell’abbigliatoio, tappezzato di seta bianca, dai mobili di puro stile Luigi XV, profumato, tiepido, ella troneggiava fra il parrucchiere, dinanzi allo specchio, candida e rosea, con le labbra dipinte di carminio e il piccolo neo sulla guancia, avvolta nell'accappatoio, come in un pallio.
Ella amava sè, amava il fasto e le raffinatezze della vita che soddisfacevano il suo egoismo. Aveva dunque una cura meticolosa di conservar quella ricchezza, che dava alla sua beltà e al suo grado, alla sua condizione, tutte le gioie dell’impero.

Ecco ora quel figlio, improvvisamente apparso dal fondo oscuro del passato, minacciarla nella sua fama intatta, nel suo dominio, nella sua ricchezza. Era la verità che insorgeva contro la menzogna, contro l’inganno. Quella donna, quel testimonio di un passato, se fosse venuta in potere dei congiunti diseredati, sarebbe stata l’arma potente per strapparle la pingue eredità, per gittarla nella miseria e nell’onta. Nella miseria, perchè la sua dote era una irrisione, e l’avrebbe costretta a vivere come una borghesuccia, nell’ombra. Il suo palazzo vasto e magnifico, le sue carrozze, le sue portantine, i suoi cavalli, le ventisei persone di servizio, il parrucchiere, l’abate, la sua loggia al teatro di Santa Cecilia, gli inviti alle feste di corte, gli omaggi, tutto sarebbe finito!... Invece gli scherni, il disprezzo, la vergogna, la solitudine! Aveva odiato quel figlio nel suo concepimento, nella sua nascita; l’odiò con maggiore acerbezza ora che le ricompariva dinanzi minaccioso; odiò quella donna che possedeva il suo segreto, che era più potente di lei, che l’aveva in pugno, e poteva perderla con un cenno...
L’onda dell’odio le si distese sul volto, le coperse gli occhi; voltandosi e vedendo la sua immagine in uno specchio, ella apparve terribile a sè stessa. Strinse i pugni, con un gesto oscuro di minaccia e restò lì, ferma dinanzi allo specchio, sotto il peso di un pensiero terribile...



Calvello il bastardo – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi.
L’opera è la trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour) Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), La Libreria di La Vardera s.a.s. (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Sellerio (viale regina Elena, Mondello)