mercoledì 8 febbraio 2023

Luigi Natoli: Quei due cadetti indossavano una bella uniforme turchina gallonata d'argento... Tratto da: Braccio di ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano.

Quel giorno sebben festivo, non era uno di quelli assegnati per la visita, e Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano, scambiar con lei qualche sorriso, qualche gesto furtivo, e dirsi con gli occhi tutte le parole tenere che le bocche non potevan pronunziare. La gente, che aspettava la processione, non gli badava: qualche amico passando, e dato uno sguardo, barattava una parola, salutava, e tirava innanzi per non essere di troppo; ma due cadetti di cavalleria, che si eran già fermati anch’essi in quei paraggi a poca distanza da Tullio, e avevan sorpreso qualche segno telegrafico delle dita, cominciarono fra loro a ridere e a far delle smorfie canzonatorie, che fecero più volte aggrondar le sopracciglia e arrossir Tullio per la stizza.
Erano allora i cadetti giovani di famiglie civili o signorili, che entravano volontari nella milizia per far carriera. Non eran semplici soldati, ma non eran neppure ufficiali, qualche cosa come gli allievi delle nostre accademie militari. Vagheggini, eleganti, approfittavano della loro condizione privilegiata, ed erano spesso insolenti, prepotenti e rissosi.
Quei due cadetti indossavano una bella uniforme turchina gallonata d’argento, con le piccole falde rivoltate indietro ad angolo, coi calzoni di pelle bianca aderenti alla coscia, e gli stivali alla scudiera lucidi come specchi. Stavano piantati con le gambe larghe, la sinistra sull’elsa della sciabola, l’alto kepy di cuoio, largo di fondo, e stretto di testa, calato sull’orecchio destro, con un’aria brava, provocante, che cominciava a far fremere Tullio Spada, e a mettergli nelle mani un tal pizzicore, che egli dovea fare uno sforzo per raffrenare i suoi nervi, e non farne qualcuna delle sue. Soprattutto lo forzava alla prudenza, il timore di spaventar Rosalia.
Ma i due cadetti, presero quella prudenza per paura, e divenuti più coraggiosi ed insolenti, si avvicinarono ancor più a Tullio, sghignazzando. Anzi, uno di essi alzati gli occhi al balcone di Rosalia, spinse la sua sguaiataggine sino al punto di rifare un gesto del giovane.
Non ci volle altro.
Senza dire una parola, serrando le mascelle, ma con certi occhi che schizzavan vampe, Tullio Spada, si avvicinò ai due cadetti; e buttato via il bastone che gli era di impaccio, li acciuffò pel petto uno da destra, uno da sinistra, squassandoli con così violenta rapidità che quelli non ebbero né il tempo, né il modo di scansare l’assalto e difendersi.
Rosalia mandò un grido di spavento; al suo grido fecero eco quello di sua madre e suo padre, il signor Anselmo, che stupìto e spaventato si mise a gridare:
- Tullio! Tullio!...
Quelle grida, gli urli dei cadetti, lo sbatacchìo delle sciabole sul selciato, fecero voltar la gente, che non si era accorta di nulla, tanto il gesto di Tullio era stato subitaneo. Ma alla vista confusa di quei tre corpi che si agitavano scompostamente, non sapendo che fosse, le donne, levando alti strilli, scapparon di qua e di là, gli uomini indietreggiarono, intorno a Tullio ed ai cadetti, si fece largo e apparve allora agli occhi di tutti uno spettacolo così singolare, che la paura si mutò in stupore.
I due cadetti, rossi in viso, col capo nudo, (che i kepy dopo aver dondolato un po’, eran caduti) con le uniformi sbottonate, sgualcite, facevano sforzi per liberarsi dalle mani di Tullio Spada; ma quelle mani parevan due morse di acciaio, e le braccie due leve possenti che sbattevano i malcapitati in alto, in basso, a destra e a sinistra come due burattini. Sbuffando, sacramentando, non potendo liberarsi da quelle mani indiavolate, i cadetti cercavano di sguainare le sciabole; ma Tullio Spada compì un gesto, che suscitò la meraviglia di tutta la folla.
Con un gesto, che pareva non gli costasse alcuno sforzo, così acciuffati come li aveva, sollevò i due cadetti in alto, uno a destra, l’altro a sinistra; li sollevò oltre la sua testa; li tenne così un attimo, quasi per godersela a vederli buttar le gambe in aria; e, come fossero stati i piatti di una gran cassa, li battè, uno contro l’altro, una volta, due volte, tre volte…
Pareva battesse due pantofole per spolverarle. La folla dapprima sbalordita alla forza prodigiosa di quei muscoli e di quei nervi, ruppe in grida di entusiasmo, come a uno spettacolo.
- Bene! bravo! forza!... pigliatevi questa, marionette!
Ma ecco una voce gridare:
- I birri! I birri! Coi birri, in quei tempi specialmente, era meglio non averci da fare. Tullio Spada diede un ultimo colpo ai cadetti, e, mezzo svenuti per le percosse e per la vergogna, gittatili per terra come due sacchi vuoti, fendè la folla, che lo applaudiva e, infilato il portone della casa della fidanzata, lo chiuse di dentro, per mettersi in salvo, prima che giungessero i birri...


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820, al tempo delle vendite carbonare e della rivoluzione.
L'opera è la trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 342 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno.
Braccio di Ferro avventure di un carbonaro fa parte anche della Trilogia del Risorgimento, che comprende I morti tornano... (Palermo 1837) e Chi l'uccise? (Palermo 1848) 
Pagine 850. Prezzo di copertina € 24,00.
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Il Toledo nel giugno del 1820... Tratto da: Braccio di Ferro. Avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano.


Che folla pel Toledo! E sì, che quell’anno – 1820 – il mese di giugno era in Palermo più arroventato del solito. Ma era giorno di festa; e la folla aspettava il passaggio di una processione promossa dai padri Gesuiti in onore di S. Luigi Gonzaga, alla quale prendevano parte tutti i giovanetti delle loro scuole. La processione doveva percorrere la lunga, diritta e bella strada, che dal cinquecento in poi era stata chiamata col nome del vicerè don Garzìa de Toledo e lo serbò fino al 1860, quando le sostituirono quello di Vittorio Emanuele. Era allora la strada principale della città; la via Maqueda che la taglia in croce, bella e lunga ugualmente, non avea che il secondo posto. Le più ricche botteghe, i palazzi più cospicui, le chiese più belle erano – e sono ancora – sulla via Toledo; in essa palpitava la vita della città: ma l’aspetto era allora un po’ diverso da quello d’oggi, perché molte botteghe avevan sulla porta una pensilina, – con voce dialettale “pinnata” – che talvolta era sorretta da pilastrini; e avean la porta divisa in due parti ineguali da una colonna: dalla parte minore sporgea per circa due palmi sul marciapiedi il banco: e pensiline e banchi ingombravano e impedivano alla vista di correr liberamente. In compenso offrivan ombra e sedili alla folla, nei giorni di festa, e riparo in quelli piovosi.
Quel giorno sotto le pensiline e sui banchi si assiepava la folla. Era un alternarsi, un sovrapporsi, un confondersi di vesti bianche, rosa, cilestri trasparenti e vaporose; di scialletti di crespo di seta che parevan tessuti di nuvola; di cuffie bianche e di cappelloni di paglia; uno sventolìo di piccoli ventagli d’osso o d’avorio luccicanti di pagliette d’argento; interrotto, frammezzato dalle macchie turchine o verdi o color di foglia secca, che mettevano i vestiti maschili fra quelli donneschi. La stessa folla di colori si vedeva agli sbocchi dei vicoli, lungo la via, su nei balconi; e per tutto era un cicaleccio, un ronzìo confuso, sul quale a quando a quando irrompevano più forti e distinte le grida dei venditori ambulanti d’acqua gelata, di semini di zucca e di fave tostate, di ciliege, o di dolciumi. Quelle grida cadenzate, musicali, metaforiche e gioiose sgorgavano sul ronzìo afoso come freschi zampilli nell’arsura del sole.
Ai Quattro Canti la folla era più densa, trattenuta dai granatieri, schierati di qua e di là, per lasciar libero il passo alla processione, e sorvegliata dai birri armati di bastone: ma si accalcava intorno ai palchetti rizzati sulle fontane, dai quali i musici avrebbero intonato “la cantata”; e dinanzi al Caffè di Sicilia, dove si faceva un gran sorbire di gremolate e di acquetta d’amarena.
Tullio Spada, come ogni buon cittadino palermitano amante di feste e di spettacoli, attraversati i Quattro Canti, andò a fermarsi a pochi passi di lì, quasi all’angolo della “Calata dei Musici” che metteva in comunicazione la piazzetta Pretoria con la via Toledo: e si chiamava così, perché vi era il convegno dei professori d’orchestra e dei virtuosi di canto, e, per dirla con una parola moderna, la borsa di lavoro o il sindacato di quei disperati.
Egli avea tre ragioni di fermarsi in quel luogo: prima di tutto perché i Quattro Canti erano il punto di riunione, di sosta, di ritrovo di tutti i cittadini e dei “regnicoli”, ossia dei provinciali che venivano a Palermo; il cuore, e per certi aspetti, anche il cervello della città; poi, perché, essendo un bel giovane elegante, non gli dispiaceva essere ammirato; e infine – questa era la vera ragione principale e più forte – perché di lì guardando un balcone al primo piano d’un palazzo di fronte, poteva vagheggiare Rosalia.
Rosalia era la sua fidanzata, e stava al balcone aspettandolo. Una simpatica e graziosa fanciulla di sedici o diciassette anni, capelli neri che incorniciavan l’avorio del volto ovale, ed occhi nerissimi, che avevano nella profondità appassionata dello sguardo qualcosa di timido e dolce.
Oh, che bisogno aveva Tullio di vagheggiarla da lontano, se era la sua promessa sposa? Gli è che allora in Palermo, e peggio ancora nel resto della Sicilia, pareva una cosa sconveniente, quasi scandalosa lasciar i fidanzati vedersi da vicino e parlarsi, per qualche ora al giorno. Quando i genitori della fanciulla erano di buon cuore e di manica larga concedevano al giovane di venire una volta la settimana, per un’oretta, a visitare la promessa sposa, e a dirle, per esempio: - “Come state?” – o – “che bel tempo!” – ovvero: – “Avete bevuto la cioccolata?” e simili cose graziosissime e divertenti. Oggi ce ne meravigliamo e ne ridiamo; ma allora, nella borghesia semplice e patriarcale, prudente e scrupolosa, parevan le cose più naturali e non ne ridevano; ci vivevano tranquilli e felici.


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820, al tempo delle vendite carbonare e della rivoluzione.
L'opera è la trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
Pagine 342 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno.
Braccio di Ferro avventure di un carbonaro fa parte anche della Trilogia del Risorgimento, che comprende I morti tornano... (Palermo 1837) e Chi l'uccise? (Palermo 1848) 
Pagine 850. Prezzo di copertina € 24,00.
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

giovedì 2 febbraio 2023

Luigi Natoli: Il palazzo reale di Palermo nel 1789. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

Il palazzo reale, dimora del vicerè dal secolo XVI in poi (prima abitavano nel Castello a mare o nello “Steri”, o palazzo dei Chiaramonte, ceduto poi al Sant’Offizio, e oggi ai Tribunali) sorge in capo alla via principale, allora battezzata col nome di Via Toledo, ma dal popolo, come anche oggi, detta Cassaro, dall’antica denominazione araba. È un vasto edificio, o meglio l’aggregato di parecchi edifici, sorti per aggiunzioni posteriori o per trasformazioni di alcune antiche parti. Della sua forma primitiva non rimane più nulla; però sono ancora riconoscibili le masse pesanti di due torri delle quattro che lo fortificavano, quando esso era castello o rocca, sotto gli Emiri e poi sotto i re Normanni e Svevi. In una di esse la torre di S. Ninfa, la più visibile, si trova ora la Specola, o osservatorio astronomico, che all’epoca del nostro racconto era stato istituito da un anno; l’altra si indovina nell’ala che domina la sottostante Porta di Castro, ora distrutta. Gli appartamenti regali occupavano ancora la parte centrale, cui tolse l’aspetto di fortezza, e ridusse nella forma presente, il vicerè marchese de Villena.
La storia di questo palazzo è la storia di Palermo; e in gran parte anche della Sicilia. Tutte le vicende liete e tristi dell’isola vi sono legate intimamente, da quando la città divenne capo di regno. Da lì Ruggero II spinse l’avido sguardo sognatore di più alto scettro; da lì Federico II iniziò la sua lotta cinquantenaria contro la teocrazia, primo a intendere la laicità dello Stato. Giorni di servaggio e di indipendenza. Rivoluzioni baronali e di popolo; occulte e palesi tirannie e voci di libertà, si librarono da quel palazzo, or come stormi di avvoltoi rapaci, or di audaci aquile. Nelle aule di quel palazzo, Federico raccolse la bella scuola dei suoi poeti volgari; Ferdinando IV decretò le stragi del 1799; Garibaldi proclamò la libertà della Sicilia. Lì si adunavano i Parlamenti; sedeva la deputazione del regno, vigile custode delle costituzioni e delle guarentigie dell’isola; ivi i supremi tribunali.
Su per le stanze, intrighi ed amori e ordini occulti di morti misteriose, si alternavano col fasto borioso dei vicerè spagnoli e con l’ostentazione delle pratiche religiose; o scoppiavano fieri conflitti fra il potere viceregio e la potenza baronale...
Espugnare il Palazzo significava avere la città in potere. Nel 1648, il cardinal Trivulzio, venuto a reggere l’isola, faceva abbattere alcuni edifici monumentali che vi sorgevano da presso, e fra essi una basilica eretta da Belisario, per costruire due bastioni in difesa del Palazzo. Quei bastioni, propugnacolo di tirannide, furono smantellati nel 1848 dalla rivoluzione vittoriosa. All’epoca del nostro racconto, cioè nel 1792, erano in piedi, cinti di fosso, muniti di artiglierie pronte a far fuoco.
Per andare al Palazzo bisognava passare fra’ due bastioni. La porta principale, sormontata da una magnifica aquila marmorea, era custodita dalla guardia svizzera; e guardie si trovano su per la magnifica scala di marmo rosso di Castellammare. Le carrozze e le portantine si fermavano dentro l’ampia corte, a doppio ordine di portici; quelli del primo piano mettevano agli uffici e agli appartamenti. Un corridoio conduceva a quelli regali.
Dopo le sale di servizio, si trovava il grande salone dove S. E. il vicerè teneva le solenni udienze, e dove si radunava il Parlamento. L’antica aula del Parlamento era giù, al pianterreno; l’aveva decorata di pitture Pietro Novelli; v’era fra l’altro dipinta la cerimonia dell’apertura del Parlamento e quella dell’atto di fede solito a celebrarsi dal Sant’Offizio; ma il capriccio di un vicerè abolì quell’aula, cui si legavano tante memorie; e ne fece scuderie. Le rappresentazioni pittoriche del Novelli non udirono più che nitriti e bestemmie.
Il Parlamento fu trasportato negli appartamenti regali; e il vicerè don Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, poco dopo il suo arrivo, ne fece dipingere a fresco la grande aula, facendovi rappresentare sul soffitto l’allegoria della Maestà regia protettrice delle scienze e delle arti.
Oggi quelle pitture non esistono più.
Pochi anni dopo, re Ferdinando le fece cancellare, per fare dipingere dal pittore Giuseppe Velasquez le fatiche e l’apoteosi d’Ercole. Forse per non vedere in quella simbolica Maestà regia un’ironia a quelle virtù che egli non ebbe mai.


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. Il volume è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880. Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e in libreria. 

Luigi Natoli: La foresteria della Chiesa di Santa Maria di Gesù. Tratto da: Calvello il bastardo.

Lo accompagnarono nella foresteria: due celle in fondo al corridoio, presso l’ampio balcone che dava sul giardino, e dal quale si vedeva la città distendersi giù pel clivo, fino a mare. Il frate che l’accompagnava aprì una di quelle celle, depose sopra un tavolino la lampada di ottone, a due lucignoli, augurò la buona notte e se ne andò.
Corrado esaminò la stanza: era più grande delle celle ordinarie, con una finestra di fronte all’uscio: le pareti bianche; il letto di ferro, modesto, ma pulito e soffice; accanto al letto un inginocchiatoio sormontato da un Crocefisso annerito dal tempo, e una piletta d’acqua santa; addossata ad una parete, una tavola di quercia, e su, in alto, uno scaffalino, a due palchetti, pieno di libri, legati in pergamena, coi titoli scritti a grosse lettere nere, per il lungo del dorso. Ne prese uno, che destò la sua curiosità: era un libro di note manoscritte, che riguardavano la cronaca del convento. Il frate compilatore aveva cominciato col notarvi l’anno della fondazione del primo convento nel 1472, fuori le mura, per opera di Pietro e Giacomo de Bruno e delle elemosine dei cittadini; trasportato poi nel centro della città, e arricchito di rendite e di doni. Seguiva la trascrizione dei documenti; poi la descrizione dei poderi, quella dell’edificio del convento e della chiesa; e le lodi dei quadri del Monocolo da Racalmuto e del Monrealese, del gruppo della Pietà, marmo del 1430, che i “forestieri volevano pagare a peso d’oro”, la tomba di Simone Solito del 1626, e quell’altra più bella assai di Giambattista Romano e Ventimiglia, barone di Resuttano, del 1552. E infine seguivano brevi elogi dei frati insigni, e dei personaggi ragguardevoli che il convento aveva ospitato.
Corrado sfogliava negligentemente, come chi non sa che farsi, senza leggere in verità, ma scorrendo con l’occhio ozioso qua e là sulle pagine, cogliendo qualche parola, qualche titolo; mentre il suo cervello pensava ad altro.
Ad un tratto sentì il sangue dargli un tuffo. Un nome gli cadde sott’occhio, le cui lettere gli parve che formassero una parola a lui già nota. Rilesse: era una noticina che diceva:
“Nota come addì 15 di marzo di questo anno 1766 è stato nostro ospite l’illustrissimo signore don Goffredo Calvello barone e duca di Melia, e uno dei primi titoli del regno; essendo padre guardiano fra Felice, suo consobrino dal lato paterno”.
Gli occhi gli tremolarono, divenne pallidissimo. Goffredo Calvello, tre giorni dopo la nascita di lui, s’era recato a Termini: Goffredo Calvello era il proprietario di quella borsa trovata nel cofanetto; quella borsetta Dorotea aveva indicato con le parole “tuo padre!”; Goffredo Calvello era suo padre, e forse l’uccisore della povera donna!


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento. Il volume è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880. Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e in libreria.