venerdì 29 aprile 2022

Luigi Natoli: Andrea Lo Bianco incontra I Beati Paoli... Tratto dall'omonimo romanzo.

Due uomini intabarrati in modo irriconoscibile uscivano dalla Conce­ria e, attraversata la strada Nuova, si cacciavano nella strada dei Candelai, non senza prima essersi guardati in­torno, con l’aria di persone che non amano esser seguite. Quando parve loro di essersi allontanati alquanto, co­sì da non poter essere più veduti dagli insoliti frequentatori della bella stra­da, lasciarono l’andatura di gente che va pe’ fatti suoi, e si affrettarono come chi teme di giungere tardi.
Piegarono per la piazza del Monte di Pietà, e tiraron via per la strada Lettighe, fin presso la chiesa dei “Canceddi” ossia dei vetturali, volgarmente intesa col nome di Santa Maruzza: ivi si fermarono. Uno dei due trasse le mani di sotto al man­tello, dicendo:
- Abbiate pazienza: lasciatevi ben­dare.
L’altro non si oppose. Il primo gli legò un fazzoletto sugli occhi e lo pre­se per mano, aggiungendo:
- Venite sicuramente.
Costeggiarono la chiesa, entrarono per un vicolo nero e misterioso, e do­po alcuni passi si fermarono.
- Ci siamo, – disse colui che guidava.
Si avvicinò a una porticina bassa, tarlata, sdrucita, e raschiò con l’un­ghia, leggermente, come un gatto. Dal­l’interno, dopo un breve intervallo, ri­spose un altro raschìo. L’uomo allora modulò un leggero fischio. La porta si aprì silenziosamente; l’uomo prese per mano il bendato, lo trasse a sé nel vano nero, e profondo, dicendo:
- Venite. Badate, c’è un gradino...
La porta si richiuse dietro a loro. 
Percorsero un breve corridoio, in fondo al quale un’altra porticina si aprì con lo stesso mistero. Entrarono in un cortiletto, in mezzo al quale nereggiava nella notte un albero contorto. Il pavimento risonò nella notte sotto i loro passi, come se fosse stato vuoto. 
- Attento, – avvertì il guidatore; – qui si scende.
Discesero infatti alcuni scalini; il bendato sentì che l’aria si faceva umi­da e sapeva di muffa; infatti la scala scendeva per un passaggio scavato nel tufo che grommava qua e là, e ren­deva lubrico il terreno. Una lucernet­ta, posta in una piccola nicchia sca­vata nella parete, spandeva una luce appena sufficiente per lasciar indovi­nare gli scalini. Ai piedi della scala si fermarono, il guidatore disse:
- Aspettate qui un momento. Vi si verrà a prendere.
Lasciò il bendato in una specie di sala, e picchiò cinque colpi a una por­ta. Una voce dall’interno sussurrò delle parole misteriose, che il guidatore con­traccambiò; la porta si aperse ed egli entrò in una stanza illuminata da lan­terne infisse al muro. Alcune voci lo salutarono.
- Buona notte, zi’ Rosario.
Alla luce delle lanterne apparve il volto butterato e gli occhietti vivaci del piccolo bottegaio.
- È qui – disse; – quando vos­signoria vuole...
In fondo alla stanza v’era una spe­cie di altare di pietra, sul quale sorgeva un Cristo in croce, fra due candele accese, e a piè della Croce era aperto un libro. Dinanzi all’altare, c’era un tavolino, al quale sedevano tre uomini mascherati, vestiti di una specie di sacco nero: di qua e di là sopra scran­ne sedevano altri sei uomini, anch’essi insaccati e mascherati. Sotto le ma­schere nere gli occhi brillavano sini­stramente.
Zi’ Rosario s’avvicinò alla parete, cacciò le mani in una nicchia, ne ca­vò un involto, e un istante dopo an­ch’egli vestito del sacco e mascherato non fu più riconoscibile degli altri. Allora quegli che pareva presiedere l’adunanza fece un segno: uno dei sei si alzò e uscì; per rientrare quasi subito, traendo per mano l’uomo bendato.
- Dategli la luce – ordinò il capo. 
La benda fu tolta e apparve il vol­to attonito e commosso di Andrea. Il passaggio repentino dalle tenebre alla luce per un minuto gli tolse la per­cezione esatta dell’ambiente; poi a po­co a poco si assuefece, e nel momento di silenzio che regnò nella stanza guardò con stupore il luogo in cui si trovava, quasi non persuadendosi che nel cuore di Palermo si trovassero di quelle caverne, che, non infrequen­ti nei dintorni della città, il popolo attribuiva ai saraceni. La stanza era scavata nel tufo, con un certo cri­terio d’arte; aveva il tetto a volta, e nelle pareti qualche nicchia. V’erano presso l’altare vestigia d’intonaco, ma l’umidità l’aveva scrostato: si sentiva che quella grotta si trovava nel sottosuolo...

Rifecero la strada senza parlare; Andrea era come sopraffatto da quello le aveva veduto e udito: si domandava per quale ragione quel tribunale misterio­so e terribile si interessasse delle usur­pazioni del duca della Motta; certo non era per vendicar la morte di al­cuno; e allora? e chi erano quegli uo­mini dei quali tutti parlavano, che nessuno conosceva, e che pure incu­tevano tanto terrore nella città e, spesso rendevano titubante e timido il ma­gistrato sul punto di sentenziare?
La setta che in quegli anni diffon­deva in Palermo e anche nel Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giu­stizia aveva larghe ramificazioni che erano soltanto note al supremo tribu­nale che la dirigeva; gli affiliati igno­ravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato affiliato; e se talvolta era ammesso al cospetto dei capi, v’era condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò che li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.
Ai poveri, ai deboli la setta si pre­sentava come un formidabile protettore; e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissi­ma solidarietà, per la quale gli affi­liati non si sentivano mai soli, e po­tevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.
I padroni dello Stato erano i signo­ri e il clero, perchè essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in poter loro, gli uffici più delicati non eran concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteg­gevano. Qualunque violenza commet­tessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano al­l’esilio o al confine in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, do­ve erano alloggiati e serviti con agio, e godevano della più ampia li­bertà. Ma il popolo e la piccola bor­ghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge sfolgorava i più fe­roci castighi che l’insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltan­to per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.
I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto come una forza di reazio­ne, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: era­no uno stato dentro lo stato, formi­dabile perchè occulto; terribile perchè giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecu­tori di giustizia. Essi parevano appar­tenere al mito più che alla realtà. Era­n dappertutto, udivan tutto, sapeva­n tutto; e nessuno sapeva dove fos­sero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di let­tere, che capitavano misteriosamente.
L’uomo al quale giungevano, sapeva di aver sospesa sul capo una condan­na di morte.
Come erano sorti?... donde?
Mistero. Avevano avuto degli ante­nati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi pel regno: e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro istituto vendicar le violenze patite dai deboli. 
Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli; né potè mai dire se appartenesse a questa o a quell’altra classe o casta. Nessun processo potè mai più di un quarto di secolo diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue; si diceva, si riteneva per fermo che fosse un affi­liato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il se­greto. La giustizia troncava qualche ramo; l’albero rimaneva e gettava nuo­vi germogli.
Nel 1713 la setta era nel suo pie­no vigore; pareva infervorata di quella che pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il go­verno viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant’Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi nel punto in cui pa­reva loro di esser sulle tracce, ca­devano misteriosamente.
Questa era la società segreta nella quale Andrea s’era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordina­rie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fi­sionomie insignificanti e comuni.
L’uomo, che seduto a canto del ca­po, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea era don Girolamo Ammirata.


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo dei primi del '700. Dopo 91 anni ritorna l'opera più famosa dell'illustre autore nell'ultima versione originale da lui pubblicata (1931).
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo


martedì 26 aprile 2022

Luigi Natoli: messer Bernardo Cabrera. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca. Grande romanzo storico siciliano.

Bel maggio quello del 1401; ma a Modica faceva caldo, e sebbene il castello, l’antico castello dei Chiaramonte sorgesse sopra l’alta rupe soprastante al quartiere di San Giovanni, non vi alitava un fiato di vento. 
Sotto l’azzurro cupo del cielo l’aria pareva si fosse fermata. Gli alberi stavano immobili, colpiti dalla luce viva e sfolgorante; le acque del torrente parevano lamine di metallo. 
Fuori nella campagna circostante era un gran silenzio; nel borgo, silenzio. Ma non era ancora mezzodì.
Nell’ampia sala da pranzo, le cui finestre dominavano la vallata coperta di boschi, la tovaglia candidissima su la quale trionfavano vasi d’argento e d’oro, aveva anche essa una aspettazione piena di silenzio. 
Il seggiolone di quercia, dall’alta spalliera intagliata, coperto di cuoio verde e costellato di borchie di bronzo dorato, era vuoto, dinanzi all’unico posto. Ma dinanzi alla finestra v’eran due personaggi. 
Uno era giovane, coi lunghi capelli di un biondo rossiccio che gli cadevano, tagliati tondi, sulla nuca e sulla tempia, di sotto a una berretta bassa, e larga di fondo. 
Egli volgeva le spalle alla sala, e non si vedeva in volto; ma dal panno della cioppetta (specie di giubba) che gli scendeva al ginocchio, dalla grossa catena che gli circondava il collo, dalla giarrettiera smaltata che gli cingeva il ginocchio appariva un alto personaggio. 
Ma più ciò appariva dall’atteggiamento rispettoso dell’altro, che gli stava un po’ indietro, e a capo scoperto. 
Era un uomo di una cinquantina d’anni, alto, vigoroso, coi capelli grigi sulle tempia, gli occhi grigi nei quali era qualche cosa di felino, la mascella forte. Era accuratamente raso, come voleva la moda dei tempi, e indossava la cioppa lunga di seta segno che era un uomo di qualità; le maniche della camicia ricamate di seta erano ai polsi tenute da grossi bottoni di filigrana d’oro. 
L’uno e l’altro calzavano scarpe di panno di lira (così detto perché veniva da Liria, città spagnuola) insomellate, cioè, solate, con la punta acuta, e aperte sul malleolo.
Dopo un istante il giovane si voltò, guardò il suo compagno con una espressione di supremo fastidio, e disse: 
- Messer Bernardo, mi annoio.
Il vecchio rispose:
- Vostra maestà ordini quel che vuole per cacciar la noia, e metterò sossopra la contea e anche il regno per contentarla; ma non mi trafigga l’anima con quelle parole, perché mi paiono un rimprovero alla devozione che ho per la vostra Celsitudine.
Le parole avevano significato umile e rispettoso; ma il volto del vecchio rimaneva duro e impassibile, quasi astioso. 
Egli era messer Bernardo Cabrera, conte di Modica e grande giustiziere del regno di Sicilia.
Veramente egli si fregiava di ben altri titoli. Era in Spagna visconte di Cabrera e di Bas, conte di Ossuna, signore di Monclus, Hostalric, Arginon e Parafolls: piccole terre, parte ereditate, parte concesse dal re d’Aragona, del quale aveva in moglie una nipote. 
In Sicilia aveva raccolto gli stati e gli uffici della nobile e gloriosa famiglia dei Chiaramonte, e diventava in breve il primo feudatario del regno. 
Possedeva la contea di Modica, con le terre di Modica, Ragusa, Chiaramonte, Scichili, Monterosso, Giarratana, i casali di Durillo, Comiso, Spaccaforno, la torre e il porto di Pozzallo, le saline di Marsa e di Murro, il feudo di Daratre e ventidue tenimenti di terre; era obbligato al servizio militare per ventisette cavalli, oltre ai pedoni; e godeva di tali e tanti privilegi e prerogative, che il suo stato formava una specie di regno nel regno. 
Oltre alla parentela col re Martino, i servizi resi da lui al re e al padre del re (il vecchio duca di Montblanc) in Spagna e nell’isola, avevano potuto far pesare a suo beneficio i favori particolari del monarca. Era stato infatti eletto grande giustiziere. 
Era diventato così il personaggio più popolare e autorevole del regno, ed esercitava un grande ascendente sull’animo del giovine re; ciò lo faceva segno a gelosie, invidie e malcelate animosità...
Non era benvoluto; troppa arroganza era nei suoi modi; troppa crudeltà aveva mostrato durante il lungo e fiero duello fra il baronaggio dell’isola e i due Martini, venuti a conquistare il regno, e a gittarvi tutto un nuovo branco di hidalghi morti di fame e di piccoli signori che tremavan di freddo nei loro miseri castelli di Catalogna. 
Ah! la Sicilia era ancor ricca; e baroni da spogliare ce n’erano ancora. 


Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401, quando ebbe fine l'epoca chiaramontana. 
Pagine 726 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo. 

Luigi Natoli: Mastro Cecco di Naro e il chiostro di San Domenico. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca.

Nel 1401 la chiesa di San Domenico, che sorgeva presso a poco dove sorge l’odierna, non era molto grande: era stata edificata da cento anni, da quando i frati abbandonarono il piccolo convento di basiliane, che si trovava sul Cassaro, dove fu poi eretta la chiesa di S. Matteo. Della chiesa antica non rimane più nulla, pei successivi rifacimenti e ingrandimenti; ma restano ancora tre lati del chiostro, coi loro piccoli archi acuti sorretti da doppie colonnine varie di forma e di capitelli, come sono i chiostri siciliani di quel tempo. 
Mastro Cecco dipingeva una parete del chiostro, per incarico di quei frati. Non era un gran pittore; e nel disegno e nel colore aveva quella ingenuità infantile dei pittori primitivi, in un tempo in cui la pittura aveva avuto Giotto, e s’avviava a quello sviluppo che fece grandi i quattrocentisti. 
Un devoto aveva legato una somma al convento, con l’obbligo ai frati di far dipingere in una parete del chiostro, un soggetto tra storico e sacro: il conte Ruggero che libera Palermo dai mussulmani e vi ripristina il culto cristiano. 
Mastro Cecco aveva trovato nel tema un vasto campo per sfogarvi la sua fantasia; e tra i guerrieri che si accalcavano intorno al fortunato venturiero normanno aveva raffigurato i fondatori delle grandi case signorili, che la tradizione o la vanità diceva venuti col normanno. 
Attraverso il palco di legno, sul quale il pittore lavorava, la sua rappresentazione pittoresca si travedeva a brani. Un lato, quello dove erano Ruggero e i personaggi del suo seguito, era dipinto: il maestro attendeva ora a dipingere i Saraceni, dai volti bruni o neri, secondo la tradizione popolare, coperti di grandi turbanti. Nel mezzo c’era il vescovo Nicodemo, tratto dalle tenebre delle catacombe, per ribenedire e riconsacrare al culto l’antica chiesa cristiana, convertita dai musulmani in moschea. 
Il giovane era rimasto meravigliato dinanzi alla vivacità dei colori, profusi con fanciullesca intemperanza sulla parete, sui quali predominavano il rosso, l’azzurro, il verde e il giallo. 
Ma la sua attenzione fu attratta da un guerriero, il cui scudo portava per arma tre monti d’argento in campo rosso. 
- Non è quello lo stemma dei Chiaramonte, maestro? – domandò vivamente.
- Appunto. Come lo sai?
- L’ho veduto altre volte… – balbettò il giovane arrossendo.
- Sì, appunto: quel personaggio è Ugone di Chiaramonte, della stirpe di Carlo Magno, venuto in Sicilia col Gran Conte…
- Lo so. – interruppe il giovane. 
- Toh! lo sai? – esclamò il pittore, voltandosi e guardando maravigliato il giovane, che parve pentito di essersi lasciata scappare quella interruzione. – Come lo sai?
- Me l’hanno raccontata…
- A Catania? – domandò con tono canzonatorio il pittore; – sanno coteste storie a Catania?...
Il giovane non rispose.
Cecco di Naro spandeva certe pennellate larghe di azzurro nelle vesti di un Saraceno; e il silenzio li avvolse, e avvolse il chiostro. 
Il sole non era ancora così alto da inondare della sua luce tutto il chiostro: ne illuminava, in un angolo, il fastigio, gli archi e i capitelli, che avevano un candore abbagliante: il resto era immerso nell’ombra: un’ombra chiara e fresca, piena di raccoglimento. 
Sulle grondaie di pietra intagliata, sull’arco di ferro battuto che reggeva la carrucola del pozzo, in mezzo al chiostro, dei passeri gittavano piccoli  gridi di gioia. 
Mastro Cecco pareva assorto nella sua pittura; ma a un tratto si voltò rapidamente e domandò al giovane:
- E il figlio? il figlio?
La domanda rispondeva certo al corso dei suoi pensieri; ma il giovane fece un viso stupìto.
- Che figlio? – disse.
- Ah! che figlio? Hai ragione, credevo che stessimo a parlare di messer Andrea. Domandavo che ne è del figlioletto del povero conte. Era a Catania quasi prigioniero di quel capitano. Poi non se ne seppe più nulla. Chi sa? forse il duca di Montblanc, quel vecchio brutto e giallo e adiposo come un giudeo, l’avrà fatto avvelenare. Aveva paura il briccone del lioncello… Tutti perduti, tutti… Non c’è più nessuno: e la gloria dei Chiaramonte che ho istoriato nel soffitto dello Steri, rimane lì, deserta, solitaria, a contemplare i carnefici… quando hanno il coraggio di venire!...
Parlava serrando le mascelle, con un impeto di collera e di odio, e stendendo il pugno contro i nemici lontani e potenti, che non potevano udirlo. 
Il giovane lo ammirava, sorridendo lievemente a quell’ira innocua, che però rivelava l’intimo sentimento del pittore. 


Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1401, quando ebbe fine l'epoca chiaramontana. 
Pagine 726 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo. 

domenica 24 aprile 2022

Luigi Natoli: Un pomeriggio di settembre del 1713... - Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano.

La strada di Mezzomonreale che per oltre tre miglia corre diritta dal piede del colle Caputo alla Porta Nuova di Palermo, era nel secolo XVIII per un buon tratto, dalla porta fino al Convento dei Cappuccini, fiancheggiata di grandi e ombrosi alberi, fattivi piantare da Marcantonio Colonna durante il suo viceregno. Alcune fontane, delle quali ancora ne avanza qualcuna, ornavano il largo viale, e dei sedili offrivano comodi riposi all’ombra. Di qua e di là, oltre i muri che fiancheggiavano la strada, oltre le case rare, si stendevano orti e prati e agrumeti, sorgevano ville magnifiche, qualche chiesa lanciava sopra il verde, il suo campanile squillante, il vetusto e grigio palazzo della Cuba torreggiava, triste e solitario superstite di una grandezza scomparsa, ridotto a caserma di cavalleria. Questo stradale era in quei tempi una delle passeggiate favorite dai cittadini di Palermo, specie nelle ore vespertine e nelle prime ore notturne, nelle quali le ombre avvolgevano di mistero i convegni degli innamorati. Nel pomeriggio la strada era percorsa da portantine e carrozze rilucenti di dorature, sormontate da grandi pennacchi svolazzanti, e da una parte e dall’altra da domestici borghesi e popolani, che non potendo concedersi il lusso di esser trasportati dai piedi altrui, si compiacevano di riconoscere e ammirare gli equipaggi, che fragorosamente andavano e venivano fra porta Nuova e la fontana dei Cappuccini. I giovani signori preferivano andare a cavallo, caracollando fra le carrozze e le portantine, per far mostra della loro abilità e sfoggiare la ricchezza del loro abbigliamento. Le carrozze di quel tempo erano ben diverse da quelle odierne così svelte e leggere; eran pesanti macchine, sorrette da cinghie di cuoio sopra ruote tozze e massiccie; veri monumenti ambulanti, avevan nondimeno qualcosa di magnifico e di imponente. Eran tirate da quattro, sei, talvolta anche otto cavalli, tutti d’un manto, attaccati a due a due, con bardature e finimenti ricchissimi, con pennacchi dai vivaci colori sulla testa. Le qualità e i mezzi del signore si rivelavano nella ricchezza delle scolture, nella bontà delle decorazioni pittoresche, spesso affidate ad artisti di grido, nella profusione dell’oro. Uno, quattro o cinque pennacchi sormontavano la cupola; tende di seta con frange d’oro pendevano nell’interno, tappezzato di cuoio o di velluto. Il cocchiere troneggiava e veramente la cassetta su cui sedeva, coperta di una gualdrappa di velluto, con le armi della casa d’argento e d’oro massiccio cesellato, pareva un trono, o un altare; ed egli un nume, nella sua ricca livrea, e nel gesto solenne col quale teneva le redini. Due o tre lacchè in livree non meno ricche, stavano ritti dietro la cupola della carrozza, tenendosi a delle maniglie; e dinanzi ai cavalli, e ai fianchi della carrozza, andavano i volanti trotterellando, in pugno le torce, che all’ave avrebbero acceso per rischiar la strada al padrone, costretti a gareggiar col passo dei cavalli, a scansar cento volte l’urto di altri volanti e di altre carrozze, o le zampe dei cavalli caracollanti. Nè meno ricche eran le portantine, graziosi ninnoli al paragone delle carrozze, di seta, d’oro, di pitture, trasportate da servi in magnifiche livree, circondate anch’esse da volanti. Fra esse se ne vedeva qualcuna più semplice, anzi sobria; o era da nolo, o apparteneva a qualche medico o prete. Una passeggiata in quel principio di secolo aveva dunque un aspetto di magnificenza e di ricchezza, e una varietà di colori e di luccichii, di cui difficilmente oggi possiamo farci un’idea. In mezzo a questa magnificenza s’insinuava talvolta qualche carretto, o qualche “retina” di muli carichi o di sacchi di frumento o di otri, che attardatisi per la strada, giungevano in Palermo sul tramonto; e si fermavano dinanzi una taverna. I lacchè, insolenti e soverchiatori, ributtavano da una parte carri e muli, quando non facevano in tempo a lasciar libero il passo; nè si davan pensiero se qualche sacco andava per terra, e il grano si spandeva. 
Appunto nell’ora del passeggio, e quando più risplendeva la pompa lussureggiante dei signori, un pomeriggio di settembre del 1713 scendeva dalla strada di Monreale verso Palermo un giovane cavaliere, il cui assetto stonava maledettamente con quell’apparato di ricchezza, e più con l’espressione del volto.
Entrando in mezzo al lusso degli equidaggi, tra i bei cavalli caracollanti, cavalcati da giovani signori azzimati, profumati, inappuntabili, il giovane cavaliere non sembrò vergognarsi, ma tentando coi lunghi sproni e con certi strettoni delle redini di infondere un po’ di vivacità alla sua rozza stanca, infangata, teneva il capo eretto con aria spavalda e quasi di sfida, senza curarsi degli sguardi curiosi e beffardi e dei motteggi salati, coi quali era accolto il suo passaggio.



Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Dopo 91 anni dall'ultima edizione curata dall'illustre autore, torna il famoso romanzo nella "reale" versione originale ad opera de I Buoni Cugini editori.
Pagine 934 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour) e nelle migliori librerie di Palermo. 
#luiginatoli #beatipaoli 

Luigi Natoli: Fuga notturna. Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico.

Era così arrivata al crocicchio del Capo. Dinanzi si dilungava nera e senza fine la strada di S. Agostino; a destra scendeva in giù la strada di S. Cosmo. Ella piegò a destra. Il freddo le sferzava le gambe nude; la fanghiglia le invischiava le pantofole, ella non se ne curava. Stringendo il suo Emanuele, al quale per chetare i vagiti, aveva dato a suggere, correva sola, sperduta, col capo nudo, mal vestita, cinta di paure, per quella strada della quale i vicoli laterali neri e profondi aumentavano il terrore. Qualche cane randagio destato a quella corsa, ringhiava, le latrava dietro, la rincorreva per un tratto, destando altri latrati lontani. Ella si sentiva come inseguita da una muta di cani invisibili, nella notte che ingombravale il cuore e circondavale la persona. Il suo coraggio cominciò a vacillare. Dove andava? Adesso una rete di strade si diramava dinanzi, ai lati: strade ignote, che alla sua fantasia eccitata e commossa, apparivano piene di minacce e pericoli. Aveva perduto una pantofola nel fango, e andava col piè nudo, zoppicando, lacerandosi tra i cocci sparsi per la strada.
Cominciò a piovere. 
Ella ebbe paura del piccino: come difenderlo? Le case erano chiuse, immerse nel sonno. Una chiesa era alla sua destra. Alzò gli occhi sulla croce di ferro che la sormontava, e raccolte le sue forze, gridò nel cuore della notte: 
- Aiuto!... Aiuto!... 
Il grido echeggiò nella notte, fra le pareti delle case, alto, straziante; ma nessuna imposta si aperse: tutta la strada dormiva; a quell’ora non si incontravano neppur le ronde: vegliavan soltanto gli orologi, che parevan segnassero alla infelice la durata del martirio. 
- Aiuto!... Aiuto!...
Chi l’udiva? chi scendeva ad aiutarla? La pioggia la schiaffeggiava, delle gocce, vincendo ogni riparo cadevano sul visino di Emanuele, le cui manine s’erano diacciate, ella si sentiva sfinita: l’affanno della corsa, il freddo, la sua quasi nudità le mozzavano il fiato: il piede nudo le sanguinava. Incespicò e cadde lacerandosi i gomiti che aveva proteso per difendere Emanuele nella caduta; non ebbe la forza di rialzarsi e scoppiò in pianto. Con uno sforzo si trascinò sotto un terrazzino. Si sentiva venir meno: pensò che sarebbe morta lì, sulla strada, nella notte, con la sua creatura. Sentiva trascorrere l’attimo angoscioso di quella notte terribile. Quando lo spirito può percepire l’attimo, la durata del tempo si moltiplica siffattamente, che perde la misura. Quell’attimo fu un secolo, un secolo di inesprimibile ambascia che confinava con la follia. Gridò ancora una volta: 
- Aiuto!... Aiuto!... 
La voce le si spense in un singulto: ella si sentì venir meno, chiuse gli occhi e cadde distesa. Emanuele vagì disperatamente... Due uomini avvolti in ampi mantelli uscivano da un vicolo lì accanto; uno di loro teneva in mano una lanterna per rischiararsi la via. Allo svoltar del canto, videro lì, per terra quel corpo di fra le cui vesti uscivano quei vagiti che li avevano sorpresi. Quello che portava la lanterna le rivolse la luce: - È una donna! – esclamò. 
- Qualche poveretta della campagna che viene a morire di fame in città – aggiunse l’altro. Si chinarono e l’osservarono meglio. 
- Diamine! – esclamò il primo; – non è una contadina; guardate: biancheria fine... Che si tratti di un delitto? 
La esaminarono; no, non v’era alcuna traccia di violenza. Come mai quella donna, che alle fattezze, alle mani, alla biancheria appariva una dama, si trovava a quell’ora da lupi abbandonata, priva di sensi, in una strada, mezza vestita, con un bambinello avvolto in fasce finissime?
 - Qui c’è un mistero! – disse il primo. 
- Intanto – aggiunse l’altro – non possiamo lasciarla per terra...


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Dopo 91 anni dall'ultima edizione curata dall'illustre autore, torna il famoso romanzo nella "reale" versione originale ad opera de I Buoni Cugini editori.
Pagine 934 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour) e nelle migliori librerie di Palermo. 
#luiginatoli #beatipaoli 

Luigi Natoli e l'avvelenatrice Peppa La Sarda. Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano

Così quella sera, dal suo osservatorio il fedel servo aveva veduto uscire don Raimondo e Giuseppico, a piedi, intabarrati, e ciò aveva destato la sua curiosità. Dove andavano? Volle seguirli. E aveva tenuto lor dietro, cauto, non visto, per quei vicoli. Adesso con l’orecchio alla porta, udiva quel che dicevano: non tutte le parole gli giungevano chiare e precise, perchè parlavano sommessamente: ma qualche cosa giungeva al suo orecchio, sufficiente per capire e rabbrividire. Don Raimondo pareva incollerito.
- Tu m’hai ingannato, sgualdrina! – diceva. 
- Eccellenza, che dice mai!... Le giuro... - Taci, strega!... Essa ha bevuto tutta la bottiglia, capisci? L’ha bevuta durante la notte, e stamattina non aveva neppure il più lieve malore; pareva anzi che stesse meglio... 
- Ma, eccellenza, la miscela l’ho composta io... è sicura... 
- Tu allora non hai cambiato la bottiglia!...
- Glielo giuro, eccellenza; l’ho messa io, con le mie mani, sul tavolinetto ed ho portata via quella che c’era... che possa esser privata della grazia dell’anima!
- E allora, come si spiega che non è giovata a nulla?...
 - Che ne posso saper io? Forse la complessione della signora è forte... bisogna raddoppiare... 
- Bada bene, che se mi inganni, ti farò impiccare... 
- Eccellenza, non ho mai ingannato nessuno... sono una donna onesta...
Don Raimondo non potè frenare un sogghigno a quella affermazione di onestà. 
- Dammi dunque quel che mi occorre – ordinò. – Penserò io a somministrarlo... Ma bada che sia sicuro, infallibile... 
Passò un minuto di silenzio... Andrea udì aprire e chiudere uno sportello... 
- Eccellenza, – disse Peppa La Sarda, – questa è una polvere della Tofana; vostra eccellenza sa, per detto, che la Tofana era infallibile... 
- Lo so, ebbene... 
- Basta un pizzico nel brodo, invece del sale... 
- Sta bene. Bada però a te: sei in poter mio, lo sai. 
Andrea ebbe appena il tempo di gittarsi in un andito buio, dove non poteva esser veduto, che la porticina si riaprì. Uscì innanzi Giuseppico, girò intorno la lanterna, per assicurarsi che nel vicoletto non c’era alcuno, e fece un segno a don Raimondo. Tutti e due rifecero la strada. Andrea li seguiva con l’occhio, dal suo nascondiglio: quando vide la lanterna svoltare dal canto del vicolo verso la Panneria, uscì, si avvicinò alla sua volta alla porticina, e picchiò tre volte, come aveva fatto Giuseppico. La voce stessa domandò chi fosse. Egli rispose sommessamente, così da non far riconoscere la sua voce:
- Son io, Peppa La Sarda, il padrone ha dimenticato di dirti una cosa...
 La porta si aprì cautamente, come prima; ma Andrea la sospinse impetuosamente, e improvvisamente balzò nella stanza, e chiuse, sprangando coi catenacci il battente, prima ancora che Peppa La Sarda si fosse riavuta dalla sorpresa; poi, tratto rapidamente dalle tasche un coltello, e avvicinatosi con occhi torbidi alla donna, le disse: 
- Di’ un po’, preferisci morire impiccata come Tofana o scannata come un agnello?... 
Peppa La Sarda stava ancora immobile, sorpresa di quella aggressione inaspettata, ignorando che quell’uomo a lei ignoto, conoscesse già il segreto delle sue relazioni col cavaliere Albamonte. Peppa La Sarda era ancor giovane: forse aveva appena oltrepassata la trentina; aveva presso a poco la taglia di Maddalena, e non aveva aspetto sgradevole. Solo che i suoi occhi somigliavan a quelli di un gatto, chiari, fosforescenti, selvaggi; e la mascella inferiore larga e forte aveva qualcosa di belluino. Che nella sua stanzetta terrena, uno di quei “catodi” – come grecamente si chiamano i pianterreni nei quali abita la povera gente di Palermo – si apparecchiassero i formidabili veleni che resero famoso il seicento, nessuno l’avrebbe creduto. Era una povera stanza dalle pareti affumicate, nude d’ogni ornamento anche grossolano, salvo una immagine della Vergine, annerita e bruttissima. In un canto v’era il fornello, presso al quale una misera scansia, con qualche pentola; dei vasi di terra cotta, alcuni piatti. Qualche altra pentola stava sui fornelli. Una tavola unta, tarlata si addossava a una parete, e sopra di essa ardeva una lucernetta di terraglia ordinaria; di contro, uno stipo. Il letto se così poteva chiamarsi un pagliericcio buttato sopra due assi, era in fondo, protetto dalla semi-oscurità; un occhio indagatore avrebbe potuto vedere sotto il letto, nell’angolo più riposto, quasi nascosto da una cassa, brillare qualche vetro di forma strana. 
Peppa La Sarda, ripreso il dominio di sé, domandò con dispetto: 
- Che cosa volete? 
- Te l’ho detto. Posso scannarti, ora; e nessuno ti salverebbe, e nessuno saprebbe chi e come... E posso andare dal capitano di giustizia, e dargli in mano la chiave di tanti assassini misteriosi... 
- Non vi capisco; non so che cosa vogliate dire... Andatevene, o chiamerò aiuto. 
Andrea le saltò addosso, l’afferrò per la gola, la spinse alla parete tenendola inchiodata, e mettendole la punta del coltello fra gli occhi le disse: - Conosco il cavaliere che è uscito or ora di qua; so che cosa è venuto a fare, so che gli hai data or ora la povere della Tofana, per uccidere la duchessa della Motta; so che la notte scorsa tu, strega infame, sei entrata nella camera della duchessa e lei hai posto una bottiglia d’acqua avvelenata sul tavolino da notte; quel veleno non ha fatto nessun effetto, perchè qualcuno che t’ha veduta, si è affrettato a sottrarlo... Hai capito ora? hai capito che so tutto, e che tu sei nelle mie mani, tu e i tuoi complici; e che la duchessa non morirà, che c’è chi veglia su quell’innocente!... A mano a mano che Andrea parlava accompagnando le parole con strattoni che quasi soffocavano l’avvelenatrice, Peppa La Sarda impallidiva, diventava livida, sudava, tremava. Chi era quell’uomo che sapeva tutto, che aveva veduto tutto? come aveva veduto?... La cosa le pareva così straordinaria, quasi fuor del naturale, così impenetrabile, minacciosa, che si sentiva invasa dal terrore...


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Dopo 91 anni dall'ultima edizione curata dall'illustre autore, torna il famoso romanzo nella "reale" versione originale ad opera de I Buoni Cugini editori.
Pagine 934 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour) e nelle migliori librerie di Palermo. 
#luiginatoli #beatipaoli 

giovedì 14 aprile 2022

14 aprile 1857: 165 anni fa nasceva Luigi Natoli...

Caro professore, 
come ogni anno, amiamo ricordare ai lettori il giorno della tua nascita perchè la tua possente opera ti eterna nel mondo della letteratura. Tanto abbiamo fatto per recuperarla e presentarla ai tanti lettori, che ti seguono sempre più numerosi, come se i tuoi romanzi fossero stati scritti da poco: ma tanto ancora ci attende tra i polverosi scaffali degli archivi. Finiremo? Chissà quando. Ma la fatica è ben ripagata nel riportare alla luce tutto quanto tu ci hai donato, e nel vedere la stima e la grande considerazione che i lettori hanno di te. Chi ti conosce, ti ritrova con piacere. Chi non ti aveva mai letto, scopre un mondo nuovo, e non smette più di leggerti.
Vogliamo chiudere con le tue stesse parole, con le quali definisci la tua opera: 
Ho per le scuole pubblicato quarantadue volumi, diffusi per tutta l'Italia; altri sei sono in corso di stampa. Ho pubblicato otto o nove volumi di ricerche e di storia letteraria che illustrano la Sicilia, e sono citati come fonti in opere letterarie, discorsi, commemorazioni, conferenze, novelle, versi, articoli d'arte, di letteratura, di filologia e di quistioni scolastiche; una produzione straordinaria, non tutta inutile, non tutta senza pregio, sempre animata da un'idea, sempre rispettosa del galateo dei galantuomini e della grammatica.
Questo lo hai scritto agli inizi del Novecento. Tanto altro hai aggiunto. E noi te ne siamo grati. 
Grazie, caro professore per l'immenso patrimonio culturale che ci hai lasciato.
Ovunque tu sia, buon compleanno! 

I Buoni Cugini editori 
Anna Squatrito e Ivo Tiberio Ginevra 

giovedì 7 aprile 2022

Luigi Natoli: don Emanuele Albamonte duca della Motta. Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano

Il palazzo del duca della Motta sorgeva nella strada di S. Agostino, presso la piazzetta del convento della Mercè; era un antico edificio sormontato da un’alta torre, conosciuta allora col nome di torre di Montalbano; la quale era forse una delle antiche torri della città, incorporatasi con l’estendersi delle mura in una casa signorile. Del palazzo e della torre, ricordata nelle vecchie topografie, non rimane più vestigio; ma nel 1698, sebbene i pesanti balconi dalle ringhiere di ferro battuto e dalle mensole massicce, e il grande portone, sopraccarico di cartocci di stucco ne avessero deturpato il carattere, serbava la sua massa imponente e troneggiava fra le altre case della contrada. 
Il duca don Emanuele Albamonte fino a quarantacinque anni era rimasto celibe, pur non disdegnando di appendere qualche volta una ghirlanda all’ara di Venere. Forte, vigoroso, esuberante di vita, sdegnando le effeminatezze della società signorile, aveva passato la giovinezza fra le sue terre; feudi immensi che si distendevano fra le valli e su per le colline staccantisi dalle aspre e nevose giogaie delle Madonie. Le selve intricate che infoltivano quei gioghi eran ricche di grossa selvaggina, nè era raro il lupo. Don Emanuele preferiva inseguire e affrontare i pericoli di queste cacce, piuttosto che lasciarsi trascinare in carrozza per la passeggiata della Marina; provava maggior felicità a vibrare la sua daga dentro la gola di un lupo, che passar la giornata in inchini e a guardarsi le belle trine delle maniche nei salotti di qualche dama. 
Per queste ragioni, durante la guerra di Messina, essendo già a capo del suo stato, accolse volentieri il bando delle armi, e come signore feudale, levò una squadra di milizie dai suoi stati e corse a combattere i Francesi e i ribelli. Allora aveva ventisette anni; e s’innamorò del mestiere. La caccia al lupo era una bella cosa, ma la guerra era ancor più bella; c’era più eroismo, c’era più grandezza e nobiltà di gesto. E allora ottenne un brevetto di colonnello, e poiché, dopo la caduta di Messina, non c’era più nulla a fare in Sicilia, passò il mare e se ne andò in Spagna, pur aprendo delle grandi parentesi nella sua vita bellicosa per venire a respirare l’aria delle sue montagne. 
A quarantacinque anni però don Emanuele si accorse che bisognava pur continuare la stirpe, e che egli sarebbe stato il primo duca della Motta, che non avrebbe trasmesso lo stato a un suo diretto e legittimo discendente. Forse dei rampolli del suo sangue ve n’eran dispersi e ignoti, ai quali il mistero della nascita non consentiva di fregiarsi del nome degli Albamonte, ma l’erede voluto dalla legge non c’era. L’idea del matrimonio gli si affacciò allora, e gli fece riflettere che bisognava affrettarsi, giacchè oramai egli era troppo maturo; o farlo subito o rassegnarsi al celibato, come se fosse stato un cavaliere di Malta, e rinunciare all’erede diretto. 
La sua famiglia oramai si componeva di lui, di due sorelle monache nel monastero di Santa Caterina, e di don Raimondo; due altri fratelli, maggiori di don Raimondo, erano morti in tenera età: Raimondo era l’ultimo nato. Fra loro due v’era una differenza di diciassette anni; quando Raimondo cominciava a balbettar le prime parole e a dare i primi passi, don Emanuele correva a cavallo attraverso i boschi, come un cavaliere errante in cerca di avventure. Don Raimondo era cresciuto in città nell’ombra del vasto palazzo degli Albamonte; quasi sempre solo, sotto le cure di un pedagogo prete, passando la vita fra gli studi, le pratiche religiose e qualche esercizio cavalleresco, secondo il proprio grado. Ogni domenica andava a visitare le sorelle monache, alle quali non aveva mai potuto affezionarsi, perchè non era mai convissuto con loro neppure un giorno nella dolce intimità familiare; nè più affettuosi erano i rapporti con don Emanuele, che egli vedeva assai di rado, quando cioè il duca tornava dalla guerra o dalle sue lunghe dimore in campagna. 
Don Raimondo aveva una grande soggezione per quel suo fratello grande, robusto, rumoroso, nemico delle cerimonie, quasi rude, che lo trattava come un fanciullo. Infatti don Emanuele considerava il fratello col fare bonario di un padre tollerante e di manica larga, supponendo che don Raimondo fosse un giovane che avesse le sue capestrerie.
Don Emanuele passò una diecina di anni in Sicilia, alternando la dimora fra i feudi e la capitale; e in questi dieci anni prese una viva affezione pel suo piccolo fratello, al quale proibì di farsi prete. Un Albamonte, che sono stati tutti uomini di guerre o presso a poco, infagottarsi nell’abito talare? Oibò! Che bisogno ne aveva del resto? Gli mancava qualche cosa nel palazzo dove era nato? e forse il suo fratel maggiore non lo amava? Se mai, il suo posto era nel Tribunale nel Regio Patrimonio, o nella Gran Corte criminale, quando non si sentisse alcuna vocazione per le armi. Don Raimondo obbedì con quella sottomissione che il diritto di primogenitura poteva esigere da lui: ma non potè mai assuefarsi alla familiarità del fratello. 
Una mattina don Emanuele gli disse: 
- Figlio mio, io invecchio; è tempo che io prenda moglie. 
Don Raimondo levò il capo vivamente, impallidendo. Per la prima volta, forse, guardò negli occhi il fratello, ma senza tradire il pensiero interiore. 
- Ho già in vista la tua futura cognata; è molto più giovane di me; ma per un vecchio tronco come me ci vuol proprio un bel virgulto giovane per farmi rinverdire. 
- Quel che fate voi è sempre ben fatto, – rispose don Raimondo senza entusiasmo, ma senza mostrar freddezza; e dopo un minuto di silenzio riprese: – E sarà troppo ardire domandarvi il nome della mia signora cognata?
- Ma anzi, è naturalissimo, figliol mio: è donna Aloisia Ventimiglia. Buon sangue. Discende dai re normanni...



Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Dopo novant'anni dall'ultima edizione curata dall'autore (1931), il romanzo torna finalmente con tutto lo stile dell’epoca allo splendore della reale versione originale, impreziosito dall'originale copertina di Niccolò Pizzorno e corredato dal contesto storico dell'opera tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo dello stesso autore (I Buoni Cugini - 2020)
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime, La Feltrinelli, Ibs e tutti gli store online.
Attualmente in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (Via Cavour)

lunedì 4 aprile 2022

Luigi Natoli: Don Raimondo Albamonte, duca della Motta. Tratto da: I Beati Paoli

Tramontava. 
Era uno di quei tramonti invernali in un cielo terso e luminoso, come si vedono soltanto in Palermo. Dietro Monte Cuccio acuto e arido, il cielo pareva d’oro, ma su su diventava roseo e dalla parte opposta il roseo moriva in una dolce tinta viola. La punta piramidale di Porta Nuova pareva d’oro, d’oro le quattro torri della cattedrale e i campanili; nell’aria e nella luce vi era come un tenue riflesso di quell’oro. Qualche signore usciva dal Palazzo reale a cavallo e faceva caracollar la bestia bizzarramente; altri meno amanti di esercizi cavallereschi, preferivano lasciarsi trasportare in portantina, con un codazzo di servi e di schiavi; ma le dame preferivano la carrozza alla portantina. Carrozze grandi come una stanza; dipinte a fiori, rabeschi, putti, emblemi, con ricche dorature, chiuse da tende di finissima seta, sormontate da cinque pennacchi, simili a cinque lembi di nuvole strappati al cielo; tirate da quattro o da sei cavalli d’un colore, con lunghe code, con le criniere arricciate e ornate di nastri; con finimenti di cuoio e d’argento e ricchi pennacchi di finissime piume. Sulla serpe, coperta di una specie di gualdrappa di velluto, con lo scudo della famiglia d’oro e d’argento smaltato, torreggiava il cocchiere in una livrea che avrebbe fatto arrossir di vergogna le uniformi ricchissime dei generali napoleonici; e agli sportelli e dietro la carrozza uno stuolo di lacchè, di staffieri, di volanti. 
Lo sfilare di siffatte carrozze era per se stesso uno spettacolo di lusso e di magnificenza che allettava e richiamava la folla dei curiosi, i quali, non potendo possederne, si consolavano a veder quelle degli altri, con in fondo un certo sentimento di orgoglio cittadino. 
Fra gli ultimi a rientrare nella gran sala del palazzo, dove sua eccellenza faceva servire dei rinfreschi, fu un giovane cavaliere di aspetto fine e delicato, ma, forse, troppo serio. Si chiamava don Raimondo Albamonte. Non aveva ancora trenta anni; era alto, snello, nervoso; il volto pallido, ma come invaso da una nube fosca, che poteva parer tristezza, se certo improvviso lampeggiar degli occhi non avesse fatto pensare al corruscar dei lampi lontani in un cielo nuvoloso. Le labbra sottili si disegnavano appena; e la bocca pareva piuttosto una lunga ferita non ancor rimarginata: due lievi e bruni baffetti vi distendevano una piccola ombra; ma le mani e i piedi parevan quelli di una fanciulla: le sue mani bianchissime, piccole, sottili, affilate, dalle unghie rosee, ellissoidali, si confondevano e quasi sparivano tra i pizzi finissimi delle sue manichette. Egli pareva se ne tenesse; aveva infatti un gesto molle e grazioso per mettere la mano in mostra; sollevandola per discostar dalla fronte i riccioli della parrucca che la moda francese andava diffondendo. 
Con tutto ciò egli non aveva nulla di femmineo. Forse esaminando bene l’angolo della mascella e la curva della bocca, un occhio scrutatore d’anime avrebbe potuto sorprendervi una certa durezza fredda ed egoistica; forse qualora di felino, pazienza cioè e ferocia; ma per la comune delle persone egli era un bel giovane un po’ antipatico. 
Egli era fratello cadetto del duca della Motta, e vantava tra i suoi maggiori quel Guglielmo Albamonte, che era stato tra i sedici campioni italiani di Barletta, e che insieme con Francesco Salomone era stato fra quelli che avevano assicurato la vittoria italiana: ma del vanto poteva gloriarsi più il duca suo fratello che lui, don Raimondo. Infatti il duca colonnello di un reggimento, dopo una breve dimora in Palermo, era ripartito da circa otto mesi per la guerra; mentre don Raimondo che avrebbe potuto benissimo comprare almeno una compagnia e formarsi uno stato, aveva preferito gli studi, ed aveva conseguito la laurea dottorale a Catania, la sola università che in Sicilia, allora, conferiva la laurea in giurisprudenza...

Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1713, che vede al centro la misteriosa setta di giustizieri. 
Dopo novant'anni dall'ultima edizione curata dall'autore (1931), il romanzo torna finalmente con tutto lo stile dell’epoca allo splendore della reale versione originale, impreziosito dall'originale copertina di Niccolò Pizzorno e corredato dal contesto storico dell'opera tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo dello stesso autore (I Buoni Cugini - 2020)
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia); ordina inviando una mail a ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296
Disponibile su Amazon Prime, La Feltrinelli, Ibs e tutti gli store online.
A Palermo in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (Via Cavour), La Libreria di La Vardera s.a.s. (Via Nicolò Turrisi 15), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), Libreria Mercurio (Via Marchese di Roccaforte n. 62), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 76/78)