martedì 16 aprile 2024

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia: A Palermo! A Palermo! Morte ai francesi! Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico

 
S’appressava attraverso il prato, fra un codazzo di curiosi, un piccolo corteo nuziale. Era Benvenuta di messer Ruggero di Mastrangelo con Guglielmo di Santafiora. Venivan verso la chiesa, inconsapevoli di quell’incontro con Droetto de Genlis. Le grida dei soldati, che s’eran messi a frugare qualche popolano, aveva messo un po’ in sospetto Benvenuta, che si stringeva accanto allo sposo, e messer Ruggero di Mastrangelo che s’era posto all’altro lato della figliola, affrettandola verso la chiesa.
Intanto, più in là sergenti e soldati continuavano a gridare:
- Frughiamo questi paterini! debbono avere armi!...
- Sì, frughiamo! – gridò da canto suo Droetto de Genlis; e avvicinatosi a madonna Benvenuta, con un gesto la fermò, aggiungendo: – Voi nascondete armi!...
Messer Ruggero diventò rosso dalla collera.
- Voi scherzate, messere! forse ignorate chi son io!...
Ma Droetto grugnì, e voltosi alle lance spezzate che lo spalleggiavano, gridò:
- Frugate cotesti poltroni; io mi incarico della donna.
E aggiungendo l’atto alle parole, cacciò le mani oltraggiose dentro le vesti di Benvenuta, che mandò un grido e svenne fra le braccia di messer Guglielmo.
- Ah questo è troppo! – urlò esasperato messer Ruggero, cercando divincolarsi dalle lance spezzate che lo tenevano, per gittarsi addosso a Droetto, che tentava forse un nuovo oltraggio, col volto imbestialito dalla vendetta e dalla lascivia; ma nel tempo stesso si vide il giullare, farsi largo, giungere a Droetto, trarlo indietro per la nuca, gridando:
- Tu non ci torni!...
E con rapidità fulminea, trattogli dal fianco il pugnale, glielo cacciò nella gola due volte, lo levò in alto sanguinoso, gridò:
- Muoiano!... muoiano questi francesi, perdio!...
Un urlo, simile allo scatenarsi di un uragano gli rispose; si videro lampeggiar venti, trenta lame, si udì l’urto formidabile e tremendo della vendetta.
In quel momento le campane dalla torre della chiesa di Santo Spirito sonavano a Vespro.
Sonavano a Vespro le campane, per invitare i fedeli alla preghiera, e chiamare i frati nel coro; e l’ignoto fraticello, salito su la torre indorata dal sole cadente, non sapeva che quello squillo di campana avrebbe segnato nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda.
Dalla torre aveva mirato la pianura festante sotto il sole che declinava dietro le vette di Monte Cuccio, aveva veduto il formicolìo della gente, udito il vocìo confuso e disordinato di migliaia di voci senza capire; e aveva sonato, come sempre, l’ora della dolce e raccolta preghiera. Ma giù nel piano, quel che feriva l’aria sul colpo di pugnale che atterrava il sire Droetto, sonò come uno squillo di tromba; come un segno aspettato, come una voce di comando e di esortazione.
Il fraticello continuava a sonare, con gli occhi erranti ora pel cielo, dove vagavano nuvolette, isole d’oro in un mare di porpora.
Ma poi, crescendo il rumore, richinati gli occhi, gli occhi gli si spalancarono di stupore, un fremito gli passò pel sangue; e il suo braccio, quasi mosso da una forza ignota, continuò a sonare, a sonare, a sonare, con nuovo vigore, squilli serrati, violenti di guerra e di strage sopra il tumulto e il balenar dei ferri e il rosseggiare del sangue.
Quella improvvisa zuffa, quelle grida, il cozzo delle armi, si propagarono in un baleno per la pianura. A un tratto tende e barracche furono rovesciate, tutta quella folla di uomini, come sospinta da un segno d’intesa, da un ordine, si levò in piedi. Molte donne traevansi dal seno i coltelli e li porgevano agli uomini; chi non aveva coltello impugnava un bastone, toglieva le aste delle tende, fracassava i banchi delle barracche, raccattava sassi. Tra le grida qua di spavento, là di coraggio e di incitamento, la folla accorreva. E su tutte le bocche suonava il grido ferocissimo:
- Muoiano! muoiano!...
A quell’improvviso e inaspettato insorgere di tutto un popolo, i sergenti, le lance spezzate, i soldati di Francia parvero sgomenti; ma fu un lampo. L’onta, la vergogna, l’ira, la superbia rissosa, il vantaggio delle armi, li spronarono a un contrattacco. Esperti nelle armi, poichè erano inferiori di numero, cercarono di raggrupparsi, di formare un forte nucleo, per gittarsi sopra la folla, che la presenza e lo spavento delle donne e dei fanciulli imbarazzava un poco.
Ma non erano più in tempo. Sparsi qua e là, in piccoli gruppi, stretti da ogni parte, invece di attaccare si trovaron costretti a difendersi disperatamente. Maggiore era l’accanimento dinanzi alla chiesa dove messer Ruggero di Mastrangelo aveva fatto trasportar subito la figlia e dove correvano a rifugiarsi le donne spaventate nel momento che Damiano e gli «Albergarioti» investivano le lance spezzate.
Le quali a quell’attacco, costrette a mutar fronte, per difendersi, dovettero lasciar Giordano, che scaraventò sul viso di un soldato che gli era vicino il liuto, approfittò di un istante, per chinarsi rapidamente sopra Droetto, togliergli la spada e l’elmetto; e così armato gittarsi nel combattimento, come un leone famelico in una mandra di polledri. La pugna si rinfocolò; altri francesi, colpiti da coltelli, da sassate, da mazzate, cadevano; ogni caduto, era una spada, una picca, un pugnale che passava nelle mani degli insorti.
Messer Ruggero, uscendo in quel punto dalla chiesa, con uno sguardo capì il gran momento; e raccolte le armi di un cavaliere francese caduto, alzando la spada gridò:
- Popolo! alla riscossa! muoiano tutti i francesi!...
Guglielmo Santafiora e altri cavalieri palermitani, seguendo il suo esempio, s’armarono allo stesso modo, e tutti insieme fecero impeto dietro di lui. E intorno a loro si strinsero popolani e borghesi armati o no, ripetendo quel grido, cosicchè messer Ruggero, noto per gli uffici tenuti, per la ricchezza, per l’autorità diventò, senza volerlo, il capo, il condottiero di tutta quella moltitudine, che, buttata la pelle di agnello rassegnato, appariva formidabile come belva sitibonda di sangue.
Era per tutta la pianura una mischia spaventevole e crudele. Diciassette anni di servaggio, di crudeltà subite, di violenze, d’infamia sofferte, diciassette anni di vergogne e di torture pareva avessero adunato tutte le loro collere in ogni braccio; la vendetta imprigionata da diciassette anni in ogni cuore, pareva balestrare nei muscoli, dilagare nel sangue, diventar volontà nelle mani; tramutarsi in lama, in legno, in sasso, in denti, in urlo!...
- Muoiano! muoiano!...
E morivano. Viluppi e aggrovigliamenti mostruosi di corpi che si piegavano, si rizzavano, si contorcevano, di braccia che si cercavano, si afferravano, contendevano, vibravano; balenìo di armi, sulle quali il sole cadente folgorava fiamme; cozzo di acciai; un volar di sassi, un agitar di bastoni, una confusione, un urlìo; ira, dolore, gemiti, bestemmie, trionfi!... Un uomo cadeva trafitto da dieci, venti colpi; un’onda vivente e violenta gli passava oltre, atterrava un altr’uomo; e passava ancora, terribile, inarrestabile, come un fiume in piena; travolgendo, trascinando.
E la campana sonava ancora, incessante, implacabile. Sonava, sonava; il braccio del fraticello pervaso dall’impeto di quella tempesta di sangue, era diventato il braccio del popolo furente; la sua volontà era diventata suono; il suono gridava sopra il tumulto, sopra il cozzar dei ferri, sopra gli urli; gridava: - Muoia! Muoia!...
Giordano, costretto a mettersi sulla difensiva, all’attacco veemente e irresistibile dei due cavalieri francesi, s’impegnava contro di essi in un combattimento maraviglioso e terribilmente epico, nel quale pareva che le tre anime fossero cresciute; anime di giganti armati di cento braccia. Ed ecco l’onda trionfante del popolo rovesciarsi nuovamente sopra di loro; e Damiano con un largo coltello da beccaio in pugno, sangue la lama, sangue le mani, sangue le vesti, feroce, trasfigurato, alla testa di tutti; e accanto e dietro gli «albergarioti» simili a un’onda di tigri, armati di tutte le collere; e fra loro anche donne, che la vista del sangue, l’urlìo, il contagio della battaglia, cancellata ogni timidezza, trasfigurava in lionesse, tramutava in vendicatrici di tutte le donne violate, uccise, dilaniate da diciassette anni. Anch’esse, coi capelli al vento, le vesti lacere, le braccia irrigidite dalla tensione nervosa, gli occhi fiammeggianti accorrevano alla vendetta e alla strage; avventavansi con le unghia sui nemici; affondavano le dita nelle gole dei fuggiaschi...
Giordano ebbe da questo irrompere di popolo un nuovo aiuto; con una rapida mossa, evitati i ferri dei due cavalieri, aveva potuto balzare al fianco del sire de Saint-Victor, e cacciargli la spada fra le costole fino all’elsa:
- E questa per Gamma Zita! – gridò.
Intorno la pianura era sparsa di morti; paesani e stranieri; il sole scendeva dietro i monti tra nubi color di sangue. La luce crepuscolare arrossava gli alberi, i muri della chiesa, la pianura; e tutto pareva tingersi di sangue. La campana sonava, sonava ancora!...
Per la pianura correvan frotte di popolani, di qua e di là, inseguendo qualche francese che cercava scampo nella fuga: e lo raggiungevano, e quello cadeva. Non uno giunse a fuggire; quei duecento un’ora innanzi superbi e prepotenti nelle loro belle vesti, nelle loro armature, fidenti nella loro potenza, sicuri della sommissione di un popolo inerme, fiduciosi della tollerante viltà che per diciassette anni aveva piegato il collo, giacevano ora per la pianura, a gruppi, ammonticchiati, sparsi, immersi nel loro sangue, con gli occhi sbarrati o chiusi, il volto spaventato o ancor iracondo. Giacevano pesti, disarmati, fra le tende sbrandellate e sanguinose, le barracche distrutte, le mense scompigliate, i vasi rotti, le otri del vino aperte. Qua e là pezzi di legno caduti sulle braci ancora accese, bruciando levavan lingue di fiamme e nubi di fumo.
Ansanti, frementi, anelanti ancora, quelle torme si adunavano, si raggruppavano, senza un disegno, ma agitate da un pensiero confuso; quando messer Ruggero di Mastrangelo gridò con voce tonante:
- A Palermo! a Palermo!...
E allora da mille duemila bocche si levò formidabile, come scoppio di mille tuoni, tra l’agitarsi di mani convulse, il grido:
- A Palermo! a Palermo!... Morte ai Francesi!...


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice.
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60)

giovedì 11 aprile 2024

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: La strage nel Tiraz alla corte di Guglielmo I. Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano.

 
Si trasse un po’ da parte; e tosto la tempesta dei colpi si rovesciò sui battenti, con novella furia. Per quanto solida, e verisimilmente sbarrata, la porta non potè resistere a lungo. Tremò, vacillò, cedette, si abbattè con un fracasso di tuoni. L’onda furiosa si rovesciò sulle stanze che parevan deserte. I telai stavan lì abbandonati, con ancora pezze di seta non terminate, avvolte da una parte, dall’altra imprigionate nell’ordito. La cupidigia di quelle stoffe pregiate gittò la moltitudine sopra i telai; si udì uno scricchiolìo di legno spezzato; si videro le assi dei telai cadere in frantumi; i fili rompersi, la seta lacerarsi fra le mani che se la contendevano. 
Orsello non se ne curò; aveva altro per la testa: l’indugio anzi di quei vandali intorno agli strumenti della nobile industria, serviva al suo disegno. Più liberamente egli poteva cercare di Agar. Ma dov’era ella? Le stanze del tiraz erano state abbandonate; ma dove si eran rifugiate le donne?
Egli andava frugando, allontanandosi dalla turba, che intenta al saccheggio, si diradava di qua e di là. 
A un tratto delle grida femminili lo colpirono. Corse velocemente, e guidato da quelle grida, scese per una scala, e si trovò dinanzi a una porta spalancata, per la quale erano entrati due o tre di quei saccheggiatori, che si eran fermati attoniti e commossi da una nuova febbre dinanzi a una folla di fanciulle spaventate che si stringevano l’una all’altra, gridando e implorando pietà. 
I nomi di Gesù, d’Allah, di Iavè invocati nello spavento si mescolavano fra quelle grida supplichevoli. 
Erano donne d’ogni paese e d’ogni razza; qualcuna matura, le più giovani, né mancavano fanciulle ancora acerbe. Greche dai capelli d’oro, slave dalle chiome nere e dai profondi occhi vellutati, arabe ed ebree dal colorito bruno e dai grandi occhi a mandorla, francesi sottili e bionde, siciliane di puro sangue italico o di sangue misto;... ma fra loro non c’era Agar.
E uscì di fretta, senza neppur voltarsi al raddoppiarsi disperato delle grida. Accorrevano altri, attirati da esse, e si precipitavano nella stanza. E allora come una mandra imbestiata, accesi gli occhi, vibranti le arterie, irritati dalle stragi compiute, dal sangue che arrossava le loro mani, si gittarono sopra quelle fanciulle, ma Orsello correva di stanza in stanza, col cuore tremante dall’ansia e dal timore di qualche male: dappertutto scorgeva le tracce del saccheggio, e qua e là guardie ed eunuchi scannati, immersi in larghe pozze di sangue: da ogni parte gli giungeva all’orecchio lo spaventevole mugghio della selvaggia invasione. Egli non sapeva dove andasse: entrava in ogni stanza, spinto dalla febbre che gli ardeva nel sangue, sentendo ogni volta nascere una speranza, che si spegneva subito, dopo una infruttuosa ricerca. 
Nel palazzo rimasero pochi ribaldi, che ora si attardavano a raccogliere gli avanzi del saccheggio, o a cercar nuovo sfogo alla libidine. Rimaneva anche chiuso nelle sue stanze, Guglielmo, prigioniero, custodito da cavalieri e guardie, muto, avvilito, in un angolo. 
Orsello e Silvestro ripresero allora la loro ricerca fra i cadaveri e i frantumi, per le stanze spalancate, abbandonate; spettacolo miserando di un’ora di selvaggio impero della bestia umana. 
Agar non c’era, né fra le donzelle uccise, nè fra quelle rimaste vive nel palazzo. Doveva dunque essere fuggita; doveva essere scampata così alla morte, come all’ignominia degli amplessi bestiali....


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di Guglielmo I e di Matteo Bonello. 
L'opera, per la prima volta pubblicata in libro ad opera dei I Buoni Cugini editori, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 5 agosto 1911. Il volume include da una ancor più rara ode a Willelmo I composta dall'autore nell'aprile del 1881. 
Pagine 724 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera ( Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Forense (Via Maqueda 185), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60).

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: Guglielmo, in preda a una viva angoscia, cercava uno scampo... Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano.

Guglielmo era nelle sue stanze; esaminava un grazioso cofanetto di avorio, opera mirabile di pazienza e di gusto di artefice arabo, che gli era stata donata quella mattina. Ammirava il delicato ricamo delle intarsiature, che moltiplicavano e intrecciavano con belle invenzioni le forme geometriche con svolazzi di fogliami e fiori e uccelli e mostri immaginari, tolti forse a decorazioni greche. Egli forse pensava all’uso cui poteva destinare quel cofano; probabilmente a conservare essenze odorose o unguenti e pomate per l’abbigliamento; era in verità da farne un dono alla sua favorita, per rimeritarla della sua devozione e del suo amore.
Da qualche tempo il re s’era dato alle cure del regno: aveva tratto di prigione non solo, ma restituito al suo ufficio, e ricompensato anche con donativi, messer Matteo de Ajello; aveva nominato suo familiare Adenolfo, il fedele maggiordomo dell’Almirante; creato capitano di un drappello di guardie Filippo Manselli; restaurate alcune cariche di corte, e introdotti nuovi eunuchi e milizie saracene. I due gaiti Pietro e Martino avevano preso nuova e più larga autorità; la regina, senza averne l’aria, senza pesar menomamente, in apparenza, dominava la corte, e aveva fatto nominare arcivescovo messer Walter of Mill precettore dei principi reali. Ma astuta e resa esperta dall’esperienza si era tirata nell’ombra e del nuovo vigore del re, di questo suo ridestarsi alle faccende del regno, si dava merito o demerito alla “greca” – come chiamavano la nuova favorita del re. La “greca” volgeva a suo piacimento il cuore del re. Ella regnava di fatto. Così dicevano: ma i baroni aggiungevano che la “greca” era lo strumento dei due gaiti. 
L’ombra di Majone si proiettava attraverso i due gaiti e la bella greca nell’opera del re. 
Messer Aristippo, che col conte di Marsico continuava a stare nei consigli del re, e cercava talvolta di temperare qualche violenta risoluzione, aveva una certa libertà di accesso negli appartamenti reali; cosicchè non gli fu difficile, sebbene l’ora fosse insolita, entrare e interrompere l’esame e il godimento regio. 
Il suo aspetto doveva certamente esprimere la inquietudine del suo animo; perchè il re gli domandò: 
- Ebbene? Che cosa avete dunque?...
- Non vi hanno nulla riferito, messer e signor nostro?
- Che cosa avrebbero dovuto riferirmi?
- Signore, la città si agita. Ho veduto io degli assembramenti d’uomini armati; ne ho veduti dinanzi le torri baronali; ho anche incontrati cavalieri in tutta armatura, come se dovessero andare alla guerra: e che io sappia, voi non avete bandito il servizio militare dei baroni...
Guglielmo lasciò stare il cofanetto, e guardò messer Aristippo con quei suoi occhi sfavillanti, che erano indizio della collera che cominciava a gonfiargli il cuore. 
- Che cosa vogliono? – domandò stringendo le mascelle.
Ma l’arcidiacono di Catania non lo sapeva: intuiva che si preparava qualche cosa di grave; e certamente contro il re, chè non v’era altri cui combattere; ma per quali nuove ragioni o pretesti, sfuggiva al suo giudizio. 
Ma il prelato non aveva ancora spiegato i suoi dubbi al re, che la porta della stanza si aprì, e irruppero i principi reali Simone e Tancredi, con cipiglio risoluto. 
Guglielmo balzò in piedi, non già per paura, ma perché gli parve un pregiudizio per la sua autorità e dignità. A nessuno era lecito presentarsi al re in quel modo, e senza averne avuto licenza; l’atto dei due principi era una violazione di leggi e una mancanza di rispetto. L’ira del re, già gonfio dalle notizie, non ebbe più ritegno. Sollevando i pugni minacciosi gridò ai suoi congiunti: 
- Chi vi ha concesso di entrare? Come osate venirmi così dinanzi?
Ma il principe Simone non mostrò alcuno sgomento di quell’impeto, e con fredda calma rispose: 
- Messere e fratello, non è più luogo di domandar licenza, dovreste accorgervene!... Guardate!
E col braccio steso, indicò gli uomini armati, che già apparivano dal fondo delle stanze. 
Il re conobbe subito alla testa di tutti il conte di Alesa e Roberto di Bovo, che venivan con le spade ignude. Allora gli cadde l’ira; stimandosi perduto, con uno di quei subiti passaggi così consueti in quell’indole, mutò l’ira in paura. Rivoltosi al fratello e al nipote e a messer Arrigo, che, attonito di quanto vedeva, pensava pur di mettere in salvo la sua pelle, Guglielmo gridò: 
- Fermateli!... No!... quelle spade, no!... A me le guardie!...
- Non ci son più guardie! – disse freddamente il conte Simone, – il castello è in poter nostro. 
- Ah! son tradito!... son tradito! – urlò con ira e spavento il re, non sapendosi risolvere, e perdendo anche la dignità di saper affrontare regalmente il pericolo. 
Messer Aristippo non sapeva che fare; balbettò qualche parola; ma intanto giungeva d’in fondo dalle stanze il mugghìo impetuoso dell’assalto; uno strepito d’armi, un gridio confuso, un urtare e rovesciare di porte. E pareva che tanto e spaventevole rumore si diffondesse per tutto il palazzo, giungevano di più lontano urli e fracassi di combattimento. 
Guglielmo smarrito, in preda a una viva angoscia, guardandosi intorno, cercava uno scampo. Dov’erano i suoi eunuchi? Dove la guardia saracena? Era solo, in balia della ribellione. Con gli occhi spalancati, guardava la porta d’onde erano entrati i due principi, e che era rimasta aperta. Vide empirsi le stanze d’una folla armata, violenta, che s’incalzava: parevano i più, cavalieri. Egli riconobbe innanzi a tutti il conte di Alesa e Roberto di Bovo con le spade ignude. 
Era finita! 


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di Guglielmo I e di Matteo Bonello. 
L'opera, per la prima volta pubblicata in libro ad opera dei I Buoni Cugini editori, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 5 agosto 1911. Il volume include da una ancor più rara ode a Willelmo I composta dall'autore nell'aprile del 1881. 
Pagine 724 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Il volume è disponibile:
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Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: La cospirazione dei baroni contro il re Guglielmo I. Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano.

 
- Orsù, non è più tempo d’indugi. Se aspetteremo il ritorno di messer Bonello, saremo presi a uno a uno, e questa volta non resteremo a lungo nelle prigioni. Quanto a me, le ho sperimentate, e non ho nessun desiderio di ritornarvi. Bisogna moversi e agire...
Quel giorno stesso s’adunarono; oltre al conte di Avellino, e a Simone, v’erano anche gli altri principi reali, Tancredi e Ruggero, messer Martorano, il conte di Alesa, messer Roberto di Bovo e molti altri baroni. Convenivano tutti, pur tra divergenze di mezzi e di forma, che non era più tempo di indugi e che se avessero ancora atteso, nessun barone sarebbe rimasto libero e padrone della propria vita. 
- Il rimedio, – gridò messer Martorano, – è uno, non ne veggo altri; deporre il re!... Il re è indegno di reggere lo stato; avaro, sozzo, feroce e musulmano, egli disonora il trono del gran Ruggero!... Noi lo deporremo, e coroneremo il giovine Ruggero suo figlio!...
Approvarono tutti e si divisero le parti del dramma che s’apparecchiavano a rappresentare. Certo l’impresa non era facile. Da dopo l’uccisione di Majone il palazzo regio stava quasi sempre in assetto di guerra; non tanto per ordine del re quanto per consiglio della regina Margherita e dei suoi familiari. Guardie dappertutto, il ponte levatoio sempre alzato; le torri munite di mangani e di pietre. Anche nell’interno del palazzo v’erano più rigidi e vigilanti provvedimenti. L’impresa di Orsello, benché se ne indovinasse poi la ragione vera, si diede a intendere come un attentato al re, per giustificare tutti quegli apparecchi guerreschi e il rigore adottato. 
Si diceva che la magna curia dovesse giudicare Orsello, con tutte le forme di un solenne giudizio, per dare esempio di terrore; e intanto si vietava l’accesso a qualsiasi barone del quale non fosse provata la devozione al morto Almirante e al partito della regina. 
Queste condizioni non erano ignote ad alcuno. Per entrare nel palazzo e impadronirsi del re, bisognava dunque ricorrere all’astuzia: la forza avrebbe incontrato la forza, e il palazzo era custodito da messer Malagari, uomo di provata fede e valore. Messer Malagari doveva essere eliminato pel primo. 
- Uccidiamolo!



Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di Guglielmo I e di Matteo Bonello. 
L'opera, per la prima volta pubblicata in libro ad opera dei I Buoni Cugini editori, è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 5 agosto 1911. Il volume include da una ancor più rara ode a Willelmo I composta dall'autore nell'aprile del 1881. 
Pagine 724 - Prezzo di copertina € 25,00
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Il volume è disponibile:
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lunedì 8 aprile 2024

Luigi Natoli e le rivolte in Sicilia: Oh Giove Liberatore!... Noi appenderemo al tuo tempio le nostre catene infrante. Tratto da: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano

Il gesto inusitato stupì il custode: Elio approfittò di quell’istante per strappargli il bastone, e alla sua volta minacciare il custode. 
- È tempo di finirla! – esclamò.
Le grida, il gesto, attirarono l’attenzione dei servi più vicini. Accorsero: quell’ultima esclamazione parve il segnale atteso. Cominciarono a gridare anch’essi, a chiamare i più lontani. Accorsero anche gli altri custodi, cercando di respingere gli schiavi al lavoro a colpi di bastone, che produssero naturalmente uno sbandamento. Ma Elio capì che non bisognava lasciarsi sfuggire quel momento; che bisognava incitare i compagni, incoraggiarli con un esempio. Si diede a bastonare il custode, gridando: 
- Avanti, avanti! Compagni, non fuggite!... Disarmateli!...
Il custode, tramortito da una randellata sul capo, cadde; la sua caduta, la vista del sangue, poterono più che le esortazioni di Elio; i servi si rovesciarono sui custodi, che, spaventati, si diedero alla fuga; alcuni furono raggiunti e caddero: furono finiti a colpi di bastone. Era il primo passo.
- Atenione! Atenione!...
Atenione già accorreva, chiamato dal tumulto; accorrevano gli schiavi che lavoravano più lontani, trascinando le catene. Il Cilicio vide quei tre o quattro custodi per terra sanguinosi; gli parve manifesta volontà degli Dei, levò alte le mani verso il cielo, ed esclamò:
- Oh Giove Liberatore!... Noi appenderemo al tuo tempio le nostre catene infrante.
E afferrato uno degli schiavi che portavano la catena ai piedi, con un sasso ne percosse fieramente gli anelli nel punto che li congiungeva ai cerchi, spezzandoli. Lo schiavo, libero, levò in mano la catena e allora gli altri cominciarono febbrilmente a spezzare i ferri; gli anelli si aprivano, le catene cadevano, fra le grida di gioia; e quei segni di servitù erano levati in alto trionfalmente, come se già con questo fosse conquistata e assicurata la libertà. Atenione veniva acclamato capo.
Intanto i custodi fuggiti erano corsi in casa, ad annunziare la rivolta a Caio Cecilio. 
Stava egli col figlio Manlio discorrendo con alcuni clienti nel suo tablinio(73), ma all’entrare improvviso dei custodi, balzò in piedi gridando fra il rimprovero e la paura:
- Che? Che modo è questo di entrare?
- Gli schiavi si sono ribellati!...
- Hanno ucciso quanti custodi hanno trovato! Bisogna salvarsi!
La vista di Atenione, che pareva arringasse la folla, lo illuse. Certo, pensò, Atenione tratteneva i servi, e li esortava a ritornare tranquillamente al lavoro; ma quando questi scorsero Caio Cecilio armato e seguìto da armati, levarono alte grida selvagge; e Atenione, innanzi a tutti, scotendo le catene spezzate, si mosse contro di lui esclamando: 
- O Caio Cecilio, or non è più tempo di violenze: deponi quelle armi e dacci la libertà.
- Ti darò la croce! – proruppe il cavaliere inviperito – Ti darò la croce, che gli Dei dell’Inferno non ti aiutino!
E si slanciò contro Atenione; ma si trovò dinanzi Elio: Elio, che aveva con uno scarto tolto Atenione, e si offriva in sua vece. Agli occhi suoi in quell’istante era apparsa Cecilia, che implorava grazia pel padre; e non poteva inveire contro di lui. 
- Caio Cecilio! – disse. – Non opporti a ciò che ti domanda Atenione; libera questa gente; risparmiati la vendetta che gli Dei fomentano nei loro cuori…
- Va’ a fare l’avvocato di costoro nel Tartaro(74)! – gridò Caio Cecilio.
Nel contempo Manlio esclamò:
- Questo parlerà meglio di te!
E gli lanciò il giavellotto che aveva in mano. Elio fu lesto a farsi da canto, e il giavellotto colpì uno schiavo. Fu il segno di un assalto generale. Gli schiavi, con una fitta sassaiola, e coi frammenti delle catene, contro le spade e le lance, impedivano a Caio Cecilio e ai suoi di avanzare. Una sassata fracassò la mascella a Manlio e lo rovesciò a terra. 
- Ah, maledetti! – urlò Caio Cecilio, credendo il figlio ucciso; e si chinò per sollevarlo, ma i suoi armati vedendolo piegarsi, ed essendo malconci e smarriti dalla sassaiuola, pensarono a mettersi in salvo, e fuggirono. Con un urlo di trionfo i ribelli si lanciarono sui caduti.
- A morte! A morte!
Caio Cecilio si rizzò in piedi.
- A morte! Sì!
E si fece largo con la spada; ma colpito alla testa si abbattè sul figlio. Uno schiavo gli fu sopra, gli strappò la spada, gliela affondò nella gola e gli altri, ubbriacati dalla vista del sangue, contendendosi le armi, con bastoni, con sassi, con le maglie delle catene, si gittarono sui caduti a tempestarli, dilaniarli. Fu un massacro tremendamente feroce. Ognuno aveva un torto, una violenza, un castigo da vendicare. L’odio, accumulatosi da anni, finalmente erompeva senza pietà: ogni braccio colpiva con una voluttà selvaggia. 
Una voce gridò:
- Alla casa di Caio Cecilio!
- Sì, sì! Alla casa!
Quella cinquantina di belve, lorde di sangue, sitibonde di nuove stragi, urlando, si mossero verso la villa. 
Nella casa v’era una aspettazione irrequieta: gli schiavi si guardavano fra loro, in silenzio; le ancelle si affacciavano a spiare; Chira, con le nari dilatate, come se aspirasse l’odore della strage, non poteva star ferma. Si aggirava per l’atrio, guardando le stanze, dove Cecilia con  la madre e la nutrice s’erano chiuse, pallide, spaventate e ansiose di notizie. Chira andava e veniva dinanzi a quelle stanze, come una tigre intorno alla muraglia di uno stabbio, affacciandosi ogni tanto e guardando i vari gruppi di schiavi, che discorrevano fra loro a voce bassa. 
Che cosa facevano? Che aspettavano? Perché non si sollevavano anch’essi, e non correvano in aiuto dei compagni? Avevano paura? Volevano schierarsi dalla parte di Caio Cecilio? Non avevano nulla da vendicare? Lei, sì; lei covava nel profondo del cuore un odio mortale contro Cecilia. 
In quel momento giungeva nella casa Atenione, e l’aria fu percossa dal grido dei ribelli, che lo acclamavano re...

Luigi Natoli: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato nella Sicilia del 102 a.C., al tempo della seconda guerra servile. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato con la casa editrice Sonzogno nel 1935.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia, sconto 15%)
Su tutti gli store online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60) Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

venerdì 29 marzo 2024

Luigi Natoli: Il pupo con l'uovo e la Pasquetta al tempo di Federico II. Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

Quel martedì era l’ultima volta che Rinaldo e Vanna si trovavano insieme; perché egli doveva partire entro la settimana e forse non avrebbe potuto rivederla. Appunto per questo prete Matteo volle concedere uno svago maggiore ai due giovani, come per festeggiare e bene augurare alla partenza di Rinaldo. Aveva perciò portato da merendare sul prato della chiesa e del monastero.
V’erano già nel prato delle tende e delle baracche dove si erano improvvisate botteghe di leccornie e di grascia o macelli di agnellini, e taverne: qua e là da fornelli primitivi si levavano globi di fumo e di vapore grasso, e tanfo di bruciato: degli ortolani si cacciavan dinanzi il somaro con quelle corbe, che in siciliano si chiamano zimmili, piene di lattughe e l’agnello, le uova sode. Le lattughe erano e sono ancora di rito nelle feste pasquali; e prete Matteo non le aveva dimenticate. Cristodula vi aveva aggiunto dei fantoccini di pasta addolcita con un uovo sodo nel grembo. Dove le comitive erano numerose non mancavano suonatori; un flauto e una rota, che era una piccola arpa, o una ciaramella e un tamburello o cimbalo che dir si voglia, formavano l’orchestra, più che sufficiente per far ballare. Ma non mancavano i cantori girovaghi, i giullari di piazza, che trovavano subito il loro pubblico; i quali cantavano storie patetiche o canti alquanto grossacci o sguaiati.
E non era tutto il popolo: c’erano anche comitive di mercanti e di nobili, che si riconoscevano alle vesti e alle maniere, alla qualità delle vivande e al modo di divertirsi. Per mantenere l’ordine giravano i mastri di sciurta con gli arcieri e i berrovieri; pronti ad accorrere dove scoppiava qualche rissa: ma in verità la gente in quel giorno, che era come una rivincita sulla quaresima, aveva più voglia di divertirsi che di litigare: e la giocondità si sentiva nel frastuono di migliaia di voci e di risa, negli odori confusi, negli aspetti, nei gesti, nella terra e nell’aria stessa.
Vanna che non si era trovata mai in simili feste popolari, e non aveva mai veduta tanta gente e così varia e allegra, guardava con maraviglia, sorridendo; e provava un gran piacere e una voglia di partecipare a quel tumulto giocondo e spensierato. Ella rivolgeva mille domande, alle quali or l’uno or l’altro rispondevano, ridendo qualche volta della ingenuità della fanciulla. Ma ciò che più la colpiva era il lusso delle donne dei mercanti e dei nobili, che le sembravano tante regine da fate, e le destavano delle ambizioni un po’ vane. Certo quando Rinaldo avrebbe il suo castello, anche lei vestirebbe come quelle donne; e avrebbe il frontale d’oro con una grossa gemma nel mezzo, e collane e cinture e anelli, e bei fermagli per trattenere il manto.
Dolce fantasticare di un avvenire, del quale l’anima sua non ancora solcata da grandi dolori, non dubitava.
Dopo aver girato un poco per la pianura, essi si fermarono presso una comitiva di giovani dame e di cavalieri, che tali apparivano subito alla gentilezza dei volti e alla ricercatezza delle vesti, più che agli schiavi e ai familiari da cui erano serviti.
S’erano seduti su tappeti stesi sopra l’erba, intorno a una tovaglia bianchissima, sulla quale c’erano pasticci e cosce di caprioli e altre vivande e manicaretti; e guastade di vino e coppe di cristallo e d’argento. Uno dei cavalieri aveva un liuto, dal quale di tanto in tanto strappava degli accordi, che parevano sommessi mormori d’acque contrastanti con sassi e sterpi tra il vivace chiacchierio. Pareva stuzzicassero una giovane dama, la quale pur sorridendo, si lasciava attristare da un’ombra di dolore.


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

Luigi Natoli: Le strade di Palermo offrivano allora uno spettacolo variopinto... Tratto da: Viva l'imperatore! Romanzo storico siciliano.

Il pomeriggio del martedì dopo Pasqua, seguendo la vecchia tradizione palermitana prete Matteo condusse Vanna a Santo Spirito fuori le mura; e furono della comitiva prete Demetrio e Cristodula. Tutte le feste il prete andava a rilevare al monastero la fanciulla, e la conduceva a spasso, ora nel piano di Tutti i Santi, come si chiamava la piazza del Duomo, ora per la ruga Marmorea ad ammirare le galanterie esposte nelle botteghe, ora lungo il mare, che ad essi ricordava quello dove per lunghi anni erano vissuti. Qualche volta Cristodula si accompagnava con la fanciulla, e i due preti dietro a discorrere.
Le strade di Palermo offrivano allora uno spettacolo variopinto. La strada, che il popolo chiamava il Cassaro, e che ufficialmente era detta Ruga Marmorea, perchè lastricata di marmi massicci, era di qua e di là fiancheggiata di palazzi turriti e di portici, sotto i quali erano botteghe di stoffe, e qualche taverna, non lurida, tana affumicata, ma ornata di marmi e di pitture. Per la strada e sotto i portici si aggirava una folla varia e cosmopolita. La gente di razza greca si riconosceva al vestito oltre che al volto: gli uomini barbuti, con in capo una specie di casco con lunghe vesti, e sopravvesti, larghe cinture, con stole ricamate, le donne con manti fermati al cinto da larghe stole; con velo cadente su le spalle, fermato sul capo da un diadema d’argento o di metallo dorato: là ebrei, con in capo un piccolo turbante, una tunicella sopra una lunga veste, un mantelletto; più in là un saraceno, bruno, col mantello bianco: più in qua un cavaliere teutonico con la sopravveste scura, la croce rossa sul petto, a sinistra e sul mantello bianco: cavalieri italiani col vestito a gheroni: e le calze lunghe aderenti, o in cotta di maglia d’acciaio; popolani con la tunica corta, i ginocchi nudi, il coltellaccio alla cintola gli uomini, le donne ravvolte nel manto chiuso sotto il naso, e col volto mezzo celato dal fazzoletto: schiavi, mori e olivastri, visi bianchi e biondi di settentrionali, bruni di indigeni; gente a cavallo, qualche lettiga portata da muli bardati a colori vivaci; carri tirati da buoi; e dappertutto una festa di colori, un luccichio di seta, uno sfolgorio di metalli che si componevano, si scomponevano continuamente come in un grande e fantastico caleidoscopio.
Questo spettacolo riempiva di maraviglia prete Matteo e Vanna, che altro spettacolo non avevano mirato fuor delle povere case di Scopello, e a cui la chiesetta pareva un gran monumento. Oh quella chiesa, come diventava piccola e povera al cospetto del Duomo con le sue torricelle svelte e ricche di colonne e di finestre, con le sue grandi arcate, con le sue absidi ed archi intersecantisi di tufo e di lava; al cospetto di quelle chiese con le cupole dorate alla maniera musulmana, o rosse che parevano ardenti, e i muri rivestiti di marmi e di musaico d’oro. Questo era un paradiso che inebbriava gli occhi. E quali profumi esalavano quelle vigne, quei giardini che si alternavano con le case, coi palmizi alti e molli, e i pini odorosi aperti come ampii ombrelli!...
Lo spettacolo mutava solo che mutassero cammino; le corporazioni delle arti e dei mestieri avevano ciascuna la propria contrada: questa via era fiancheggiata di botteghe di cambiatori, coi banchi e le bilance: quell’altra non aveva che fucine di fabbri ferrai: l’altra era di merciai, o di profumieri o di oliandoli; un’altra da spadai e balestrieri: qui erano materassai, lì maccheronai, più giù fabbricanti di piatti, più in su figuliai. Poi, uscendo dalle mura del Sera al Kes, nell’avvallamento del Papireto, la scena mutava aspetto: la palude con le ripe folte di papiri, e di canne: tra le quali svolazzavano uccelli di palude, cui dei cacciatori con falchi e sparvieri addestrati e con fionde davan la caccia: dei mulini da franger canne zuccherifere o grano sorgevano lungo il fiumicello che scaricava le acque della palude al mare. Le acque arrossivano di sangue pel prossimo macello: si colorava di vivi colori, per qualche tintoria. Il rumore delle ruote si fondeva con quello dei telai. Sulla via opposta altri quartieri, quello di Siralcadi più alto, quello della Conceria più giù: case alte e basse, torri di palazzi e campanili di chiese, e palmizi e pini, e orti, come fosse un’altra città: e ancora più in giù un quartiere pieno di traffico, di logge di mercanti, di marinai; indi il porto col castello alla bocca per difenderlo. Tutte cose che apparivano grandi, belle, magnifiche non soltanto a prete Matteo e Vanna; ma anche a prete Demetrio e a Cristodula, che vi erano avvezzi; anche a Rinaldo, che pur aveva visitato altre città, ma che confessava essere Palermo la più bella città del regno, e, forse di tutta l’Europa...


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

Luigi Natoli: La cassata siciliana al tempo di Federico II. Tratto da: Viva l'Imperatore! Romanzo storico siciliano

Con questi pensieri al capo, giunse alla casa del prete greco. Vanna era nella stanza del pianterreno, e lo aspettava; era certa che Rinaldo sarebbe ritornato. Prete Matteo le riferì l’esito delle loro pratiche. Era soddisfatto il buon uomo, perché si era tolto un gran peso dallo stomaco; se ora il Signore lo chiamasse a sè, morrebbe senza preoccupazione per l’avvenire di quella fanciulla, che amava come una sua figlia. Dopo questa relazione, egli parlò sottovoce con la donna del prete greco e con costui, coi quali parve si accordasse sopra qualche cosa: poi voltosi a Rinaldo, che guardava Vanna, gli disse:
- Voi resterete a prendere un boccone con noi, messere. Oggi è festa, e possiamo mangiare di grasso, sebbene siamo in quaresima. Madonna Cristodula ha tirato il collo a un cappone e ha preparato dei maccheroni con la ricotta, che innaffieremo con un buon vino del casale di Mensilemir che il prete qui si fa venire di proposito.
Rinaldo non domandava di meglio: vide il viso di Vanna illuminarsi di un sorriso di gioia, e ne gioì egli stesso. Ecco una giornata felice! Volle anche da parte sua contribuire a quel desinare, e domandata la licenza andò nella città antica, che aveva preso il nome di Cassaro, dove erano botteghe di leccornie; l’arte culinaria raggiunse nella Sicilia l’eccellenza, tanto che da qui i Romani dell’impero traevano i migliori cuochi: c’era dunque una tradizione, che probabilmente insegnò agli arabi a manipolare alcuni manicaretti, pervenuti fino a noi con nome arabo. L’abbondanza poi dello zucchero, per la vasta coltivazione che si faceva delle canne zuccherifere, rendeva comuni e popolari le golosità; e però v’erano, come oggi, molte botteghe dove si spacciavano. La cassata, la cobaita, la nostra mostarda – ch’è tutt’altra di quella senapata – hanno una venerabile antichità, e con esse altri dolciumi, che hanno nome di origine latina. Rinaldo andò a comprare il dolce caratteristico siciliano che è la cassata, allora più semplice, ma di cui erano principali elementi, come oggi, la ricotta, e la pasta dolce a forma di tegame. Questa goloseria suscitò l’entusiasmo di Cristodula e fece venire l’acquolina in bocca ai due bravi preti.
Vanna aiutò la sua ospite, che s’affacendava dinanzi ai fornelli e andava e veniva, con una fretta che pareva una palla che si rotolasse. La fanciulla attendeva a rosolare il cappone; il calore della fiamma le colorava le guance, ma la gioia che chiudeva in cuore, illuminava quel roseo più della fiamma stessa.


Luigi Natoli: Viva l'Imperatore! Romanzo storico ambientato nella Palermo di Federico II. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dall'11 gennaio 1925.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 533 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15 - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

giovedì 28 marzo 2024

Luigi Natoli: Pasqua e l'insegnamento di Gesù. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie

Che allegro scampanìo per l’aria primaverile!
Grandi e sonore campane nelle città; piccole e timide campanelle nelle chiesette dei villaggi; ma tutte suonano a gloria: è Pasqua.
Quasi sempre la festa cade in aprile, più raramente negli ultimi di marzo, ma sempre in primavera: essa è la festa della Risurrezione.
Risorge dalla morte Gesù vittorioso: risorge la natura dallo squallore dell’inverno; risorgiamo anche noi con maggior lena alle nostre opere.
La festa di Pasqua era propria degli Ebrei, e commemorava la loro liberazione dalla schiavitù del Faraone.
Ora Gesù fu arrestato, martoriato e crocifisso, e risuscitò nel tempo, che in Gerusalemme si celebrava la Pasqua: perciò i cristiani conservarono il nome di Pasqua alla festa che ricorda la risurrezione di Gesù: con la quale hanno termine le funzioni della Settimana Santa.
Pasqua è la festa più gioconda dell’anno. Le campane, che per tre giorni sono state mute, squillano ora lietamente, e sembra che ci invitino a dimenticare i dolori, e a godere del bel tempo; ma altre cose ci dicono più belle e più sante.
Ci dicono che Pasqua è la festa del perdono: Gesù morì sulla croce perdonando i suoi nemici, e insegnandoci ad amarli. Se tu hai un nemico, va’ a trovarlo; portagli l’ulivo della pace; abbraccialo e bacialo, e dimentica il male che ti ha fatto. Se il male l’hai fatto tu a qualcuno, va a domandargli perdono. E farai bene.
“La pace sia con voi” era il saluto di Gesù e ce lo ha lasciato per insegnamento.

L’insegnamento di Gesù

Nella sua predicazione, Gesù ridusse tutto il suo insegnamento a due doveri:
Ama Dio sopra ogni cosa.
Ama il prossimo tuo come te stesso.
E che vuol dire amare il prossimo come noi stessi?
Gesù lo spiegò con due precetti molto semplici:
Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Fa agli altri quello che vorresti fatto a te.
Ti piacerebbe dunque che altri ti molestasse, ti offendesse? No: e dunque non molestare, non offendere gli altri. Ti piacerebbe essere aiutato quando hai bisogno? Sì: e allora aiuta gli altri che han bisogno di te.


Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
Pagine 210 - Prezzo di copertina € 18,00
L'opera è la fedele trascrizione del volume pubblicato dalle Industrie Riunite editoriali siciliane (Palermo) nel 1925 ed è corredato dalle foto originali del libro. 
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour) e presso il punto vendita del Centro Commerciale Conca d'Oro, La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15) Mondadori Point di Giovanni Montesanto (Via M. Stabile 233)

mercoledì 27 marzo 2024

Luigi Natoli: Popolo, tu hai compiuto un gran fatto... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico


Scendeva il popolo vittorioso nuovamente pel Cassaro, bramoso di nuovo sangue. Messer Ruggero andava innanzi a tutti, con la spada in pugno, gridando:
- Alla Curia! Alla Curia!... Andiamo a prendere il gonfalone della città!...
E la folla acclamava. Il gonfalone dava una significazione alla rivolta, raccoglieva il popolo sotto un segno glorioso, rievocava memorie non ancora spente.
Qualcuno, dominando il tumulto, gridò:
- Messer Ruggero! Guidateci voi!... Guidateci! Siate il nostro capo!...
E la folla a urlare:
- Viva Ruggero di Mastrangelo!... Viva il capitano del popolo!...
Per le rughe strette e tortuose, che si rischiaravano improvvisamente alla luce di quelle faci fumiganti, e mostravano i volti commossi e spaventati delle donne e dei vecchi affacciati alle finestre, il popolo si avviò verso la Curia, le lame delle spade, le punte delle lance, balenavano di vividi e sanguigni guizzi al riflesso delle torce, e rendevano più sinistra quella marcia di popolo urlante.
La piccola piazza della Curia, l’atrio dei giudici si empirono di una folla che s’andava sempre più addossando e pigiandosi, tra le case e le chiese di S. Maria dell’Ammiraglio e di S. Cataldo, e il bel campanile, slanciato all’aria, colonna su colonna, che lumeggiato in basso dalla rossa luce delle torce, pareva smarrire la cupola nel cielo notturno. Su le mura delle chiese, dell’atrio, delle case, ombre strane e fantastiche si agitavano; si contorcevano l’agitarsi delle fiaccole e l’ondeggiare delle fiamme.
Un vocìo confuso, indistinto, alto come un brontolìo di mare tra scogliere, errava sopra tutte quelle teste, che pareva aspettassero qualcosa, che nessuno sapeva ma che sentiva nello spirito anelante. Ed ecco sopra alcuni gradini o sopra qualche sasso levarsi un uomo. Era messer Ruggero di Mastrangelo, alzata la spada ancor fumante di sangue, fe’ cenno di voler parlare; e subito corse un ordine, un invito, una esortazione; e un profondo silenzio chiuse le bocche, trasfuse negli occhi e nelle orecchie tutte quelle anime.
L’antico bajuolo con voce sonora gridò:
- Popolo, tu hai compiuto un gran fatto: hai vendicato diciassette anni di tirannide; hai cancellato la vergogna che ci rendeva ludibrio delle genti; hai insegnato al mondo come si abbattono le tirannie, e mostrato che collera di popolo è collera di Dio. Siano rese grazie a Dio che armò il tuo braccio! Ora è altra bisogna, popolo. Vuoi tu ritornare sotto il giogo di Faraone?...
Un urlo formidabile fece tremar la piazza e le case, ed esaltò i cuori.
- No! no!... meglio seppellirci sotto le rovine della città!...
Niccoloso Ortoleva e Arrigo Baverio, due cavalieri che avevano compiuto prodigi, affrontando pei primi i francesi, gridarono sopra tutte le voci:
- Né Faraone né altri re. Troppo sperimentammo la nequizia dei re!...
- Vogliamo esser padroni di noi stessi, non servi d’alcuno – gridò un popolano grasso noto in tutta la città, Nicola d’Ebdemonia.
E tutto il popolo con una sola volontà, urlò:
- Sì, sì: libertà!... libertà!...
Allora Ruggero di Mastrangelo sollevò in alto il gonfalone della città: l’aquila d’oro in campo di porpora, e agitandolo tra il rosseggiar delle faci, a voce alta e squillante gridò:
- E sia! Buono stato e libertà!... Buono stato e libertà!...
E migliaia di voci ripeterono con entusiasmo:
- Buono stato e libertà!...
Squillarono allora le campane della torre di S. Maria dell’Ammiraglio; squillarono sopra la moltitudine, che levava in alto le mani, come giuramento; e alle campane risposero gli squilli delle trombe e il rullìo dei tamburi moreschi del comune e suoni e grida si fondevano insieme, tra lo squassar delle torce e le salve delle mani e delle armi agitate in alto, come se un vento le scotesse furiosamente: e lo sventolìo di quel gonfalone, che librava l’aquila d’oro sopra quell’oceano di teste commosse.
E tra la commozione, le grida, i giuramenti, fra gli abbracci di gioia, lì, ai piedi del bel campanile, il popolo elesse i suoi capitani e il consiglio civico: Ruggero di Mastrangelo, Arrigo Baverio, Niccoloso d’Ortoleva cavalieri e Nicola d’Ebdemonia popolano, capitani: Pierotto da Caltagirone, Riccardo Fimetta, Bartolotto de Milite, Giovanni di Lampo e il notaio Luca di Guidaifo consiglieri.
La rivolta si tramutava in rivoluzione.
Non erano ancora scorse quattro ore dal primo squillo della campana del Vespro, dal primo colpo di pugnale, dal primo sangue sparso; e Palermo aveva abbattuto un governo, distrutto un nemico potente e temuto, proclamato il Comune libero!...
Al suono delle trombe e dei taballi, tra lo squillare delle campane a distesa, la moltitudine si rovesciò nuovamente per le strade, corse per tutti i quartieri della città con un motto feroce, nel quale si accumulava l’odio profondo e tenace:
- Non un francese! Né la semente d’un francese!... Che si perda anche la memoria dell’odiata tirannia straniera.
E intanto che il nuovo governo sedeva nella Curia, e cominciava a provvedere, la caccia e la strage ricominciava per ogni dove, implacabile e senza tregua.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15) Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), 

Luigi Natoli: In quel momento le campane della chiesa di Santo Spirito sonavano a Vespro. Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico

S’appressava attraverso il prato, fra un codazzo di curiosi, un piccolo corteo nuziale. Era Benvenuta di messer Ruggero di Mastrangelo con Guglielmo di Santafiora. Venivan verso la chiesa, inconsapevoli di quell’incontro con Droetto de Genlis. Le grida dei soldati, che s’eran messi a frugare qualche popolano, aveva messo un po’ in sospetto Benvenuta, che si stringeva accanto allo sposo, e messer Ruggero di Mastrangelo che s’era posto all’altro lato della figliola, affrettandola verso la chiesa.
Intanto, più in là sergenti e soldati continuavano a gridare:
- Frughiamo questi paterini! debbono avere armi!...
- Sì, frughiamo! – gridò da canto suo Droetto de Genlis; e avvicinatosi a madonna Benvenuta, con un gesto la fermò, aggiungendo: – Voi nascondete armi!...
Messer Ruggero diventò rosso dalla collera.
- Voi scherzate, messere! forse ignorate chi son io!...
Ma Droetto grugnì, e voltosi alle lance spezzate che lo spalleggiavano, gridò:
- Frugate cotesti poltroni; io mi incarico della donna.
E aggiungendo l’atto alle parole, cacciò le mani oltraggiose dentro le vesti di Benvenuta, che mandò un grido e svenne fra le braccia di messer Guglielmo.
- Ah questo è troppo! – urlò esasperato messer Ruggero, cercando divincolarsi dalle lance spezzate che lo tenevano, per gittarsi addosso a Droetto, che tentava forse un nuovo oltraggio, col volto imbestialito dalla vendetta e dalla lascivia; ma nel tempo stesso si vide il giullare, farsi largo, giungere a Droetto, trarlo indietro per la nuca, gridando:
- Tu non ci torni!...
E con rapidità fulminea, trattogli dal fianco il pugnale, glielo cacciò nella gola due volte, lo levò in alto sanguinoso, gridò:
- Muoiano!... muoiano questi francesi, perdio!...
Un urlo, simile allo scatenarsi di un uragano gli rispose; si videro lampeggiar venti, trenta lame, si udì l’urto formidabile e tremendo della vendetta.
In quel momento le campane dalla torre della chiesa di Santo Spirito sonavano a Vespro.

Sonavano a Vespro le campane, per invitare i fedeli alla preghiera, e chiamare i frati nel coro; e l’ignoto fraticello, salito su la torre indorata dal sole cadente, non sapeva che quello squillo di campana avrebbe segnato nelle pagine della storia una data terribilmente memoranda.
Dalla torre aveva mirato la pianura festante sotto il sole che declinava dietro le vette di Monte Cuccio, aveva veduto il formicolìo della gente, udito il vocìo confuso e disordinato di migliaia di voci senza capire; e aveva sonato, come sempre, l’ora della dolce e raccolta preghiera. Ma giù nel piano, quel che feriva l’aria sul colpo di pugnale che atterrava il sire Droetto, sonò come uno squillo di tromba; come un segno aspettato, come una voce di comando e di esortazione.
Il fraticello continuava a sonare, con gli occhi erranti ora pel cielo, dove vagavano nuvolette, isole d’oro in un mare di porpora.
Ma poi, crescendo il rumore, richinati gli occhi, gli occhi gli si spalancarono di stupore, un fremito gli passò pel sangue; e il suo braccio, quasi mosso da una forza ignota, continuò a sonare, a sonare, a sonare, con nuovo vigore, squilli serrati, violenti di guerra e di strage sopra il tumulto e il balenar dei ferri e il rosseggiare del sangue.
Quella improvvisa zuffa, quelle grida, il cozzo delle armi, si propagarono in un baleno per la pianura. A un tratto tende e barracche furono rovesciate, tutta quella folla di uomini, come sospinta da un segno d’intesa, da un ordine, si levò in piedi. Molte donne traevansi dal seno i coltelli e li porgevano agli uomini; chi non aveva coltello impugnava un bastone, toglieva le aste delle tende, fracassava i banchi delle barracche, raccattava sassi. Tra le grida qua di spavento, là di coraggio e di incitamento, la folla accorreva. E su tutte le bocche suonava il grido ferocissimo:
- Muoiano! muoiano!...
A quell’improvviso e inaspettato insorgere di tutto un popolo, i sergenti, le lance spezzate, i soldati di Francia parvero sgomenti; ma fu un lampo. L’onta, la vergogna, l’ira, la superbia rissosa, il vantaggio delle armi, li spronarono a un contrattacco. Esperti nelle armi, poichè erano inferiori di numero, cercarono di raggrupparsi, di formare un forte nucleo, per gittarsi sopra la folla, che la presenza e lo spavento delle donne e dei fanciulli imbarazzava un poco.
Ma non erano più in tempo. Sparsi qua e là, in piccoli gruppi, stretti da ogni parte, invece di attaccare si trovaron costretti a difendersi disperatamente. Maggiore era l’accanimento dinanzi alla chiesa dove messer Ruggero di Mastrangelo aveva fatto trasportar subito la figlia e dove correvano a rifugiarsi le donne spaventate nel momento che Damiano e gli «Albergarioti» investivano le lance spezzate.
Le quali a quell’attacco, costrette a mutar fronte, per difendersi, dovettero lasciar Giordano, che scaraventò sul viso di un soldato che gli era vicino il liuto, approfittò di un istante, per chinarsi rapidamente sopra Droetto, togliergli la spada e l’elmetto; e così armato gittarsi nel combattimento, come un leone famelico in una mandra di polledri. La pugna si rinfocolò; altri francesi, colpiti da coltelli, da sassate, da mazzate, cadevano; ogni caduto, era una spada, una picca, un pugnale che passava nelle mani degli insorti.
Messer Ruggero, uscendo in quel punto dalla chiesa, con uno sguardo capì il gran momento; e raccolte le armi di un cavaliere francese caduto, alzando la spada gridò:
- Popolo! alla riscossa! muoiano tutti i francesi!...
Guglielmo Santafiora e altri cavalieri palermitani, seguendo il suo esempio, s’armarono allo stesso modo, e tutti insieme fecero impeto dietro di lui. E intorno a loro si strinsero popolani e borghesi armati o no, ripetendo quel grido, cosicchè messer Ruggero, noto per gli uffici tenuti, per la ricchezza, per l’autorità diventò, senza volerlo, il capo, il condottiero di tutta quella moltitudine, che, buttata la pelle di agnello rassegnato, appariva formidabile come belva sitibonda di sangue.
Era per tutta la pianura una mischia spaventevole e crudele. Diciassette anni di servaggio, di crudeltà subite, di violenze, d’infamia sofferte, diciassette anni di vergogne e di torture pareva avessero adunato tutte le loro collere in ogni braccio; la vendetta imprigionata da diciassette anni in ogni cuore, pareva balestrare nei muscoli, dilagare nel sangue, diventar volontà nelle mani; tramutarsi in lama, in legno, in sasso, in denti, in urlo!...
- Muoiano! muoiano!...
E morivano. Viluppi e aggrovigliamenti mostruosi di corpi che si piegavano, si rizzavano, si contorcevano, di braccia che si cercavano, si afferravano, contendevano, vibravano; balenìo di armi, sulle quali il sole cadente folgorava fiamme; cozzo di acciai; un volar di sassi, un agitar di bastoni, una confusione, un urlìo; ira, dolore, gemiti, bestemmie, trionfi!... Un uomo cadeva trafitto da dieci, venti colpi; un’onda vivente e violenta gli passava oltre, atterrava un altr’uomo; e passava ancora, terribile, inarrestabile, come un fiume in piena; travolgendo, trascinando.
E la campana sonava ancora, incessante, implacabile. Sonava, sonava; il braccio del fraticello pervaso dall’impeto di quella tempesta di sangue, era diventato il braccio del popolo furente; la sua volontà era diventata suono; il suono gridava sopra il tumulto, sopra il cozzar dei ferri, sopra gli urli; gridava: - Muoia! Muoia!...
Giordano, costretto a mettersi sulla difensiva, all’attacco veemente e irresistibile dei due cavalieri francesi, s’impegnava contro di essi in un combattimento maraviglioso e terribilmente epico, nel quale pareva che le tre anime fossero cresciute; anime di giganti armati di cento braccia. Ed ecco l’onda trionfante del popolo rovesciarsi nuovamente sopra di loro; e Damiano con un largo coltello da beccaio in pugno, sangue la lama, sangue le mani, sangue le vesti, feroce, trasfigurato, alla testa di tutti; e accanto e dietro gli «albergarioti» simili a un’onda di tigri, armati di tutte le collere; e fra loro anche donne, che la vista del sangue, l’urlìo, il contagio della battaglia, cancellata ogni timidezza, trasfigurava in lionesse, tramutava in vendicatrici di tutte le donne violate, uccise, dilaniate da diciassette anni. Anch’esse, coi capelli al vento, le vesti lacere, le braccia irrigidite dalla tensione nervosa, gli occhi fiammeggianti accorrevano alla vendetta e alla strage; avventavansi con le unghia sui nemici; affondavano le dita nelle gole dei fuggiaschi...
Giordano ebbe da questo irrompere di popolo un nuovo aiuto; con una rapida mossa, evitati i ferri dei due cavalieri, aveva potuto balzare al fianco del sire de Saint-Victor, e cacciargli la spada fra le costole fino all’elsa:
- E questa per Gamma Zita! – gridò.
Intorno la pianura era sparsa di morti; paesani e stranieri; il sole scendeva dietro i monti tra nubi color di sangue. La luce crepuscolare arrossava gli alberi, i muri della chiesa, la pianura; e tutto pareva tingersi di sangue. La campana sonava, sonava ancora!...
Per la pianura correvan frotte di popolani, di qua e di là, inseguendo qualche francese che cercava scampo nella fuga: e lo raggiungevano, e quello cadeva. Non uno giunse a fuggire; quei duecento un’ora innanzi superbi e prepotenti nelle loro belle vesti, nelle loro armature, fidenti nella loro potenza, sicuri della sommissione di un popolo inerme, fiduciosi della tollerante viltà che per diciassette anni aveva piegato il collo, giacevano ora per la pianura, a gruppi, ammonticchiati, sparsi, immersi nel loro sangue, con gli occhi sbarrati o chiusi, il volto spaventato o ancor iracondo. Giacevano pesti, disarmati, fra le tende sbrandellate e sanguinose, le barracche distrutte, le mense scompigliate, i vasi rotti, le otri del vino aperte. Qua e là pezzi di legno caduti sulle braci ancora accese, bruciando levavan lingue di fiamme e nubi di fumo.
Ansanti, frementi, anelanti ancora, quelle torme si adunavano, si raggruppavano, senza un disegno, ma agitate da un pensiero confuso; quando messer Ruggero di Mastrangelo gridò con voce tonante:
- A Palermo! a Palermo!...
E allora da mille duemila bocche si levò formidabile, come scoppio di mille tuoni, tra l’agitarsi di mani convulse, il grido:
- A Palermo! a Palermo!... Morte ai Francesi!...


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
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