C’era spettacolo del Sant’Offizio quella mattina del 9 settembre 1640. Già il giorno innanzi, come era prescritto, c’era stata la processione, che partendo dallo Steri, palazzo del Sant’Offizio dell’Inquisizione, si era recata nel piano della Cattedrale, dove era stato costruito il gran palco per l’Atto di Fede; e aveva posto la Croce del Santo Tribunale sull’altare, fra torce rimaste accese tutta la notte; e frati, preti, familiari del Sant’Offizio vi avevano vegghiato recitando salmi ed inni.
Lo spettacolo destava grande curiosità pel numero degli inquisiti, tre dei quali erano stati colpiti dalla più grave sentenza: erano stati cioè rilasciati al braccio secolare. Era una formula ipocrita con la quale si intendeva togliere alla Chiesa il biasimo di condannare a morte. La Chiesa non doveva e non poteva per materia di fede, uccidere; ma faceva uccidere dalla giustizia laica, alla quale consegnava i rei d’eresia e di commercio col demonio, che dovevano essere bruciati. La giustizia secolare, e cioè la curia del Capitano di città dopo la solenne lettura della sentenza del Tribunale del Sant’Offizio s’impadroniva del reo, e lo sottoponeva a un giudizio pro forma, che serviva per dimostrare che la sentenza di morte non era pronunciata dall’autorità ecclesiastica, ma da quella laica. In grazia di queste miserabili ipocrisie, poteva la potestà della Chiesa affermare che essa non condannava a morte nessuno!
Tre, dunque, fra gli inquisiti, già si sapeva, sarebbero stati rilasciati al Capitano di città. Tre roghi si sarebbero accesi nel piano di Sant’Erasmo: spettacolo triplice in onore della santa religione. I nomi erano noti: uno si chiamava, da cristiano Gabriele Tudesco, da moro musulmano Amet. Era un mal battezzato, ritornato alla sua prima fede. Condannato una prima volta per questo suo ritorno alla fede dei padri, aveva confessato il suo errore, abiurato, ed era stato assolto e mandato in galera a remare per cinque anni. Ma era ricaduto nel fallo; e sottoposto nuovamente a giudizio, aveva dichiarato che maomettano era nato e maomettano voleva morire: colpa gravissima, che meritava il rogo.
Il secondo era un frate agostiniano, calabrese: fra Carlo Tavalora, che si era spacciato per Messia; aveva fondato una setta di Messiani e diffondeva una morale nuova, una teoria nuova, una politica nuova e nuovi riti, che avevan trovato qualche seguace. Arrestato nel 1635 era stato per cinque anni nelle carceri della inquisizione sottoposto a dispute e a torture, ostinato nella sua riforma religiosa; finalmente il pio tribunale lo aveva condannato.
Il terzo che destava maggior interesse per la sua notorietà, era un francese, guantaio, che si chiamava Giovan Battista Verron. Era venuto di Francia giovane, non ancor ventenne; aveva aperto bottega nella strada dei Guantai, e aveva fatto fortuna; e però aveva suscitato gelosie e invidie. Qualcuno notò che Verron non andava a messa. Francese e non frequentatore della chiesa, bastava per far nascere sospetti. Un giorno fu sorpreso mentre leggeva la Bibbia; quella Bibbia era tradotta in francese: Giambattista Verron dunque era ugonotto.
I birri del Sant’Offizio lo arrestarono.
Verron era giovane e amava la vita. Morire a venti anni, quando il cuore ferve di sogni? Per una messa? Rinunciare alla gioia di amare, alla gioia di vivere? Nelle carceri del Sant’Offizio, tormentato da teologi di ogni specie, sopraffatto di argomentazioni e di minacce, Verron sentì vacillare la saldezza del suo carattere. Si confessò convinto della verità cattolica. Così nello spettacolo o atto-di-fede nel 1630 egli fu pubblicamente assolto dall’eresia, e condannato a un anno di carcere. Quando ne uscì, credette di poter vivere in pace con il suo lavoro; e di poter seguire il suo sogno d’amore.
Vano sogno! Una mattina, era la quaresima del 1640 appunto, in un impeto di furore, tolse via dalla bottega l’immagine del Cristo, e da un ripostiglio segreto del suo armadio, prese una piccola Bibbia. I suoi nemici lo spiavano. Quando si assicurarono che egli non andava più a messa, non si confessava, non compiva nessuno degli atti prescritti dalla religione, lo accusarono nuovamente all’Inquisizione, che gli teneva gli occhi addosso. Gli occhi delle spie. Verron fu arrestato una seconda volta e chiuso nelle segrete del Sant’Offizio; ma questa volta per non uscirne più.
Sottoposto ad interrogatori, discussioni e minacce, rispose che la sua coscienza gli aveva fatto giudicare più pura, più cristiana, più conforme allo spirito del Vangelo, la sua fede di ugonotto; che era ritornato a essa e che sarebbe morto, prima di rinunziarvi. Colpa grande! dopo sette mesi di torture il Sant’Offizio lo condannò come eretico formale, ostinato, bestemmiatore.
E quella mattina del 9 settembre 1640, egli insaccato nell’ “abitello” nero dipinto a fiamme, fu condotto con gli altri due, per sentirsi leggere in pubblico, le grandi colpe commesse, e la sentenza che lo rilasciava al braccio secolare. Dopo lo spettacolo egli fu dunque consegnato al Capitano di città, al quale spettava di diritto di far seguire la sentenza. Di solito l’arsione avveniva il domani; perché la corte capitanale doveva imbastire quel simulacro di giudizio, per pronunciare la condanna al rogo; ma il domani era domenica e nei giorni festivi non si eseguivano sentenze. Non in die festo. Verron ebbe dunque prolungata l’agonia ancora un giorno: ma la mattina del lunedì, sollecitato a convertirsi, a salvare l’anima, egli disse che voleva confidare cose di grande importanza, soltanto a un frate agostiniano...
Lo spettacolo destava grande curiosità pel numero degli inquisiti, tre dei quali erano stati colpiti dalla più grave sentenza: erano stati cioè rilasciati al braccio secolare. Era una formula ipocrita con la quale si intendeva togliere alla Chiesa il biasimo di condannare a morte. La Chiesa non doveva e non poteva per materia di fede, uccidere; ma faceva uccidere dalla giustizia laica, alla quale consegnava i rei d’eresia e di commercio col demonio, che dovevano essere bruciati. La giustizia secolare, e cioè la curia del Capitano di città dopo la solenne lettura della sentenza del Tribunale del Sant’Offizio s’impadroniva del reo, e lo sottoponeva a un giudizio pro forma, che serviva per dimostrare che la sentenza di morte non era pronunciata dall’autorità ecclesiastica, ma da quella laica. In grazia di queste miserabili ipocrisie, poteva la potestà della Chiesa affermare che essa non condannava a morte nessuno!
Tre, dunque, fra gli inquisiti, già si sapeva, sarebbero stati rilasciati al Capitano di città. Tre roghi si sarebbero accesi nel piano di Sant’Erasmo: spettacolo triplice in onore della santa religione. I nomi erano noti: uno si chiamava, da cristiano Gabriele Tudesco, da moro musulmano Amet. Era un mal battezzato, ritornato alla sua prima fede. Condannato una prima volta per questo suo ritorno alla fede dei padri, aveva confessato il suo errore, abiurato, ed era stato assolto e mandato in galera a remare per cinque anni. Ma era ricaduto nel fallo; e sottoposto nuovamente a giudizio, aveva dichiarato che maomettano era nato e maomettano voleva morire: colpa gravissima, che meritava il rogo.
Il secondo era un frate agostiniano, calabrese: fra Carlo Tavalora, che si era spacciato per Messia; aveva fondato una setta di Messiani e diffondeva una morale nuova, una teoria nuova, una politica nuova e nuovi riti, che avevan trovato qualche seguace. Arrestato nel 1635 era stato per cinque anni nelle carceri della inquisizione sottoposto a dispute e a torture, ostinato nella sua riforma religiosa; finalmente il pio tribunale lo aveva condannato.
Il terzo che destava maggior interesse per la sua notorietà, era un francese, guantaio, che si chiamava Giovan Battista Verron. Era venuto di Francia giovane, non ancor ventenne; aveva aperto bottega nella strada dei Guantai, e aveva fatto fortuna; e però aveva suscitato gelosie e invidie. Qualcuno notò che Verron non andava a messa. Francese e non frequentatore della chiesa, bastava per far nascere sospetti. Un giorno fu sorpreso mentre leggeva la Bibbia; quella Bibbia era tradotta in francese: Giambattista Verron dunque era ugonotto.
I birri del Sant’Offizio lo arrestarono.
Verron era giovane e amava la vita. Morire a venti anni, quando il cuore ferve di sogni? Per una messa? Rinunciare alla gioia di amare, alla gioia di vivere? Nelle carceri del Sant’Offizio, tormentato da teologi di ogni specie, sopraffatto di argomentazioni e di minacce, Verron sentì vacillare la saldezza del suo carattere. Si confessò convinto della verità cattolica. Così nello spettacolo o atto-di-fede nel 1630 egli fu pubblicamente assolto dall’eresia, e condannato a un anno di carcere. Quando ne uscì, credette di poter vivere in pace con il suo lavoro; e di poter seguire il suo sogno d’amore.
Vano sogno! Una mattina, era la quaresima del 1640 appunto, in un impeto di furore, tolse via dalla bottega l’immagine del Cristo, e da un ripostiglio segreto del suo armadio, prese una piccola Bibbia. I suoi nemici lo spiavano. Quando si assicurarono che egli non andava più a messa, non si confessava, non compiva nessuno degli atti prescritti dalla religione, lo accusarono nuovamente all’Inquisizione, che gli teneva gli occhi addosso. Gli occhi delle spie. Verron fu arrestato una seconda volta e chiuso nelle segrete del Sant’Offizio; ma questa volta per non uscirne più.
Sottoposto ad interrogatori, discussioni e minacce, rispose che la sua coscienza gli aveva fatto giudicare più pura, più cristiana, più conforme allo spirito del Vangelo, la sua fede di ugonotto; che era ritornato a essa e che sarebbe morto, prima di rinunziarvi. Colpa grande! dopo sette mesi di torture il Sant’Offizio lo condannò come eretico formale, ostinato, bestemmiatore.
E quella mattina del 9 settembre 1640, egli insaccato nell’ “abitello” nero dipinto a fiamme, fu condotto con gli altri due, per sentirsi leggere in pubblico, le grandi colpe commesse, e la sentenza che lo rilasciava al braccio secolare. Dopo lo spettacolo egli fu dunque consegnato al Capitano di città, al quale spettava di diritto di far seguire la sentenza. Di solito l’arsione avveniva il domani; perché la corte capitanale doveva imbastire quel simulacro di giudizio, per pronunciare la condanna al rogo; ma il domani era domenica e nei giorni festivi non si eseguivano sentenze. Non in die festo. Verron ebbe dunque prolungata l’agonia ancora un giorno: ma la mattina del lunedì, sollecitato a convertirsi, a salvare l’anima, egli disse che voleva confidare cose di grande importanza, soltanto a un frate agostiniano...
Luigi Natoli: Fra Diego La Matina. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1640. L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1924.
Pagine 536 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo corriere o raccomandata postale in tutta Italia)
Su Amazon Prime, Ibs e tutti gli store online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Modusvivendi (Via Quintino Sella 79), Libreria Zacco (Corso Vittorio Emanuele 423).