martedì 24 maggio 2022

Luigi Natoli: Pochi salutarono con gioia l'alba del 24 maggio! Tratto da: Ricordi di Clodomiro mio figlio.

Pochi, forse, salutarono con gioia pari alla Sua l’alba del 24 maggio! Eppure in quel primo momento gli vietarono di partire pel fronte, perché i medici militari lo giudicarono inadatto alle fatiche di guerra: Lui che la guerra già conosceva! Egli fuggì: fuggì due volte; e così gli fu concesso di raggiungere il suo reggimento. Partì negli ultimi di maggio. Da allora stette sempre in prima linea; dovrei dire anzi sempre in trincea; che soltanto pochissimi giorni la sua compagnia andò in riposo. Modesto, sobrio, primo sempre ai pericoli, allegro, affettuoso, in tutta la lunga faticosa aspra avanzata per la conquista del Col di Lana, rese importanti servizi. Cento volte sfidò la morte: di giorno e di notte, sulla neve, sotto i reticolati austriaci, dovunque i suoi superiori Lo mandavano, sicuri dell’audacia, dell’abnegazione e dell’intelligenza del “Garibaldino” – come lo chiamavano. 
E non vantò mai l’opera sua; spesso lasciò ad altri il merito di Sue rapide e feconde iniziative. Inviato dal suo capitano, che lo amava, a iscriversi nel plotone allievi ufficiali, si rifiutò. Che importava un grado? Combattere bisognava; che anche da semplice soldato si poteva ben meritare dalla patria. E da soldato poteva Egli, nei brevi riposi della trincea, continuar meglio fra compagni quell’apostolato di italianità, che aveva cominciato in Francia. Non pensò mai a sé. Più di una volta, sfidando la morte, andò a raccogliere qualche compagno gravemente ferito, e se lo caricò sulle spalle, invano bersagliato dalle fucilate austriache. Gli shrapnels, le bombe, le palle austriache che Gli uccidevano i compagni al fianco, pareva rispettassero la sua balda giovinezza: Gli cadevano ai piedi senza esplodere, o Gli foravano il berretto senza colpirLo. Le valanghe precipitavano su la Sua capanna in vedetta avanzata, senza abbatterla; la neve Lo copriva durante il sonno su per la montagna, e Lo svegliava il domani ilare e svelto, fra compagni, ahimè, che non si svegliavano più!... S’era acquistata una fama di invulnerabilità, che Gli faceva sfidare la morte, sorridendo. Ma senza spavalderia. Non potei indurLo mai, nelle brevi licenze passate con me, a scrivere o a narrare episodi che Lo riguardassero: quelli che io conosco, Gli sfuggivano, quasi senza volerlo, dalla bocca, incidentalmente; e accennandovi, cercava di non lumeggiar troppo Se stesso; e qualche Suo bel tratto eroico o generoso cercava di ridurre, non tanto per modestia, quanto pel timore che potesse apparire una vanteria. 
Portava nella guerra la gentilezza dell’animo; così il Suo odio fiero e ardente contro il tedesco – e tedesco per Lui era anche l’austriaco – non spegneva il sentimento di pietà: nè l’aver desiderato e propugnato la guerra, di riconoscerne e deplorarne l’orrore. 

Luigi Natoli: Ricordi di Clodomiro mio figlio. 
Prezzo di copertina € 10,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: 24 Maggio 1915

Ricorda sempre questa data: è il giorno in cui l'Italia entrò in guerra, per liberare le ultime sue terre dalla soggezione allo straniero, per compire la sua unità, per assicurare la sua indipendenza. 
Che guerra! per terra, per mare, nell'aria! Quanto sangue versato, e quanto eroismo!... Ma l'Italia vinse. Vinse pel valore dei suoi figli, per la sua volontà di vincere. 
E anche in questa ultima e grande e terribile guerra, i giovani siciliani combatterono come quelli di Milazzo, come quelli del Volturno. E sul Monte Grappa e dovunque fecero prodigi.
Vuoi tu sapere con che cuore essi andavano alla guerra, e i padri ve li mandavano?
Leggi questa letterina: è di un soldato, e fu scritta nel 1917:

Caro babbo, 
Nel secondo anniversario della nostra gloriosa e santa guerra, fidente nella nostra vittoria e nel trionfo del nostro Diritto, dalle trincee di... a pochi metri dal nemico, invio gli auguri più fervidi a te, che serenamente hai dato alla patria i tuoi figli. 
Spero di essere fortunato ancora; ma se dovessi cadere, niente lagrime, niente pianti! Sii fiero di noi, che da te abbiamo imparato ad amare la patria e, se è necessario, a sacrificarci per essa: e grida con me: Viva la più grande Italia! 
Tuo C.
 
Il soldatino che scrisse questa lettera morì pochi giorni dopo. Era giovane, bello e gentile, e tutto diede per la patria. Medita: e fa di esser degno di coloro che morirono per darti una patria grande e gloriosa. 

venerdì 20 maggio 2022

Luigi Natoli intervista Andrea Soldano, assistente di Rosolino Pilo. Tratto da: Rivendicazioni.

Io lo conobbi una mattina, che venne a trovarmi commosso del ricordo che di lui era stato fatto, dopo cinquant’anni, in un pubblico discorso. Questo ricordo lo trasse per un’ora dall’ombra silenziosa della sua modestia, dove era vissuto, dimenticato per mezzo secolo, e lo aveva fatto rivivere nei bei giorni della sua giovinezza. 
Era nativo di Lipari, ma fin dalla fanciullezza aveva dimorato a Piana, ciò che lo aveva fatto credere albanese di quella colonia. Legato d’amicizia col Piediscalzi, col Petta, con gli altri liberali, allo scoppio della rivoluzione del 4 aprile, aveva impugnate le armi e fatto parte della squadra di Piana, con la quale si era trovato a tutti i combattimenti. 
Quando le squadre raccolte sulle montagne, aspettavano l’alba della nuova prossima riscossa, Andrea Soldano, sfidando i pericoli dello stato d’assedio veniva in Palermo a portar lettere ai membri del comitato, e a riceverne; e ad acquistare munizioni per le squadre. Ci andava di mezzo la vita, ma che importava? Pensavano forse i giovani di quel tempo a risparmiar la vita, quando si trattava di conquistare la libertà?
Giunti il 20 aprile a Piana, Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, Andrea Soldano li seguì, e si affezionò al Pilo, che, riconosciuta la sveltezza e la devozione del giovane, gli affidò incarichi pericolosi e delicati. 
Andrea Soldano diventò la sua ordinanza, la sua guida, il suo corriere. 
- Ah che cuore aveva don Rosalino! Che cuore! – mi diceva il buon vecchio, ricordando il suo capo: – non ce n’era uomini come lui. Coraggioso e generoso; quando era l’ora di prendere un boccone, egli pensava a tutti noi, e non mangiava, se non era sicuro che ogni uomo della squadra avesse avuto la sua parte... Ma voleva ordine e non tollerava abusi. Una volta che alcuni uomini si ubbriacarono (erano stati portati e offerti alcuni barili di vino) egli montò in collera, e li prese a piattonate... Con tutto ciò tutti gli volevano bene... tutti: ed egli ce ne voleva. 
Gli domandai qualche particolare sulla morte dell’eroe. Mi rispose: 
- La mattina del 21 eravamo tutti a San Martino, quando giunse la notizia che si avanzavano le truppe. Corrao si era già recato sulla Neviera, e aveva raccolto e appostato i suoi uomini. Crede forse che c’eran tutti? I soldati borbonici venivano dal Castellaccio, sparando: avevano fucili che tiravano fino a 800 metri, mentre i nostri sparavano appena a 300!... Don Rosalino e Calvino, all’udire la fucilata uscirono dal monastero salendo verso la Neviera. Io ero con loro. Corrao gli gridò: “Don Rosalino, non venite quassù, perché c’è un fuoco d’inferno; le palle fioccano come la grandine”. Ma egli rispose celiando: “Non abbiate paura, ancora la palla per me non è fusa”. E salì. Io l’accompagnai. Calvino si fermò accanto a Corrao. Noi, don Rosalino e io, salimmo più in alto, sulla cima del colle, donde Pilo poteva veder meglio la posizione. V’era un masso incavato, e vi è ancora. Pilo vi si pose, come per ripararsi; ma la testa gli sorpassava il masso. Prese un pezzo di carta e un lapis, appoggiò la carta sopra la mia spalla, e stava per scrivere, quando fu colpito alla testa. Ah! quando l’ho veduto cadere!... Gridai; e allora accorsero da basso Calvino, Corrao, ed altri: tra i quali c’era il signor Canepa di Carini, farmacista, che noi credevamo un medico. Egli asciugò un po’di sangue dalla ferita, e a me che gli chiedevo notizie, disse: – “Non vedete che esce la massa cerebrale? È morto”. Il povero Rosalino non faceva un lamento, soltanto gli occhi gli giravano terribilmente!...
- E dove fu ferito?...
- Qui, dietro l’orecchio quasi; e la palla gli uscì dalla fronte...
- Siete sicuro di questo?
- Sicurissimo. I buchi erano due, e la midolla usciva dalla fronte...
- E poi?
- Poi io gli tolsi la sciarpa tricolore di seta all’uncinetto, la borsa, il berretto... Questo berretto glielo avevo portato io da Palermo qualche giorno prima; Corrao gli levò una borsa a tracolla nella quale c’erano delle carte; poi lo prendemmo e lo portammo al coperto nella stanza della Neviera. Oh fu un dolore per tutti, un grande dolore! Noi seguitammo a combattere: il fuoco durò sette ore circa; noi non eravamo più di settantanove!... e combattemmo per sette ore contro battaglioni!... Poi Corrao ordinò la ritirata. 
- E delle voci sinistre che corsero sulla morte di Rosalino?
- Don Rosalino fu ucciso dai soldati. Eh! Se ne dissero tante. S’accusò Corrao, ma era una calunnia: con Corrao altercavano sempre, perché erano tutti e due irascibili, ma tornavano subito amici. Eppoi Corrao era così coraggioso e temerario, che non avrebbe mai commesso una viltà. Ma del resto non era materialmente possibile, perché, come le ho detto, Corrao stava più in basso, davanti a noi. Le voci più insistenti accusavano un certo S... che era delle squadre: un pezzo d’uomo!... Noi non sapevamo chi fosse: poi si seppe che era uscito dalla galera; e dopo il 27 maggio si sospettò che fosse stato una spia dei Borboni. Io seppi queste voci a Capua, sul campo; e mi sentii infiammare... Fu un miracolo se S... scampò alle mie mani; però se ne fuggì in Sicilia, dove per qualche bricconeria fu ucciso da certe persone di Partinico. 
- Cosicchè voi respingete tutte le storielle che corrono?
- Tutte! Tutte!... Egli è stato ucciso dai regi che venivano dal Castellaccio.
- E voi avete fatto tutta la campagna?
- Tutta. Seguii Corrao; il 28 entrai in Palermo con lui, dopo le fazioni dei Lolli e di S. Francesco di Paola. Fui a Milazzo, passai nelle Calabrie, presi parte alla battaglia del primo ottobre. Poi me ne tornai; e me ne sono stato in disparte, zitto, senza chiedere nulla; tutto quello che possiedo sono questi certificati!...
Ne tirò un fascio: tutte calde testimonianze dell’opera prestata dal Soldano durante la rivoluzione. Io le lessi, e gliele riconsegnai, con un senso di mestizia, guardando il buon vecchio con ammirazione, e direi quasi con un senso di invidia. Proprio invidia. 


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Pagine 546 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime, La Feltrinelli.it, Ibs e tutti gli store online
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie di Palermo. 

Luigi Natoli: il 21 maggio 1860 muore Rosolino Pilo, eroe e promotore della rivoluzione siciliana. Tratto da: Rivendicazioni.

 Il 21 di maggio, mentre Garibaldi studiava la sua marcia strategica, le squadre di Pilo erano attaccate da tre forti colonne borboniche. I nostri non eran più di trecento cinquanta; i borbonici oltre un migliaio; ed eran padroni di alture. Corrao sosteneva il fuoco; ma il pericolo d'essere soverchiato era imminente; Pilo ac­corso con Calvino, salito, contro il consiglio di Corrao, in alto per vedere le posizioni, riconosciuto il pericolo pensò di rivolgersi a Garibaldi, per aver aiuti: Calvino e Corrao, stavano in basso; e voltavan le spalle al Pilo, che aveva con sè Andrea Soldano, di Lipari.
Veramente, per accorrere in aiuto delle squadre, non era forse necessario domandarlo. Gli avamposti garibaldini si spingevano presso la Boarra, e, oltre la loro estrema punta, a Lenzitti era la squadra di Pietro Piediscalzi, attaccata anch'essa dai regi. Il combatti­mento dunque si svolgeva poco lontano. Nondimeno il Piediscalzi a Lenzitti, Pilo e Corrao alla Niviera furon lasciati soli, senza soccorso, a sostenere il fuoco dei regi, che movevano da Monreale e da Palermo. Era una necessità dolorosa, non un abbandono, badiamo; e la rilevo qui, perchè questo fatto d'arme, nel quale, con altri, lasciarono la vita Pietro Piediscalzi e Rosalino Pilo appaia veramente quello che fu: un olocausto, una immolazione per impedire che il campo garibaldino fosse assalito, e rendere possibile a Garibaldi la sua stra­tegica diversione. Rosalino Pilo fu colpito alla testa, mentre scriveva, in piedi, fra due rocce, appoggiando la carta sulle spalle del Soldano. Alle grida del quale accorsero il Corrao, il Calvino e altri, sollevarono il Pilo boccheggiante, e lo portarono nella casa della Neviera, d'onde poi l'abate Castelli, avvertito, lo fece di sera trasportare nel monastero di S. Martino. 
La morte dell'eroe fu avvolta di tristi voci: la ver­sione più ovvia, più naturale, che egli sia stato ucciso da palla borbonica, (non essendo i regi, che eran ben armati, più lontani di 700 metri; ed avendo egli il capo scoperto); questa versione, che consacrava il suo mar­tirio, si è voluta scartare, e si cominciò col l'accusare di averlo ucciso a tradimento Giovanni Corrao, che invece – e risulta da testimonianze, – stava in basso col Calvino e volgendogli le spalle: e l’invereconda e infame accusa contro chi era stato il compagno, il fra­tello di Rosalino, e che pel coraggio leonino, per la fran­chezza, per tutta la sua vita, non avrebbe mai com­messa una viltà, aveva forse il fine partigiano e astioso di offuscare l'eroica figura del fiero popolano repubbli­cano, alla cui lealtà Garibaldi rese omaggio e allora e poi.
Scartata, perchè bugiarda e ignominiosa, l’accusa contro il Corrao, si volle ucciso Rosalino Pilo ora da un Morrealese, or da uno di Capaci, e ora da uno di Carini: per quale insania, io non so; forse, per quelle stesse ragioni che dissero Carlo Mosto, une dei Mille caduto alla fazione di Parco, ucciso da uno di quei terrazzani; quando il Rivalta, che gli era vicino, lo vide morire per mano dei regi! Questa nostra rivoluzione era così incol­pevole, gli entusiasmi le davano tanta purezza, che occorreva forse gittare un'ombra oscura su quelle squa­dre e su quelle popolazioni, che pur davano il loro sangue, agevolavano e salvavano la marcia di Garibaldi.  
Con la morte di Pilo finisce l’azione autonoma delle squadre durata dal 5 aprile al 21 maggio: da questo momento esse seguono la fortuna dei Mille, e di loro gli storici non terranno parola, o forse per dileggiarle: dimenticando che senza di esse e senza la rivoluzione i Mille non avrebbero potuto fare un passo, e sarebbero rimasti vittime della loro audacia. 
Ma che non dissero gli storici? Uno, più grave perché uso a non affermar nulla senza documentazione, non accolse come verità le fanfaronate di uno dei Mille, che fra le altre cose affermava che Palermo pareva una città di morti, e che i Garibaldini, il 27 maggio erano costretti a snidare i Palermitani “per far fare loro la rivoluzione?”
Questi storici hanno anche un altro torto: quello di credere che la spedizione dei Mille sia tutta la rivoluzione siciliana; o che, forse, questa sia scoppiata per virtù di quella. Per cui essi, appena appena si degnano di dare uno sguardo all’episodio del 4 aprile, allo stato insurrezionale durato fino al 27 maggio, alla spedizione di Rosalino Pilo e di Giovanni Corrao; e pare non sospettino neppure che senza questa e quello, né Garibaldi né i Mille sarebbero salpati da Quarto.

Ora a tanti anni di distanza, quando i fatti storici si possono guardare con maggior serenità, e altri documenti son venuti in luce, è bene ristabilire la verità storica, senza esagerazioni, cadute ormai nel dominio dei luoghi comuni, e senza reticenze inutili. E appunto per questo non bisogna fondarsi unicamente sulle testimonianze raccolte da una parte sola: per quanto meritevoli di credito esse vanno riscontrate con altre testimonianze, e saggiate sulla pietra di paragone dei documenti. I Mille che seguirono Garibaldi sono veramente mille eroi, e l’impresa alla quale si accinsero, fu meravigliosa e miracolosa; ma per esser tali non è necessario tacere, travisare e qualche volta calunniare il potentissimo aiuto che direttamente e indirettamente ebbero in Sicilia dai Siciliani; non è necessario tacere l’efficacia risolutiva dello ambiente; giacchè è bene affermarlo ancora una volta e chiaramente, se la spedizione dei Mille non avesse trovato, neppure il solo concorso morale di tutto un popolo in rivoluzione (dico rivoluzione, non ribellione) Garibaldi e i Mille avrebbero incontrato la sorte dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Anzi, per rimanere in tema garibaldino, la campagna di Sicilia del 1860, non avrebbe avuto esito diverso della campagna dell’Agro Romano del 1867, che pure si compiè in condizioni numeriche e d’armamento superiori. Vincitori, anche, a Calatafimi, i Mille avreb­bero avuta a Palermo una Mentana assai più disastrosa.
Ora gli esperti di cose militari, che studiano le cose senza lirismo, hanno oramai riconosciuto che la marcia trionfale da Marsala a Palermo e le vittorie strepitose dei legionari, oltre che al valore di essi e all'azione dell’ambiente, si debbono anche agli errori innumerevoli e madornali del comando generale delle truppe borbo­niche; e questi errori madornali furono l’effetto della paura. Paura di combattere in un paese nemico in rivo­luzione; paura di vedersi assaliti da ogni parte dalla popolazione; paura di vedersi tagliate le comunicazioni e la ritirata; paura di mancare – come mancarono – ­di viveri, di ospedali, di medicine, di tutto.
Il che risulta dai documenti, che hanno maggior valore delle lettere di un esaltato.
(Nella foto: la tomba di Rosolino Pilo, nella chiesa di San Domenico in Palermo) 


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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giovedì 19 maggio 2022

Massimo Finocchiaro: Miro nella legione straniera. Tratto da: I sette fratelli Natoli.

All’inizio delle ostilità Miro, studente a tempo perso, si trovava a Parigi, dove forse meditava di trasferirsi più o meno definitivamente sull’esempio di Geppe. Alla notizia dell’inva­sio­ne tedesca del Belgio, suggestionato dal clima isterico della Union Sacrée che pervadeva la Francia, decise seduta stante di arruolarsi nella Legione Straniera francese, che il 21 agosto aveva aperto un ufficio di reclutamento presso l’Hotel des Invalides. 
Fu registrato sotto il nome di Natale Clodomir Louis, e assegnato come soldato semplice alla seconda compagnia del 1° battaglione, interamente costituito da italiani come lui, formato a Montélimar il 25 settembre 1914. Qui continuarono ad affluire volontari italiani, tra cui Giuseppe Chiostergi, poco più grande di lui e suo insegnante per un breve periodo all’Istituto Tecnico di Palermo, e vari altri amici repubblicani. Il 5 novembre 1914, con due battaglioni anch’essi tutti di volontari italiani, fu costituita nel grande campo militare di Mailly la cosiddetta Legione garibaldina (ufficialmente chiamata 4° reggimento di marcia del 1° reggimento della Legione Straniera). 
L’11 novembre il battaglione di Miro si aggiunse ai primi due per la continuazione dell’addestramento. La forza totale ammontava in quel momento a poco più di duemila effettivi, circa la metà dei quali provenienti dall’Italia; gli altri erano emigrati italiani residenti in Francia già da prima della guerra.
Durante il periodo di istruzione militare Miro fu nominato allievo caporale e, da fervente repubblicano mazziniano qual era, si dedicò alla propaganda politica a beneficio dei commilitoni. Sebbene difficilmente tale dinamismo potesse procurargli l’apprezzamento dei comandi, ciò che davvero attirò una negativa attenzione su di lui fu l’episodio, narrato in una sua lettera del 10 novembre 1914, scritta alla vigilia dell’arrivo a Mailly:
Arriviamo alle 3 del mattino. Scendiamo dal treno alle 6. Io sono destinato, con altri dieci, di guardia al treno. Mentre ero in fila, un sergente, B., uno di quei rinnegati, viene per ordine del tenente a impormi di togliermi dal petto la coccarda verde-bianco-rosso. Gli altri l´avevano tolta. Io mi rifiuto. B. fa per strapparmela. Alzo il fucile e lo minaccio col calcio: - Se ti avvicini l´avrai sulla testa. Corre dall´adjutant. Nel frattempo i soldati mi dicono di cedere, perché rischio di andare al consiglio di guerra. - No! Non cedo! Torna il sergente con l´adjutant: - Natoli, leva la coccarda, è ordine del tenente. - No! Fa per avvicinarsi anche lui. Ripeto la minaccia. Chiamano il tenente. Viene: - Non volete togliervi la coccarda? - No! - Come no? Rispondo in francese: - Non sapevo che a un italiano che viene a dare la sua vita per la Francia è vietato di portare il suo drapeau! Viva l´Italia! Amici, fuori le coccarde! Il tenente volta le spalle e se ne va: tutti tiran fuori i tricolori e gridano: - Viva l´Italia, viva la libertà!... 


Massimo Finocchiaro: I sette fratelli Natoli. Le vite singolari dei figli di Luigi Natoli tra la Belle Epoque e il secondo dopoguerra in giro per il mondo. 
Riccamente corredato di foto dell'epoca. 
Pagine 340 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online. 
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Massimo Finocchiaro: Luigi Natoli e i figli della prima moglie, Emma Turretta. Tratto da: I sette fratelli Natoli.

I figli che Luigi Natoli ebbe dalla prima moglie Emma Turretta seguirono studi regolari, riuscendo quanto meno a ottenere un diploma superiore, un buon livello d’istru­zione per l’Italia di quei tempi. 
Prestissimo si affrancarono dalla famiglia lasciando Palermo: Aurelio per Milano, Mimmo per Roma, Geppe prima a Roma, poi a Milano. Su questa diaspora si può sospettare abbiano contribuito i complicati rapporti con la matrigna Teresa Ferretti. Geppe studiò a Roma, dove, con un certo ritardo, si laureò in giurisprudenza con una tesi su La filosofia del diritto ridotta alla filosofia dell’economia, incentrata sul pensiero di Benedetto Croce, che venne pubblicata e gli fornì l’occa­sio­ne per allacciare un breve contatto epistolare col filosofo napoletano. Già prima della laurea era stato attivo nel giornalismo e il 14 ottobre 1905 aveva sposato Carolina Giudice, che però morirà prematuramente. Da laureato, Geppe cercò di farsi strada nel mondo della cultura: nel 1912 pubblicò un intervento sulla rivista La Voce, intitolato L’idealismo e la filosofia del diritto in Italia. Purtroppo tale promettente inizio di carriera fu stroncato dal Giudice Istruttore di Milano che, l’11 agosto 1912, spiccò contro di lui un mandato di cattura per bancarotta fraudolenta e falso, del quale non si fece mai parola in famiglia. Geppe si sottrasse all’arresto rifugiandosi a Parigi, dove riprese a svolgere l’attività di giornalista e corrispondente e vi si stabilì. Da lui forse, dalle sue lettere e da quel che raccontava, nacque in famiglia il mito della capitale francese, centro mondiale di ogni raffinatezza e di ogni cultura.
Mimmo terminò gli studi superiori all’Istituto di Belle Arti di Napoli, durante gli anni in cui i Natoli abitarono in quella città. Qui iniziò giovanissimo l’attività di illustratore su giornali locali. Successivamente si spostò a Roma, dove si dedicò alla scultura e alla pittura, e frequentò gli ambienti intellettuali e anticlericali della capitale. A Roma prese moglie e nacquero le sue prime due figlie, Iolanda nel 1912 ed Emma nel 1914. Nel 1912 iniziò la carriera di disegnatore e vignettista, realizzando per l’editore Bemporad le tavole di Bambini e bestiole di G.E. Nuccio; nel frattempo collaborava con Il giornalino della domenica di Vamba e Primavera di Podrecca, pubblicando articoli illustrati per i quali usava lo pseudonimo di Scapin, e lavorava intensamente come giornalista.
Aurelio, subito dopo la maturità, ottenne un posto di insegnante e nel 1910 si trasferì a Milano. L’anno successivo, richiamato alle armi per il servizio di leva, optò per la ferma ridotta e partecipò da ufficiale di complemento alla Campagna di Libia. Dopo questa breve parentesi coloniale, tornò a Milano, dove si dedicò anche lui all’attività giornalistica, evidentemente un mestiere nelle corde della famiglia. Sulle orme del padre, si affiliò alla Massoneria giustinianea e aderì al Partito Repubblicano. Il 12 luglio 1913 sposò Linda Gajani. Il viaggio di nozze di Aurelio ebbe naturalmente come meta finale Palermo, per presentare la moglie a suo padre e agli altri membri della famiglia, tutti riuniti per l’occasione; tranne Geppe il quale, inviando le sue congratulazioni, fece sapere che purtroppo ragioni professionali lo trattenevano a Parigi. 
All’inizio di settembre, pochi giorni prima della sua partenza da Palermo, Aurelio invitò i suoi fratelli già adulti Mimmo, Miro e Romualdo al nuovissimo cafè-chantant all’aperto Trianon, per assistere all’esibizione di una famosa ballerina giavanese, Mata Hari. L’esotica ballerina, che in realtà era, come si sa, olandese, si produsse prima in un ballo indiano, poi in una habanera spagnola, ottenendo lunghi applausi da parte degli spettatori e un enorme successo. 
Finito lo spettacolo in un vero tripudio, i quattro fratelli decisero di approfittare della bella serata per recarsi a passeggio fino alla casa del padre, allora vicino alla piazza Ranchibile. Percorrendo il bel viale della Libertà, commentavano entusiasti la bellezza esotica della ballerina. 
Ormai quasi esaurito l’argomento, Mimmo, assente da Palermo ormai da parecchi anni, disse che lo spettacolo della Bella Mata Hari gli sembrava il suggello perfetto per la nuova atmosfera che aveva notato in giro per la città, gioiosa anche se un po’ frivola. Indicando i nuovi villini che fiancheggiavano il viale in stile dal gotico al rococò al moresco, aggiunse tra il serio e il faceto che in Sicilia si viveva un periodo di rinnovamento e di fiducia. Quest’affermazione accese un dibattito coi due fratelli più giovani che non erano d’accordo, tanto per cambiare. Questo mondo in vorticosa evoluzione, sosteneva in tono polemico Miro, gli sembrava contenere qualcosa di malato e decadente, proprio come testimoniavano quelle architetture così leziose. Romualdo, irridendo le “magnifiche sorti e progressive”, manifestò vivacemente il suo disprezzo per la vita borghese coi suoi artifizi e le sue ipocrisie, e aggiunse che solo una guerra avrebbe potuto svecchiare e redimere quella società. Aurelio ribatté definendo l’idea come paccottiglia da intellettuali romantici; un’altra guerra era necessaria, ma in nome del progresso, per spazzare via i residui in disfacimento dell’Ancien Régime e soprattutto la monarchia. La discussione si fece accesa, tra reciproche accuse di irrazionalità e di fanatismo, di nazionalismo e di mancanza di patriottismo. A un certo punto Mimmo chiese ai fratelli se non pensassero che una guerra avrebbe potuto portare al socialismo. Questa parola sembrò gelare la conversazione, che languì e si spense. Giunti a casa, il padre, che era ancora in piedi nonostante l’ora tarda, chiese loro dello spettacolo. Accalorandosi nella descrizione delle movenze di Mata Hari sul palco, i fratelli estasiati si ritrovarono d’accordo e finirono per ammettere di vivere nella più felice delle epoche.
(Nella foto Emma Turretta, su gentile concessione di Giorgio De Lorenzi) 


Massimo Finocchiaro: I sette fratelli Natoli. Le vite singolari dei figli di Luigi Natoli tra la Belle Epoque e il secondo dopoguerra in giro per il mondo. 
Riccamente corredato di foto dell'epoca. 
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mercoledì 18 maggio 2022

Luigi Natoli: I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto una forza di reazione... Tratto da: I Beati Paoli.

Rifecero la strada senza parlare; Andrea era come sopraffatto da quello le aveva veduto e udito: si domandava per quale ragione quel tribunale misterio­so e terribile si interessasse delle usur­pazioni del duca della Motta; certo non era per vendicar la morte di al­cuno; e allora? e chi erano quegli uo­mini dei quali tutti parlavano, che nessuno conosceva, e che pure incu­tevano tanto terrore nella città e, spesso rendevano titubante e timido il ma­gistrato sul punto di sentenziare?
La setta che in quegli anni diffon­deva in Palermo e anche nel Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giu­stizia aveva larghe ramificazioni che erano soltanto note al supremo tribu­nale che la dirigeva; gli affiliati igno­ravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato affiliato; e se talvolta era ammesso al cospetto dei capi, v’era condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò che li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.
Ai poveri, ai deboli la setta si pre­sentava come un formidabile protettore; e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissi­ma solidarietà, per la quale gli affi­liati non si sentivano mai soli, e po­tevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.
I padroni dello Stato erano i signo­ri e il clero, perchè essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in poter loro, gli uffici più delicati non eran concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteg­gevano. Qualunque violenza commet­tessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano al­l’esilio o al confine in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, do­ve erano alloggiati e serviti con agio, e godevano della più ampia li­bertà. Ma il popolo e la piccola bor­ghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge sfolgorava i più fe­roci castighi che l’insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltan­to per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.
I Beati Paoli apparivano ed erano nel fatto come una forza di reazio­ne, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: era­no uno stato dentro lo stato, formi­dabile perchè occulto; terribile perchè giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecu­tori di giustizia. Essi parevano appar­tenere al mito più che alla realtà. Era­n dappertutto, udivan tutto, sapeva­n tutto; e nessuno sapeva dove fos­sero, dove s’adunassero. L’esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di let­tere, che capitavano misteriosamente.
L’uomo al quale giungevano, sapeva di aver sospesa sul capo una condan­na di morte.
Come erano sorti?... donde?
Mistero. Avevano avuto degli ante­nati: quei terribili “vendicosi”, che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi pel regno: e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro istituto vendicar le violenze patite dai deboli. 
Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli; né potè mai dire se appartenesse a questa o a quell’altra classe o casta. Nessun processo potè mai più di un quarto di secolo diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue; si diceva, si riteneva per fermo che fosse un affi­liato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il se­greto. La giustizia troncava qualche ramo; l’albero rimaneva e gettava nuo­vi germogli.
Nel 1713 la setta era nel suo pie­no vigore; pareva infervorata di quella che pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il go­verno viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant’Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi nel punto in cui pa­reva loro di esser sulle tracce, ca­devano misteriosamente.
Questa era la società segreta nella quale Andrea s’era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordina­rie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fi­sionomie insignificanti e comuni.
L’uomo, che seduto a canto del ca­po, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea era don Girolamo Ammirata.


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano pubblicato nell'ultima versione corretta dall'illustre autore (1931)
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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In vendita presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

Luigi Natoli: "Qui si fa l'Italia o si muore!" - Tratto da: Storia di Sicilia dalla Preistoria al Fascismo.

 
All’annunzio dello sbarco di Garibaldi, il Governo ordinava al generale Landi, che era ad Alcamo per il disarmo, di muovere contro Garibaldi; e al maggiore Sforza di congiungersi col Landi, che aveva in tal modo ai suoi ordini circa tremila uomini, con artiglieria e cavalleria. Il Governo di Napoli, dal canto suo, mandava ai Governi esteri una protesta contro «l’atto di selvaggia pirateria», accusandone il Piemonte; ordinava al generale Salazar di partire per Palermo con sedici compagnie e mezza batteria di obici, e mandava istruzioni al Luogotenente Generale.
Garibaldi, intanto, riordinava a Salemi il piccolo esercito su due battaglioni, il primo comandato da Bixio; il secondo da Giacinto Carini; un corpo scelto ben armato detto di Carabinieri genovesi sotto il comando di Antonio Mosto, l’artiglieria con l’Orsini, il Genio con Minutilla, i marinai cannonieri con Castiglia. Ordinato così l’esercito, all’alba del 15 uscì da Salemi, passò per Vita, e mandò esploratori, dai quali seppe che il Generale Landi occupava Calatafimi, donde una colonna moveva per contrastargli il passo. Era l’8° battaglione cacciatori, con cannoni e un drappello di cavalleria, bene armato, che veniva a prendere posizione sull’alto della collina, detta Piante di Romano.
È noto che i volontari dovettero, sotto il fuoco micidiale dei regi, conquistare a uno a uno gli scaglioni che formavano la collina; e che Garibaldi corse pericolo. Ma al Bixio, che disperando della vittoria gli consigliava la ritirata, rispose «Qui si fa l’Italia o si muore!» La bandiera donata a Garibaldi dalle donne di Valparaiso fu presa in una mischia eroica dal soldato Luigi Lateano; ma i cacciatori non ressero all’impeto dei volontari, e ripiegarono in disordine a Calatafimi a portarvi paura e confusione. Ma quel che non è noto, perché taciuto ingiustamente, è la parte presa dai Siciliani delle squadre; mentre è doveroso ricordare che le squadre del Coppola, dei Sant’Anna e del Colombo seguirono volontarie e che accanto ai Mille, morirono una dozzina di Siciliani e molti furono i feriti.
I volontari passarono la notte sul campo. Se il generale Landi avesse sostenuto l’8° battaglione con le truppe fresche, che aveva a Calatafimi, forse avrebbe vinto Garibaldi: ma ebbe paura di vedersi assalito alle spalle dalle popolazioni insorte, e quindi pensò di ritirarsi in fretta. Più che una ritirata fu una fuga; a Partinico e a Montelepre i regi furono assaliti e scompigliati dalle popolazioni; e giunsero a Palermo laceri, disordinati e con tutti i segni d’una grande sconfitta. Il Governo, intanto spavaldamente annunziava con un bollettino che la banda dei «filibustieri» era stata sconfitta, ucciso «il gran comandante» e prese le bandiere! A questo bollettino il Comitato ne opponeva un altro, annunziando la vittoria di Garibaldi e la sua marcia verso la Capitale.
Garibaldi infatti il 16, levato il campo, entrò in Calatafimi fra il popolo festante; fece leggere ai volontari un ordine del giorno vibrante, e, passato Alcamo, venne a mettere il campo sul pianoro di Renda, avvisandone Pilo, perché s’avvicinasse e La Masa, che si concentrava a Gibilrossa: erano le due ali dell’esercito.
Intanto la provincia di Agrigento insorgeva, Termini pure, bombardata, costringeva il presidio a chiudersi nel Castello; Catania fremeva; si formavano squadriglie. 
In Palermo intanto si succedevano dimostrazioni, qualcuna veramente grandiosa: il Comitato rispondeva al Governo: il Re sostituiva il Castelcicala col generale Ferdinando Lanza, palermitano, vecchio, ma non atto alle circostanze.
Saputa intanto la marcia di Garibaldi, il Comando generale, intuendo che egli intendesse piombare in Palermo da Monreale, spiegò le truppe regie intorno alla città e ordinò al Colonnello Von Meckel coi Bavaresi rinforzati da altre truppe, di muovere su Monreale...


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. 
Pagine 511 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: La battaglia di Calatafimi (15/05/1860) e le vittime siciliane dimenticate... Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Dopo la battaglia si ebbe doverosa premura di rac­cogliere devotamente i nomi di quelli dei Mille che cad­dero morti o feriti: ma non si fece altrettanto di quelli dei Siciliani che furono loro pari in valore e in sacri­ficio. Or bene, le pubblicazioni fatte nel 1910 ci mettono in grado di supplire, benchè tardi, alla ingiusta dimen­canza. Sul colle di Calatafimi, dei Siciliani che si batte­rono, morirono Carlo Bertolino, Sebastiano Colicchia, Francesco Agosta; vi furono feriti Stefano Sant'Anna, Antonino Barraco, Ignazio Pandolfo, Nicolò Messina, Giuseppe Catalano, un Cangemi, Carmelo Rizzo, Vito La Porta. Altri morti e feriti ebbe la squadra del Cop­pola, dei quali non si conoscono i nomi. E non son tutti; chè quei nostri antichi, modesti e silenziosi, ritrattisi nell'ombra non vantarono l'opera propria nè curarono di tramandare l'altrui. Molti morirono dimenticati. E del loro valore non mancano prove segnalate: Giacomo Cura­tolo-Taddei fu promosso tenente il giorno dopo il com­battimento: il Colicchia morì colpito in bocca, mentre si slanciava per strappare all'alfiere napoletano la ban­diera; Simone Marino, o fra Francesco, fu il primo a lanciarsi per prendere il cannone nemico, e se ne diè vanto solo al Cariolato e al Meneghetti, che erano con lui. V'eran fra combattenti siciliani giovanetti di quin­dici anni, come Antonino Umile di Marsala: e perfino una donna, Maria Giacalone, la quale volle seguire il 
marito, Federico Messana, e con lui fece poi tutta la campagna e a S. Maria di Capua fu promossa capo­rala. E tutto ciò consta da documenti e testimo­nianze.
Ora rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.
Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia. 
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lunedì 16 maggio 2022

Luigi Natoli: Il giuramento di Andrea Lo Bianco alla setta dei Beati Paoli. Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano.

Due uomini intabarrati in modo irriconoscibile uscivano dalla Conce­ria e, attraversata la strada Nuova, si cacciavano nella strada dei Candelai, non senza prima essersi guardati in­torno, con l’aria di persone che non amano esser seguite. Quando parve loro di essersi allontanati alquanto, co­sì da non poter essere più veduti dagli insoliti frequentatori della bella stra­da, lasciarono l’andatura di gente che va pe’ fatti suoi, e si affrettarono come chi teme di giungere tardi.
Piegarono per la piazza del Monte di Pietà, e tiraron via per la strada Lettighe, fin presso la chiesa dei “Canceddi” ossia dei vetturali, volgarmente intesa col nome di Santa Maruzza: ivi si fermarono. Uno dei due trasse le mani di sotto al man­tello, dicendo:
- Abbiate pazienza: lasciatevi ben­dare.
L’altro non si oppose. Il primo gli legò un fazzoletto sugli occhi e lo pre­se per mano, aggiungendo:
- Venite sicuramente.
Si avvicinò a una porticina bassa, tarlata, sdrucita, e raschiò con l’un­ghia, leggermente, come un gatto. Dal­l’interno, dopo un breve intervallo, ri­spose un altro raschìo. L’uomo allora modulò un leggero fischio. La porta si aprì silenziosamente; l’uomo prese per mano il bendato, lo trasse a sé nel vano nero, e profondo, dicendo:
- Venite. Badate, c’è un gradino...
La porta si richiuse dietro a loro. 
Percorsero un breve corridoio, in fondo al quale un’altra porticina si aprì con lo stesso mistero. Entrarono in un cortiletto, in mezzo al quale nereggiava nella notte un albero contorto. Il pavimento risonò nella notte sotto i loro passi, come se fosse stato vuoto. 
Discesero infatti alcuni scalini; il bendato sentì che l’aria si faceva umi­da e sapeva di muffa; infatti la scala scendeva per un passaggio scavato nel tufo che grommava qua e là, e ren­deva lubrico il terreno. Una lucernet­ta, posta in una piccola nicchia sca­vata nella parete, spandeva una luce appena sufficiente per lasciar indovi­nare gli scalini. Ai piedi della scala si fermarono.
Lasciò il bendato in una specie di sala, e picchiò cinque colpi a una por­ta. Una voce dall’interno sussurrò delle parole misteriose, che il guidatore con­traccambiò; la porta si aperse ed egli entrò in una stanza illuminata da lan­terne infisse al muro. Alcune voci lo salutarono.
In fondo alla stanza v’era una spe­cie di altare di pietra, sul quale sorgeva un Cristo in croce, fra due candele accese, e a piè della Croce era aperto un libro. Dinanzi all’altare, c’era un tavolino, al quale sedevano tre uomini mascherati, vestiti di una specie di sacco nero: di qua e di là sopra scran­ne sedevano altri sei uomini, anch’essi insaccati e mascherati. Sotto le ma­schere nere gli occhi brillavano sini­stramente.
Zi’ Rosario s’avvicinò alla parete, cacciò le mani in una nicchia, ne ca­vò un involto, e un istante dopo an­ch’egli vestito del sacco e mascherato non fu più riconoscibile degli altri. Allora quegli che pareva presiedere l’adunanza fece un segno: uno dei sei si alzò e uscì; per rientrare quasi subito, traendo per mano l’uomo bendato.
- Dategli la luce – ordinò il capo. 
La benda fu tolta e apparve il vol­to attonito e commosso di Andrea. Il passaggio repentino dalle tenebre alla luce per un minuto gli tolse la per­cezione esatta dell’ambiente; poi a po­co a poco si assuefece, e nel momento di silenzio che regnò nella stanza guardò con stupore il luogo in cui si trovava, quasi non persuadendosi che nel cuore di Palermo si trovassero di quelle caverne, che, non infrequen­ti nei dintorni della città, il popolo attribuiva ai saraceni. La stanza era scavata nel tufo, con un certo cri­terio d’arte; aveva il tetto a volta, e nelle pareti qualche nicchia. V’erano presso l’altare vestigia d’intonaco, ma l’umidità l’aveva scrostato: si sentiva che quella grotta si trovava nel sottosuolo. 
Il capo domandò: 
- Voi vi chiamate Andrea Lo Bianco?
- Illustrissimo, sì.
- Qui non vi sono illustrissimi; vi sono fratelli.
Il capo tacque un minuto, indi riprese con voce solenne e commossa: 
- Andrea Lo Bianco, tu sei entrato in un luogo nel quale nessun profano ha messo mai il piede; ma ciò impegna la tua vita forse in un modo che tu non immagini. Sei tu sicuro di mantenere le tue promesse? Se non lo sei, dichiaralo: sarai accompagnato nel modo stesso col quale sei venuto, e sarai lasciato libero; noi abbiamo fiducia nel tuo silenzio; ma se dichiari di esser sicuro, bada, Andrea Lo Bianco, che non ti concederemo più di ritirarti, e che accanto, dietro a te, in strada, in chiesa, nella tua casa stessa vi sarà sempre invisibile e infallibile il braccio vendicatore della nostra giustizia...
Andrea rispose: 
- Io ho fede in voi; abbiate voi fede in me. Voi siete qui per la giustizia, io per la vendetta. Voi mi avete salvato, e siete padroni della mia vita: io pongo tutto me stesso al servizio vostro. 
- Sta bene. Fratelli, a voi. 
I sei uomini mascherati si levarono e circondarono Andrea; a un cenno tutti nel­lo stesso tempo trassero dal nero sac­co che li copriva un lungo e affilato pu­gnale, e gliene fecero balenare la pun­ta agli occhi: due di loro poi, rapida­mente, afferrarono Andrea, gli denu­darono il braccio sinistro, e con la punta del pugnale vi scolpirono una piccola croce. Il sangue fiorì sul brac­cio nudo. Allora uno dei tre che sedevano al tavolino si alzò, prese il libro dai piedi del Crocifisso, lo pose sul tavolo, cavò da una scatoletta una penna, e, intintala nel sangue, la porse ad Andrea.
- Andrea Lo Bianco – riprese il capo – questo libro contiene i san­ti evangeli e le lettere del santo apo­stolo Paolo. Apponi la croce col tuo sangue su questa pagina; e giura di obbedire ciecamente a quanto ti verrà imposto; giuralo pei santi evangeli, pel santo apostolo Paolo, pel tuo sangue, che sarà versato a stilla a stilla; giura che serberai il segre­to di quanto udrai e vedrai; e che nè tortura nè allettative ti strapperanno dalla bocca un solo accenno; giura che il tuo corpo e l’anima tua apparterranno ora e sempre a questa venerabile società dei Beati Paoli, in servizio della giustizia, in difesa dei deboli, contro ogni prepotenza e violenza di governo, di signori, di preti. 
Andrea con mano ferma tracciò una grossa croce, a piedi della pagina che gli si mostrava, e disse:
- Lo giuro; e che questa croce scritta col mio sangue segni la mia sentenza se io verrò meno all’obbligo mio. 
- Che Dio t’assista e il Beato Pao­lo apostolo ti armi del suo zelo, e ti dia la sua spada! Ora rispondi. Tu eri al servizio del duca don Emanuele?

Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Nell'unica versione originale pubblicata dall'autore con la casa editrice La Gutemberg nel 1931. 
Pagine 938 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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Luigi Natoli: I preparativi per l'entrata ufficiale di Vittorio Amedeo II a Palermo - Tratto da: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano

Il discorso cadde sugli archi di trion­fo che per commissione del Senato e delle varie corporazioni e “nazioni” si dovevano costruire e decorare per l’entrata ufficiale di Vittorio Amedeo II, che sarebbe avvenuta negli ul­timi dell’anno.
Si sapeva che il duca di Savoia era partito dai suoi stati e veleggiava per la Sicilia, dove sarebbe arrivato in quei giorni per prender possesso del regno, intanto che si sarebbero fatti i pre­parativi per la decorazione. La depu­tazione del regno, il Senato, le cor­porazioni, le “nazioni” – come si chiamavano allora le colonie di paesi d’oltre il regno – si erano dunque po­ste all’opera, perchè le feste per la coronazione del Re fossero quanto mai magnifiche e solenni.
Dalla venuta di Carlo V nel 1535 fino allora nessuno dei Re che si era­no succeduti avevano mai posto piede nell’isola; nessuno era stato coronato nell’antico e nobile duomo, con la co­rona di Ruggero e Federico II: il regno s’era sentito quasi mortificato dalla trascuratezza dei suoi monarchi lontani, ai quali pur mandava larghi e generosi donativi.
Ecco invece che Vittorio Amedeo rinnovava gli antichi fasti. Egli veni­va a farsi coronare dal metropolitano di Palermo, nell’antica sede della mo­narchia più gloriosa dell’Italia, veniva a ridar lustro all’antica reggia dove Federico II aveva accolto il fiore di ogni gentilezza e donde aveva qua­si imposto la sua volontà all’Europa. Ce n’era abbastanza per destare pal­piti e speranze in tutti, ed eccitare l’orgoglio cittadino dell’antica capi­tale.
Tutta Palermo era in festa! Tutta Palermo si apparecchiava.
Un geniale e gentil pensiero aveva spiritualizzato un atto di cortigiane­ria; il Senato infatti aveva pensato di ornare il Duomo per la cerimonia dell’incoronazione di una serie di grandi quadri d’occasione, a tempera, rappresentanti i fasti della vita e del regno di Vittorio Amedeo; affidandoli ai pittori più noti che allora fossero in Palermo. Il Bongiovanni, il fiammin­go Borremans, don Antonio Grano era­no fra questi.
Il discorso cadde sugli avvenimen­ti politici di quegli anni. Ricordavano la lunga serie di supplizi seguiti dopo il 1708: frate Ignazio Vulture che so­gnava la repubblica, don Prospero Fial­di, che voleva cacciati via Francesi e Irlandesi; don Antonino Guerreri, giudice del Concistoro, perchè aveva dato ricetto a un presunto ribelle; l’ere­mita di S. Matteo che parteggiava; nelle sue prediche, per gl’imperiali, e il pittore Ganguzzo coi figli e col suocero, gente valorosa, macchinatori di congiure; e mastro Agatino Quaranta, console dei terrori; ed altri ed altri quali impiccati, quali de­capitati e i cadaveri esposti a ludibrio, con cartelli infamanti. Erano le ultime vittime che il moribondo dominio spa­gnolo sacrificava a se stesso.
Quel­la mattina 10 ottobre erano arri­vati i trenta vascelli inglesi e genove­si che conducevano Vittorio Amedeo, la sua Corte, il suo seguito nella capi­tale del regno. Approdati dapprima al­l’Arenella, e ricevuta la visita dell’arcivescovo, e poco dopo quella di al­cuni signori e de’ due deputati del Senato, le navi verso sera avevano gittato l’ancora nel Molo grande, e il re aveva manifestato la sua volontà di sbarcare il giorno dopo verso ven­titrè ore d’Italia.
Tutta la giornata un esercito di ar­tigiani aveva febbrilmente atteso ad addobbare il ponte di sbarco alla Ca­la, e i quattro archi nella piazza Vil­lena; ed ora seguitava al lume di tor­ce e di fiaccole a terminare il lavoro prima di giorno. Un via vai di carri e di baroccini, un risonar di martellate, e grida e rumori confusi, che la notte aumentava, si diffondeva pel Cassaro, intensificandosi ai Quattro Canti, echeggiando su tutta la città, chiamando i curiosi. 
L’idea di avere un re proprio ave­va infuso nelle mani l’entusiasmo delle anime. Nel fervore di quegli artigia­ni, nella curiosità stessa dei cittadini, che invece di andare a dormire se ne stavano ai Quattro Canti o alla Cala, a veder lavorare, quasi incorando con la loro presenza a far presto e bene, c’era del patriottismo. Coloro che dor­mivano quella notte avevano il sonno lieve e dolcemente ansioso.
Non eran quelli i preparativi del solenne ingresso e per la coronazione, che richiedevano un tempo più lungo e un maggior lavoro; tuttavia basta­vano a mettere in brio e in moto la città.
L’attenzione era così attirata verso i due centri di maggior lavoro, e la frequenza delle persone, anche in quel­l’ora insolita, era tale che nessuno po­teva maravigliarsi di incontrare altra gente per le strade...


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano. 
Nell'unica versione originale pubblicata dall'autore con la casa editrice La Gutemberg nel 1931. 
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Luigi Natoli: L'artista palermitano Giacomo Serpotta nel romanzo de I Beati Paoli. Romazo storico siciliano.


Quella stessa mattina, all’ora stessa in cui padre Bonaventura andava dal duca della Motta, il pittore don Vin­cenzo Bongiovanni se ne stava nel suo studio, appollaiato al sommo di una scaletta di legno portatile, dinanzi a un’ampia tela segnata a carbone, sulla quale stendeva larghe pennellate azzurre, che, a giudicare da un boz­zetto infisso sopra un asse accanto al­la tela, e che rappresentava il sog­getto della grandissima tela, dovevano diventare un cielo qua e là sereno, offuscato altrove da folte nubi, salienti della terra.
Sotto la scaletta, una graziosa fan­ciulla, col capo coperto di uno strano berrettino, attendeva a stemperare dei colori, dentro vasetti, con la sicurez­za di chi ha lunga consuetudine.
Lo studio era vasto, un po’ disor­dinato, come tutti gli studi dei pit­tori, con le pareti piene di disegni, di schizzi, di bozzetti, quali dipinti, quali a sanguigna, quali segnati col carbone, a grossi tratti, che talvolta si sovrapponevano, s’intersecavano, si confondevano. Attaccati a chiodi, rit­ti su mensole, biancheggiavano sul fon­do grigio delle pareti i gessi grandi e piccoli; calchi e riproduzioni di teste e di statue antiche e del rinascimento; e qua e là armi e pezzi di stoffe e ta­volozze imbrattate di colori, uno spec­chio dalla cornice dorata sopra una mensola dai piedi curvi a grandi vo­lute.
Un tavolo pareva gemesse sotto il peso di cartelle e disegni e stampe; e altre cartelle sopra seggioloni e sga­belli e per terra. In un angolo, il più discreto di ombre e di raccoglimento, ardeva dinanzi a una immagine sacra una lampadina ad olio. Sotto la gran­de finestra, donde entrava la luce tem­perata, su uno di quei canapè impa­gliati, dalla spalliera dipinta, stava se­duto un uomo maturo, asciutto di mem­bra, con gli occhi vivacissimi, che te­nendo sul ventre una chitarra vi la­sciava sbadatamente or sì or no, scor­rere leggermente il pollice traendone vibrazioni dolci e quasi sospiro­se come gemiti: e un altro più vec­chietto annusava tabacco, voluttuosa­mente, socchiudendo gli occhi.
Erano anch’essi due artisti, noti, an­zi celebri in Palermo, il primo dei qua­li, quello che pizzicava la chitarra, do­veva salire, qualche secolo dopo, ai fastigi della gloria, si chiamava ma­stro Giacomo Serpotta, e aveva in quel tempo giocondato più chiese e cappelle dei suoi maravigliosi e insuperabili putti; l’altro era don Anto­nio Grano, pittore come il Bon­giovanni.
- Oggi come oggi – diceva annu­sando – non ho proprio voglia di tirare una linea. Fa troppo caldo... Me ne andrei a Maredolce o allo scoglio di Mustazzola...
Successe un momento di silenzio. Giacomo Serpotta accennò un arpeg­gio, poi disse al Grano:
- E il vostro quadrone a che pun­to è?
- Va innanzi. Fra quindici, mettia­mo anche fra venti giorni, potrò consegnarlo... Non sono contento del­la testa del duca di Savoia...
Nuovamente si fece silenzio, nel quale risonarono gli arpeggi dell’insi­gne scultore. Poi il Grano si alzò e tolse commiato. Pareva infastidito. La giovanetta seguitava a sciogliere le tin­te nei vasetti, provandone qualcuna so­pra un pezzo di carta. Giacomo Ser­potta la guardava socchiudendo gli occhi, seguendone le graziose movenze.
- Ma sapete – disse – che vo’ modellare la mia statua della Scienza per l’Oratorio di Santa Cita, sulla vo­stra figliuola?
La fanciulla si voltò arrossendo e sorridendo. Il grande artista in quei tempi aveva incominciato la decora­zione dell’Oratorio di Santa Cita, quel meraviglioso saggio della fantasia e dell’arte sua unica e inimitabile. Gia­como Serpotta non aveva ancora ses­sant’anni, era nel pieno rigoglio del­l’arte, e aveva popolato chiese e ora­torii di quei suoi putti giocondi e originalissimi, e di quelle sue figure sim­boliche, eleganti e piene di grazia, del­le quali egli stesso non conosceva for­se l’altissimo valore. Figlio dell’arte – il padre era stato scultore o mar­moraro, come si diceva – dopo aver prodotto qualche ardita opera di getto, e fornito disegni ad altri scultori – s’era gittato alla decorazione con lo stucco, trasportando quest’arte, fino allora umi­le, ad altezza non mai raggiunta, nè prima, nè dopo di lui. Le movenze della fanciulla, graziose e nel tempo stesso composte e non senza una cer­ta nobiltà, gli suggerivano forse qual­che motivo per la sua statua.
Giacomo Serpotta, questo umile fi­glio dell’arte, e pur così alto inten­ditore dell’eleganza e della grazia femminea, aveva una speciale predilezio­ne per la fanciulla, che aveva, si può dire, visto nascere. Adesso, nel ve­derla così seria, e così intenta, e for­se pensosa, aveva repentinamente ve­duto in lei la forma di un suo oscuro concetto, e se ne era dilettato.
- Come mai – disse il Bongio­vanni, senza staccar gli occhi dalla tela – come mai non v’hanno affidato la direzione degli apparati, e una co­sa che ancora non mi persuade, un arco di trionfo!...
Giacomo Serpotta alzò le spalle con noncuranza.
- C’è tanti scultori e architetti; – disse – volete che pensino a uno stuccatore?
Allora Pellegra si voltò vivamente, e, venendo dinanzi al grande artista, esclamò: 
- E dove lo trovano in tutta la Sicilia uno scultore che vi stia a  paro?
Giacomo sorrise.
- Oh! c’è il Vitagliano...
- Ah! sì, il Vitagliano, che si fa dare da voi i disegni delle sue sta­tue... e qualche volta anche i model­li!... Ah! ah!... 
(Nella foto: l'oratorio di Santa Cita in Palermo)


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