Il
signor Girolamo Stetella, barone di Mongellino e capitano d’arme, ordinato dal
Vicerè per comporre il dissidio tra i Luna e i Perollo, dormiva ancora, nella
sua dimora, quando uno degli algozini precipitosamente e rovesciando i servi,
irruppe nella camera. La
baronessa, destata di soprassalto, si alzò sui gomiti, spalancando gli occhi ancor
sonnolenti; nel disordine della mossa camicia, cadendo, denudavale il petto
bianco e marmoreo.
Il
barone stese le mani su la spada.
-
Che cosa c’è? Che cosa c’è?...
-
C’è, magnifico signor capitano, che il conte don Sigismondo entra in Sciacca
con una folla di uomini d’arme... un vero esercito!...
-
Il conte?... un esercito?... Per San Girolamo, questa è tracotanza!... Su,
radunate la Corte, io mi vesto.
Mentre
l’algozino usciva, il signor Capitano balzava dal letto, infilava le brache, le
calze, il giustacuore; e la signora baronessa, pallida ma ferma, in camicia
innanzi a lui, lo aiutava, gli abbottonava il giustacuore, gli porgeva la
spada, gli legava i nastri; e intanto dalla strada saliva un rumore sordo, il
brontolìo d’una minaccia cupa, simile al gorgoglio dei cavalloni, quando alti e
spumosi si avanzano verso il lido.
Sentirono
quel brontolio arrestarsi innanzi alla casa, circondarla, investirla; poi
crescere, come per nuovi rumori che si aggiungevano ai primo; si distingueva un
vocìo confuso, aspro, collerico, misto a suono d’armi, a rotolare di carri. Poi
su quel tramestìo, si sentì chiaro e distinto lo strepito dei catenacci e delle
stanghe che sprangavano di dentro la porta.
Il
barone di Mongellino era rimasto in mezzo alla camera col cappello in mano e
gli orecchi intenti, turbato da quel rumore che si ostinava intorno alla sua casa;
la baronessa che s’era gittata indosso una veste, stava ancora col braccio
teso, infilato in una manica, guardando il marito.
-
Ma che cosa mai succede?
Il
barone non rispose; si appressò a una finestra, e guardò: impallidì, e senza
poter frenare un moto di spavento, gridò:
-
Ma che vogliono da me?
Allora
aperse l’uscio e chiamò gli ufficiali della sua corte. Accorse lo scrivano
pallido e tremante, balbettando:
-
Magnifico signore, siamo presi!... siamo presi!
Difendersi!...
Era una bella parola. Come difendersi dalla furia di quei demonii? Gli
algozini, gli schivani, i servi, si erano difesi alla meglio; ma Giorgio Comito
e i suoi Albanesi avevano sfondato la porta, ed avevano invaso la scala.
Altro
scampo non era rimasto che abbandonare la casa, e, trascinando il barone e la
baronessa, ritirarsi nella torre che sorgeva accanto.
Da
una finestra della torre il barone di Mongellino assisteva al saccheggio della
casa sua. I ribaldi erano entrati nell’ufficio, manomettendo i processi e le
informazioni. Allora più che il timore della vita, potè il suo onore di capitan
d’armi e di giudice, e appoggiate le mani al davanzale cominciò a gridare:
-
Lasciate!... lasciate stare!... Badate a voi sarete tutti impiccati... È uno
sfregio a Sua Maestà... Che cosa dirà l’Imperatore? Siate buoni... Quelli sono
processi... Ritornate a casa; non mi costringete a punirvi... io son qui per la
giustizia... In nome di sua Maestà l’Imperatore, andate, sgombrate... Ma che
città è questa? Ma non ci sono giurati? Ma non c’è alcuno?... Ma voi siete
diavoli?
Ma
quelli sghignazzavano, e mentre rompevano i forzieri, intascavano le somme,
saccheggiavano e devastavano ogni cosa, e laceravano e bruciavano i processi,
gli rispondevano:
-
Toh! Senti come canta! Ah! ah! e per la giustizia dell’Imperatore che
l’illustrissimo è a Sciacca?...
E
si precipitaron per le scale, brandendo gli archibugi, stringendo le scuri,
scotendo in alto le picche, in tumulto, investendosi, urtandosi, per arrivare
più presto.
La
torre era alta, quadrata, solidamente sbarrata per di dentro; dalle finestre,
dalle feritoie, dai merli, gli algoziri cominciarono a tirare sugli assalitori
coi pochi archibugi che possedevano. Gli scrivani, inesperti al maneggio delle
armi gittavan dall’alto sedie, banchi, tegoli, tutto ciò che capitava nelle
loro mani: il barone di Montellino, costernato, cercava di ammansare gli
assalitori, predicando dalle finestre, che egli era il rappresentante
dell’Imperatore; ma la ciurmaglia, inferocita dalla resistenza, esasperata
dalle percosse, copriva la voce del Capitano con urli e imprecazioni. Qua e là
rosseggiavano intanto le vesti e le armi per le ferite; Giorgio Comito aveva
ricevuto un sasso sulla fronte, e così lordo di sangue come era, gridava ai
suoi:
-
Ma che ci fate costì, con le mani tra le brache? Sfondatemi quella porta,
vigliacchi! Che vi fareste ammazzare come galline!
Allora
i colpi di scure risuonarono più spessi e più vigorosi su la porta; e dall’alto
la pioggia rinfittì, ma per poco; i difensori non avevano più munizioni; cedevano;
la masnada di Giorgio Comito si accorse che la difesa cessava, e levò un urlo
di gioia feroce. Alcuni trovato un trave, con quello percossero sì
vigorosamente la porta, che tutta la torre ne tremò. Al secondo colpo i
gangheri si staccarono; al terzo le pesanti imposte, fracassate, precipitarono
con orribile fragore.
Il
signor Gerolamo, con la spada in pugno, pallido ed esterrefatto stava nella
sala fra alcuni algozini. Gli scrivani s’erano appiattati qua e là; alcuni
avevano tentato di fuggire dalle finestre, buttandosi da grande altezza. La
baronessa accanto al marito, bianca ma, aveva sentito il rimbombo dei colpi di
trave, e indovinato tutto. A ogni colpo sentiva stringersi il cuore in una
morsa ghiacciata; poi sentì il fracasso della porta caduta, il grido di gioia
feroce degli assalitori, il tumultuoso montare per la scala.
Quattro
o cinque ceffi si presentarono all’ingresso della sala, armati di picche e
spade. Allora il barone, voltosi agli algoziri e ad Antonio Margeri, che gli
stava a lato, gridò:
-
Se s’ha a morire, almeno vendichiamoci!...
E
si precipitò innanzi, roteando la spada, e stornando i colpi che gli assalitori
vibravano. Ma dalla scala montavano e montavano ancora altri e più inferociti,
spingendo quelli che c’erano avanti; due o tre caddero feriti mortalmente dal
signor Gerolamo; un algoziro cadde con la fronte spaccata; in breve la stanza
fu piena di uomini, il pavimento rigato di sangue e sparso di armi; scoppiò
qualche colpo d’archibuso; la stanza s’empì di fumo.
In
mezzo all’urto delle armi, tra il disperato difendersi e il feroce assalire,
tra i rantoli dei feriti e le bestemmie dei combattenti, la baronessa di
Mongellino, bianca e serena, con una spada in mano, cercava di parare i colpi
al marito.
Giorgio
Comito si fece innanzi, gittandosi come una belva addosso al barone; le due
spade scintillarono, guizzarono, sibilarono; Giorgio Comito con una mossa
abilissima disarmò il barone; questi mandò un grido di rabbia, quegli un grido
di gioia, ed allungò una stoccata.
Molte
lame nel punto stesso balenarono contro il petto del barone di Mongellino; ma
nel vibrare non i muscoli forti dell’uomo incontrarono...
Luigi Natoli: – La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. Raccolta di leggende trascritte dal volume originale Storie e leggende, pubblicato in Palermo dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Alla raccolta è stata aggiunta la novella "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia nel 1910 con pseudonimo di Maurus, "Un poemetto siciliano del secolo XVI" estratto dagli Atti della reale accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (serie III - vol. IX - Palermo 1910) e "Storia della Baronessa di Carini (sec XVI) estratto da "Musa siciliana" con note dell'autore - Casa editrice Caddeo 1922. Il volume raccoglie quindi, a parte le altre leggende su famosi "casi" siciliani, tutto quanto Luigi Natoli scrisse sul famoso "caso" della Baronessa di Carini.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 310 – Prezzo di copertina € 21,00
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