martedì 28 marzo 2023

Luigi Natoli: Don Raimondo Albamonte, duca della Motta. Tratto da: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano.

Fra gli ultimi a rientrare nella gran sala del palazzo, dove sua eccellenza faceva servire dei rinfreschi, fu un giovane cavaliere di aspetto fine e delicato, ma, forse, troppo serio. Si chiamava don Raimondo Albamonte. Non aveva ancora trenta anni; era alto, snello, nervoso; il volto pallido, ma come invaso da una nube fosca, che poteva parer tristezza, se certo improvviso lampeggiar degli occhi non avesse fatto pensare al corruscar dei lampi lontani in un cielo nuvoloso. Le labbra sottili si disegnavano appena; e la bocca pareva piuttosto una lunga ferita non ancor rimarginata: due lievi e bruni baffetti vi distendevano una piccola ombra; ma le mani e i piedi parevan quelli di una fanciulla: le sue mani bianchissime, piccole, sottili, affilate, dalle unghie rosee, ellissoidali, si confondevano e quasi sparivano tra i pizzi finissimi delle sue manichette. Egli pareva se ne tenesse; aveva infatti un gesto molle e grazioso per mettere la mano in mostra; sollevandola per discostar dalla fronte i riccioli della parrucca che la moda francese andava diffondendo. 
Con tutto ciò egli non aveva nulla di femmineo. Forse esaminando bene l’angolo della mascella e la curva della bocca, un occhio scrutatore d’anime avrebbe potuto sorprendervi una certa durezza fredda ed egoistica; forse qualora di felino, pazienza cioè e ferocia; ma per la comune delle persone egli era un bel giovane un po’ antipatico. 
Egli era fratello cadetto del duca della Motta, e vantava tra i suoi maggiori quel Guglielmo Albamonte, che era stato tra i sedici campioni italiani di Barletta, e che insieme con Francesco Salomone era stato fra quelli che avevano assicurato la vittoria italiana: ma del vanto poteva gloriarsi più il duca suo fratello che lui, don Raimondo. Infatti il duca colonnello di un reggimento, dopo una breve dimora in Palermo, era ripartito da circa otto mesi per la guerra; mentre don Raimondo che avrebbe potuto benissimo comprare almeno una compagnia e formarsi uno stato, aveva preferito gli studi, ed aveva conseguito la laurea dottorale a Catania, la sola università che in Sicilia, allora, conferiva la laurea in giurisprudenza. 
Aveva qualche ambizione? Era così chiuso, così impenetrabile che nessuno aveva mai potuto sorprendere in lui una qualche aspirazione; ma certo aveva nei modi e nella parola qualcosa di imperioso una specie di gesto dominatore, maggiore di quanto lo comportasse la sua condizione di cadetto. Ma non pareva volesse entrare nella magistratura. Nobile, fratello di un ufficiale di sua maestà, che aveva combattuto in quelle guerre, di cui quel giorno si celebrava la fine, era stato invitato da sua eccellenza il vicerè, per godere lo spettacolo della cerimonia dal Palazzo Reale; ed era rimasto in un canto del lungo loggiato, col gomito appoggiato alla ringhiera e gli occhi vaganti su quel mare di teste che ondeggiava nel vasto piano, forse senza percepire nulla. La mattina un amico venuto da Napoli con una tartana gli aveva recato una notizia che l’aveva rimescolato, come un sasso che, cadendo improvviso nel fondo limaccioso di un pozzo, turbi la limpidezza dell’acqua, facendo assommare la belletta. Forse lì, dinanzi alla vasta piazza, alla vista di quei soldati, la notizia lo aveva nuovamente conturbato; perchè egli era rimasto al suo posto silenzioso, quando tutti erano rientrati, né si era accorto di esser solo se non quando un valletto gli si avvicinò con un vassoio per offrirgli delle confetture. 
Rientrò e si avvicinò al duca di Veraguas, serbando il suo contegno freddo e serio, e si mescolò al gruppo di signori che in quel momento parlavano con sua eccellenza degli effetti di quella pace, nella quale qualche politico ravvisava già preparata la futura successione del regno di Spagna. Il vicerè si accorse del cavaliere Albamonte e gli fece un cenno di benevolenza; e come don Raimondo gli fu dinanzi, gli rivolse la parola. 
- E la signora duchessa?
- Vostra eccellenza sa che si trova già prossima... 
- Mia cognata è grandemente grata dell’onore che sua eccellenza le ha fatto... Io l’ho lasciata che pareva si disponesse, per cui mi è parso prudente avvertire la signora Anna, la mammana...
- Il duca deve esser soddisfatto di aver affidato alle vostre cure la signora duchessa...
- Crede vostra eccellenza?
- Come no!...
- Gli è, eccellenza, che stamattina ho ricevuto una notizia assai cattiva; ed ero quasi per chiedere la grazia di dirmi se vostra eccellenza ha ricevuto lettere sul proposito...
- Quale proposito?
- Sul conto del mio signor fratello, il duca della Motta...
- Nessuna. L’ultimo corriere non faceva alcuna parola di vostro fratello; che notizia avete ricevuto, e da chi?
- Dal cavaliere fra Marcello d’Oxorio, venuto da Napoli stamane con una tartana; il quale aveva saputo a Roma, da persona dell’ambasciata di sua maestà Carlo II, Dio guardi, che il duca mio fratello forse è morto. 
- Oh, non è possibile! 
Don Raimondo parve rassicurarsi: infatti quelle ragioni erano abbastanza convincenti, e la notizia così come gli era stata data, senza alcun particolare, poteva essere, anzi aveva tutta l’aria di una invenzione. Tuttavia qualcosa, come un dubbio, gli rimaneva in fondo al cervello. 
“E se fosse vero? se l’ambasciata di Spagna aspetta la partenza del corriere di Roma per mandare la notizia ufficiale?”
Era evidente che fra Marcello de Oxorio, cavaliere di Malta, e in relazione con la società spagnuola e con l’alto clero di Roma, aveva attinta la notizia, per quanto imperfetta, a una fonte sicura: e di duchi della Motta, colonnelli di sua maestà cattolica, non ve n’era certo una dozzina. Egli non riceveva notizie del fratello da circa tre mesi; tempo abbastanza lungo, che aveva tenuto e teneva in angustie la duchessa donna Aloisia; e perchè le azioni di guerra erano già finite da oltre quattro mesi, non si capiva perchè il duca non avesse mandate sue notizie e non avesse avvisato il suo prossimo ritorno. 
“Se veramente mio fratello fosse morto?”
In verità il dubbio per quanto tormentoso, non sembrava che toccasse in lui le corde della tenerezza fraterna. Un lieve corrugar di sopracciglia, rivelava appena un pensiero insistente; ma nel rimanente il suo volto era impenetrabile. 
Dopo un istante, don Raimondo tolse congedo, e se ne andò. 


Luigi Natoli: I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano.
L'opera è la trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1931 (ultima edizione mentre l'autore era ancora in vita) e quindi scevra da tutte le profonde modifiche al testo apportate nelle successive edizioni, dopo la morte dell'autore. 
Copertina e disegni di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 25,00
Il volume è disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Potete contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 345716697 o al whatsapp 3894697296. 
Il volume è inoltre disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

sabato 25 marzo 2023

Luigi Natoli: 25 marzo 1941 - 25 marzo 2023

Caro professore, 

ricorre oggi l'82° anniversario della tua morte.
Ma è solo un anniversario: tu continui a vivere, e vivrai sempre negli innumerevoli scritti che hai lasciato al tuo pubblico. Romanzi storici che appassionano i lettori e che fanno conoscere la storia , scritti sul risorgimento siciliano che dipingono in modo chiaro e senza filtri i veri fatti di cui furono protagonisti i nostri padri, eroi ingiustamente archiviati in polverosi dimenticatoi e da te messi in luce con maestria. 
Tantissimi sono gli scritti della tua gigantesca e maestosa opera: tu diresti "fiera". 
Noi Buoni Cugini, con ogni sforzo e con orgoglio portiamo avanti l'opera di pubblicazione dei tuoi scritti, quelli lasciati da te, con la Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli.
Quando finiremo? Chi sa. 
Scopo di tutto questo è renderti immortale. E di questo siamo sicuri che siamo riusciti e riusciremo. 
Grazie, caro professore, per l'immenso patrimonio di cultura che ci hai lasciato e per il grande significato che hai impresso alla nostra opera di editori. 
 
I Buoni Cugini editori 
Anna Squatrito e Ivo Tiberio Ginevra 

martedì 14 marzo 2023

Luigi Natoli: Salvatore Spinuzza, che il 14 marzo 1857 lasciò la vita sotto il piombo borbonico. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860



L’insuccesso del Bentivegna non fu noto in Cefalù, dove i fratelli Botta e i Guarneri, il 25, levatisi in arme, liberato dal carcere Salvatore Spinuzza, anima della cospirazione cefalutana, lo fecero capo della rivolta, che tentarono di propagare nei comuni di quel distretto. Non trovaron seguito neppur essi; e so­praggiunte le milizie regie con navi da guerra, Cefalù ritornò subito all’obbedienza, e gli insorti dovettero sbandarsi.
Più sventurato fu Salvatore Spinuzza. Fuggiasco coi fratelli Botta, con Alessandro Guarneri e Andrea Maggio, errarono insieme di nascondiglio in nascondiglio, cacciati come lupi dalla sbirraglia guidata dai capitan d’arme Gambaro e Chinnici e dall’ispettore Baiona, tristissimi fra’ tristi. Seppesi finalmente il loro nascondiglio da una lettera intercettata; e allora il Chinnici e il Baiona accorrono coi compagni d’arme, battono i tamburi, armano la guardia urbana, con le campane a stormo raccolgono contadini e borgesi di Pettineo e Motta di Affermo, li aizzano contro quei cinque generosi, additandoli come ladri, assassini, incendiari e nemici della fede; e una folla briaca di fanatismo, armata di schioppi, forche, falci, dà mano forte alla sbirraglia. Lo Spinuzza e i suoi compagni eroicamente, per nove ore, si difendono, poi, consumate le munizioni, depongono le armi, tra le grida trionfali di un nemico venti volte maggiore.
Condotti a Palermo dal tristissimo De Simone, furono sottoposti a processo e condannati a morte; la pena eseguibile pel solo Spinuzza; che ricondotto a Cefalù, con grande apparato di forze, il 14 marzo 1857, di soli 25 anni lasciò la vita e i sogni sotto il piombo borbonico. Dell’aver dato mano all’assassinio, Pettineo fu punita con le lodi prodigatele dalla polizia.
Seguirono altre condanne; ventisette furono di morte, che il governo non osò eseguire, impaurito dalle maledizioni che si levavano dal mondo civile.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento. Raccolta di scritti storici e storiografici che riproducono esattamente le edizioni originali. Il volume comprende: La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento Italiano - 1931) Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927) 
Pagine 525 - Prezzo di copertina € 24,00 
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o al whatsapp 3894697296
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 




La Collana di Luigi Natoli è disponibile presso La Feltrinelli del Centro Commerciale Conca d'Oro di Palermo

 


Luigi Natoli e la tragica fine di Caterina La Grua, baronessa di Carini. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

Appena il barone fu solo, cinse la spada, infilò i guanti di cuoio, tolse un mantello ampio e grave, il cappello e chiamò: 
- Il mio cavallo e quattro uomini montati.
Il lacchè sgranò gli occhi per la maraviglia; dove il signor barone voleva andare a mezzanotte, con quella scorta armata? Trasmise l’ordine; tosto nel palazzo silenzioso si intese uno strepito d’arme, un rumore di sproni per la scala, per l’atrio.
Poco dopo cinque cavalli facevano risonare la via silenziosa del loro trotto serrato, alla luce rossa di una fiaccola recata in mano da uno dei servi.
Parevano a quel fosco e sanguigno chiarore cinque fantasmi, usciti dal regno della morte per far vendetta di un misfatto.
Ella correva dietro al suo sogno, cercandolo tra le nubi dorate che erravano nel cielo; quando un frequente scalpitare di cavalli distolse gli occhi suoi.
Guardò giù nel piano; un gruppo di cavalieri che ella non distingueva ancor bene, saliva già la collina; uno di essi andava innanzi, incitava il cavallo, come per infondergli lena; il cavallo incurvava la nobile testa sul petto fumante, ed allungava il passo su lo scosceso sentiero che serpeggiava fra le rupi.
Donna Caterina guardava con sospettosa curiosità; chi potevano essere quei cavalieri? E quale urgenza li pungeva? E che venivano a cercare nel castello? Quando furono più vicini, il cavaliere che andava innanzi levò la testa in su. Donna Caterina trasalì; un fremito ghiacciato serpeggiò per le vene; le gambe le tremarono; stette come inchiodata dal terrore nel balcone.
Aveva riconosciuto suo padre...
I cavalli erano arrivati su la spianata; il signor barone, veduta la figliuola, aveva cacciato gli sproni nei fianchi del cavallo, levando il pugno minaccioso verso di lei. ella vide i cinque cavalieri svoltare l’angolo, e poco dopo sentì risonare i ferri sul selciato della corte. Allora fece uno sforzo, entrò nella sala, e si appoggiò alla spalliera di un seggiolone: in quel momento la porta si aprì con fracasso; il barone don Vincenzo, seguito da un bravaccio, balzò nella sala come l’avvoltoio su la colomba.
Si fermò innanzi alla figliuola, incrociando fieramente le braccia sul petto, e guardandola quasi per scoprire sul suo volto le tracce degli ultimi baci peccaminosi.
Ella tremava, pallida, atterrita, non osando levare gli occhi su quelli del padre, sul cui aspetto aveva letto chiaramente la sua condanna.
Stettero un minuto così, in silenzio, l’uno di faccia all’altra; il bravo, bieco e triste, se ne stava aspettando, su la soglia dell’uscio. Donna Caterina si sentiva venir meno; perché la sala non sprofondava, inghiottendola? Perché non moriva ella in quel punto, per sottrarsi alla vergogna, alla collera, al castigo?
Ah, ella lo sapeva bene, lo sentiva dentro di sé, perché era venuto il padre, ma furono quelle le parole che le vennero su le labbra, ed ella le disse forse per nascondersi la spaventevole risposta che le agghiacciava l’anima. E ripetè, senza sapere quello che si dicesse, fuori di sé:
- Perché siete venuto, signor padre?
- Sono venuto per ammazzarvi! – rispose il barone cupamente, e sguainò la spada.
Ella sentì lo stridore della lama uscente dalla guaina e un brivido gelato le corse per le vene: si buttò in ginocchio, giungendo le mani con una espressione disperata di preghiera e di dolore. Una rapida visione le passò innanzi agli occhi, la visione del peccato; morire senza un ultimo conforto, senza il conforto di Dio? Si risovvenne delle parole di frate Arcangelo, del tempo trascorso senza pregare, della chiesa fatta per lei un ritrovo d’amore, dello scandalo seminato, dell’infamia che pesava sopra di lei, della dannazione dell’anima... Una spaventevole visione infernale! Voleva farla morir così? Voleva dannarla a una disperazione eterna? Senza fine? Senza tempo?
- Signor padre!... – supplicò – signor padre, lasciatemi dunque confessare.
- Confessarti? – stridette con un sogghigno feroce il barone – confessarti?... domandi un confessore? E per quanti mesi non hai avuto bisogno di confessarti? Di’!
Le si accostò, sollevandole ruvidamente la testa e piantandole gli occhi negli occhi.
- Dillo! Quanti mesi sono che trascini il mio nome nel fango? Che ti abbandoni negli abbracci impuri di un mio nemico? Che insozzi la casa mia, che non conosce infamia?
Ella si coperse il volto con le mani:
- Oh abbiate pietà di me, abbiate pietà... Esterrefatta, disperata, non sapendo a qual partito appigliarsi, donna Caterina balzò in piedi, fuggendo verso le stanze. Il signor don Vincenzo le si slanciò dietro, bestemmiando, ella fuggiva verso la sua cameretta...


Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Raccolta di storie e leggende trascritte dal volume originale Storie e leggende, pubblicato in Palermo dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Alla raccolta è stata aggiunta la novella "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia nel 1910 con pseudonimo di Maurus, "Un poemetto siciliano del secolo XVI" estratto dagli Atti della reale accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (serie III - vol. IX - Palermo 1910) e "Storia della Baronessa di Carini (sec XVI) estratto da "Musa siciliana" con note dell'autore - Casa editrice Caddeo 1922. Il volume raccoglie quindi, a parte le altre leggende su famosi "casi" siciliani, tutto quanto Luigi Natoli scrisse sul famoso "caso" della Baronessa di Carini.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 310 – Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Puoi contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli e la triste fine di donna Aldonza Santapau, baronessa di Militello. Tratto da La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

Fra i giardini si allungava il sentiero bianchiccio, in fondo al quale si alzava la chiesa di Sant’Antonio, col suo campanile acuminato, che sorgeva dolcemente fra gli alberi sonnecchianti.
Era la chiesa dove egli, Antonio Barresi, era andato a sposare donna Aldonza; ed era là che ogni mattina andavano a sentir messa. Placida e chiara chiesuola, dove le labbra delicate di donna Aldonza avevano per la prima volta strette quelle del marito desideroso. Oh, qual folla di ricordi e di sentimenti non si riversò nell’animo di lui, in quel momento, contemplando la lontana chiesuola, silenziosa e tranquilla nella pace di quella notte luminosa!... Strinse la testa fra le mani, mentre ruggivagli la passione nel cuore. Ah, quelle notti d’amore, al chiaro della luna che penetrava nella camera del castello, come un fascio d’argento! Ella, tutta bianca, sotto il mite splendore della luna, coi capelli spioventi sulle spalle, sorridente, affascinatrice dritta in mezzo alla camera, attendeva il marito... Il signor Antonio la rivedeva così; e mentre la memoria gli dipingeva il passato vivamente, egli stringevasi le mani disperatamente; ed ululava il dolore cupamente dentro l’anima sua, come lupo affamato nelle notti invernali. 
Abbandonò la finestra, preso da un subitaneo impeto di odio per quel paesaggio così tranquillo, mentre gli dibattevasi nella tempesta della gelosia; con passi concitati, sospinto da una bramosia di sangue che lo accecava, uscito dalla stanza, attraversò un corridoio e aperse un uscio che vi era in fondo; ma si fermò sulla soglia. Dalla finestra penetrava un quadrato di luce tenera sul pavimento verdognolo: e in mezzo a quella luce, dritta e bianca donna Aldonza, con le mani abbandonate sul grembo, stava contemplando il paesaggio; stava così, come l’aveva veduta egli nei giorni della felicità. 
Ella era così assorta, che non sentì l’entrar del marito, e il signor Antonio non si muoveva, assorbito com’era da quella visione che lo riconduceva ai suoi giorni di gioia e d’amore. Un nodo di pianto gli saliva alla gola e lo soffocava; tremò di commuoversi; volle vincere sé stesso, volle dimenticare quel passato per non vedere che la miseria presente; ma nello sforzo un singhiozzo ruppe dal suo petto. 
Donna Aldonza trasalì spaventata, voltossi, e visto il marito così sconvolto, rimase pallida e senza moto, né seppe profferire parola. 
Stettero entrambi in silenzio nella camera illuminata dai riflessi, che s’irradiavano dal quadrato di luce descritto dalla luna sul pavimento: nella quasi oscurità il letto appariva di una bianchezza dubia e velata; qua e là gli smalti delle maioliche e le dorature di un mobile mandavano dei tenui lampi di luce; e in mezzo alla camera immobili, silenziosi, donna Aldonza e il signor Antonio si guardavano: ella tutta inondata di luce, egli immerso nell’ombra, ma gli sfolgoreggiavano di ira, di amore, di gelosia gli occhi e l’acciaio delle armi. 
Finalmente ella disse: 
- Che è dunque tutto questo che accade, signore?
Egli, al suono di quella voce, si riscosse; le visioni del passato sparvero come fiammelle spente a un tratto da un soffio di vento: fece uno sforzo sopra di sé, diede alla sua voce una calma terribile, e rispose:
- A che cosa pensavate voi, per non sentire che io ero entrato?
- Non capisco, don Antonio.
- Vi piace il chiaro di luna?... Vi ricordate quando, le sere di estate, andavamo a sederci nella grotta della cisterna? È un pezzo, donna Aldonza, che non facciamo una di queste passeggiate. Venite, non vedete come è bella la serata, e come splende la luna?... Venite: qui io ardo, e le tempia mi scoppiano... Ah dell’aria, dell’aria!...
La prendeva per un braccio, stringendola convulsamente; ella lo guardava spaventata, cedendo senza volerlo, mentre egli la trascinava via dalla camera.
- Prendetevi il velo, donna Aldonza;... la vostra salute è così preziosa... Se voi vi ammalaste, come farei io?
Ella si coperse, resa stupida da un terrore ignoto, e uscì col marito. attraversarono i corridoi in silenzio, scesero le scale, giù nel vestibolo sonnecchiavano due schiavi alti e robusti, due saraceni dal nero volto bieco e feroce. Egli li svegliò e si fece seguire. 
La grotta della cisterna era scavata nel masso, giù sotto una delle ali del castello, umida e fresca. Nel mezzo era una cisterna, sormontata da una forca di ferro che sosteneva la carrucola. 
Appena entrato nella grotta, il soffio dell’aria fredda percosse donna Aldonza, si che un brividore la fece tremare. Il magnifico signore sorrise sinistramente...


Luigi Natoli: – La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. Raccolta di leggende trascritte dal volume originale Storie e leggende, pubblicato in Palermo dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Alla raccolta è stata aggiunta la novella "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia nel 1910 con pseudonimo di Maurus, "Un poemetto siciliano del secolo XVI" estratto dagli Atti della reale accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (serie III - vol. IX - Palermo 1910) e "Storia della Baronessa di Carini (sec XVI) estratto da "Musa siciliana" con note dell'autore - Casa editrice Caddeo 1922. Il volume raccoglie quindi, a parte le altre leggende su famosi "casi" siciliani, tutto quanto Luigi Natoli scrisse sul famoso "caso" della Baronessa di Carini.
Copertina di Niccolò Pizzorno 
Pagine 310 – Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Puoi contattarci alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o al whatsapp 3894697296.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli e la tragica fine della baronessa di Mongellino. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

La torre era alta, quadrata, solidamente sbarrata per di dentro; dalle finestre, dalle feritoie, dai merli, gli algozini cominciarono a tirare sugli assalitori coi pochi archibugi che possedevano. Gli scrivani, inesperti al maneggio delle armi gittavan dall’alto sedie, banchi, tegoli, tutto ciò che capitava nelle loro mani: il barone di Mongellino, costernato, cercava di ammansare gli assalitori, predicando dalle finestre, che egli era il rappresentante dell’Imperatore; ma la ciurmaglia, inferocita dalla resistenza, esasperata dalle percosse, copriva la voce del Capitano con urli e imprecazioni. Qua e là rosseggiavano intanto le vesti e le armi per le ferite; Giorgio Comito aveva ricevuto un sasso sulla fronte, e così lordo di sangue come era, gridava ai suoi:
- Ma che ci fate costì, con le mani tra le brache? Sfondatemi quella porta, vigliacchi! Che vi fareste ammazzare come galline!
Allora i colpi di scure risuonarono più spessi e più vigorosi su la porta; e dall’alto la pioggia rinfittì, ma per poco; i difensori non avevano più munizioni; cedevano; la masnada di Giorgio Comito si accorse che la difesa cessava, e levò un urlo di gioia feroce. Alcuni trovato un trave, con quello percossero sì vigorosamente la porta, che tutta la torre ne tremò. Al secondo colpo i gangheri si staccarono; al terzo le pesanti imposte, fracassate, precipitarono con orribile fragore.
Il signor Gerolamo, con la spada in pugno, pallido ed esterrefatto stava nella sala fra alcuni algozini. Gli scrivani s’erano appiattati qua e là; alcuni avevano tentato di fuggire dalle finestre, buttandosi da grande altezza. La baronessa accanto al marito, bianca ma, aveva sentito il rimbombo dei colpi di trave, e indovinato tutto. A ogni colpo sentiva stringersi il cuore in una morsa ghiacciata; poi sentì il fracasso della porta caduta, il grido di gioia feroce degli assalitori, il tumultuoso montare per la scala.
Quattro o cinque ceffi si presentarono all’ingresso della sala, armati di picche e spade. Allora il barone, voltosi agli algoziri e ad Antonio Margeri, che gli stava a lato, gridò:
- Se s’ha a morire, almeno vendichiamoci!...
E si precipitò innanzi, roteando la spada, e stornando i colpi che gli assalitori vibravano. Ma dalla scala montavano e montavano ancora altri e più inferociti, spingendo quelli che c’erano avanti; due o tre caddero feriti mortalmente dal signor Gerolamo; un algoziro cadde con la fronte spaccata; in breve la stanza fu piena di uomini, il pavimento rigato di sangue e sparso di armi; scoppiò qualche colpo d’archibuso; la stanza s’empì di fumo.
In mezzo all’urto delle armi, tra il disperato difendersi e il feroce assalire, tra i rantoli dei feriti e le bestemmie dei combattenti, la baronessa di Mongellino, bianca e serena, con una spada in mano, cercava di parare i colpi al marito.
Giorgio Comito si fece innanzi, gittandosi come una belva addosso al barone; le due spade scintillarono, guizzarono, sibilarono; Giorgio Comito con una mossa abilissima disarmò il barone; questi mandò un grido di rabbia, quegli un grido di gioia, ed allungò una stoccata.
Molte lame nel punto stesso balenarono contro il petto del barone di Mongellino; ma nel vibrare non i muscoli forti dell’uomo incontrarono, ma il seno molle e cedevole della signora baronessa.
Ratta come il pensiero, visto il pericolo del marito, ella si era gittata fra lui e le spade; e, squarciato il petto da cento ferite, cadde ai piedi di don Gerolamo, e le bianche vesti rosseggiarono di sangue.
E quando la folla abbandonò la torre non più difesa, tra i cadaveri orrendamente mutilati, giaceva bianca e bella la baronessa di Mongellino; e anche nella morte ella pareva volesse difendere con le braccia sanguinose il cadavere del marito....


Luigi Natoli: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. Raccolta di leggende trascritte dal volume originale Storie e leggende, pubblicato in Palermo dalla casa editrice Pedone Lauriel nel 1892. Alla raccolta è stata aggiunta la novella "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia nel 1910 con pseudonimo di Maurus, "Un poemetto siciliano del secolo XVI" estratto dagli Atti della reale accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (serie III - vol. IX - Palermo 1910) e "Storia della Baronessa di Carini (sec XVI) estratto da "Musa siciliana" con note dell'autore - Casa editrice Caddeo 1922. Il volume raccoglie quindi, a parte le altre leggende su famosi "casi" siciliani, tutto quanto Luigi Natoli scrisse sul famoso "caso" della Baronessa di Carini.
Copertina di Niccolò Pizzorno - Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

martedì 7 marzo 2023

Luigi Natoli: Il Tiraz. Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano

Dalle finestre della Torre Pisana, di dietro le gelosie di legno finamente intagliato assistevano al duello le donne del tiraz e le schiave di palazzo. La più parte erano musulmane di fede, ma non tutte di razza araba; ve ne erano berbere, brune, dai lineamenti regolari, gli occhi grandi, le labbra tumide; i corpi agili e vibranti; ve ne erano sirie, dal volto pallido, grassoccio, molli; arabe simili alla gazzelle delle oasi; greche delle isole, rosee, carnose, dai grandi occhi cilestri e dai capelli biondi, insolenti e cupide; ve ne eran molte delle coste della Dalmazia o dell'Epiro: slave dai capelli neri e copiosi, dai grandi occhi pieni di sogni; ve ne erano di Sicilia, nate da razza indigena, da lungo tempo passate all’islavismo, e confuse per la fede e pei nomi e le costumanze adottate, con gli antichi dominatori; o discendenti da tali venuti d’Oriente col primo conquisto musulmano, naturalizzati in Sicilia; figlie le une e le altre di prigionieri ridotti in schiavitù, o venduti nei mercati. Ve n’eran parecchie “franche” come eran dette in generale quelle di razza latina o germanica, di fede cristiana, predate da legni corsari talvolta nelle stesse spiagge dell’isola e portate in 
Oriente o in Tunisi; o offerte da parenti medesimi
Vivevan tutte nel palazzo regio; quali addette ai servigi della regina, e non era­no le più belle nè le più giovani; quali al tiraz, alle culture cioè dei bachi e alla fabbrica dei drappi serici, comuni o ricamati, di cui la corte aveva quello che oggi si di­rebbe il monopolio. Queste erano le più giovani e le più belle. Le sceglieva il re stesso.
Venivano spesso mercantanti dall’Oriente e da Tunisi a vendere le fanciulle pre­date o vendute dai genitori; il gran Camerario, che amministrava il palazzo regio le esaminava, ne faceva una scelta, e le sottoponeva all'approvazione del re, che trasceglieva quelle che gli facevano mag­gior simpatia. 
Guglielmo era un buon conoscitore di donne: rassomigliava da questo lato al pa­dre, il re Ruggero, che aveva subito il fasci­no della vita voluttuosa dei musulmani, e non contento delle quattro mogli prese suc­cessivamente, s'era fatto un harem, sfidan­do i rimproveri, gli scrupoli e l'orrore del clero
Guglielmo in questo aveva superato il padre, il re Ruggiero di cui aveva subito il fascino in altre qualità dello spirito. Nell'avarizia, per esempio, e nella ferocia dei castighi. Gli restava di gran lunga inferiore nell'attività maravigliosa, nel fine senso politico, nella opportuna e sapiente prudenza e nella magnanimità, quando era necessaria: qualità che avevan fatto di lui il più grande monarca e statista del suo tempo. Guglielmo ama­va troppo la voluttà, per aver tempo di oc­cuparsi dello Stato. Per lui c'era Majone. 
Un vero esercito di eunuchi bianchi e neri gli custodiva quel regno. Ve n’erano grassi, obesi, giallicci, coi capelli lisci sui volti sbarbati e rugosi; ma ve n’erano robusti e fieri. Nessuno poteva varcarne le soglie fuor che il re. La torre posta a una estremità non aveva che un ingresso, giù nella corte, custodito da guardie musulmane: aveva un passaggio interno pel quale dalla Gioaria si poteva entrare nelle stanze delle donne. 
Re Guglielmo faceva in quei giorni allestire un suo castello in un parco, oltre l’Ain Abu Sind, volgarmente detto Ain Sind (3), sorgente d’acqua, che scaturiva e scaturisce ancora da grotte. Il castello era quasi compiuto, e vi attendevano soltanto i mosaicisti, che ne decoravano bellamente le pareti e il pavimento dell’atrio. Quel castello era serbato ad accogliere l’harem, come in luogo più riposto, lontano dai rumori cittadini, circondato di boschi, rallegrato di palmizi e di laghetti, come quello della Favara, posto all’altra sponda dell’Oreto, o come allora si chiamava del Wadi Ab bas, o come quello di Menani posto a mezza strada fra la città e il villaggio di Baida. Quel nuovo castello doveva vincere gli altri per grandezza e magnificenza di stanze e per bellezza di sito. Guglielmo vi profondeva tesori; e Majone glieli trovava: ma intanto circondava di guardie la torre e la chiudeva agli occhi dei profani, coprendo le finestre di gelosie di legno intagliato delicatamente all’uso di Egitto. 
Durante il giudizio di Dio quello stormo di passere s’erano addossate alle gelosie, arrampicandosi sopra gli sgabelli, sopra i cuscini. Tutti i buchi degli intagli e dei frastagli si animavano di pupille sfolgoranti che seguivano con interesse e curiosità infantile le vicende del duello. Anche fra le donne dell’harem s’erano formate due parti: quella di Silvestro e quella di Orsello: se non che non era la politica che le divideva: ma la simpatia per l’uno o per l’altro.


Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1100, al tempo di Guglielmo I e Majone da Bari. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
(consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Palermo nel 1159. Tratto da: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano

 
È necessario indugiarsi un poco, per la intelligenza degli avvenimenti su particolari topografici; giacchè difficilmente ci si può formare un’idea di quel che fosse la parte superiore della città di Palermo nel secolo XII, occupata oggi da Villa Bonanno, dallo stereobato del palazzo reale, dalle caserme, dalla Prefettura e dal Seminario Arcivescovile. Allora formava un quartiere distinto dal resto della città, e chiuso da mura, che da una parte dominavano la palude del Papireto, e girando dietro al castello regio, piegando a mezzodì, scendevano lungo il Kemonia, fino all’altezza della Caserma della Trinità o Distretto Militare, donde, piegando nuovamente in linea quasi retta, correvano fino al Papireto, passando dinanzi al Campanile del Duomo, che probabilmente era una delle torri che munivano queste mura. 
Il vasto recinto si chiamava con voce greca Galca: era sparso di chiese, percorso di strade, rallegrato di vigne e di giardini. Dalla Torre Pisana si partivano due stra­de, una percorreva presso a poco lo stesso asse della moderna via Vittorio Emanuele, e si chiamava As Simat, la fila, o latiniz­zando questo nome, la Semità del Cassaro. Tagliava in due dall'alto in basso la Galca, e, per una porta, si congiungeva al resto della Simat o ruga marmorea, che attraversava la città antica, in linea quasi letta, ed è oggi la via Vittorio Emanuele, l'altra strada percorreva invece la linea delle mura occi­dentali e settentrionali, passava dinanzi la chiesetta della Maddalena, ancor esistente dentro la Caserma dei carabinieri, la chiesa di S. Paolo, e scendeva giù, fino alla torre del Campanile del Duomo, passava dietro la cappella dell'Incoronazione, e finiva in una altra strada che si arrestava alla porta di S. Agata nel fiume del Papireto, o, arabicamente wadi, donde Guidda. Questa strada si chiamava Ruga magna Coperta, perchè era in fondo un lungo por­tico, murato da una parte, e illuminato da ampie finestre. 
Due altre strade principali tagliavano la Semita, la ruga del Pissoto, o ruga Mag­giore che passava tra l'edificio dell'Aula regia e la chiesa di S. Costantino, (che an­cora sorvive presso a poco nell'antico sito), e si prolunga fra la caserma dei carabi­nieri e la caserma S. Giacomo ora Calatafimi; e la ruga di S. Nicolò dei Poveri, che costeggiava gli edifici romani, di cui si son trovate le vestigia, e passava tra la Prefet­tura e il Seminario arcivescovile, dove prendeva il nome di Ruga di S. Barbara. Questa strada, ora chiusa da un cancello, è ancora visibile. 
Oltre gli edifici ricordati via via, e le chiese nominate, v'eran altre chiese nella Galca; v'era la chiesa di S. Maria dell'Itria, forse tra la Torre Rossa e S. Costantino; la chiesa di S. Maria la Mazara e quella di S. Giacomo, nell'area della caserma Calatafimi; la chiesa di S. Barbara Soprana, e più giù quella di S. Teodoro, con un o­spizio, e un bello e vasto viridario o giar­dino. Queste due chiese sparirono con la fabbrica del nuovo arcivescovato e del se­minario tridentino. Un'altra strada princi­pale, infine, quasi parallela alla Semita del Cassaro, correva lungo le mura meridio­nali; e poichè essa dominava il burrone del Kemonia, ed era, per così dire, una specie di lungo terrazzo o boulevard, prendeva nome di Sera, che in arabo significa ap­punto strada sulle mura o terrazzo o bou­levard. Questo Sera prendeva vari nomi, secondo gli edifici che costeggiava. Nella Galca, si chiamava Sera di S. Costantino. Oltre la Galca, correndo via per le antiche muraglie della città antica si chiamava successivamente Sera della Casa del Saraceno, Sera della porta di Sudan, Sera della casa del conte di Marsico, Sera delle case di Martorano. 
Sbozzata così la topografia della Galca, riesce più facile immaginare dove e quanto fosse ampia la piazza nella quale si era raccolta la folla, per assistere alla pubblica decisione di una lite giuridica, per la qua­le, non essendovi altri elementi di prova, le due parti invocavano l'intervento della volontà divina, con una di quelle forme giudiziali in uso tra i franchi e introdotte dai principi normanni nella legislazione si­ciliana: il giudizio di Dio.

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1100, al tempo di Guglielmo I e Majone da Bari. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e raccolto per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Pagine 719 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
(consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697
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lunedì 6 marzo 2023

Luigi Natoli: Il professore Benoist. Tratto da: Alla guerra! Romanzo storico

La notte era tiepida e limpida; una notte d’agosto, col cielo disseminato di stelle lucenti. La strada illuminata dalle lampade, dai fasci di luce che uscivano dai caffè, si dilungava fino all’angolo dell’avenue de Wagram, dalla quale si distinguevano, precisi, chiari, sotto la luce delle grandi lampade, gli alberi allineati. Per la strada era il via vai faticoso della gente; un trascorrere di carrozze, di automobili, di biciclette; un formicolìo di persone; il rumore confuso delle ruote, delle cornette, dei motori; le grida degli strilloni, il brusìo indistinto e multivoco dei passanti, notteggiavano fra i muri della strada. Ma su, oltre i tetti, ove finiva il travaglio umano, quale pace infinita e misteriosa, nei cieli luminosi!...
Benoist aveva guardato la strada, seguito la folla, sollevato lo sguardo in alto: qualche cosa gli agitava il petto; sentiva la vicinanza di Bianca, e provava una sofferenza oscura, un piacere doloroso, dei bisogni spirituali, delle aspirazioni vaghe e infinite come quel cielo che gli si stendeva sul capo.
Bianca lo esaminava, mentre egli guardava il cielo. Benoist aveva la linea della fronte pura e nobile; e nel volto quella pensosità un po’ malinconica, che è il sigillo imposto dalla consuetudine di una intensa vita spirituale. In quella raffazzonatura dell’abbigliamento era un po’ goffo e impacciato, come un provinciale venuto di fresco, e che non abituato ancora a vestire un abito nero, lo indossi per la prima volta; ma il ridicolo di questa goffaggine non saliva oltre il colletto.
Per l’abitudine che egli aveva contratto di passarsi la mano su la fronte, aveva un po’ scompigliato la pettinatura odiosa con la quale il parrucchiere aveva creduto di farlo più bello; i suoi capelli, pur serbando una certa divisione, avevano un disordine che restituiva all’espressione generale del volto un po’ del suo primo carattere.
Per un po’ rimasero in silenzio: Bianca aspettava che Benoist le dicesse qualche cosa: Benoist aveva il pensiero pieno di idee e di espressioni tumultuose; ma la sua bocca rimaneva chiusa, la parola mentale pareva si arrestasse nelle radici della lingua.
- Come mai, – domandò Bianca a un tratto, per rompere il silenzio; e anche per ubbidire a un’idea che l’aveva perseguitata da parecchi giorni; – come mai voi, che avevate tanto orrore per la guerra, ne siete diventato ora un partigiano?
Benoist la guardò non senza provare una certa amarezza per quella domanda, così lontana, così estranea alle idee che gli turbinavano nel capo: nondimeno respirò: quella domanda rompeva il silenzio.
- No, madamigella, – disse dolcemente; – io ho sempre lo stesso orrore per la guerra; io ho sempre sognato e sogno un patto di fratellanza fra tutti gli uomini; la grande famiglia umana affratellata dalla scienza e dal lavoro; due cose che non conoscono confini… È un bel sogno, che si avvererà, deve avverarsi; dobbiamo anzi affrettarne la sua traduzione in realtà… Ma bisognerebbe rendere impossibile ogni violenza… E non son diventato partigiano della guerra, no; ma nessuno può consentire che sia violato il diritto alla esistenza!... La Francia patisce la più bestiale sopraffazione: essa è aggredita, unicamente per essere assoggettata e sfruttata dal capitalismo tedesco, che si è impadronito dell’esercito… Il capitalismo tedesco ha bisogno della ricchezza francese, per non perire. La sua è una aggressione brigantesca, dissimile soltanto nelle proporzioni da quelle che compivano i banditi leggendari sulle strade maestre!... Difendersi non è soltanto un diritto, ma è più, un dovere! Nessuno può sottrarsi al dovere di difendere la terra, la casa, il lavoro, la libertà dei propri concittadini… Non è questa che combattiamo noi, e della quale io riconosco il santo dovere, una guerra per gli interessi di una dinastia o di una classe: è guerra di difesa di tutta la nostra storia passata e avvenire; è la nostra difesa dei due diritti fondamentali, il diritto di vivere e il diritto di esser liberi…
La sua voce era a poco a poco divenuta più sonora e più calda; e i suoi occhi si illuminavano. Bianca però non si diede vinta, scosse il capo, e mormorò:
- È vero; ma quanto sangue, e quanti cuori spezzati!...
V’era un tremito nella sua parola, l’angoscia paurosa di una sciagura imminente e immancabile.



Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico. 
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914/15 e raccolte per la prima volta in unico volume nel 2014, esattamente cento anni dopo, ad opera de I Buoni Cugini editori.
Prezzo di copertina € 31,00 - pagine 950
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia) Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it, al whatsapp 3894697296 o al cell. 3457416697.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria. 

Luigi Natoli: Alla guerra! grande romanzo storico ambientato nella Francia della prima guerra mondiale.

Alla guerra!... è il romanzo storico di Luigi Natoli, che nasce come romanzo di appendice del Giornale di Sicilia, pubblicato in 204 puntate dal 19 ottobre 1914 e che dopo cento anni, in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale, è pubblicato per la prima volta in unico volume (ben 950 pagine) da I Buoni Cugini Editori, con la copertina e le illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
A differenza di tutti gli altri romanzi del grande scrittore e storiografo palermitano, Alla guerra! è ambientato nel Belgio e nella Francia del luglio 1914, improvvisamente invasi dal Kaiser Guglielmo II, la cui libertà è difesa dai giovani soldati che lasciano la loro vita per il proprio paese e che mettono al di sopra di tutto il motto: "Più in alto delle nostre vite c’è la Francia e il nostro onore!...".
In questo grande romanzo, l'autore descrive in modo quasi vissuto gli orrori della guerra, visti dagli occhi dei soldati, dei civili e soprattutto delle donne, spesso violate e uccise dai soldati tedeschi: "Nessun soldato aveva sofferto la più lieve punizione pei ladronecci, per gli incendi, per gli stupri, per gli assassini, per tutte le barbarie, per tutte le ferocie commesse, che disonoravano non solo la Germania ma l’uomo". 
Le scene orribili, le stragi, sono menzionate con estrema poesia, in un linguaggio attuale più che mai; la morte, vissuta attimo per attimo, l'amore per la famiglia, per la madre lontana, "regnano" in tutto il romanzo. "Tramontava. Un tramonto triste, fosco nel quale le nebbie rosseggiavano, e qualche raggio di sole che rompeva le nubi, pareva uno zampillo di sangue. Il sangue della Francia che gemeva ancora sotto l'immane guerra".
Nel terribile quadro della prima guerra mondiale dipinto da Luigi Natoli, vivono i protagonisti della storia: Guy e la sorella Bianca Vandois, il professore Benoist e il suo cinico amico dal cuore d'oro Michaud: "Appunto, madamigella, le più grandi consolazioni che m'ha dato la famiglia sono state queste, di non averla avuta mai!", il tedesco Fritz Wherther; intorno a loro la sofferenza e la morte dei tanti giovani che per la Francia sacrificarono la loro vita. Inizia con una marcia notturna:
"La pattuglia precedeva di circa cento metri la compagnia d’avanguardia della colonna uscita da Givet; aveva oltrepassato Notre Dame, valicato l’Huille e percorreva lo stradale, diretta a Rochefort. Era una notte senza stelle. Le nubi coprivano il cielo; nubi grigie, quasi nere, pesanti, dalle quali ogni tanto qualche goccia cadeva sul volto dei soldati. Per un pezzo marciarono in silenzio, coi fucili capovolti, infilati al braccio per la cinghia, o tenuti su la spalla per la canna. Di tanto in tanto bisbigliavano fra loro. Quando furon lontani dalle case, uno di essi cominciò a canticchiare qualche aria popolare del suo paese nativo; un dolce e tenero sospiro d’amore; forse eco inconsapevole di memorie e ricordi, che gli si ridestavano e affollavano nell’anima vagante verso una casa lontana, fra un gruppo di olmi e di ontani, in una campagna verde e soleggiata. E intanto i piedi andavano al ritmo del passo, appesantito dallo zaino ricolmo, per una strada ignota."
L'estrema nitidezza della lettura, dalla quale traspare la commozione dell'autore, mette in evidenza i dolorosi momenti vissuti dai soldati francesi e dalle loro famiglie, come la partenza per la guerra dalla stazione di Parigi: "Erano sicuri tutti di ritornare; andavano alla guerra, per prepararsi a quelle nozze con l’immaginaria Coletta: ma forse ognuno aveva la sua Coletta nel villaggio nativo, o al sesto piano del grande casamento del sobborgo; se non che tutte diventavano un’amante sola, che non piangeva, poiché s’andava a combattere contro i tedeschi, per la terra di Francia. A ogni strofa, seguiva uno scoppio di evviva, di urla, di risa, di motti, che pareva lo scatenarsi di una gioconda tempesta; e sopraffaceva, stordiva le anime dolenti; talvolta grida, risa, canti confondendosi, empivano la tettoia, mescolandosi al soffio delle macchine sotto pressione. Al segno della partenza gli addii si moltiplicarono; le mani stese dagli sportelli strinsero le mani che si porgevano dal marciapiede; alcuni si aggrappavano sui predellini per dare un ultimo bacio o un’ultima raccomandazione; delle mani commosse inviavano e si scambiavano baci, sventolavano fazzoletti; poi mentre il treno si muoveva lentamente, una voce vincendo la commozione gridò: Viva la Francia!"


Luigi Natoli: Alla guerra! Romanzo storico "contemporaneo"
L'opera è la ricostruzione del romanzo pubblicato unicamente a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914/15 e raccolte per la prima volta in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia). Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296.
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria.