mercoledì 24 febbraio 2021

Luigi Natoli: Scorci di rivoluzione e immagini di carestia. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina.

 
In quel punto i dodici cavalie­ri, che fino allora avevano molestato il fianco della colonna spagnola, entrava­no nella mischia, gittando i cavalli ad­dosso ai nemici, tempestandoli di colpi. Il gruppo prese proporzioni michelan­giolesche... La furia dei Cavalieri della Stella, l'impeto dei messinesi aveva avuto ragio­ne sul numero dei nemici: incalzati, deci­mati, quei militi esperti di pugne volsero le spalle a un nemico men numeroso, inesperto di guerre, ma di gran cuore. 
La città offriva uno spettacolo grandioso e terribile in quell’ultima notte dell’anno 1674, che poteva anche essere l’ultima della sua rivoluzione e delle sue libertà... 

L'aspetto di Messina era desolante; per le strade torme di gente sparuta, nera, dagli occhi lucenti di tutte le brame e di tutti i tormenti; erravano come spettri in una città di morti; i più armati: donne dal petto inaridito si trascinavano, mal reg­gendo il lattante, che invano sollecitava, e volgevano gli occhi avidi, se mai tra le spazzature vedessero un avanzo di quel cibo a cui era ridotta la città. Non di rado qualcuno cadeva sfini­to sulla strada, e lì moriva: la pietà non poteva altro che chiuder gli occhi al ca­davere e portarlo al piano di S. Ranieri, diventato enorme e insaziato cimitero. La vigilia di Natale, per celebrar la solennità religiosa, fu distribuita una razione di due once di baccalà; e la mattina dopo, per la festa due once di carne equi­na e due di biscotto muffito, e parve una gran cosa: un desinare di un po' di pane pessimo e di olive salate costava al ca­stellano del forte del Salvatore, che era un nobile, da due a tre onze, vuol dire da venticinque a trentasette lire di moneta nostra, le quali pei prezzi ordinari delle derrate a quei tempi, valevan dieci volte tanto. 
- Ancora, disse Gregorio; ci son cavalli, muli, asini; quando finiranno questi ammazzeremo i cani, i sorci, i gatti; quando non avremo più nulla i vi­vi mangeranno i morti; ma rendersi, mai!... 

Di simili esempi d'eroismo la storia di Messina abbonda.

Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina – Romanzo storico siciliano ambientato a Messina durante la rivoluzione e la carestia che colpì la città dal 1672 al 1679. L’opera, che vede al centro l’Accademia dei Cavalieri della Stella, è costruito e trascritto dal romanzo originale pubblicato a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 947 – Prezzo di copertina € 26,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti i siti vendita online.
Disponibili a Palermo in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
Le librerie possono acquistare contattandoci alla mail oppure possono rivolgersi al nostro distributore Centro Libri (Brescia)

 


Luigi Natoli: L' Accademia della Stella. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina

 L'accademia della Stella di cui egli faceva parte, e aspirava ad esser capo, o, come si chiamava, Principe, era una compagnia o congregazione o scuola, o tutto questo insieme, di cento cavalieri, di nobiltà antica e indiscutibile, che face­van professioni d'armi allo scopo di for­nire eccellenti militi nella perpetua guer­ra contro i barbareschi: una specie di or­dine militare – in origine – non dissi­mile nello scopo fondamentale da quello dei cavalieri di S. Giovanni e di S. Stefa­no; ma senza alcun carattere monastico o voto minore; uguale alla Congregazio­ne d'arme, che s'era istituita in Palermo nel secolo XVI. 
Posta sotto la protezione dei Re Ma­gi, aveva assunto come insegna la Stella miracolosa apparsa ai tre re d'Oriente, in­castrandola nella Croce di Malta: d'onde il nome di Accademia della Stella. 
Col volger del tempo, pareva aver di­menticato il suo scopo originario; e non mandava più i suoi cavalieri a dar la cac­cia alle navi mussulmane; ma continuava con uno sfarzo, con una magnificenza tutta spagnola, a dar mostra di sè nella bravura de’ suoi cavalieri nelle grandi occasioni religiose o civili. L'insediamento del nuovo Senato, l'apertura della fiera, la festa dell'Assun­ta, l'arrivo o la partenza del vicerè, la pre­sa di possesso di un nuovo arcivescovo, le feste per la nascita di qualche principe reale, o di qualche matrimonio regio, o dell'incoronazione del re, e in generale tutti i grandi avvenimenti celebrati con pompa ufficiale, erano altrettante occa­sioni, perché i cavalieri della Stella faces­sero la loro sontuosa cavalcata, o cele­brassero una giostra, vaghissima per no­vità di giuochi, d'imprese, di divise, di colpi. 
Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.



Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina – Romanzo storico siciliano ambientato a Messina durante la rivoluzione e la carestia che colpì la città dal 1672 al 1679. L’opera, che vede al centro l’Accademia dei Cavalieri della Stella, è costruito e trascritto dal romanzo originale pubblicato a puntate, in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 947 – Prezzo di copertina € 26,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
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lunedì 22 febbraio 2021

Luigi Natoli: Le "cassariote". Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano.

Sboccò nel Cassaro, quasi presso la Chiesa di San Giuseppe. Anche qui, e più numerosa, la folla degli ignudi dormiva su pei gradini della chiesa, nei vani delle botteghe e dei portoni; ma un’altra moltitudine errava sospettosa, guardinga, saettando con gli occhi cupidi e significanti. Era la moltitudine delle vagabonde, delle donne di tutti, che nella notte si spandeva pel Cassaro, aspettando al varco gli uomini che tornavano da qualche teatro, dai circoli, dalle riunioni o dalla passeggiata notturna alla Marina, o dalle cene nelle osterie perdute in vicoli segreti. Aspettavano nell’ombra. Come vedevano un uomo si protendevano, con sommessi bisbigli, con promesse tentatrici; in tre, in quattro lo circondavano e se lo disputavano come un osso i cani che raspavano nei rifiuti delle case. Erano ancora giovani, pallide, magre, e talvolta scalze, spesso cercando dare ai cenci di cui eran vestite una certa eleganza; sul volto, nella voce, nelle insistenze, non il vizio, ma la fame stampava l’abbrutimento. Con un vocabolo dispregiativo, che al tempo stesso indicava il loro mestiere, il luogo dove lo esercitavano, la vita randagia, si chiamavano cassariote. Gli oscuri antri umidi, senza sole, dal focolaio spento, che offendevano la opulenza e la magnificenza della città, le rigurgitavano ogni notte; lamie, sospinte dalla fame a vendere la sola cosa che possedevano, e sulla quale nessuno poteva vantare un diritto di proprietà. Ne venivano dai villaggi e dalle campagne ad accrescere il numero; e le contese, che talvolta si tramutavano in duelli cruenti, l’ozio, la rilasciatezza, la mancanza di un sentimento morale, fomentavano la corruzione; l’oscurità delle strade, i banchi sporgenti, le tettoie protettrici, offrivano comodi al fraudolento mercimonio: e la luna e le stelle vedevan dall’alto compiersi la fosca opera nella città tramutata in un vasto postribolo.
Ogni tanto un vicerè promulgava un bando, sollecitato dal pudore delle nobili dame, sorprese, mentre dalla passeggiata alla Marina o dalle conversazioni tornavano a casa, da sussurri e da spettacoli rivoltanti.
Allora per ogni parte, nella notte, si sguinzagliavano le ronde; per le strade della città si compivano delle cacce alla carne umana, le strade si riempivano di strida, di pianti, di bestemmie, di sghignazzamenti. Il giorno dopo una torma di donne, quelle venute dalla provincia, erano condotte fuori dalla città, per le vie suburbane; rimandate ai paesi d’origine, a ricominciar la lotta con la fame, per ripiombare dopo qualche mese nella capitale. Altre erano mandate in prigione, ree di aver rotto il bando, altre, le più fortunate e le più giovanette, eran chiuse, quando si poteva, nelle case di emenda o nei reclusori per le derelitte. Lì avevano almeno un letto e una minestra.
Agata si trovò in mezzo a questo branco di donne, disperso lungo la bella e ricca strada. Le vedeva talvolta errar lungo i muri, e i loro occhi la saettavano nell’ombra delle orbite nere, come sospettando in essa una nuova rivale; talvolta le si avvicinavano e la guardavano negli occhi. Con un senso di terrore, affrettando il passo dolente, ella cercava di scansarle, avviandosi verso la Porta Nuova, che vedeva torreggiare in fondo, con la sua piramide. Sudava freddo. Al terrore si aggiungeva il disgusto e lo schifo per quel che vedeva, e di cui recava in sé le stimmate insanabili.
- Oh Dio! Dio!... – mormorava, chiudendo gli occhi, coprendosi il volto, rannicchiandosi tutta e fuggendo, fuggendo.
Giunse a piazza Bologni. Dai gradini della statua di Carlo V, un gruppo di donne le si avvicinò e la fermò:
- Dove vai tu? donde sei venuta?
Le dissero una mala parola, che la colpì nel viso, come uno schiaffo. Una vampa d’ira la infiammò: con voce alta veemente nel dolore, gridò:
- Vi dico, lasciatemi passare.
La circondavano, torbide e feroci, con quella voluttà selvaggia degli oppressi, quando trovano di potersi rifare sopra uno più debole di loro. Una di quelle donne le sollevò le vesti, gridando:
- La sgualdrina ha delle sottane!...
Agata si difendeva: la collera gonfiava il suo petto; lagrime di sdegno, di angoscia le ardevano gli occhi; cercò di aprirsi un varco con la violenza. Tutte quelle donne le furono addosso; il loro odio scoppiava:
- Ah la sgualdrina che ha delle sottane bianche! sei venuta per rubarci il pane? te lo daremo noi!...
L’avevano afferrata, la stringevano, chi sa per quale sconcia vendetta, quando un grido d’allarme echeggiò improvvisamente, e un’onda di femine perdute passò fuggendo davanti a loro.
- La ronda! la ronda!...
E subito dopo una dozzina di birri, armati di bastone, che le inseguivano, piombarono sul gruppo, prima ancora che le donne avessero potuto lasciare la loro preda e mettersi in salvo. I birri le afferravano pei capelli, le tiravano, le facevan cadere per terra, le percuotevano ghignando, le legavano pei polsi; tra le bestemmie e le ingiurie sputate loro in volto da quelle sciagurate.
Ne avevano arrestate una diecina, e le legavano a due a due, in catena, per condurle alla “Carbonera”, nome che si dava alle carceri del capitano di città, poste presso il monastero di S. Caterina.

Luigi Natoli: CALVELLO IL BASTARDO – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. 
L’opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti i siti vendita online.
Disponibili a Palermo in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
 

Luigi Natoli: Un fiore divelto. Tratto da: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano

 
Agata correva per una strada sconosciuta; di qua le mura e i bastioni, di là qualche strada suburbana, fra poche case, o strade solitarie, buie, anzi nere, che si allungavano fra muri e si perdevano nella campagna. Ella andava senza saper dove, spinta da un senso di spavento e da un desiderio: don Corrado! che cosa era accaduto a don Corrado? A poco a poco rallentò il passo, sentiva dei dolori strani nella persona, che la impacciavano; oltrepassò Porta Maqueda, attraverso la quale vide prolungarsi la Strada Nuova, per metà sprofondata nell’ombra, per metà illuminata dalla luna. Dinnanzi a lei era un labirinto di strade, che la penombra rendeva simili; qual era quella che conduceva al fondo dei Calvello?
Tutto era un deserto: lei, sola, perduta in quella solitudine tenebrosa. Aveva dei fremiti impercettibili di paura. Le parve udire un rumore di passi lontani. Se fosse della buona gente!... Aspettò trepidante; dal fondo d’una strada campestre vide al chiarore della luna tre uomini armati che venivano verso la Porta; parlavano. A mano a mano che si avvicinavano le voci si facevan più chiare, ma non si intendeva quello che dicevano. Ma subitamente il suono di una voce la fece trasalire, e un improvviso spavento la invase: era quella stessa voce che, quando la afferrarono e la imbavagliarono, aveva gridato: “Portatela via”. Quella voce le era rimasta nell’orecchio: ora la riudiva. Eran dunque quei manigoldi? e se la riconoscevano?
Un terrore pazzo si impadronì di lei; tremando, si diede a correre verso la città, entrò per la Porta Maqueda, si cacciò nelle ombre della Strada Nuova, e al primo vicolo che le si offerse, come un mezzo per sottrarsi, svoltò sempre correndo, come se avesse avuto alle calcagna quei tre uomini.
Non conosceva quella strada: per il timore di esser veduta e riconosciuta svoltava sempre pei vicoli bui e silenziosi che le si aprivano sui passi; andando alla ventura, persuasa di far perdere le sue tracce agli invisibili, supposti persecutori. Errò in tal modo per circa mezz’ora: e non sapeva di avvicinarsi al cuore della città. In quello andar di qua e di là, si ritrovò nella Strada Nuova, presso il quartiere della Conceria: più in giù erano i Quattro Canti. Se avesse seguito l’asse della Strada Nuova, giunta al famoso crocicchio avrebbe potuto orientarsi; preferì invece inoltrarsi nei vicoli che le si schiudevano dinanzi: vicoli profondi e tenebrosi, e pieni di sorprese, di paure e di vergogne.
Girò qua e là. Nel vano delle porte, sui gradini delle chiese, sui banchi sporgenti dalle botteghe aveva veduto corpi umani inerti nel sopore del sonno: e il silenzio rotto dal russare discorde di centinaia di gole. Tutta una popolazione miserabile, senza tetto, senza pane, sotto il padiglione immenso e gratuito del cielo, si abbandonava al sonno non già per ristorare le membra stanche, ma per trovare una tregua alle angustie della miseria.
Uomini, che avrebbero potuto essere forti e utili strumenti d’industrie e di ricchezza, giacevano nell’inerzia del sonno, continuazione dell’inerzia della vita trascorrente nell’ozio forzato; donne, che avrebbero potuto esser belle e gioconde, giacevano senza verecondia, seminude, su pe’ gradini, col seno scoverto, vizzo e vuoto, sul quale s’era addormentato un bambino, venuto al mondo non si sa come, nell’ombra, da un momento di libidine bestiale; fanciulli e fanciulle, dalle menti e dai cuori dischiusi prima del tempo ai misteri del sesso, confusi dal sonno in strani aggrovigliamenti; tutto uno spettacolo di miseria, di vergogne, di tristezza, che la notte avvolgeva nelle sue ombre, d’estate o d’inverno: tutta una folla che non si sapeva dove stesse di giorno, donde sbucasse la notte: che viveva dei rimasugli trovati nelle immondezze, contese ai cani, o di piccoli latronecci; pronta a seguire piangendo le processioni e a brandire il coltello; alla preghiera e all’assassinio; scalza, macilenta, sudicia, feroce, selvaggia, libera, errabonda, senza patria: amalgama di tutte le genti, che la fame scacciava dai piccoli borghi feudali miserabili, dalle terre demaniali piú miserabili ancora; e che la capitale attirava con un miraggio di ricchezza, che balenava soltanto nei cortei nobileschi e del clero, con l’ostentazione del fasto e del superfluo. Folla innominata e innominabile, che aveva per pratica della vita il vizio, che viveva nell’ombra, senza ieri, senza oggi, senza domani, senza idee, senza passioni; perseguitata, respinta, abbandonata a sé stessa, e della quale i bandi viceregi si ricordavano soltanto quando dovevano minacciar pene ed esilii, per soddisfazione dei signori.
Con un senso di sgomento e di angoscia, Agata passava attraverso mostruosi gruppi che il sonno confondeva; e guardava con stupore e paura. Ma talvolta delle tenebre di un vicolo o di un angolo perduto, giungevano al suo orecchio strani sussurri e mormorii affannosi. Ovvero vedeva uscire un fantasma di donna, e dileguare per la via...
Ora non correva più; andava guardinga, cercando di indovinare dove si trovasse, di orientarsi in quel labirinto di straduccole, in cui s’era quasi smarrita. Tentava ricondursi in un punto donde le fosse facile trovar la via giusta: ma per andar dove? Tornare al fondo dei Calvello? il suo cuore l’avrebbe voluto, ma si spaventava, e lo spavento ne l’allontanava; a casa? e come? Pensava a sé e quel che le era accaduto. Quei dolori nuovi che ella sentiva nelle ossa e ai lombi l’avevano richiamata alla terribile realtà che l’aveva colpita. L’infamia subìta le appariva interamente agli occhi della mente; il mistero della vita le si era squarciato improvvisamente, orribilmente, empiendola di un senso di disgusto, di orrore, di vergogna. Ahimè! ella non era più dunque quella di prima!... Ella era stata contaminata; qualche cosa era passata sopra di lei, e la traccia era incancellabile. Una ferita era stata aperta, e non si sarebbe mai più richiusa. Qualche cosa era stata squarciata nell’anima sua e nessuno, neppure Iddio avrebbe potuto rifarla. Ella sapeva. E non l’amore, non la gioia della dedizione intera che purifica e circonda di sogni e di speranze la poesia dell’amore fino nell’attimo in cui si tramuta in senso; non questo che rende divino il passaggio dalla incoscienza giovenile allo aprirsi giocoso della fecondità consapevole, aveva presieduto alla sua trasformazione; ma il furto, ma la violenza, ma l’onta bestiale. Ella si sentiva vilipesa, e le pareva che il suo volto, i suoi occhi, la sua voce, il suo passo, tutto rivelasse la sua vergogna.
La casa? andare a casa? come? come sarebbe entrata nella sua camera? come si sarebbe presentata alla madre? come avrebbe guardato don Corrado? Oh, don Corrado! ed era per lui, soltanto per lui che aveva subìto quell’oltraggio; era per lui che era stata immolata!...
Le sue gambe vacillavano, e la sua testa scoppiava, e intanto andava, sospinta da un bisogno istintivo di andar verso la casa, verso quella casa dove pur le ripugnava di entrare.

Luigi Natoli: CALVELLO IL BASTARDO – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi. 
L’opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
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Luigi Natoli: Le insinuazioni di don Gaetano La Paglia. Tratto da: La vecchia dell'aceto.

 
Si ammantò e se ne tornò a casa con la stessa sveltezza, percorrendo la stessa via; e giunse a casa un po’ affannata, temendo di trovarvi già il marito: ma fortunatamente questi non era ancora rientrato; ella si spogliò e si mise a preparare il desinare. E pensava. Quel compare. Certo non poteva essere stato che lui a mettere qualche pulce nell’orecchio a don Agostino. Per sentimento di dovere? Per scrupolosa difesa dell’onore minacciato? Chi, lui, don Gaetano La Paglia? Andiamo! a chi voleva darla ad intendere? Lo sapeva bene lei, chi era il compare e che cosa avrebbe voluto. Già fin da quando, il giorno del matrimonio, don Agostino glielo aveva presentato, come il suo buon amico e compare (gli aveva tenuto a battesimo un figliolo) essa aveva sentito una avversione istintiva per quell’uomo, il cui sorriso aveva qualcosa di equivoco e di falso. E non aveva potuto mai  vincere questa avversione. Egli veniva ogni giorno a trovare don Agostino, e scherzava con lei con l’aria bonacciona, con frasi innocenti, sebbene talvolta grassocce, e sempre grossolane: ma i suoi occhi, quando per caso ella si voltava a guardarlo, avevano una espressione che la irritava, e che erano in antitesi col tono ridanciano delle parole. E quegli occhi che la seguivano, la spiavano, la investigavano, la spogliavano quasi, ella se li sentiva sempre addosso. E ne aveva avuto più che fastidio, paura.
Egli si lamentava sempre della propria casa, della moglie, dei figli; era un inferno, dal quale non gli pareva l’ora di allontanarsi; qui, almeno, nella casa del compare, si respirava: c’era l’odore della felicità.
- Ah compare Agostino! Voi siete un uomo fortunato: avete una moglie bella, massaia, che vi fa rilucere la casa, che vi vuol bene!...
Una mattina o fosse caso, o proposito, il compare la incontrò dinanzi alla chiesa di S. Ippolito, donde ella usciva. Rosalia suppose che egli l’aspettasse. Lo salutò, e fece per tirare innanzi. Quegli la fermò:
- Oh che incontro felice! venite dalla messa?
- Come vedete.
- Sapete che ogni giorno vi fate più bella? Ah che uomo fortunato mio compare!... Se avessi una donna come a voi, mi parrebbe di vivere in paradiso!...
Le lanciava sguardi dei quali ella capiva il significato. Si fece seria, e senza rispondere al complimento, disse:
- Be’. Lasciatemi andare. Vi saluto, compare...
- E aspettate! Tanta prescia avete! Lasciatemi godere un poco la vostra compagnia...
- È tardi, e ho da apparecchiare... A momenti don Agostino rincasa...
- Ecco una moglie amorosa!... Ma sapete che l’invidio, don Agostino? Tutte le fortune capitano a lui; e non so come egli non si metta in ginocchio ad adorarvi! Io lo farei, come è vero Dio!...
Ella rise ironica.
- Siete galante, compare! ah! ah! Vi saluto! vi saluto!
E sgusciatagli da lato, se ne andò. Altro che galante! Sapeva bene fin dove don Gaetano La Paglia voleva arrivare! Alla larga di questi compari!... Le era venuto in testa di mettere in guardia il marito, di non fidarsi molto, ma le balenò il sospetto, che forse, il marito per provarla, avesse pregato il compare, con cui, come suol dirsi, divideva il respiro, di far quella scena. Guarda; era la cosa più probabile, perché in verità, credere che, data l’intimità, il compare pensasse di commettere, più che un tradimento, un sacrilegio, offendendo l’amicizia e il comparatico, credere questo, le riusciva odioso. Comunque il compare aveva trovato il fatto suo, e bisognava ora più che mai stare in guardia anche per l’altro.
L’altro era don Giovannino, il cavaliere: don Giovannino, il figlio di donna Elisabetta del Carretto e del marchese d’Altofonte, anche lui un frequentatore, meno assiduo però, anzi raro, della casa di don Agostino. 

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell’aceto.
L’opera è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 562 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni a mezzo corriere in tutta Italia. Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296)
On line su Amazon Prime e Ibs
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)

Luigi Natoli: Il matrimonio tra Rosalia e don Agostino. Tratto da: La vecchia dell'aceto.

Don Agostino Caracciolo, dal don e dal vestiario si riconosceva che era del ceto di quei piccoli impiegati, copisti o portieri negli uffici, scrivanelli o faccendieri che facevano da sensali presso i “paglietti”, cioè procuratori e avvocati di scarto, e qualche volta si adattavano anche a insegnare la Santa Croce ai ragazzi del popolo, a un grano al giorno. Era un uomo sui trent’anni, bruno di carnagione, di capelli nero, gli occhi impiccioliti dall’abitudine di tenerli socchiusi, come per raccogliere l’acutezza dello sguardo; una riga profonda tra le due sopracciglia corrugate; una espressione di sprezzo per gli altri e di coscienza del proprio valore; l’aria dell’uomo che sa il fatto suo, che “si fida”, che non indietreggia dinanzi ad un coltello, e sa impugnarne uno con tutte le regole dell’arte. Nel tono del saluto si sentiva l’abitudine di “masticare le parole”; nella camminatura, l’uomo che sa di imporre rispetto. Don Agostino Caracciolo non esercitava una professione fissa: si adattava a quelle che gli capitavano nelle mani, tanto per aver l’apparenza di vivere del suo lavoro. Da alcuni anni faceva il “razionale dei bottegai”; era, cioè, il contabile o ragioniere, che teneva i conti dei fruttaiuoli. 
Come “razionale dei bottegai” egli andava ogni mattina allo “scaro”, cioè al gran mercato all’aperto, dove dalle campagne e dai paesi circostanti i produttori portavano la frutta e gli ortaggi; vi si stabiliva il prezzo, in una specie di gara, col quale si cedevano ai rivenditori sia ambulanti che di bottega; i quali però non potevano rivendere che secondo la meta o calmiere. Questo “scaro” si teneva in uno spazio di terreno fra il bastione di porta San Giorgio e il Castello; don Agostino vi si recava passando per la via Grande; e un giorno vide uscire dalla vecchia porta di casa Rosalia con sua madre. Gli piacque, e da quel giorno passò e ripassò sperando di rivedere la fanciulla: e la vide dietro le vetrate del balconcino. Ella notò quel giovane ben vestito, con quell’aria di valentia, che pareva un “galantuomo”; ma non vi badò tanto; però la curiosità la spingeva a guardare sulla strada, per vedere se quel giovane ritornasse. Ma qualche giorno dopo don Agostino tenne la posta a Michela, sulla via; le si avvicinò cortesemente, le disse il suo nome e le sue intenzioni di sposare la fanciulla. A Michela non spiacque; volle tempo per informarsi. Se non era per questo! Egli le indicò le persone alle quali poteva domandare di lui; tutte persone degne, tra cui anche dei signori. Le informazioni furono ottime. Don Agostino? Oh! un uomo serio, rispettato, guadagnava bene, possedeva una casa, poteva mantenere la moglie. I costumi? Non c’era che dire. Allora, Michela, contenta, ne parlò a Rosalia: era un buon partito, e non bisognava lasciarselo sfuggire. Ma la fanciulla non partecipò all’entusiasmo materno. Sì, era un bel giovane, l’aveva già veduto; ma sposarlo poi... Non confessò alla madre che ella sognava ben altre nozze, e che quel matrimonio pareva umiliante per una che poteva essere davvero figlia di principi; ma disse che a maritarsi c’era tempo, che non aveva fretta, che voleva farsi una buona dote; e cento altre cose, che la madre abbatteva. Che cosa e chi voleva aspettare? A diciotto anni le ragazze erano non solo mogli, ma anche madri di almeno un marmocchio; voleva lasciar passare la giovinezza come una donna di cui nessuno ha voglia? Lei così bella? Voleva sgobbarsi ancora a perdere la vista sui ricami! Quando sarebbe gobba e cieca, chi la domanderebbe più? Don Agostino, lei se ne era informata, era un “galantuomo”, guardava bene, la farebbe vivere come una signora; che andava cercando di più? E poi credeva che sua madre fosse eterna? La vita è nelle mani di Dio: dall’oggi al domani si chiudono gli occhi per sempre.
Batti oggi, batti domani, Rosalia si sottomise alla volontà della madre, senza entusiasmo e senza avversione; del resto i matrimoni si facevano sempre così: i genitori li concludevano, i figli obbedivano e accettavano. La sera che don Agostino fu ammesso in casa a dare ufficialmente l’anello alla promessa sposa, questo parve a Rosalia così bello, che la conciliò subito col futuro marito: quella sera erano intervenuti i parenti di lui, tutta gente che portava il capello, e qualcuno aveva anche lo spadino; e le donne avevano il manto di seta; insomma persone civili. Le nozze si celebrarono di lì ad un anno; e la festa si tenne nella casa dello sposo. Fu una delusione per Rosalia, cresciuta nella strada, dietro il Coro dell’Olivella e poi nelle via Grande del Castello, quando si recò nel Cortigliazzo, si sentì stringere il cuore. Quel vicolo cieco, largo, lungo, intricato, con pianterreni che parevano tane, con qualche casa a un primo piano, vecchia e peggiore di quei tuguri, le fece calare un’ombra sul volto. Era uno spettacolo di miseria e di luridume: muri screpolati, finestre senza vetri, con le intelaiature infradicite, sugli aggetti di lavagna o di legno qualche vecchia pignata convertita in grasta, con un po’ di verde quasi timido; due o tre case avevano una scaletta esterna, lungo il muro dieci o dodici scalini di legno o di pietra, che conducevano a una specie di veroncello o ballatoio col parapetto di mattoni, dove si apriva l’uscio, accanto al quale era una finestra per dar lume alla stanza. Una di queste casette era quella di don Agostino; alla quale dava un po’ di vaghezza una vite, che salendo sul fianco di quel veroncello, formava una piccola pergola sul pianerottolo e sull’uscio; ed il suo verde e quello di due graste di garofani poste sul davanzale della finestra ravvivavano la povera facciata; la vecchiaia graziosa della quale don Agostino aveva cercato di coprire facendola imbiancare, e facendo tingere di azzurro oltremarino il passamano di legno della scaletta. Ma dentro, la casa, aveva migliore aspetto: erano tre stanze, dipinte una color di rosa, l’altra cilestre, la terza gialletta, con lo zoccolo e un piccolo fregio rossiccio. I mobili erano antichi, ma in buono stato; e non mancavano quelli necessari. V’era nell’interno un’aria di agiatezza, che appariva maggiore dopo l’impressione di povertà e di tristezza che si sentiva alla vista del Cortigliazzo.
I primi mesi, i sensi svegliati e appagati fecero trovare a Rosalia bello il suo nuovo stato: don Agostino, sebbene non espansivo, era affettuoso, la conduceva a spasso, dai parenti, alle feste pubbliche. Era però un po’ geloso e autoritario, e non tollerava che i suoi ordini si discutessero: la prima volta che Rosalia si rischiò di rimbeccare, n’ebbe un ceffone, perché imparasse a rispettare il marito. Fu il primo colpo di piccone nell’edificio artificioso; il primo solco nel fosso, che doveva separarne gli animi…
Don Agostino cominciò a riprendere le sue abitudini: usciva la sera, la chiudeva in casa e rientrava a notte avanzata: qualche volta faceva venire amici, ma Rosalia non doveva assistere alle conversazioni: il suo compito era di servire il vino, silenziosamente, e ritirarsi nella camera. Se ne doleva, rammaricandosi di aver ceduto, di averlo sposato; che in fondo poteva anche trovar di meglio. Don Agostino sogghignava:
- Già! si sa che sei figlia di un principe! Di quale vuoi essere figlia? di Paternò? di Butera? di Cattolica? Tuo padre era un guarda m... del Senato, e tua madre era una cassariota, che per non allattarti t’ha portato allo “Spirito Santo”!... Va là!
Ma non rimanevano a questo punto, le parole diventavano più acerbe; don Agostino ricorreva alle mani, Rosalia si difendeva con la lingua formidabile. Qualche volta don Agostino, il domani di una di queste baruffe, per ammansarla le regalava qualche vestito. – “Cotone!” – o “Lanetta!” – diceva lei con disprezzo; – “almeno fosse seta!”
Eppure per quella povera gente del vicinato, che viveva di fave lesse, o di minestre d’erbe selvatiche, Rosalia era una signora che aveva ogni ben di Dio, per esser felice, e se v’eran liti, voleva dire che, nè il marito nè la moglie sapevano godersi tanto bene. Sulle prime, qualche comare accorsa alle grida, aveva cercato di dar buoni consigli, che non bisogna rintuzzare coi mariti, che s’ha da fare la loro volontà; guai se prendono a sdegno la casa! Ella si impermalì; rispose secca secca di non aver bisogno di consigli; e che badasse ognuno agli imbrogli della sua casa. Per poco non ne nacque un pettegolezzo con le vicine: ognuna, colle mani sui fianchi, voleva sapere di che imbrogli parlava. Povertà ma onestà! E compari in casa non ne bazzicavano!...
Da allora Rosalia si inimicò il vicinato, e diventò il soggetto di tutte le malevolenze; essa non se ne curava: affettava un gran disprezzo, e quando usciva, attraversava il Cortigliazzo senza guardare nessuno. 

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell’aceto.
L’opera è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 562 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni a mezzo corriere in tutta Italia. Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296)
On line su Amazon Prime e Ibs
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)

lunedì 15 febbraio 2021

Luigi Natoli: La seconda guerra servile. Tratto da: Storia di Sicilia

 
Ma questa calma non durò a lungo. In seguito a rimostranze del re di Bitinia, il Senato romano deliberò (104 a. C.) che nessuna persona libera, di stato federato, potesse esser fatta prigioniera e servire come schiava in provincia romana. Questa disposizione sollevò reclami in Sicilia, dove essendo pretore P. Licinio Nerva, moltissimi schiavi domandavano di essere rimessi in libertà, perché presi con la violenza e venduti contro diritto. Il Pretore accolti i reclami, ne aveva in pochi giorni liberati ottocento, quando, per l’agitazione che s’era diffusa fra gli schiavi, i grandi proprietari romani e provinciali protestarono, e obbligarono il Pretore a sospendere le manomissioni, e rimandare ai padroni gli schiavi postulanti.
Delusi e paurosi di castighi, molti di questi, invece di ritornare ai padroni si rifugiarono nel bosco sacro e inviolabile dei Palici; ed ivi escogitarono i mezzi per riscattarsi in libertà. Capitanati da un certo Vario, insorsero ad Alicia, uccisero i padroni, e corsero per le campagne, eccitando gli altri alla rivolta. Il pretore Licinio Nerva mosse contro di loro, e col tradimento di un Titinio Gadeo, bandito, li ebbe in potere. Molti caddero combattendo, altri si precipitarono dalle rupi. Ma questo non fu che un primo episodio. Un’ottantina di schiavi uccisero il padrone Canio, romano, si gittarono in campagna e raccolti intorno a sé altre centinaia di schiavi, formarono un esercito. Nerva indugiò da prima, poi, potendolo, non li assalì, e andò a Eraclea donde contro di loro spedì M. Titinio con la milizia. Ma gli schiavi lo sconfissero, e la vittoria accrebbe il loro numero fino a seimila. Allora cercarono un capo, e lo trovarono in un Salvio, indovino e, come Euno, in rapporto con gli dei; ai cui responsi si credeva. Salvio riordinò l’esercito, lo condusse per le campagne, lo accrebbe fino ad avere ventimila pedoni e duemila cavalieri coi quali corse sopra Morganzio. Il Pretore allora si mosse per prenderlo alle spalle, ma ne ebbe la peggio.
Intanto un altro schiavo, Atenione di Cilicia, sollevava in armi torme di schiavi in Segesta. Questi, tenendolo per indovino, ebbero fede in lui, lo seguirono e si diedero a saccheggiare le campagne. Salvio, prese nome di Trifone e invitò Atenione a riconoscerlo re. Atenione accettò, lo aiutò a prendere Triocala, ma Salvio-Trifone, sospettando che gli togliesse la corona, lo fece a tradimento imprigionare.
Lucio Licinio Lucullo mandato da Roma con sedicimila uomini accresciuti dagli stanziali, mosse contro Triocala; Salvio allora liberò Atenione, che, dimenticando l’offesa, postosi a capo dell’esercito, forte ora di quarantamila uomini, volle affrontare i Romani in campo aperto. Presso Scirtea Atenione combattè valorosamente, ma ferito alle ginocchia non si resse; la sua caduta spaventò i suoi, che l’ebbero per morto, e fuggirono in Triocala, dove nella notte Atenione si trascinò. Lucullo non seppe approfittare della vittoria, e indugiò tanto, che Atenione poté organizzare la difesa, e costringerlo a levar l’assedio. Frattanto, morto Salvio, Atenione fu fatto re. La fortuna di domare la rivolta e chiudere le guerre servili, toccò al console M. Aquilio, che diede una memoranda sconfitta all’esercito degli schiavi. Egli e Atenione si scontrarono animosamente, Atenione restò ucciso e Aquilio ferito. Gli schiavi sfuggiti alla strage, eletto capo un Satiro, continuarono ancora un poco a difendere la loro vita e la loro libertà, finchè stanchi si resero, a patto di avere salva la vita. Aquilio bruttò la vittoria con la perfidia. Avuti nelle mani gli schiavi, li fece incatenare e li mandò a Roma, per essere esposti alle belve. Ma quegli uomini non vollero dare spettacolo a diletto dei vincitori e scesi sull’arena, si trafissero l’un l’altro. Satiro, rimasto ultimo, si uccise da sè. Così nell’anno 77 a. C. ebbero fine le guerre servili che minacciarono di sottrarre la Sicilia al dominio di Roma.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia (dalla preistoria al fascismo) – Il volume, è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata con lo pseudonimo di Maurus dalla casa editrice Ciuni nel 1935, e si divide in sette parti: Libro Primo (dalla preistoria alla conquista bizantina) Libro Secondo (dai Bizantini alla conquista Normanna) Libro Terzo (dalla nascita del Regno di Sicilia al Vespro siciliano) Libro Quarto (la Sicilia sotto gli Aragona) Libro Quinto (dai re di Casa d'Austria alle guerre di successione) Libro Sesto (Il dominio dei Borboni) Libro Settimo (Il Risorgimento). Il volume si conclude con la Bibliografia delle principali fonti consultate dall'autore e dall'Indice analitico dei luoghi e delle persone. In tutta l'opera Luigi Natoli padroneggia la materia con grande perizia storiografica e con la competente erudizione del grande letterato senza mai annoiare il lettore, analizzando i fatti con imparziale lucidità e con un linguaggio moderno, facendone un testo di riferimento ancora attuale e di facile consultazione. La copertina, di Niccolò Pizzorno, raccoglie alcuni dei personaggi "perno" della Storia di Sicilia, sullo sfondo degli stemmi delle principali famiglie nobili siciliane e della Trinacria. 
Pagine 509 – Prezzo di copertina € 24,00
Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it 
È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia 
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti i siti vendita online.
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Luigi Natoli: La prima guerra servile (139 a.C.) Tratto da: Storia di Sicilia.

Distrutta Cartagine, la Sicilia non ebbe più per Roma l’importanza di un centro d’operazioni; e mancò per questo l’interesse, cessando per l’Isola quella relativa prosperità che aveva goduto fin allora. Aperta ad avventurieri romani, che avevano la preferenza nelle terre censorie, proprietà della Repubblica, costoro cominciarono ad ingrandire i loro possedimenti, assorbendo e distruggendo le piccole proprietà; e formando quei latifondi, che furono causa del decadimento dell’agricoltura. I Siciliani ricchi seguirono il loro esempio; così vennero via via a mancare gli agricoltori; e per coltivare queste grandi estensioni di terreni, si rese necessaria l’opera degli schiavi. Il numero dei quali era, con le conquiste in Oriente, cresciuto enormemente in Italia, non solo per prigionieri, ma anche per le prede fatte dai pirati cretesi, che facevano orrido commercio di creature umane.
In Sicilia furono impiegati all’allevamento del bestiame e alla coltivazione della terra. Lavoravano con la catena al piede sotto la guardia di feroci aguzzini, la notte erano chiusi negli ergastoli, erano mal nutriti, bollati con marchi roventi, potevano essere uccisi dai padroni, impunemente: spesso per nutrirsi e vestirsi derubavano i viandanti. Bande di predoni scorazzavano così per le campagne; nè i Pretori provvedevano. Ma le crudeltà dei padroni e la miserabile vita fomentavano odi, desideri di libertà e di vendetta negli schiavi delle città.
Fra i padroni odiatissimi erano un Damofilo di Enna e la moglie Megallide, gli schiavi dei quali cominciarono a cospirare; e interrogato uno schiavo siro, Euno, che godeva fama di indovino, una notte forzati gli ergastoli e spezzate le catene assalirono improvvisamente la città di Enna, vi uccisero quanti potevano, e se ne fecero padroni (139 a. C., forse). Damofilo e la moglie, cercati e trovati in campagna furono uccisi; ma non fu torto un capello alla loro figlia, che aveva sempre usato pietà per gli schiavi; anzi fu tutelata e accompagnata presso i parenti. Alla notizia della rivolta, altre torme di schiavi accorsero a ingrossare le file di Euno, che prese il titolo di re, e in memoria della patria si rinominò Antioco. I pretori non avendo sufficienti forze, furono battuti; il che fece accrescere ancor più l’esercito ribelle. Un certo Cleone cilicio, intanto raccolto un migliaio di altri schiavi, venne a unirsi a Euno, lasciandogli il titolo e le insegne di re e tenendo per sè il comando supremo dell’esercito. Forti di ventimila combattenti, gli schiavi batterono successivamente i Romani, talvolta impadronendosi anche degli accampamenti, e facendo numerosi prigionieri. Due eserciti mandati da Roma, con L. Ipseo il primo, con L. Planico il secondo, furono sconfitti.
Poichè v’erano in Italia agitazioni per la legge agraria di T. Gracco, e altre rivolte scoppiavano in Oriente, era necessario e urgente per Roma domare i ribelli di Sicilia. Un forte esercito fu mandato col console Rupilio, che andò ad assediare Tauromenio, ma non riuscendo a espugnare la rocca con la forza, la cinse di blocco.
La carestia e la fame costrinsero i ribelli a orrende cose, poi per tradimento la rocca fu presa, e con essa la città con grande strage.
Compiuta quest’impresa, Rupilio si rivolse ad Enna, dove si eran chiusi Euno e Cleone; e cinse anch’essa di assedio, senza speranza di soccorsi. Cleone, preferì morire da prode: uscito con l’esercito affrontò il nemico, e cadde trafitto da più colpi. Euno potè fuggire con un migliaio di schiavi. Enna fu presa, dei prigionieri fu fatto scempio. Rupilio corse indi a dar la caccia a Euno, che raggiunse e accerchiò: gli schiavi, anziché rendersi si uccisero scambievolmente. Euno non ebbe questo coraggio: fu preso con quattro suoi servi, e gittato nel carcere di Morganzio, dove forse morì. Ma altri dice a Roma, dove poi fu condotto.
Non ebbe nè valore di duce, nè mente di ordinatore, nè animo di re, e non seppe approfittare della fortuna che gli aveva posto in mano un esercito così numeroso, e di gente disperata e doveva miseramente finire.
Rupilio scorrazzò per l’Isola, distruggendo le bande scomposte e disorientate degli schiavi, poi attese a riformare gli ordinamenti della provincia con quella legge che da lui prese il nome, e che mirava principalmente ad assicurare un miglior funzionamento della giustizia verso i non romani. Seguì un periodo relativamente calmo, nel quale al governo di Sicilia si alternarono Pretori non tristi con altri cattivi e disonesti, come quel M. Marco Papino Carbone, detto da Cicerone “gran ladro”.



Luigi Natoli: Storia di Sicilia (dalla preistoria al fascismo) – Il volume, è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata con lo pseudonimo di Maurus dalla casa editrice Ciuni nel 1935, e si divide in sette parti: Libro Primo (dalla preistoria alla conquista bizantina) Libro Secondo (dai Bizantini alla conquista Normanna) Libro Terzo (dalla nascita del Regno di Sicilia al Vespro siciliano) Libro Quarto (la Sicilia sotto gli Aragona) Libro Quinto (dai re di Casa d'Austria alle guerre di successione) Libro Sesto (Il dominio dei Borboni) Libro Settimo (Il Risorgimento). Il volume si conclude con la Bibliografia delle principali fonti consultate dall'autore e dall'Indice analitico dei luoghi e delle persone. In tutta l'opera Luigi Natoli padroneggia la materia con grande perizia storiografica e con la competente erudizione del grande letterato senza mai annoiare il lettore, analizzando i fatti con imparziale lucidità e con un linguaggio moderno, facendone un testo di riferimento ancora attuale e di facile consultazione. La copertina, di Niccolò Pizzorno, raccoglie alcuni dei personaggi "perno" della Storia di Sicilia, sullo sfondo degli stemmi delle principali famiglie nobili siciliane e della Trinacria. 
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Luigi Natoli: Il vicerè Moncada e la rivolta di Giovan Luca Squarcialupo. Tratto da: Storia di Sicilia.

Non ostante i reclami, il Moncada, forte dell’amicizia di alcuni signori, era riuscito a farsi riconfermare per un secondo triennio; e sperava una terza ricompensa, quando gli giunse privatamente notizia della morte del Re. Costui la tenne occulta, non convocò, come doveva, il Parlamento, nè depose l’incarico di reggere il governo, nelle mani del Gran Giustiziere come era disposto. Ma la notizia della morte del Re veniva diffusa dal conte di Golisano, quel medesimo che aveva sedato il tumulto del 1511; il quale scelto come ambasciatore di Catania, sostenne in Parlamento che il Moncada era scaduto d’ufficio e i principali baroni, fra cui il conte di Cammarata, convennero con lui. Il Vicerè, disperando di riuscire, ricorse al Sacro Consiglio, nel quale aveva amici, e questo giudicò doversi applicare la prammatica di re Giovanni, che prescriveva che in caso di morte del sovrano il vicerè rimanesse in carica, fino alle disposizioni del nuovo re. Allora don Ugo sciolse il Parlamento, ma i baroni non si sciolsero: uscirono dalla città tutti insieme, e raccolti i procuratori dei comuni demaniali s’adunarono a Termini, e nel duomo acclamarono Carlo e Giovanna, e fecero redigere un atto notarile, il 5 marzo 1516.
Allora il Moncada si risolvette a far l’acclamazione dei nuovi sovrani; però mentre cavalcava per la città, avvenne un tumulto contro gli ebrei convertiti. La vista di don Ugo, mutò l’umore del popolo, che cominciò a gridare: fuori Moncada! Egli turbato si rinserrò nello Steri; e per ingraziarsi il popolo, sospese la riscossione di un gravoso donativo; obbligò Gian Luca Barbieri a lasciar l’ufficio di Capitano Giustiziere, e preparò una frode. Infatti, essendo stato d’urgenza convocato il Consiglio Civico composto dai consoli delle maestranze, vi si diffondeva la voce dell’arrivo d’un messo reale. Il Pretore e i Giurati sospeso il Consiglio, accorsero per onorarlo, trascinandosi il popolo; ma il messo reale fu riconosciuto per un famiglio del Vicerè e le patenti regie, che confermavano il Moncada, furono per la prontezza di un popolano riconosciute false. Ne nacque più fiero tumulto: il popolo si armò, corse a piazza Marina ad assalire lo Steri con sassi, e artiglierie. Il Vicerè, travestito, ricoverò sulle galere del prossimo porto. Il conte di Adernò, Blasco Lanza e altri partigiani del Vicerè fuggirono; lo Steri fu saccheggiato. La folla risalì pel Cassaro, via principale, e giunse alla reggia, dove era allogato il Sant’Offizio, e tratto l’Inquisitore fra’ Cervera, lo menava a caval d’un asino alla Cala ad imbarcarsi.
Il Senato assumeva il potere...
Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, calabrese, di nobile e antica schiatta, seguendo le istruzioni regie, rimetteva negli uffici gli antichi partigiani del Moncada. Questo fatto, l’esilio dei due presidenti a Napoli, e più di tutto l’assenza dei conti di Golisano e di Cammarata, dei quali si diceva fossero decapitati o imprigionati, tenevano Palermo agitata e sospetta. Di questo stato d’animo approfittò Giovan Luca Squarcialupo, giovane discendente da patrizia famiglia oriunda da Pisa, ma di scarsa fortuna. Costui vagheggiava nell’animo disegni di liberi reggimenti, come quelli di Pisa, e comunicatili ad altri giovani fidati e a popolani coraggiosi e pronti ai rischi, li adunò nel castello di Margana presso Vicari, dove si accordarono sul da fare. Dei nobili v’erano fra gli altri Baldassare Settimo, Cristoforo de Benedetto, Alfonso La Rosa, Pietro Spatafora. Si stabilì di assalire i giudici della Magna Curia e gli altri magistrati, strumenti già del Moncada e ora del Monteleone, il 23 luglio 1517, nel Duomo, durante il vespro di S. Cristina, patrona della Città.
Ma quel giorno la congiura fu rivelata al Luogotenente Generale, il quale turbato sospendeva la cavalcata festiva, e si chiudeva nello Steri con pochi soldati. Lo Squarcialupo e i suoi compagni appena udite le campane del Duomo, vi corsero e lo trovaron deserto: capirono di essere stati traditi, ma non desistettero. Ucciso Paolo Gaggio, innocuo archivario del Comune, corsero per la via Marmorea o Cassaro. Erano ventidue, ma poco dopo diventarono moltitudine, e gridando: muoiano gli assassini dei conti, investirono lo Steri. Il Pignatelli credette ammansirli con parole da una finestra, affermando che i conti erano vivi, ma non fu inteso. Era calata la notte, la folla era cresciuta, e suonavano le campane a stormo. Al chiarore delle torce lo Steri fu preso d’assalto; due giudici della Magna Curia furon precipitati dalle finestre: il conte di Monteleone, snidato, non ebbe torto un capello, ma disarmato, fu condotto e chiuso nella Reggia. La rivolta dilagò: ucciso Priamo Capozzo, giurista e poeta, cercato invano Blasco Lanza, ne fu bruciata la casa e vandalicamente distrutta la ricca biblioteca. La fuga salvò i partigiani più noti del Moncada. Il Sant’Offizio fu dato alle fiamme. Termini, Trapani, Catania, paesi minori insorsero; rinacquero antiche gare e fazioni e dappertutto uccisioni, incendi, rovine.
Lo Squarcialupo rifaceva il Senato, e riprendeva il suo posto di giurato, il pretore Giovanni Ventimiglia mandava lettere a Catania e un’altra al Re, esponendo le ragioni dei fatti, e supplicandolo di rimandare i Conti. In fondo a tutto questo movimento c’era l’avversione allo straniero e l’aspirazione all’indipendenza.
Ma nell’ombra si tramava la controrivolta. Due fratelli Bologna, Nicolò e Francesco, la concepirono, si intesero con Pompilio Imperatore, Pietro d’Afflitto, Alfonso Saladino e Girolamo Imbonetta, ed offersero al Luogotenente di ammazzare lo Squarcialupo e i compagni. Il Pignatelli ne gioì.
L’8 settembre del 1517 convenivano nella chiesa dell’Annunziata a Porta S. Giorgio, lo Squarcialupo coi Bologna, coi seguiti, e vollero prima udir messa: ma nel mentre il sacerdote celebrava, a un segno del Ventimiglia, Nicolò Bologna si getta su Cristoforo de Benedetto e lo ammazza, Pietro d’Afflitto uccide Alfonso Rosa, Pompilio Imperatore dopo un attimo di lotta abbatte Gian Luca Squarcialupo. Allora Giovanni Ventimiglia esce, e arringa la folla stupita: gli armati condotti dai congiurati escono gridando Viva il re e muoiano i traditori: i partigiani di Gian Luca pavidi si sbandano. Cominciano le uccisioni e durano fino a sera. Seguono bandi e leggi severe, si ricostituisce un nuovo Senato, e si inviano lettere al Pignatelli, che era fuggito a Messina, per farlo ritornare.
La cospirazione di Gian Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati e senza un fine determinato: egli fu biasimato, e i suoi uccisori lodati. Ma con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse delle cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la perduta indipendenza.
Il Luogotenente, a cose quiete, ritornato in Palermo, ordinò processi: i popolani furono impiccati; gli uccisori dei giudici furono alla loro volta precipitati dalle finestre dello Steri; i fratelli e lo zio dello Squarcialupo decapitati, le loro case abbattute. Seguirono altri supplizi. Così egli annunziò al Re di aver salvata la Sicilia. Il Re lo nominò vicerè.

Luigi Natoli: Storia di Sicilia (Dalla preistoria al fascismo) Il volume, è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata con lo pseudonimo di Maurus dalla casa editrice Ciuni nel 1935, e si divide in sette parti: Libro Primo (dalla preistoria alla conquista bizantina) Libro Secondo (dai Bizantini alla conquista Normanna) Libro Terzo (dalla nascita del Regno di Sicilia al Vespro siciliano) Libro Quarto (la Sicilia sotto gli Aragona) Libro Quinto (dai re di Casa d'Austria alle guerre di successione) Libro Sesto (Il dominio dei Borboni) Libro Settimo (Il Risorgimento). Il volume si conclude con la Bibliografia delle principali fonti consultate dall'autore e dall'Indice analitico dei luoghi e delle persone. In tutta l'opera Luigi Natoli padroneggia la materia con grande perizia storiografica e con la competente erudizione del grande letterato senza mai annoiare il lettore, analizzando i fatti con imparziale lucidità e con un linguaggio moderno, facendone un testo di riferimento ancora attuale e di facile consultazione. La copertina, di Niccolò Pizzorno, raccoglie alcuni dei personaggi "perno" della Storia di Sicilia, sullo sfondo degli stemmi delle principali famiglie nobili siciliane e della Trinacria. 
Pagine 509 – Prezzo di copertina € 24,00

Tutti i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it

È possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere in tutta Italia
Disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, e in tutti i siti vendita online.
Disponibili a Palermo in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
Per qualsiasi informazione: ibuonicugini@libero.it – Cell. 3457416697 – Whatsapp 3894697296
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Da oggi le opere di Luigi Natoli in vendita alla Nuova Ipsa Editore - Via dei Leoni 71 - Palermo

 









lunedì 8 febbraio 2021

Luigi Natoli: E l'alba illuminò uno spettacolo di orrore... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 1282

Per la città durava la strage: durò tutta la notte fra gli incendi delle case.
L’alba illuminò uno spettacolo di orrore. Cadaveri da per tutto, orrendamente mutilati, addossati gli uni sopra gli altri, sulle vie, sulle porte; penzolanti dalle finestre, in nudità spaventevoli che mostravan lo strazio della bestiale libidine; e sangue dovunque, sui muri, sulle porte, gocciolante dalle finestre, scendente a rivoli per le strade, allargandosi in pozze.
E in mezzo a tanto scempio incredibile erravano torme di soldati ubbriachi, che, non avendo più nessuno da scannare, si davano al saccheggio e alle arsioni; e andavan quali carichi, quali in cerca di nuovo bottino per le strade deserte. 
Nella piazza dinanzi al porto poco più di un centinaio di prigionieri, che il sire d’Estendart aveva riservato per un suo giocondo spettacolo, miravano con occhio istupidito la strage d’intorno; e pareva il dolore avesse spento in loro ogni senso di pietà o, forse, il conoscimento.
Quando il sole fu alto, messer Guglielmo l’Estendart si fe’ portare una sedia, e postala sopra una specie di trono fatto elevare di proposito, vi sedette, e fe’ battere nei tamburi, per convocar a raccolta su la piazza, le sue orde, sporche di sangue.
- Chiamatemi Le Tonneau!
Le Tonneau era il soprannome di un soldato: un gigante dal pugno così formidabile che atterrava un bove. Quella notte con una scure aveva fatto «meraviglie». Venne dinanzi al capitano tutto rosso del sangue sparso: ne aveva nelle vesti, nelle mani, nei capelli: metteva orrore.
I prigionieri, che stavano lì in un canto tremanti, sentirono mancarsi il sangue.
- Le Tonneau! – gridò il sire d’Estendart; – non hai uno spadone? cercane uno e che sia ben tagliente. Vo’ provare se il tuo braccio è ancor solido.
Il gigante grugnì. Pochi minuti dopo egli aveva il suo spadone.
Allora cominciò uno spettacolo di ferocia inimmaginabile; del quale gli scrittori del continente, che impallidiscon d’orrore per la vendetta siciliana del Vespro, tacciono, o parlan di volo.
Nondimeno è storia; ed oltrepassa il credibile.
A un cenno di messer Guglielmo l’Estendart, i soldati strappavano uno dei prigionieri, e lo gittavan legato dinanzi a Le Tonneau. Egli sollevava il suo spadone, e con un colpo recideva il capo dell’infelice. Cadevano in un fiotto di sangue capo e busto per terra, fra i lazzi e le risa della soldatesca, e il compiacimento del sire d’Estendart!
Così, a uno a uno, i prigionieri eran tratti al supplizio: mastro Le Tonneau faceva prodigi; qualche volta era costretto a raddoppiare il colpo. Il sudore gli bagnava il volto e si mesceva col sangue delle vittime che gli spruzzava addosso...
Così cadde Agosta; e non vi rimase neppur un cittadino. Re Carlo ne fu soddisfatto; e il papa assolvette i prodi francesi da ogni peccato!




Luigi Natoli: Il Vespro sicilianoRomanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo di una delle più famose rivoluzioni della Storia di Sicilia.
L’edizione, interamente restaurata a iniziare dallo stesso titolo, è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1915. Con la sua perizia di grande storiografo e narratore, l’autore ci consegna uno dei capolavori della letteratura popolare mondiale che nulla trascura di quel periodo storico come l’orrenda strage di Agosta, le trame politiche cospirative dei baroni siciliani, l’orgoglioso episodio di Gamma Zita a Catania, la valorosa resistenza della città di Messina al dominio francese degli Angiò. Il romanzo ricco di fatti e personaggi realmente accaduti o esistiti, ci regala l’indimenticabile eroe Giordano De Albellis, intollerante alle ingiustizie, innamorato della sua terra, della libertà e della sua bella Odette.
Pagine 945 – Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Tutti i volumi sono disponibili al sito www.ibuonicuginieditori.it al link: https://www.ibuonicuginieditori.it/luigi-natoli-tutte-le-opere.html
(è possibile ordinare alla mail ibuonicugini@libero.it, al cell. 3457416697 o inviando un messaggio whatsapp al 3894697296. Consegna a mezzo corriere.)
Sono disponibili su Amazon Prime o al venditore I Buoni Cugini, su Ibs, al sito lafeltrinelli.it e in tutti i siti vendita online.
Sono disponibili a Palermo in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), La Nuova Bancarella (di fronte La Feltrinelli), Libreria Sciuti (Via Sciuti n. 91/f), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15).
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Luigi Natoli: Nessun agostano doveva sopravvivere... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Sicilia del 1282

 
Scampo non v’era. Tutto l’esercito francese s’era rovesciato dentro, occupando le torri e il castello. Le porte eran tutte custodite anche dalla parte del mare; e perchè non si trovasse mezzo di fuga, i soldati di Francia tagliavan le gomene delle navi grandi e piccole, per cui le navi, dalle stesse onde trasportate, si allontanavano dalla spiaggia.
L’ordine del re Carlo era preciso: nessun agostano dover sopravvivere; ma che tutti fossero passati a fil di spada. 
Con acute e pazze grida di terrore donne e uomini, di ogni età, d’ogni condizione, cercavan sottrarsi con la fuga alla morte, immemori di sè e d’altri; si gittavano dalle finestre, se non riuscivano a scender dalle scale: correvano senza sapere dove; cansavano un branco di quelle belve umane, e cadevano in un altro; e presi fra due bande erano trucidati, fatti a pezzi, per voluttà rabbiosa di sangue, non per necessità di guerra.
Altra gente cercava ricovero nelle chiese, pensando che la santità del luogo avrebbe arrestato la furia sanguinaria; vana speranza, chè i nemici vi piombavano come iene attirate dall’odore della carne.
Piombavano su quelle moltitudini inermi e inoffensive, donne e vecchi e fanciulli la più parte, che, prosternati dinanzi gli altari, invocavano l’aiuto divino. L’aiuto divino non scese, non disarmò le orde belluine degli assassini.
Frementi di gioia e di voluttà, come il leone nel serraglio, quando gli si gitta il pasto, si lanciavano su quei miseri, che invano ne tentavano la pietà; le loro spade si affondavano nei seni seminudi, le loro azze spaccavano le teste lagrimose, recidevan le mani che si alzavan supplicanti o per istinto di schermo.
Soltanto le giovani donne e belle stornavan per un momento la ferocia delle armi, ma per maggiore scempio. Tre o quattro soldati si gittavano sopra una fanciulla, la trascinavano sugli altari, la violavano, ne facevano strazio: l’ultimo, satollata la libidine, la scannava lì, sull’altare profanato.
Le madri invano difendevano i figli.
- Sangue di paterini e di ribelli! – gridavan quegli efferati.
E strappavano i fanciulli, e li sgozzavano, e recidevano le innocenti teste, e se le palleggiavano orrendamente!...
Questa la gente che il papa aveva benedetta e assolta da ogni peccato; e che serviva la Chiesa e Dio!...
Messer Raone, destato al primo irrompere degli assalitori, e affacciatosi alla finestra, aveva veduto allo squassare delle torce l’onda feroce, e aveva capito subito che la città era presa; che non si poteva difendersi, e che non rimanevano se non due vie: o raccogliere quanta più gente si potesse, e morire con le armi in pugno, o tentare l’uscita dalla città per ordinar altrove la difesa.
Ma di raccogliere gente non era a parlare.
Al grido: «Tradimento! tradimento!» – coloro che avrebbero potuto opporre anche un simulacro di resistenza, fuggivano esterrefatti, per ogni dove. Egli dunque era solo: e non aveva un minuto da perdere.
- Vieni, – disse al figlio.
Ebbero appena il tempo di coprirsi il capo con un elmetto, e impugnar le spade: il rumore degli assalti cresceva nella contrada. Approfittando dell’ombra, essi discesero nella strada, svoltarono per un vicolo vicino, non ancora invaso, pel quale, parendo offrire uno scampo, correvano già altri fuggitivi.
Il vicolo conduceva al mare: il mare era la salvezza; e la salvezza poteva anche essere la futura vendetta della patria.
Ma intanto che alcuni scioglievano qualche barca da pescatori, per montarvi, ecco le torme dei francesi precipitar loro addosso urlando ferocissimamente:
- Ammazza! ammazza!... Tagliate le gomene!...
- Fuggi, salvati nella barca! – gridò messer Raone al figliuolo. Giordano domandò:
- E voi?
- Io scannerò quei cani!...
- Resto con voi, – disse il giovanetto semplicemente. 
Tre o quattro fra agostani e toscani, vinti dall’esempio, si restrinsero intorno a messer Raone con le armi in pugno.
Disperato e inutile valore! La resistenza di quei prodi non fu lunga. I Francesi, da prima stupiti, poi adontati che un pugno d’uomini osasse tener testa, si scagliarono con impeto feroce, e con la prevalenza del numero. Quei prodi difendendosi e offendendo si ritiravano indietro, verso le barche, dove già alcuni fuggiaschi montavano.
Messer Raone faceva prodigi, per dar tempo agli altri di imbarcarsi, e cercava di coprir con la sua la persona del figlio, intanto che lo pregava di mettersi in salvo; ma Giordano, alla sua volta, cercava di salvare il padre dai colpi nemici; e, temerario per la sua giovinezza, fatto più temerario dall’amore filiale, vedendo che tre spade già trovavan la via di ferire messer Raone, si gittò innanzi disperatamente. Due Francesi caddero; ma Giordano cadde anch’esso.
Allora messer Raone, urlando, pazzo dal dolore, roteando la spada formidabilmente, seminando la morte e il terrore, si fece largo, e approfittando del momentaneo indietreggiar dei nemici, sollevò il figlio, e lo gittò fra le braccia di un agostano che era già per entrare in barca; ma nell’atto stesso, dai Francesi riavutisi, cadde trafitto da quattro o cinque colpi.
L’agostano tirò a sè furiosamente il giovinetto; ed ebbe appena il tempo di gittarlo in fondo alla barca, che questa si staccò dalla riva, a furia di remi.
Giordano non vide cadere il padre: la ferita lo aveva fatto uscir di sensi...



Il Vespro sicilianoRomanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo di una delle più famose rivoluzioni della Storia di Sicilia.
L’edizione, interamente restaurata a iniziare dallo stesso titolo, è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1915. Con la sua perizia di grande storiografo e narratore, l’autore ci consegna uno dei capolavori della letteratura popolare mondiale che nulla trascura di quel periodo storico come l’orrenda strage di Agosta, le trame politiche cospirative dei baroni siciliani, l’orgoglioso episodio di Gamma Zita a Catania, la valorosa resistenza della città di Messina al dominio francese degli Angiò. Il romanzo ricco di fatti e personaggi realmente accaduti o esistiti, ci regala l’indimenticabile eroe Giordano De Albellis, intollerante alle ingiustizie, innamorato della sua terra, della libertà e della sua bella Odette.
Pagine 945 – Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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