venerdì 26 gennaio 2024

Luigi Natoli: Lilibeo e la vendita degli schiavi. Tratto da: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano

Lilibeo offriva ancora lo spettacolo di una città mista nei suoi edifici di elementi cartaginesi e di elementi greco-romani. Per quanto da un secolo circa appartenesse a questi ultimi, la più che secolare dimora fattavi da quelli, per i quali era una base di domini in Sicilia, aveva lasciato molto della sua vita nella struttura di qualche tempio, in una parte del Foro, in parecchie case, cupe come le loro anime.
Il Foro era situato nel bel mezzo della città, nelle vicinanze del mare. Era una piazza piuttosto lunga che larga, circondata di colonne, e dentro i portici era piena di botteghe. Ivi erano gli orafi, i mercanti, i granai; ivi i macellai, i fornai, i vinai; ivi si commerciava. A un capo della piazza v’era la magistratura, accanto v’era il palazzo del questore; di fronte, il tempio trasformato romanamente, e dedicato a Giove.
La vita pubblica si svolgeva nel Foro, e anche la privata nelle sue relazioni sociali. I cittadini, oltre che per acquistarvi ogni cosa utile a vivere, vi convenivano per chiacchierare, discutere, concludere gli affari; perché ancora non era invalso l’uso dei bagni a luoghi di ritrovo, come oggi sono i caffè e i circoli. Le notizie si apprendevano nel Foro, nelle taverne argentarie, negli unguentari e simili botteghe, frequentate dai cavalieri romani, dai ricchi siciliani, dalle donne che amavano i profumi.
Caio Cecilio fendè la folla, che gli antiambulani avevano diviso in due ali, e si avvicinò alla catasta. Gli schiavi erano tutti giovani, nessuno dei quali toccava ancora i venticinque anni. Il cartello che pendeva sul petto di ognuno diceva la patria, l’età e le attitudini. Erano tutti gente scelta; v’erano Sirii e Liburni, abili portatori; Frigi, Lici, Greci d’Asia buoni per servire a tavola; Numidi atti a far da messaggeri e da corrieri; vi erano buoni pastori, palafrenieri, bagnini, tonsori; e fra le donne: orlatrici, cinstore e perfino una ostetrica.
Erano alla mercè dei visitatori: che li palpavano, li esaminavano da ogni parte, ne provavano la forza e l’agilità, ne valutavano il prezzo, ma il più delle volte se ne andavano senza acquistarne.
Caio Cecilio andava osservando ad uno ad uno quei poveri schiavi; li osservava e domandava al mercante le loro qualità e perché fossero schiavi. Si fermò dinanzi ad un giovane di circa vent’anni. Era alto e muscoloso e mostrava di possedere una forza fisica superiore agli altri, una forza morale, quasi la conoscenza del proprio valore, e un rispetto verso di sé, da non aver confronti. Era di carnagione abbronzata dal sole, ma bianca in se stessa, con i capelli castani e sul volto una leggera lanugine bionda; il naso diritto, la bocca bella ma sdegnosa, il mento quadrato; ma gli occhi scuri e grandi avevano una finezza e nel tempo stesso un fascino tale che attirava la simpatia di chi lo mirava.
Caio Cecilio lo guardò in silenzio, lesse il cartello: “Bionte, soprannominato Elio, nacque in Cirene, nel 632 di Roma, atto a qualunque ufficio”. Poi si volse al mercante:
- Compro costui se mi accomoda…
- Oh, puoi esaminarle quanto vuoi, domine. Non v’è schiavo migliore di lui.
Caio Cecilio lo tastava da ogni lato, gli faceva aprire la bocca e guardava i denti: bianchi, solidi e forti; gli metteva la mano sul cuore.
- Non ha difetti occulti?
- Oh, per Ercole! Che dici tu! È sanissimo. Te lo do con ogni malleveria. Non è fuggitivo perché avrebbe se non altro, rasa la metà dei capelli. Per questo, non lo cedo per meno di centomila sesterzi.
- Caro – replicò Caio Cecilio: – per diecimila sesterzi…
- Oh santi Numi; e tu Ermete fa che questo illustre padrone si persuada! Mi offre diecimila sesterzi! Ma ne vale duecentomila! È buono, anzi eccelle in tutto! Mettilo a bifolco, è capace di domare il più riottoso dei tori; mettilo a un’arte, e ti farà stipi o chiavi incredibili; mettilo a contabile e ti farà trovare i conti in regola. Non ti dico della sua forza…


Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato in Sicilia al tempo della seconda guerra servile, nel 103 a.C.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Sonzogno nel 1935.
Pagine 387 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi, 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo, 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca, 102), Libreria Forense (Via Maqueda 185)

Luigi Natoli: Gli schiavi non si difendevano, si offrivano alla morte, generosa a chi moriva in guerra, ma ignominiosa a chi moriva in supplizio.

Atenione intanto si preparava alla battaglia.
Giova qui ricordare questa battaglia, ricostruendola sui dati forniti da Diodoro Siculo e che fu la maggiore, se non la decisiva, combattuta in quella seconda guerra servile.
L’esercito degli schiavi, uscito da Triocala, si aggirava intorno a quarantamila uomini, pei quali sopraffare diciassettemila Romani doveva essere un giuoco. Percorrendo una via tra valli e monti lungo l’Alba e, costeggiando quella che oggi dicesi Gran Montagna, guadando fiumicelli, si accampò alle radici dei monti Sicani, in un luogo che offriva modo di schierarsi. Il campo dei Romani era a dodici stadi di distanza. Il luogo era aperto, le foreste di querce e di faggi erano lontane; e più lontano ancora si levavano nel cielo nitido le creste dei monti detti oggi Genuardo e Trione.
Salvio divise il grosso delle truppe affidandolo a valorosi capitani. I frombolieri pose innanzi per affrontare i primi il nemico, dispose ai lati la cavalleria per appoggiare le truppe; duecento cavalieri scelti sotto il comando di Atenione stavano presso il re, per accorrere dove si manifestasse il bisogno. Salvio ordinò sacrifici agli Dei, che furono diversi, come diverso era il paese degli schiavi, ognuno pregando quella divinità a cui credeva. Iremisul pei Galli, Astarte pei Cartaginesi, Ares o Apollo pei Greci.I Romani, di poco più di un terzo degli schiavi, formavano tre legioni, appoggiate dai Bitini, Tessali e Acarniani, e più dagli ottocento Lucani e dai Siculi, posti sotto Clepso valoroso ed esperto. Lucilio Lucullo ordinò propizi sacrifici a Giove, perché favorisse le loro armi, e interrogò gli aruspici. Le risposte furono come al solito sibilline, ma i Romani le interpretarono secondo le proprie aspirazioni.
Per più giorni i frombolieri dall’una parte e dall’altra si proiettavano ghiande di piombo, con iscrizioni: quelli di Salvio, per esempio, dicevano: “Pigliati questo”, o “A che venisti?” o “Viva Trifone!”; quelli di Lucullo invece: “Va’ alla malora”, ovvero “Schiavo, pensaci”. Con i frombolieri si alternavano i veliti, armati alla leggera, che facevano delle scorrerie: preparazione necessaria, alla battaglia.
La quale finalmente eruppe come un fiume contenuto da un pezzo entro angusti confini, e che, cresciuto da piogge, improvvisamente dilaga. Prima i veliti attaccarono, seguiti dai frombolieri, i quali avevano ordine di ritirarsi dietro gli astari, quando questi si avanzavano. Da una parte e dall’altra si spiegavano i vessilli e le insegne; più numerosi e più ordinati quelli dei Romani atti alla guerra, sprezzanti del pericolo, persuasi che si battevano perché così voleva Roma, senza domandare il perché del loro sacrificio; si avanzavano disciplinati, fermi in cuore, sicuri. Erano pieni di spirito.
Gli schiavi non avevano questa unità. Patrie diverse, diversi i linguaggi e i costumi, essi non combattevano che per conservare quella libertà che avevano conquistato a prezzo di sangue e di rapine. Era la disperazione che presiedeva le loro azioni; sapevano di non trovare grazia presso i Romani: o la morte sul campo o crocifissi.
Il primo scontro fu tremendo; ogni Romano aveva contro più di due schiavi. Lucullo da un canto e Salvio dall’altro correvano a cavallo tra le file dei propri soldati, incoraggiandoli. Il Pretore aveva a fianco Cleone, i cui capelli grigi e il viso asciutto, solcato dai patimenti, aveva una espressione di fierezza, che poteva molto nei soldati. S’erano fermati, e guardavano l’esito della pugna, che era incerto. Dietro a loro stavano un mille uomini di riserva.
- Che te ne pare del combattimento? – domandò Lucullo a Cleone.
Questi gli indicò a sinistra: la legione cedeva a poco a poco: si trattava di un aggiramento tentato dagli schiavi; riuscendo, i Romani erano perduti. Intuì il Pretore.
Si rivolse ai suoi e:
- Avanti voi! – gridò.
E si lanciò alla sinistra.
La valanga umana, rovesciatasi da quella parte, trattenne le schiere che indietreggiavano, le incoraggiò, le voltò all’offensiva. Fu una ripresa violenta, irresistibile; spade e lance si cozzavano, si respingevano con furore cadevano da una parte e dall’altra, ma più erano gli schiavi; le armi romane non ferivano invano, il Pretore e Cleone correvano dove più era il pericolo; le loro spade non erano inoperose, il sangue rosseggiava sulle lame. Sotto l’infuriare della ripresa del combattimento gli schiavi cominciarono alla loro volta a venir meno alla difesa. Questo movimento a ritroso si propagò man mano nelle altre schiere, al centro e all’altra estremità.
Queste inutilmente avevano urtato i Romani. Sebbene più numerose, non potevano offrire che una fronte più ristretta; e non potevano distendersi per aver modo di combattere più agevolmente. Il fronte dei Romani era duro e non cedeva. Quando alla loro destra videro i propri compagni cedere ai colpi dei Romani, gli schiavi sentirono venir meno la loro fede nella vittoria. Cominciarono a ritirarsi: poi a fuggire.
Ma Atenione esclamò:
- Vedremo fuggire i nostri dinanzi ai Romani?
E gridato ai duecento cavalieri: – A me! – si gittò come una furia contro i fuggenti rampognandoli fieramente. – Vergogna!… E che racconterete ai figli, che siete fuggiti in quarantamila contro diciassettemila?
Quei duecento cavalli, galoppanti in ordine serrato, arrestarono i fuggenti, si opposero alle legioni vittoriose, le assalirono. L’impeto li gettò contro di esse disperatamente; le spade si affondarono, spezzarono le loriche, percossero, piagarono, seminando la morte. Quei cavalieri parvero cosa meravigliosa, moltiplicatasi all’infinito. E avvenne l’effetto contrario a quello che prima si era manifestato; i Romani alla loro volta indietreggiarono; ma non si diedero per vinti. Intorno ad Atenione si affollarono i più per ucciderlo; molti sotto la sua spada caddero; egli fu ferito alle ginocchia da due soldati romani che volevano scavalcarlo e finirlo. Ma Atenione uccise i soldati e non cadde, pure non si sentiva più sicuro in sella. V’era intorno un mucchio di morti e di feriti, i cui gemiti si confondevano con le grida dei combattenti; e il mucchio aumentava. Atenione, sanguinante, lacero, pareva il genio della morte e della distruzione.
Lucullo, vedendo i suoi vacillare, corse in loro aiuto:
- Uccidetemi quell’uomo!
Atenione, assalito da ogni parte, colpito al petto, cadde col suo cavallo; altri caddero con lui.
- Dov’è Atenione? – Lo cercarono invano, poi una voce disse: – “È morto!”. – E allora lo scoramento improvviso si impadronì degli schiavi. Mancato l’animatore, l’invincibile, il coraggio venne meno; i cavalieri indietreggiarono, i fanti fuggirono. Nella fuga generale trascinarono cavalli e cavalieri. Per le vicende della battaglia i romani ripresero l’offensiva. Gli schiavi non si difendevano, si offrivano alla morte, generosa a chi moriva in guerra, ma ignominiosa a chi moriva in supplizio.
Era l’ora ottava; la fuga, nella quale il re Salvio che invano tentava radunare i suoi e ricondurli alla pugna, fu travolto, sottrasse parte dell’esercito alla carneficina, ma si contarono ben ventimila schiavi sul terreno; i Romani celebrarono il loro trionfo sul campo, ma non raccolsero il frutto della vittoria. Erano stanchi, rinunziarono a inseguire i fuggiaschi, e non riuscirono a sedare del tutto la ribellione.


Luigi Natoli: Gli Schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato in Sicilia al tempo della seconda guerra servile, nel 103 a.C.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice Sonzogno nel 1935.
Pagine 387 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online e in libreria presso:
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venerdì 12 gennaio 2024

Luigi Natoli: Giunse a piazza Ballarò, era fervida di gente armata... Tratto da: Chi l'uccise? Romanzo storico siciliano

 
La città lo sorprendeva; barricate nei punti più strategici, squadre, uomini e donne, bandiere dappertutto, e su questa confusione, schioppettate, cannonate, bombe, squilli di tromba, campane. Si battevano intorno alla Piazza Reale, i commissariati, il Castello. Si cercava di rompere le comunicazioni tra il Palazzo Reale e il Castello e il commissariato e la caserma dei gendarmi al Noviziato. Queste notizie Corrado raccoglieva per via; ma la vista degli uomini armati che incontrava a ogni passo, delle squadre che andavano a battersi, delle case scoperchiate dalle bombe, dei feriti che erano portati negli ospedali, tutto questo non destava nel suo cuore la vergogna di essere un estraneo al dovere verso la patria. Egli giovane, vigoroso, che avrebbe potuto essere utile, non si sentiva diminuito di fronte a quei popolani che andavano a combattere e a morire per la loro terra. Ma nel cuore di Corrado non v’era altro che Maurizia. 
Giunse a Piazza Ballarò; era fervida di gente armata, e i bottegai facevano a gara per rifocillarla. Era venuta dai paesi dei dintorni. Egli si fermò per vedere se vi fosse Concetta, dal punto in cui era l’avrebbe veduta. Aspettò. Il suo pensiero immaginava la gioia di Maurizia nel vederlo libero e di stringerla al cuore. Ma Concetta non veniva. La piazza mutava d’aspetto con le ore del giorno, ora più, ora meno; folle di armati andavano e venivano fra il continuo sonare a distesa delle campane. Ma Corrado non vi badava; s’impensieriva di non vedere Concetta. Era morta? era stata cacciata? 
Se ne tornò a casa sconsolato. 
Lo scoppio d’una bomba caduta poco distante dalla sua casa, e le grida disperate di povere donne, la mattina dopo destarono improvvisamente Corrado. Si levò in fretta e uscì per vedere che cosa fosse caduto. La bomba aveva fatto più spaventi che danni, era caduta in una stalla vuota, e un calcinaccio aveva ferito alla testa un ragazzo. Corrado se ne andò; voleva persuadersi se Concetta fosse ancora al servizio del Cantelli. Aveva scritto una lettera di fuoco, ed era risoluto di inviarla a ogni costo a Maurizia. Per via eccoti il Monforte, armato d’un fucile, con una sciaboletta al fianco. 
- Venivo di casa vostra, ma ho fatto tardi. Su, andate ad armarvi.
Corrado arrossì; in vero non pensava a rendersi utile in quei momenti; rispose: 
- Ora non posso, verrò a raggiungervi. Ditemi dove vi troverò.
- A Noviziato. Venite?
- Verrò; ma non ho uno schioppo. 
- Non ci pensate; ne prenderemo uno ai caduti. Arrivederci. 
Corrado lo vide allontanarsi svelto e allegro; scosse il capo e riprese il cammino. Giunto alla piazza di Ballarò, ebbe appena il tempo di cacciarsi dentro una porta, che passò Paolo. 
Si stupì a vederlo in vesti da cacciatore e col fucile; anche lui andava a combattere? Si fregò le mani per la gioia insperata. Che lettera! andava lui stesso a portarle i baci che le mandava per iscritto. 
Affrettò il passo...


Luigi Natoli: Chi l'uccise? Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1848, al tempo della rivoluzione. 
Pagine 122 - Prezzo di copertina € 13,50
Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia - sconto 15%)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
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Luigi Natoli: Prega Dio che questa rivolta si tramuti in vera rivoluzione, perchè da essa dipenderà la tua salvezza... Tratto da: Chi l'uccise?

L’alba del dodici gennaio in piazza della Fieravecchia un numero sparuto di cittadini incominciava la rivolta. L’alba era fredda, e il cielo coperto di nubi, gli animi pieni di ansia nel vedere quei venti cittadini intorno a una bandiera tricolore, sparare un colpo di fucile. Era la rivoluzione che cominciava. Due ore dopo erano cento, e i colpi spesseggiavano in vari punti.
Maurizia fu svegliata improvvisamente dagli spari vicini, che la atterrirono, non sapendo a chi attribuirli. La sera innanzi la serva aveva portato a casa provviste di pane, di pasta, di legumi, di formaggi. Aveva domandato perché suo padre avesse ordinato tutta quella roba, e la serva aveva risposto:
- C’è la guerra, signorina: c’è la guerra!
Ora udiva le fucilate e si domandava se fossero i soldati quelli che sparavano; e stava trepida in ascolto. Fuori, nella piazza, la gente fremeva e ferveva; ella si affacciò nel balcone, e vide qualche cencio tricolore, e, più in là qualche uomo che incitava altri uomini ad armarsi. Rientrò subito; suo padre si aggirava per le stanze con le mani cacciate nelle tasche, il sigaro spento in bocca, gli occhi fissi sotto le sopracciglia aggrondate. Poi si fermava dietro i vetri del balcone e guardava la piazza, la via, la chiesa del Carmine. Tutto a un tratto disse a Maurizia:
- Vado per vedere di che si tratta.
- Dove va? Non sente le fucilate?
Egli alzò le spalle con noncuranza e uscì; Maurizia lo rincorse:
- Papà!... Papà!... Torni!... Oh Dio!
E afferrato uno scialle, corse giù per le scale: ma il padre non si vedeva più tra la folla che gremiva ora la piazza, ed ella fu presa dalla paura di cacciarsi in quella folla, e risalì. La serva ancora stupiva.
- Gliel’ho detto, che era una pazzia uscire! – le disse.
Ella non rispose. Verso venti ore suo padre rientrò senza dir nulla, ed ella non fece parola, ma con gli occhi lo interrogava. Paolo era andato in qualche casa, dove gli avevano indicato che stesse il comitato rivoluzionario, e non aveva trovato che tre o quattro signori, dai quali non aveva potuto attingere altre notizie che la rivoluzione “camminava”. Si era recato al tribunale, ma lo trovò sprangato; era andato dove sentiva sparare le fucilate, e si era stupito di non vedere le truppe scendere per le vie. E se ne era andato a casa. Quando fu ora di coricarsi Paolo disse:
- Prega Dio che questa rivolta si tramuti in vera rivoluzione, perché da essa dipenderà la tua salvezza.
Ella pensò a Corrado; gli aveva pensato sempre, ma non sapeva che era stato condannato, perché suo padre aveva taciuto, né aveva permesso che altri avesse portato la notizia a casa. Ora le parole del padre le mettevano un nuovo spavento che la faceva tremare. Che c’entrava la rivoluzione con Corrado? Non era chiuso nel carcere? E non potè dormire.



Luigi Natoli: Chi l'uccise? Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1848, al tempo della rivoluzione. 
Pagine 122 - Prezzo di copertina € 13,50
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giovedì 4 gennaio 2024

Luigi Natoli: Le strenne. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie.

 
Capo d’anno ed Epifania sono giorni in cui si fanno regali. L’usanza è antica e gentile. Questi regali si chiamano strenne.
In molti paesi i fanciulli credono che quelle notti il Bambino Gesù porti loro chicche, giocattoli e altri doni; e preparano una calza, una scarpa, un cestino. In altri paesi, questi doni sono portati da una vecchia, chiamata la Befana, la notte dal 5 al 6 gennaio.
Or vedete un po’ la fantasia popolare come trasforma le cose! Il 6 gennaio la Chiesa celebra la visita dei Magi a Gesù; e questa, con la parola greca, si dice festa dell’Epifania. I Magi, voi lo sapete, offersero al Bambino oro, incenso e mirra. Ora questa parola Epifania diventò Pifània, e poi Befana; e il popolo, non sapendo cosa fosse questa Befana, la immaginò come una vecchia, che porta i doni ai bambini.
In molti paesi della Sicilia la parola strenna si trasformò in strina; e la strina diventò anch’essa, come la befana, una vecchia, che porta i doni per la festa di Capo d’anno.


Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato dalle Industrie Riunite Editoriali Siciliane nel 1925, corredato con le foto dell'epoca. Attraverso un viaggio immaginario che parte da Catania e finisce a Messina, passando per tutte le città della Sicilia, l'autore spiega ai fanciulli dell'epoca storia, attività economiche, tradizioni e leggende della Sicilia. Una lettura resa piacevole dal modo gentile e semplice con cui il professore Natoli si rivolge ai ragazzi. Il volume è impreziosito dalle foto dell'epoca. 
Pagine 274 - Prezzo di copertina € 19,00
La copertina di Nicolò Pizzorno riproduce esattamente il volume originale. 
Sconto del 15% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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Luigi Natoli: Gennaio. Tratto da: Almanacco del fanciullo siciliano.

Gennaio è il primo dei dodici mesi dell’anno: è mese invernale, freddo e nevoso. In Sicilia le nevi non sono abbondanti: sulle parti piane e presso il mare cadono raramente; ma sulle montagne alte dell’interno, come le Madonie, sono più frequenti e durano. Sul monte Etna sono perpetue.
Spesso gennaio in Sicilia è sereno, asciutto, sorriso da un bel sole. Il proverbio dice: Jinnaru siccu, burgisi riccu. Gennaro secco, cioè non piovoso, arricchisce l’agricoltore, se però è piovuto in dicembre; perché nelle nostre contrade favorisce lo sviluppo delle sementi e promette rigogliose le messi.
Si dice che gennaio è potatore; perché infatti si potano le vigne. Pota alla luna di gennaio, se vuoi la botte piena, dice l’adagio. E un altro adagio aggiunge: A buon potatore, buona vigna. Oh! Hanno di che lavorare i contadini in questo mese! Bisogna zappare le fave, che cominciano a mettere le foglie; trapiantare le piante dal vivaio; attendere a tante altre faccende, se il tempo lo permette.
La zappa di gennaio, dicono i contadini, ha il miele in bocca.
Anche nelle officine si lavora. Di buon mattino gli operai si recano alle fabbriche; gli artigiani si pongono al banco o al deschetto; la buona massaia si leva per attendere le faccende di casa: è ancor buio, e bisogna accendere la lampada elettrica, a petrolio o anche a olio.
Il freddo intorpidisce le mani; ma chi ha voglia di lavorare, e ha la coscienza tranquilla, non teme il freddo: lavora e canta.
I pescatori, se il mare è tranquillo, si mettono in barca prima che spunti il sole, per gittare le reti; e, con le gambe e le braccia nude, sfidano i rigori della stagione, e non si ammalano mai, al contrario dei fanciulli freddolosi, che si coprono di maglie e mantelli, e hanno paura dell’acqua fredda!
Proverbi di gennaio

Capo d’anno, salute e denari, ma pensa bene a quello che hai da fare.
Annata nevosa, covone gravoso.
A S. Antonio, massaio buono.



Luigi Natoli: Almanacco del fanciullo siciliano. Libro sussidiario di cultura regionale e nozioni varie. 
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato dalle Industrie Riunite Editoriali Siciliane nel 1925, corredato con le foto dell'epoca. Attraverso un viaggio immaginario che parte da Catania e finisce a Messina, passando per tutte le città della Sicilia, l'autore spiega ai fanciulli dell'epoca storia, attività economiche, tradizioni e leggende della Sicilia. Una lettura resa piacevole dal modo gentile e semplice con cui il professore Natoli si rivolge ai ragazzi. Il volume è impreziosito dalle foto dell'epoca. 
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