Palermo, 1517 - Ettore Pignatelli, conte
di Monteleone, calabrese, di nobile e antica schiatta, seguendo le istruzioni
regie, rimetteva negli uffici gli antichi partigiani del Moncada. Questo fatto,
l’esilio dei due presidenti a Napoli, e più di tutto l’assenza dei conti di
Golisano e di Cammarata, dei quali si diceva fossero decapitati e imprigionati,
tenevano Palermo agitata e sospetta. Di questo stato d’animo approfittò Gian
Luca Squarcialupo, giovane discendente da patrizia famiglia oriunda da Pisa, ma
di scarsa fortuna. Costui vagheggiava nell’animo disegni di liberi reggimenti,
come quelli di Pisa, e comunicatili ad altri giovani fidati e a popolani
coraggiosi e pronti ai rischi, li adunò nel castello di Margana presso Vicari,
dove si accordarono sul da fare. Dei nobili v’erano fra gli altri Baldassarre
Settimo, Cristoforo de Benedetto, Alfonso La Rosa, Pietro Spatafora. Si stabilì
di assalire i giudici della Magna Curia e gli altri magistrati, strumenti già
del Moncada e ora del Monteleone, il 23 luglio 1517, nel Duomo, durante il
vespro di S. Cristina, patrona della Città.
Ma quel giorno la
congiura fu rivelata al Luogotenente Generale, il quale turbato sospendeva la
cavalcata festiva, e si chiudeva nello Steri con pochi soldati. Lo Squarcialupo
e i suoi compagni appena udite le campane del Duomo, vi corsero e lo trovaron
deserto: capirono di essere stati traditi, ma non desistettero. Ucciso Paolo
Caggio, innocuo archiviario del Comune, corsero per la via Marmorea o Cassaro. Erano
ventidue, ma poco dopo diventarono moltitudine, e gridando: muoiano gli assassini dei conti,
investirono lo Steri. Il Pignatelli credette ammansirli con parole da una
finestra, affermando che i conti erano vivi, ma non fu inteso. Era calata la
notte, la folla era cresciuta, e suonavano le campane a stormo. Al chiarore
delle torce lo Steri fu preso d’assalto; due giudici della Magna Curia furon
precipitati dalle finestre: il conte di Monteleone, snidato, non ebbe torto un
capello, ma disarmato, fu condotto e chiuso nella Reggia. La rivolta dilagò:
ucciso Priamo Capozzo, giurista e poeta, cercato invano Blasco Lanza, ne fu
bruciata la casa e vandalicamente distrutta la ricca biblioteca. La fuga salvò
i partigiani più noti del Moncada. Il Sant’Offizio fu dato alle fiamme.
Termini, Trapani, Catania, paesi minori insorsero; rinacquero antiche gare e
fazioni e dappertutto uccisioni, incendi, rovine.
Lo Squarcialupo rifaceva
il senato, e riprendeva il suo posto di giurato, il pretore Giovanni
Ventimiglia mandava lettere a Catania e un’altra al Re, esponendo le ragioni
dei fatti, e supplicandolo di rimandare i Conti. In fondo a tutto questo
movimento c’era l’avversione allo straniero e l’aspirazione all’indipendenza.
Ma nell’ombra si tramava
la controrivolta. Due fratelli Bologna, Nicolò e Francesco, la concepirono,
s’intesero con Pompilio Imperatore, Pietro d’Afflitto, Alfonso Saladino e
Girolamo Imbonetta, ed offersero al Luogotenente di ammazzare lo Squarcialupo e
i compagni. Il Pignatelli ne gioì.
L’8 settembre
convenivano nella chiesa dell’Annunziata a Porta S. Giorgio, lo Squarcialupo
coi Bologna, coi seguiti, e vollero prima udir messa: ma mentre il sacerdote
celebrava, a un segno del Ventimiglia, Nicolò Bologna si getta su Cristoforo di
Benedetto, e lo ammazza, Pietro d’Afflitto uccide Alfonso La Rosa, Pompilio Imperatore
dopo un attimo di lotta abbatte Gian Luca Squarcialupo. Allora Guglielmo
Ventimiglia esce, e arringa la folla stupita: gli armati condotti dai
congiurati escono gridando viva il re e
muoiano i traditori: i partigiani di Gian Luca pavidi si sbandano.
Cominciano le uccisioni e durano fino a sera. Seguono bandi e leggi severe, si
ricostituisce un nuovo senato, e si inviano lettere al Pignatelli, che era
fuggito a Messina, per farlo ritornare.
La cospirazione di Gian
Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati
e senza un fine determinato: egli ne fu biasimato, e i suoi uccisori lodati. Ma
con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse, delle
cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la
perduta indipendenza.
Il Luogotenente, a cose
quiete, ritornato in Palermo, ordinò processi: i popolani furono impiccati; gli
uccisori dei giudici furono alla loro volta precipitati dalle finestre dello
Steri; i fratelli e lo zio di Squarcialupo decapitati, le loro case abbattute.
Seguirono altri supplizi. Così egli annunziò al Re di aver salvata la Sicilia.
Il Re lo nominò vicerè.
Ma non per questo la
Sicilia ebbe pace e il Vicerè quiete...
Luigi Natoli - tratto dal volume "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" pubblicato in Squarcialupo edito I Buoni Cugini editori.
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