mercoledì 27 marzo 2024

Luigi Natoli: Quel martedì 31 marzo la giornata era bella e serena... Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico.


La pasqua di quell’anno veniva triste e sconsolata: un nuovo bando del giustiziere aveva minacciato più fiere punizioni per coloro che portassero armi e promesso premi a coloro che ne scoprissero celate nelle vesti o nelle case dei cittadini.
Ciò era stato fomite di nuove e più violente vessazioni.
Si incontravano qua e là grossi drappelli di soldati e di guardie, che entravano nelle case dei cittadini, buttando all’aria masserizie e arredi; bastonando o trascinando in carcere chi osasse alzare la parola; compiendo nefandezze, tra osceni sghignazzamenti. Per cansare la nuova tempesta, andavano i cittadini a capo basso e frettolosi e vedendo venire incontro qualche figura di straniero, si traevano di lato, e trascorrevano oltre quasi fuggendo, per evitare ogni anche lieve incidente. E tuttavia ciò non li salvava: bastava che uno scherano qualunque gridasse:
- Un paterino fugge!
Perché tutti gli corressero addosso, lo buttassero per terra, coprendolo di percosse e di sputi, e spogliandolo, se v’era cosa da portargli via...
Ma più esoso ancora era stato in quei giorni il fiscalismo, nella riscossione delle gabelle e degli altri balzelli straordinari imposti dal re per le spese della prossima guerra.
Nessuna opera di spoliazione fu mai così brigantesca. Intere famiglie eran buttate in mezzo alla strada, seminude, intanto che i ministri del tribunale vendevano la loro roba anche per qualche carlino; ed esse eran costrette ad assistere allo sperpero delle cose a loro più care, con le quali erano vissute tutta una vita, alle quali eran legati da dolci e tristi ricordi. Nè le loro lagrime, nè le loro preghiere disarmavano l’immane rapacità di quei ribelli ufficiali, che rispondevano ferocemente.
- Pagate, paterini, pagate!
Tra questi dolori, le solennità della settimana Santa erano trascorse; e il popolo aveva nelle chiese e nei riti cercato un conforto e un oblìo.
Allora, o importazione di costumanze di altri paesi, o invenzione di anime timorate, le cerimonie della settimana santa si sposavano a rappresentazioni popolari. Il popolo non era soltanto spettatore commosso dei riti, ma vi partecipava, come elemento attivo, nelle processioni e nella rappresentazione di personaggi evangelici o biblici.
Ciò era valso a dargli un diversivo ai suoi dolori.
Le feste di Pasqua duravano qualche giorno dopo la domenica; in quei giorni il popolo se ne andava nelle prossime campagne, dove fossero santuari; ed ivi sull’erba, per commemorare la pasqua biblica, si mangiavano ova sode, lattughe e agnello arrostito: ma di solito a queste che erano le pietanze di rito, altre se ne aggiungevano, e dolciumi di origine araba, come la cassata e la cubaita e manicaretti, largamente inaffiati dal vino. Nel tripudio, che l’ebbrezza del vino metteva nei cuori, si intrecciavan sui prati balli e canti, al suono dei tamburi e delle guideme o dei liuti: e per due, tre ore, il popolo obbliava e pareva felice.
Il martedì dopo Pasqua i cittadini solevano recarsi nel prato di S. Spirito, così detto per un monastero di cisterciensi, del quale non avanza ora che soltanto la chiesa.
Dalla porta di S. Agata dell’Albergaria il monastero non era più lontano di mezzo miglio; vi si andava per un sentiero che attraversava orti e vigne. Oltre il prato si apriva, e ancor s’apre, un largo burrone, in fondo al quale scorre l’Oreto. Da circa un secolo e mezzo quel prato fu convertito in cimitero, e gli alti e neri cipressi ombreggiano croci e lapidi, là dov’eran erbe verdi e fiorite, e pascolavan le caprette sotto l’occhio vigilante di un pastorello semi-selvaggio.
Approfittavano di quell’occasione gli sposi, che dovevan celebrar le nozze, per unire la loro gioia all’allegria generale, parendo loro un buon augurio, e come un bel saluto, la giocondità del popolo; e uno sfondo vivace e pieno di allegria, quel quadro vario di colori e di forme, risonante di canzoni e di musiche.
Messer Ruggero di Mastrangelo non avendo potuto celebrare con pompa la seconda funzione di matrimonio, aveva voluto che almeno in quella occasione Benvenuta e messer Guglielmo Santafiora si recassero nel pomeriggio del martedì alla chiesa di S. Spirito, per partecipare alla festa comune.
Non aveva creduto di far larghi inviti, per evitare inconvenienti; pochi amici intimi e i servi avrebbero accompagnati gli sposi, così non avrebbero dato negli occhi, e avrebbero potuto tranquillamente divertirsi.
Quel martedì, 31 marzo, la giornata era così bella e serena, e splendeva un sole così tepido e l’aria era così olezzante di mille profumi, che pareva invitasse anche i più poveri, i più tristi, i più angustiati a lasciar l’ombra e la tetraggine della città, per correre ai campi; per sentire almeno la libertà del sole e dell’aria, bere la giocondità della natura festante di fiori e di trilli.
E dalle tre porte meridionali della città: la porta Mazzara, la porta di S. Agata e la porta delle Terme (diventata poi di Termini) poco dopo il mezzodì uscivano tre fiumane di popolo, a gruppi, a comitive, di ogni ceto e condizione. Le donne vestite a festa, con gonne dai colori vivaci, quali tutte d’una tinta, quali variate; le popolane della Kalsa e del quartiere di Denisin, ancora attaccate al vecchio costume musulmano avevano il capo avvolto in un velo bianco, che lasciava scoperti gli occhi e il naso, e dava ai volti una espressione di misteriosa bellezza, agli occhi un fulgore umido e voluttuoso. Le altre, specialmente della borghesia o della nobiltà, portavano il viso scoperto, e la glimpa su le spalle, più o meno ricca di nappe e fiocchi di seta e d’oro.
Le dame e i cavalieri, venivano a cavallo; e i cavalli, guidati a mano da scudieri o da schiavi, si pavoneggiavano nelle gualdrappe e scotevano i ricchi pennacchi svolazzanti sulle loro teste. Sotto i passi dei cavalli e dei pedoni si levava una leggera nuvola di polvere, che avvolgeva i più lontani; ma dentro la nube balenavano al sole i riflessi della seta e degli ori e le tinte vivaci si attenuavano in sfumature delicate e un poco grigiastre.
Di quando in quando la folla si sbandava di qua e di là, sotto le siepi o i muriccioli dei poderi, per lasciar passare i sergenti del giustiziere, o qualche signore francese. Essi prendevan per sè quasi tutta la larghezza del sentiero, ributtando prepotentemente con ingiurie, spintoni, colpi del fodero della spada o di bastone, i popolani e i signori, per aver libero il passo; gittando qualche parola audace alle donne che apparivano loro più belle e desiderabili.
Gli uomini stringevano i denti, seguivano con sguardo lampeggiante d’odio quei prepotenti e tacevano. La giornata era bella, e volevan godersela.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
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