mercoledì 27 marzo 2024

Luigi Natoli: Le lance spezzate del sire de Flambeau. Tratto da: Il Vespro siciliano. Romanzo storico.

- Ma raccontate, raccontate, sire de Flambeau; sapete che queste storielle mi divertono.
- Erano in quattro, messer giustiziere; e vi so dire che sono i quattro più terribili di tutta la compagnia; le quattro migliori lance spezzate. Cuori di leone, artigli d’aquila, denti di lupo, impudenza di scimmia. Sono il terrore della città...
- I nomi, i nomi prima di tutto.
- Eccoli: Gastone de Brant, Bertrand de Taxeville, Ugo de Saint-Victor, Dronet de Genlis; età dai venticinque ai trentacinque anni. Gastone de Brant discende in linea retta dai Galli: alto, rossiccio, arguto, mobile; Bertrand de Taxeville sembra balzato dalla gesta di Rolando: squadrato, massiccio, fiero; Ugo de Saint-Victor è schietto provenzale: bruno, molle, immaginoso; Dronet de Genlis deve aver avuto per avolo un canonico di Strasburgo ingrassato di pasticci di fegato d’oca. Sebbene siano così diversi di aspetto, sono uguali di valore: amano le belle donne, il buon vino, le belle canzoni; bastonano questi paterini di Palermo; rubano agli ebrei; e sono prepotenti più di quanto si possa immaginare.
- Sacro nome di Dio! son dunque quattro demoni?
- Forse sì; o per lo meno furono tenuti a battesimo da Belzebù in persona...
- Me li farete conoscere, sire de Flambeau...
- Quando vorrete, sire de Saint-Remy.
- Ma sentiamo...
I signori che così parlavano erano cinque, seduti intorno a una ricca tavola, in una bella e vasta sala.
Il personaggio chiamato sire de Flambeau, che raccontava la gesta delle sue quattro lance spezzate, era un uomo sulla cinquantina, alto e possente, coi capelli grigi, tagliati sulla fronte e cadenti a zazzera tonda sulle tempia e sul collo, gli occhi di gatto e il naso in su. Sedeva in capo alla tavola dinanzi al padron di casa, che stava all’altro capo.
Era questi il visconte Giovanni di Saint-Remy, giustiziere del Val di Mazara, per parte del magnifico e potentissimo signore Carlo d’Angiò, conte di Provenza, re di Sicilia e di Gerusalemme, duca di Napoli e delle Puglie, signore della contea di Folcaquier, ecc. ecc. Il visconte era un uomo sui quaranta; volto fra il lupo e la volpe; maniere da capo di banditi. Il terzo commensale era il sire di Ravel, bell’uomo di mezza età, dall’aspetto grave e solenne, che parlava lento, misurando il gesto e volgendo gli occhi intorno, come per raccogliere l’approvazione degli ascoltatori. Il quarto era messer Guglielmo Porcelet, signore di Calatafimi, piccolo, tozzo, brutto, ma con una grande aria di bontà sul volto e nella voce, di gentili maniere e di oneste parole, che facevan dimenticare i difetti della persona. L’ultimo era un uomo di chiesa; era il maestro cantore della Cappella Palatina, o, come diceva il popolo, corrompendo il vocabolo francese, ciantro; ventre enorme, che gli si adagiava sulle cosce, e gli traballava a ogni piccola scossa; volto rosso, liscio, giocondo, con piccoli occhi neri.
Monsignor giustiziere convitava spesso questi quattro suoi amici, sebbene messer Guglielmo Porcelet non fosse assiduo come gli altri, per la sua abituale dimora nel castello di Calatafimi.
La sala da pranzo del palazzo del Giustiziere dava sopra le mura della città. Era una vasta sala, illuminata da due grandi finestre archiacute, divise per mezzo da svelte colonnine, e chiuse da imposte coperte di tela dipinta. Le pareti eran coperte di arazzi tolti da altre case di signori e di mercatanti, e ornate di trofei d’arme; il soffitto di legno dipinto a fiorami e a disegni geometrici di gusto arabo; sulla tavola di quercia scintillavano coppe, anfore e vasi d’argento, probabilmente avanzo di bottini o di spoliazioni.
Il desinare era stato copioso e squisito, perché il visconte di Saint-Remy aveva preso ai suoi servizi un buon cuoco, il quale aveva una maniera spiccia e molto pratica di fornire la propria tavola. Il cuoco infatti non andava mai al mercato dove non si trovava che roba vendereccia; ma ogni mattina, accompagnato da guardie, si recava a casa di questo o di quel cittadino, e prendeva, senza cerimonie, i migliori polli, la miglior selvaggina, i più teneri agnelli, le paste più delicate per la mensa di messere il Giustiziere.
Pagare? No: ai cittadini, di qualunque ceto o ricchezza fossero, doveva bastar l’onore di servire monsignor di Saint-Remy.
L’eccellente cuoco entrava, rovistava, portava via, senza neppur salutare; talvolta si degnava di ingiuriare i «paterini», se non si mostravano solleciti o soddisfatti. Di ribellarsi al ladrocinio non si parlava; le guardie che accompagnavano il cuoco, oltre a rubare la loro parte, avevano il compito di bastonare chi osasse lagnarsi.
Oh no, messer Giovanni di Saint-Remy non spendeva molto per la sua tavola!...
Quanto ai vini glieli fornivano le cantine dei migliori produttori del Vallo, coi metodi medesimi. Di tanto in tanto una mano di arcieri a cavallo faceva una escursione per le città più note per l’industria del vino: e ritornavano con una «retina» di cavalli o di muli carichi di otri e di barili. Ma qualche vino più fine e squisito il magnifico signor giustiziere si procurava facendo dar la caccia a legni greci o spagnoli.
I commensali dunque avevano, quel giorno, mangiato e bevuto con pieno godimento, ed eran già pervenuti a quel punto di loquacità e di espansività che anima le belle mense e dispone alle confidenze e ai discordi grassocci.
Ciascuno aveva raccontato una sua storiella, fra le risate della compagnia: e lo stesso messer ciantro, tacendo, si capisce, i nomi per scrupolo religioso, aveva rivelato un allegro peccato di una sua penitente.
Ma il sire di Flambeau, dato un pugno sulla tavola, che aveva fatto tremare e tintinnire le coppe d’argento, aveva detto:
- Zitti là! La storiella che vi racconterò io vale tutte le vostre. Ne sono protagonisti alcune mie lance spezzate. Non l’ho saputa da loro, ma da chi ne fu vittima, che venne a piatire da me per averne vendetta. Vi dirò poi come l’ebbe.
Allora i commensali lo sollecitarono:
- Raccontate, raccontate.
Il sire di Saint-Remy allungò il muso volpino; il maestro dei cantori si sdraiò meglio sul seggiolone, protendendo il suo ampio ventre; soltanto messer Guglielmo Porcelet non mostrò avidità di udire: pareva anzi che sul suo volto errasse una espressione di mestizia e di compianto.


Luigi Natoli: Il Vespro siciliano. Romanzo storico ambientato nella Palermo del 1282, al tempo della famosa rivoluzione. 
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale, pubblicato in dispense dalla casa editrice La Gutemberg nel 1914, restaurato dal titolo all'indice. 
Pagine 925 - Prezzo di copertina € 25,00
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Il volume è disponibile: 
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