mercoledì 6 giugno 2018

Luigi Natoli: I fratelli Palizzi. Tratto da: Mastro Bertuchello, Latini e Catalani vol. 1

Poco oltre la metà della strada Celso, che correva lungo le mura settentrionali della città antica, – ancora visibili, – sorgeva un palazzo, detto degli Schiavi. Non si sa l’origine di questa denominazione, al tempo dei Saraceni e dei primi re normanni, quando Palermo serbava ancora la sua forma primitiva, ed era separata con mura e torri dagli altri quartieri sortivi intorno fin dai tempi dei Romani, di là dalla Sera el Kes (via della Calce) diventata per trasformazione la strada del Celso, si stendeva la regione transpapiretana, oggi detta del Capo, il quartiere della Beccheria, quello degli Amalfitani, dei Catalani, e via dicendo. Quella che oggi è la parte bassa del quartiere del Capo, era al tempo dei Saraceni il quartiere degli Schiavi o Schiavoni. Il cadì di questo quartiere abitava nella Sera el Kes. Può darsi che la sua casa fosse appunto quella detta qualche secolo dopo il Palazzo degli Schiavi. Nel 1322 esso apparteneva a due fratelli della nobile famiglia dei Palizzi, Damiano e Matteo, figli di quel Nicolò che aveva eroicamente difesa Messina, nel secondo assedio postovi dagli Angioini, e che a Roberto d’Angiò e a Filippo de Valois aveva dato la memoranda fierissima risposta(2). La gloria di Nicolò aveva schiuso le porte della reggia ai figli. Damiano era entrato nel chiericato, Matteo era destinato a continuare il casato. Era di poco maggiore età dell’infante Pietro, e ne divenne compagno, consigliere e guida nei sollazzi e nelle avventure.
Nel 1322 Matteo aveva circa vent’anni. Di statura media, bruno, pallido in volto, neri i capelli e gli occhi; non era brutto, ma aveva nello sguardo freddo e tagliente come la lama di un pugnale qualche cosa che agghiacciava il sangue e annullava la volontà. Tutti i lineamenti del suo volto, dal naso lievemente aquilino, al taglio della bocca, dall’ampiezza della mascella alla durezza del mento prominente, dalla convessità della fronte alla ruga che s’insolcava diritta e profonda fra le sopraciglia folte e nere, rivelavano una volontà tenace, una grande ambizione di dominare, violenza, simulazione e insensibilità di cuore. V’era qualche cosa di felino e di volpino.
Tutto volpe era invece Damiano, anche negli occhi gialli. Egli aveva quattro anni più di Matteo, sul quale aveva, più che per l’età, acquistato un certo ascendente con la sottigliezza dei suoi suggerimenti, con la ricchezza degli espedienti che la sua mente feconda sapeva trovare per trarsi d’impaccio, con la perfidia tenebrosa de’ suoi disegni. Era anche lui ambizioso, ma non soltanto per sé, anche per Matteo, pel quale aveva una certa tenerezza.
Nicolò non aveva lasciato loro altre ricchezze che la fama: poche terre che non rendevan molto; e che non consentivano a Matteo di sfoggiare come i Chiaramonte, i Ventimiglia, messer Matteo Sclafani, e quei signori catalani, che venuti poveri in Sicilia, s’andavano arricchendo delle terre tolte con la frode, coi tradimenti, colle concessioni regie, agli antichi signori indigeni.
Matteo aveva però trovato nella Corte una protettrice: la regina Eleonora.
La regina Eleonora, moglie di Federigo, era ancora giovane; nasceva di casa Angiò, e veniva da una corte galante; quel giovane freddo, cupo, energico, gli occhi del quale avevano sinistri bagliori, non le destò nessuna avversione: anzi le parve un frutto strano e di sapor nuovo. E fu lei che lo ammise fra i familiari di corte e lo diede compagno all’Infante Pietro; ciò che le dava occasione di vederselo sempre accanto.
Quando l’Infante era ancor fanciullo e Matteo era un giovinetto, ella li confondeva nella stessa carezza: ma le sue mani si indugiavano di più, e con un piacere diverso, sul capo del giovane Palizzi. Pareva che ella aspettasse che il giovinetto crescesse ancora un po’. Il frutto era ancor troppo acerbo. Con gli anni il desiderio si fece in lei più intenso: nel 1322 Eleonora aveva trentanove anni circa: ed era ancor bella.
Verso la metà di luglio di quell’anno, un pomeriggio, i due fratelli Palizzi se ne stavano in una sala del loro palazzo degli Schiavi. Messer Damiano, in piedi, s’appoggiava a una tavola di quercia, con le braccia conserte; Matteo passeggiava, più fosco del solito: di quando in quando si fermava dinanzi al fratello... Egli voleva in vero fare un dispetto a messer Francesco Ventimiglia, suscitargli contro l’odio dell’amante, provocare uno scandalo, metterlo in urto con la moglie e coi Chiaramonte, avvelenargli la luna di miele. Certo madonna Margherita gli piaceva, ma gli piaceva di più perché apparteneva all’uomo del quale invidiava le fortune. Quel che gli prometteva Damiano era da venire in un tempo imprevedibile; e forse allora molte cose si sarebbero mutate e avrebbero reso vaga o impedito quella specie di soverchieria, con cui Matteo intendeva soddisfare il suo livore. Della propria fortuna avvenire egli non dubitava: Damiano esercitava sopra di lui un grande e assoluto ascendente. Quel prete modesto all’aspetto, pieghevole, untuoso che non d’altro apparentemente si occupava se non del suo ministero, gli si rivelava, quando erano soli, superbo e ambizioso, con una forza di volontà, una grande fiducia di sé, una sicurezza indiscutibile nella riuscita.
Matteo lo ammirava e l’ascoltava: ma questa volta gli era entrata nel sangue la febbre del puntiglio. Era ancor troppo giovane per saper frenare e guidare i suoi istinti... 





Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1925
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Nessun commento:

Posta un commento