mercoledì 20 giugno 2018

Luigi Natoli: I banditi Vincenzo Agnello e Gian Giorgio Lancia - Tratto da Storie di Banditi, prefazione al romanzo Pasquale Bruno di Alexandre Dumas

Le due bande che nel secolo XVI ebbero rinomanza furono quella di Vincenzo Agnello, durante il viceregno del duca di Medinaceli, e quella di Giovan Giorgio Lancia, durante il viceregno del conte d’Olivares.
La banda di Vincenzo Agnello era forte di quaranta cavalli, aveva i suoi trombetti e uno stendardo sul quale era dipinta la Morte. Capo era l’Agnello, caporale un Gregorio La Russa, che il cavalier Di Giovanni dice “il più bell’uomo che avesse fatto la natura e di estremo valore”.
Vincenzo Agnello era valorosissimo, e aveva tanta superba coscienza di sé, che, piuttosto che scanzarli andava incontro ai cavalleggieri e alle compagnie spedite contro di lui, le assaliva e le sbaragliava. Usava spesso uno stratagemma per attirare i capitan d’arme in un luogo, dove egli era appostato. Offeso da un cavaliere di casa d’Affletto, ebbe l’audacia di venire, col proposito di entrare in città e ucciderlo: e per impedirglielo dovette uscirgli contro tutta la cavalleria che era in Palermo. Il suo nome bastava per mettere in fuga le squadre della giustizia: “Egli – assicura il Di Giovanni – non rubava, ma faceva biglietti a persone ricche, delle quali n’aveva tutto quel che voleva. Non rubava ai viandanti, ed ai poveri dava del suo”. Saputo che alcuni rubavano in suo nome la povera gente, li ricercò, li prese e li impiccò nei luoghi stessi dove avevano rubato.
Una volta, andando il Vicerè pel regno, Vincenzo Agnello gli si fece trovare sopra un colle, coi suoi quaranta schierati, lo stendardo spiegato, le trombe squillanti. Quest’ardimento mandò in collera sua eccellenza, che subito ordinò ai quattro più valorosi capitan d’arme, Dell’Aquila, Figuerva, Villafrades e Frisone di dar la caccia al bandito.
Anche qui entra l’amore. Passando sotto Sutera, un giorno del 1557 vide alcune donne che lavavano al fiume, e tra esse una schiava bellissima. La prese, la caricò sul suo cavallo e la portò via. Ne fece la sua amante. E s’obbliò.
Quando il capitan Frisone fu lanciato sulle piste di lui, lo sorprese. Il bandito ebbe appena il tempo di ordinare la difesa, per morire valorosamente. Fallitegli le pistole, si gittò addosso al capitano con la spada, ma un compagno d’arme lo colpì alla testa di dietro, col calcio del fucile, e l’atterrò. La sua banda fu sbaragliata: i superstiti si raccolsero intorno al La Russa; ma indi a poco caddero con un tranello nelle mani del capitan Villafrades, e furono tutti giustiziati.
Giovan Giorgio Lancia, plebeo di Randazzo, giunse a raccogliere sotto i suoi ordini, una banda di duecento uomini: una vera compagnia di ventura, con la quale percorreva senza paura il regno, taglieggiando i feudatari, e sconfiggendo le compagnie d’arme mandategli contro. Egli non fu vittima dell’amore, ma della sua stessa presunzione.
Una volta egli entrò negli stati del principe di Paternò, don Francesco Moncada, spadroneggiandovi: i villani rispettosamente, gli fecero osservare che il principe era signore assai potente, ma egli ne rise, e disse cose tali di don Francesco, che questi saputele, se ne risentì, e giurò di esterminarlo. Fattosi nominare Vicario pel vallo Demone, spinse contro il bandito tutti i capitani delle terre demaniali e delle baronie, accozzò un vero esercito, e cominciò una guerra di scaramucce, rappresaglie, violenze. Ma i capitani avevano la peggio, e allora il principe scese in campo.
Giovan Giorgio si trovò stretto da ogni parte: molti dei suoi più valorosi compagni l’abbandonarono; egli trovò uno scampo nella fuga. Riuscì a recarsi a Napoli con l’intenzione di ricoverare in Firenze; ma al ponte della Maddalena s’incontrò in due compagni del bargello, che erano stati banditi con lui; i quali capirono che Giovan Giorgio Lancia era una buona preda. Simularono liete accoglienze, cercarono di prenderlo in mezzo: egli, più furbo lesse nei loro occhi il disegno; e tolto a un d’essi l’archibugio, fingendo di visitarlo, a un tratto, uccise il compagno e si diede a fuggire. Corse fino a Somma, dove riparò in casa di un suo vecchio amico, cavaliere di Malta, al quale si confidò; e il cavaliere di Malta lo consegnò a tradimento alla giustizia, ben inteso che prima lo alleggerì di molte polizze di cambio e di molti zecchini che il bandito aveva addosso.
Trasportato a Messina fu condannato a essere squartato vivo da quattro galere.
Anche i suoi compagni finirono tra pene che fanno inorridire. Il nobile principe faceva con grande sforzo piegare l’una contro l’altra, fino a toccarsi le cime di due alberi: legava il bandito pei piedi ai due alberi, poi faceva tralasciare le cime, che staccandosi furiosamente, squarciavano e stoppavano il miserando corpo in due orribili e sanguinosi avanzi. 


Luigi Natoli: Storie di Banditi. Prefazione a: Pasquale Bruno di Alexandre Dumas. 
Prezzo di copertina € 13,50
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