mercoledì 6 giugno 2018

Luigi Natoli: Il casato dei Ventimiglia. Tratto da: Mastro Bertuchello, Latini e Catalani vol. 1

Poco meno di due anni prima, un tragico avvenimento, che, per la qualità del personaggio che ne fu vittima, commosse tutta l’isola, aveva disorientato mastro Bertuchello, o lo aveva obbligato ad abbandonare il suo paese e a mutare il suo mestiere.
La catastrofe che aveva ucciso il conte di Geraci, dispersa la sua famiglia, e spartiti fra’ i suoi nemici i feudi, era stata così repentina, così travolgente, che il povero maestro di scuola, dopo due anni, ne risentiva lo spavento e l’orrore, e non poteva non riparlarne. E probabilmente la sua avversione verbale per le donne, più che da malanni procurati a lui, traeva origine dalla parte che le donne rappresentarono in quella catastrofe.
Messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, vantava sangue regio. Una tradizione di famiglia, che però non è avvalorata da alcun documento, gli attribuiva discendenza dai principi della Casa d’Altavilla: certo le armi dei Ventimiglia erano quelle stesse dei re normanni di Sicilia: lo scudo d’azzurro traversato da una fascia a scacchi alternati bianchi e rossi.
Messer Francesco era uno dei più potenti signori del reame; il suo vasto dominio si stendeva dal mare fino sopra le Madonie.
Al tempo della catastrofe comprendeva una ventina di feudi, Sperlinga, Pollina, Castelbuono, Golisano, Gratteri, Sant’Angelo, Malvicino, Tusa, Castelluccio, le due Petralie, Gangi, S. Marco, Belici e altre terre minori e casali, lo riconoscevano signore: alla sua casa, per diritto ereditario concesso dai re, spettava l’ufficio di Gran Camerario, una delle sei o sette dignità supreme del regno.
L’amicizia e la protezione di che gli era largo il re Federigo, che lo aveva incaricato di ambasceria pel papa, e lo aveva dato compagno al principe Pietro nella escursione in Toscana, lo avevano fatto conte di Geraci: i servigi resi da lui al re e al regno travagliato dalle continue pretensioni della corte angioina, la ricchezza, l’ampiezza dello stato ne avevano fatto il personaggio più rispettato, più temuto, più invidiato. Non poteva dire di essere amato o di godere salde amicizie. Non se le accattivava. Facile agli impeti, violento, instabile nelle relazioni, vago di piaceri e di novità, superbo della sua nobiltà, spregiatore degli altri, generoso fino alla prodigalità e nel tempo stesso geloso dei suoi diritti, prode, irriflessivo, era un impasto di buone e di cattive qualità.
Ora molti anni innanzi, una mattina, ascoltando messa nella chiesa di S. Maria Maddalena, alla Galca, messer Francesco vide entrare una giovinetta assai bella, e con certi occhi che trapassavan come dardi il cuore di chi la mirava. Era accompagnata da una vecchia, la nutrice forse o la nonna, ché poteva essere l’una o l’altra. Mastro Bertuchello che era un ragionatore conseguenziario, assicurava che quell’incontro fu la causa prima della quale, per filo di logica, dipesero tutti gli avvenimenti successivi. Che bisogno aveva il conte, allora giovane e avido di piaceri, innamorarsi sul serio di quella giovane? Bella, sì, lo era: ma anche le altre donne di cui egli si era incapricciato eran belle, e tuttavia messer Francesco non si era perduto dietro a loro. Prendeva e lasciava. Quella volta, no. Madonna Margherita Consolo non fu così facile a cedere: era una fanciulla modesta e riserbata; arrossiva quando vedeva il conte, e il suo volto si illuminava d’un sorriso di gioia: ma non osava neppure parlargli dalla finestra.
- Il pudore non è sempre una virtù angelica; – diceva mastro Bertuchello, quando ricordava i casi del conte; – qualche volta, anzi il più delle volte è un suggerimento del diavolo, per perdere gli uomini: perché l’uomo è la bestia più singolarmente caparbia in amore; e più si vede negato di cogliere il frutto, più si ostina a volerlo cogliere, a costo di commettere le più grosse corbellerie. Il conte perdette il giudizio. Diede qualche colpo di spada per sbarazzarsi di qualche competitore: e una notte entrò violentemente dalla finestra nella camera della fanciulla, e non ne uscì che all’alba. Voi crederete che soddisfatta la voglia e il puntiglio messer Francesco fosse votato alla ricerca di qualche altro fiore? Nossignori! Quella fanciulla che pareva timida e vergognosa, doveva possedere qualche incantesimo; e avvenne la cosa più illogica per le abitudini del conte, quella cioè di rimaner fedele a madonna Margherita, fino al punto di toglierla con sé, in una sua casa, e convivere con lei, come fossero stati marito e moglie. Questo avvenne intorno al 1312. Io non ero ancora nato; e questi fatti mi vennero raccontati dai più vecchi.
Nacque un primo figlio, al quale madonna Margherita volle che fosse posto il nome del padre, vezzeggiandolo in Franceschello. Il conte aveva già toccato i trent’anni, l’età in cui gli affetti cominciano a diventar più saldi; quel figlio fu la sua gioia e il suo orgoglio; ma la bella Margherita gliene regalò un secondo, e si chiamò Aldoino, e poi un terzo, Manuele... il conte si vide crescere intorno una famiglia, che appunto perché illegale, lo circondava di carezze e di cure.
Certo la stirpe dei Ventimiglia non si sarebbe estinta; ma i conti di Geraci, i signori feudali sarebbero cessati con lui. Madonna Margherita non era nobile: e re Federigo, il quale vagheggiava pel suo favorito un gran maritaggio, non era disposto a riconoscere quella figliolanza.
Qualche vecchio servitore della casa, a cui era concessa maggior confidenza diceva:
- Messere, perdonatemi l’ardire, ma voi fate torto ai vostri avi. I Ventimiglia che io ho servito han condotto mogli di illustri casati. Non dico che essi abbiano avuto bisogno della nobiltà altrui, per riceverne lustro, che essi sono come i re, nobilitano chi li avvicina: ma come i re, essi debbono circondarsi di nobili. Voi siete il primo della vostra stirpe che non abbia ancora posto la corona di contessa sul capo di una dama, e che non abbia un erede legittimo. Sposatevi, messere; nel baronaggio più alto ci son bene delle fanciulle da maritare. Non avete che a scegliere.
Il conte sorrideva e alzava le spalle. Franceschello veniva su bello e vigoroso, che poteva essere insignito del vessillo e delle insegne comitali. Il vecchio servitore non si perdeva d’animo, e tornava a insistere.



Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 - Mastro Bertuchello. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1925. 
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